Design in Italy

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Michele Albera

Design in Italy Analisi logica di oggetti che hanno cambiato il nostro modo di pensare

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Design in Italy Analisi logica di oggetti che hanno cambiato il nostro modo di pensare a cura di Michele Albera

© Proprietà letteraria riservata Modulo Edizioni s.r.l.

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni.

L’autore è a disposizione per eventuali crediti fotografici.

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Indice Introduzione

pag. 4

Spider

pag. 54

Perchè?

pag. 6

Blow

pag. 56

Veliero

pag. 8

Plia

pag. 58

Sedia per visite brevissime

pag. 10

Boomerang

pag. 60

Arabesco

pag. 12

Poltrona Sacco

pag. 62

Lettera 22

pag. 14

Serie Up

pag. 64

Lady

pag. 16

Tube Chair

pag. 66

Luminator

pag. 18

Black ST 201

pag. 68

Superleggera (699)

pag. 20

Valentine

pag. 70

Cubo

pag. 22

Abitacolo

pag. 72

16 animali

pag. 24

Box

pag. 74

Sanluca

pag. 26

Parentesi

pag. 76

Splugen Brau

pag. 28

Pratone

pag. 78

Toio

pag. 30

Divisumma 18

pag. 80

Sleek

pag. 32

Tizio

pag. 82

Arco

pag. 34

Sciangai

pag. 84

Gatto

pag. 36

Autoprogettazione?

pag. 86

Falkland

pag. 38

Proust

pag. 88

Algol

pag. 40

9090

pag. 90

TS 502

pag. 42

Carlton

pag. 92

K 1340

pag. 44

Tolomeo

pag. 94

Valigetta portadocumenti

pag. 46

Rotor

pag. 96

Grillo

pag. 48

Ghost

pag. 98

Pipistrello

pag. 50

Anna G.

pag. 100

Eclisse

pag. 52

Zoombike

pag. 102

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Introduzione di Luca Calderan

La scelta di raccontare il mondo del disegno industriale italiano partendo dagli oggetti è una sfida per avvicinare i lettori e gli appassionati ma anche per sfatare un po’ di falsi miti. Ciò che viene raccontato in queste pagine è la storia di progettisti italiani che hanno saputo coniugare l’estro della ricerca nel campo delle linee e della modellazione degli oggetti con il lato pratico legato all’utilizzo quotidiano ed al fatto di avere un prodotto di qualità che duri nel tempo. In molti casi questo approccio ha generato vere e proprie icone che hanno rappresentato il gusto e le esigenze di una generazione, altre volte hanno rappresentato il punto di partenza per una trasformazione radicale di un oggetto, ripensandone forme e contenuti per arrivare a creare qualcosa di nuovo. Il tutto però senza mai perdere di vista il rapporto di committenza che legava i progettisti di disegno industriale alle aziende di produzione degli oggetti, che avevano la necessità della serialità e quindi di considerare i costi, i materiali e la scelta delle materie prime. Oggi infatti vi è un’idea un po’ distorta del design, legata all’immagine che ne ha dato la comunicazione dalla fine degli anni ’80 ad oggi. Si pensa infatti che sia sufficiente realizzare un oggetto dalle forme bizzarre e colorate perché sia “di design”, termine odiato dagli addetti ai lavori. Con questo testo l’autore vuole cercare

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di tornare alle origini, con la scelta di selezionare alcuni oggetti che hanno fatto grande il design industriale e la produzione italiana, affermandosi spesso come emblema di eleganza, stile e qualità totale al punto che molti oggetti sono oggi pezzi di collezione, studio ed ammirazione in tutto il mondo. Ogni scheda parte dalla spiegazione tecnica relativa alla realizzazione dell’oggetto per poi raccontarne la storia, dall’idea alla realizzazione ed il contesto generale. Speriamo che questo possa aiutare il lettore ad entrare in contatto con questi oggetti apprezzandone i vari punti di vista, dalle intenzioni del progettista all’effetto sul mercato, comprendendo appieno la storia e lo studio che sta dietro ad ognuno di essi. Questa scelta è un tentativo di evidenziare e raccontare il valore culturale celato nella progettazione di questi oggetti e l’impatto che hanno avuto, e che hanno tutt’ora sulla società contemporanea.


Perché? La scelta di partire dall’oggetto, ignorando di fatto la biografia del designer che l’ha progettato, serve a riportare l’attenzione sul prodotto di disegno industriale, evitando di finire a preferire un progetto, piuttosto che un altro, solamente a causa della firma o della popolarità dovuta al suo progettista. La struttura del libro si svolge per brevi monografie, che passano per una descrizione dei materiali, dei metodi di produzione, ma soprattutto dell’innovatività e della ricerca teorica che sta alla base degli oggetti selezionati. Oltre a grandi classici del design italiano, sono proposti anche oggetti minori, che spesso non trovano spazio nei libri di storia del design più comuni, ma che presentano interessanti soluzioni formali e progettuali. Siamo convinti che il design, per essere considerato tale, non possa limitarsi alla sola ricerca stilistica, così come nemmeno alla più fredda razionalità progettuale, ma che debba procedere in entrambe le direzioni cercando di aggiungere sempre qualcosa di nuovo a quanto già fatto in passato. Come afferma il sottotitolo, questo testo cerca di essere una vera analisi logica degli oggetti proposti. Sono state lasciate da parte opinioni personali e considerazioni soggettive, decidendo di includere anche progetti che numerose volte non abbracciano totalmente il pensiero progettuale di chi scrive, ma che offrono di fatto interessanti spunti di riflessione e

di interpretazione. Per la selezione degli oggetti si è scelto di procedere in ordine cronologico per tener conto delle evoluzioni di stile, gusto e ricerca tecnica sviluppatesi negli anni, al fine di evidenziare come alcuni prodotti abbiano incarnato i valori di una generazione e rispecchiato l’andamento sociologico di un’epoca oppure siano stati elementi di rottura o di critica sociale. Altri progetti invece hanno dato vita a veri e propri cambiamenti nel modo di intendere il rapporto con l’oggetto di uso comune o il suo contesto di utilizzo. Per questo motivo molti di questi prodotti sono oggi casi di studio e mantengono inalterati fascino ed interesse. I temi dei capitoli sono pensati singolarmente, come fossero schede monografiche legate ad un prodotto. Un compito difficile, ma che spera di offrire spunti di riflessione sia su un piano tecnico sia sociologico e di fornire un punto di vista diverso da quanto avuto finora e, allo stesso tempo, di fornire agli studenti e agli interessati un testo tecnico che abbraccia mezzo secolo di disegno industriale italiano.

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Veliero Franco Albini – 1939 Veliero è una libreria progettata da Franco Albini nel 1939 ed è uno tra i suoi progetti più conosciuti. Costituito da una struttura che si rifà alla carpenteria nautica in quanto costituita da due montanti di frassino e da tiranti in acciaio inox che ricordano le sartie di una barca. Le dimensioni dell’oggetto sono 205.5 x 266 cm (h). I materiali tesi e forzati al massimo conferiscono all’oggetto l’idea di uno spazio fluttuante che sfida le imprescindibili leggi fisiche della statica, poiché apparentemente non c’ è una struttura portante, ma sono gli stessi cavi che, grazie ad un attento studio, impediscono al prodotto di ricadere su se stesso. I ripiani in vetro sono quasi “invisibili”, per non influire sulla struttura della libreria; una caratteristica principale dello stile Albiniano. Il Veliero si può considerare come “equilibrio tra instabilità visiva e stabilità effettiva, tra il movimento virtuale e la stasi”. La sua leggerezza rende l’oggetto modulare rispetto all’arredamento e gli permette di esser posto anche come divisorio per separare in due parti un ambiente o un’installazione. La paziente ricerca e l’attenta dedizione ai particolare rendono il “Veliero” un oggetto di design che rispecchia una delle più alte espressioni della poetica di Albini in quanto razionalista e studioso delle forme geometriche e strutturali. Franco Albini, designer del XX secolo, nacque nel 1905 nella provincia di Como. Trasferitosi a Milano con la famiglia, 8

frequentò il Politecnico e si laureò nel 1929. In seguito iniziò l’attività professionale nello studio di Giò Ponti e Emilio Lancia. Albini rappresenta uno dei pilastri fondanti del design all’ italiana. Vinse per ben 3 volte il premio “Compasso d’Oro” e partecipò a grandi progetti nella città di Milano, come la linea 1 della metropolitana nel 1962. Designer di molti prodotti di spicco che lo resero famoso, come la poltrona “margherita” ed altre sedie in canne e vimini progettate insieme alla Helg, dimostrò una notevole sensibilità nell’uso dei materiali adattandoli perfettamente all’uso che ne deve esse fatto. Fu stimato non solo per i suoi arredamenti interni, ma anche come urbanista. Divenne uno dei più importanti razionalisti italiani, nonché appartenente alla corrente del “good design” assieme a Ponti e come tale, tendeva a semplificare i suoi lavori fino a renderli assolutamente essenziali. Franco Albini è rimasto nel cuore del design italiano. Molte colonne portanti del settore hanno espresso un pensiero positivo nei suoi confronti, come Giò Ponti:“Albini è un artista che si fida, che crede nell’ingegnere che ha in sé un grande ingegnere a un tempo fantastico e preciso”.


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Sedia per visite brevissime Bruno Munari – 1945 La Sedia per visite brevissime nacque nel 1945 come disegno e in seguito come oggetto per l’azienda Zanotta e fu progettata da Bruno Munari che, con questo lavoro mostra appieno il suo approccio al design ironico e giocoso. Ne vennero inizialmente prodotte nove esemplari da Zanotta, tutti firmati da Munari. Furono esposte nello stand del produttore su un piedistallo come fossero sculture con lo scopo di attirare nuova clientela. Quello stesso giorno Zanotta ne vendette addirittura trenta, così che dovette iniziare una produzione in serie, che continua ancora oggi su richiesta. Questa seduta spezza l’ordinario e il reale, dando un significato completamente diverso al concetto “siedi pure” ed è proprio questo a renderla mito di se stessa. La trasformò quindi da un oggetto apparentemente inutile, in qualcosa di estremamente affascinante e pieno di significati. Le sorprese di questa sedia non finiscono mai,infatti guardandola in vista prospettica sembra una normalissima sedia... ma non lo è: la seduta ha tutte le caratteristiche di una sedia classica ovvero il legno di noce con intarsi, sullo stile delle macchine per cucire “Singer” e il sedile in alluminio lucido, che sembra simboleggiare lo scivolo dei giochi per bambini. A livello tecnico presenta inoltre una seduta inclinata di 45° che viene definita da Munari “una destabilizzante risposta alla

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vita che corre veloce, alla frenesia che ruba il tempo...”. L’oggetto analizzato denuncia un cenno di ironia tipicamente in stile Munari, come si può notare già partendo dal nome:“Sedia per visite brevissime”. Con questo nome il designer sembra quasi invitare l’ospite ad andarsene presto, al contrario dell’uso di una normale sedia e di ciò che vorrebbe l’etichetta. Questa seduta rimane un trait d’union tra un opera d’arte e un oggetto di design ed è forse proprio questo che le ha permesso di diventare una sedia molto ricercata nell’ambito del design industriale, ma che incontra ammiratori persino nel campo dell’arte per via del messaggio contenuto nel nome. Munari nella sua intervista a Venezia del 1992 raccontò degli aneddoti riguardanti le sue sedie rispondendo a questa domanda: “Ha ancora senso oggi progettare altre sedute?”Il designer rispose: “Mi hanno proposto di progettare una nuova sedia; subito ho rifiutato... non volevo aggiungerne un’altra alla lista, a meno che non avesse una ragion logica. Alla fine ho accettato

questo lavoro, che consisteva nel progettare una sedia per ristoranti molto affollati. Così ho ideato una sedia con uno schienale alto a forma di attaccapanni per le giacche o le borse. Nel frattempo ho progettato un’altra sedia per Zanotta, la Sedia per visite brevissime,la quale non era una vera seduta, ma un oggetto d’arte a forma di sedia.” Poi, spiegandone il significato, affermò: “questa sedia è una comunicazione visiva indiretta per immagine”. Egli alludeva ovviamente al significato nel nome, che invitava la gente a non accomodarsi, ma al contrario la invita ad andarsene in breve tempo.Per la critica non fu facile accettare questa seduta, ma Munari rispose ai loro giudizi in modo molto provocatorio, riferendosi in modo indiretto a chi realizza oggetti di design industriale senza divertirsi: “L’uovo ha una forma perfetta benché sia fatto col culo”.

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Arabesco Carlo Mollino - 1949

Arabesco è un tavolino con due piani trasparenti progettato da Carlo Mollino nel 1949 ed entrato in produzione solo nel 1997 per l’azienda Zanotta. È costituito da una struttura in multistrato curvato in rovere in finitura naturale su cui poggia un grande top in cristallo spesso 10mm e un ripiano più piccolo spesso 8mm. Quest’oggetto, a differenza di quanto fatto in passato da Mollino era nato come oggetto a sé stante, con una propria identità e non come parte integrante di una progettazione architettonica che comprendesse il design di interni. Il tavolo Arabesco nasce inizialmente come oggetto artigianale e solo successivamente diviene un progetto di design industriale. Le prime due versioni infatti hanno forme e dimensioni differenti e nascono come pezzi unici per la casa Singer a Torino e la casa Ponti a Milano. Quest’ultima versione risultava differente per la presenza di un’area adibita a portariviste. I piani in cristallo non hanno né forma né materiali simili alla parte sottostante. Se da un lato abbiamo piani in vetro trasparente, dall’altra abbiamo una struttura portante composta da multistrato piegato con forme sinuose ed un aspetto decisamente organico. Le forme del piano trasmettono dinamismo ed un senso di leggerezza, dato dai tagli del legno con forme prive di angoli e linee rette che sono di ispirazione quasi artistica e

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possono ricordare segni tracciati da artisti e forme che richiamano alla mente le opere di Dalì o le architetture di Gaudì. La scelta del legno era dovuta al fatto di avere a disposizione un materiale flessibile che si potesse curvare con discreta facilità utilizzando il vapore, come già fatto in precedenza da Thonet o successivamente da Charles e Ray Eames. Come riporta sulle schede del prodotto in catalogo la stessa Zanotta, Carlo Mollino nel progettare


Arabesco, con le sue linee curve, si era ispirato alle forme dell’artista Jean Arp e del movimento surrealista. La forma della base intendeva reinterpretare la grazia di un corpo femminile, nei limiti concessi dalle tecniche di produzione e dai materiali dell’epoca.

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Lettera 22 Marcello Nizzoli – 1950 Lettera 22 è una macchina per scrivere ideata e progettata nel 1950 dal progettist italiano Marcello Nizzoli per l’azienda eporediese “Olivetti”, fondata ad Ivrea nel 1908 da Camillo Olivetti. Verso la fine degli anni 30, dopo l’assunzione dell’architetto e designer Marcello Nizzoli l’azienda creò due delle macchine per scrivere più famose al mondo, tanto da essere esposte in maniera permanente al MoMA - Museum of Modern Art di New York: la Lexikon 80 del 1948 e la Lettera 22 del 1950. La Lettera 22 vinse nel 1954 il prestigioso premio Compasso d’Oro e nel 1959 il premio di miglior prodotto di design del secolo presso l’Illinois Institute of Technology ed è anche esposta al Triennale Design Museum, TDM, di Milano. Si tratta di una delle più rivoluzionarie macchine per scrivere meccaniche poiché introdusse innumerevoli innovazioni in ambito tecnico, come la tastiera di tipo QZERTY integrata nel corpo macchina, realizzato in alluminio o il rullo, completamente incassato nello chassis, così che non ci fossero più elementi sporgenti. Anche la portabilità è stata studiata ed è basata sul minore ingombro (8,3 x 29,8 x 32,4 cm) e alla leggerezza: pesa infatti appena 4 chilogrammi, affinché la si potesse trasportare più facilmente. Furono in seguito ideate anche delle valigette in cui riporla per spostarla. Della lettera 22 vennero fatte due edizioni, entrambe verniciate con colori 14


portatile. L’Olivetti oltre a produrre oggetti d’eccellenza curava tantissimo anche l’aspetto pubblicitario, tramite un rivoluzionario pastello tipici dell’epoca per l’attrezzatura da ufficio: una con la valigetta per il trasporto in metodo pubblicitario, rendesse la sua pelle e la seconda edizione con la valigetta in immagine un simbolo d’eccellenza in tutto il mondo. Oltretutto l’azienda progettava cartone. tutto all’interno dei propri stabilimenti, Il pensiero legato al trasporto e ad un compreso il design dei prodotti, che veniva utilizzo non più stanziale della macchina curato da loro e poi solo rifinito da designer per scrivere, furono altri fattori del successo riconosciuti. L’Olivetti negli anni ’50 incentra della Lettera 22. Il peso e l’altezza ridotti, rispetto alle macchine del passato, rendevano tutta la sua pubblicità sulla Lettera 22 poiché di fatto possibile un trasporto nella valigetta, la macchina per scrivere, da questo momento, facendo del prodotto Olivetti un antenato del diventerà un oggetto per tutti e non più solo per professionisti facoltosi. moderno laptop. La lettera 22 veniva venduta al prezzo Questa innovativa macchina per scrivere bassissimo di 40 mila lire, ma per mantenerlo rese possibile ai dirigenti, per esempio, di spostarsi nelle varie sedi e scrivere il rapporto così basso dovettero produrle su larga scala, inoltre nella confezione veniva fornito un direttamente sul luogo di arrivo senza dover disco per insegnare a battere a macchina, per ritornare in ufficio, oppure agli studenti di aiutare scolari o per chi non avesse mai usato portarla comodamente dietro e ciò creò le una macchina per scrivere. basi per la creazione del moderno computer 15


Lady Marco Zanuso - 1951

Lady è una seduta progettata nel 1951 da Marco Zanuso. La poltrona possiede una struttura sedile e schienale in acciaio, braccioli in multistrato di pioppo. L’imbottitura è in poliuretano espanso schiumato privo di CFC e ovatta di poliestere. Sedile, schienale e braccioli hanno densità differenziate a seconda della pressione del corpo. La parte inferiore della seduta è in acciaio in tre colori/finiture: verniciato basalto opaco, cromo ottone e cromo nero Rivestimento fisso in tessuto o pelle, che terminano con piedini in materiale plastico nero. Presentata alla IX Triennale di Milano nel 1951 – dove si aggiudicò tra l’altro la medaglia d’oro – questa poltrona è icona della modernità poiché fu frutto di un’importante innovazione tecnico/materica (gommapiuma e molleggio con nastrocord insieme) che, capovolgendo il sistema tradizionale di lavorazione degli imbottiti, prevedeva una realizzazione separata delle parti e il loro successivo assemblaggio. La poltrona Lady, di Marco Zanuso per Arflex, è ora un simbolo del design italiano degli anni Cinquanta, ma all’epoca costituì una vera e propria rivoluzione sotto vari punti di vista. La composizione è uno degli aspetti più evoluti: la poltrona è formata da quattro parti imbottite, rivestite separatamente e poi assemblate. Questo procedimento influenza

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naturalmente anche il lato estetico: si tratta di una seduta completamente rivestita, dove tutti gli elementi strutturali si integrano nell’insieme costituito dal sedile, dallo schienale e dai braccioli. Il materiale è la gommapiuma, allora sperimentale, che sostituisce il tradizionale rivestimento a molle; la gommapiuma è poi sorretta da nastri elastici a loro volta sostenuti da uno scheletro in legno. Anche i nastri elastici negli anni Cinquanta costituivano una piccola rivoluzione: erano in Nastrocord, brevettato nel 1948 (i primi progetti della poltrona Lady sono addrittura del 1949) da Carlo Barassi, uno dei fondatori


di Arflex. Ma la poltrona Lady di Zanuso è anche fortemente innovativa per quanto riguarda l’aspetto puramente disegnativo, ed è stata premiata con la medaglia d’oro alla IX Triennale di Milano del 1951, ottenendo l’immediato consenso della critica e il grande successo tra il pubblico. Questo successo contribuì in larga misura a consacrare l’azienda Arflex e farla conoscere al pubblico. È proprio questo primo affacciarsi alla ribalta di un ambito di avanguardia strettamente culturale che è da tener presente nel percorrere la storia dell’azienda, perché questo interesse sperimentale, se non

disgiunto da fini commerciali, denuncia la volontà di creare prodotti di alto livello tecnologico ed estetico, sulle basi di una approfondita ricerca e sperimentazione.

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Luminator Pier Giacomo Castiglioni e Achille Castiglioni – 1954 Luminator è una lampada da terra progettata dai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni nel 1954 e prodotta fino al 1957 dall’azienda Gilardi & Barzaghi, successivamente da Arform (1957-1994) ed infine da Flos (1995oggi). La Luminator è stata una delle prime lampade nate dalla collaborazione dei due fratelli Castiglioni e, per citare gli stessi progettisti, appare chiara sin da subito l’intenzione di “ottenere risultati soddisfacenti con un impiego minimo di mezzi”. Il punto di partenza progettuale fu il desiderio di traslare la tecnica di illuminazione delle sale posa dei fotografi all’ambito abitativo, diffondendo la luce nell’ambiente orientando una sorgente luminosa, costituita da un bulbo luminoso in vetro specchiato, verso il soffitto. Per creare questo prodotto, Achille e Pier Giacomo partirono dalla tipologia di luce che desideravano ottenere, progettando quindi il supporto in funzione dell’effetto luminoso che intendevano perseguire. La lampada si è contraddistinta nel tempo per la sua essenzialità e per la nuda semplicità: un concentrato di pura funzionalità progettuale, che prescinde del tutto dal luogo e dall’ambiente in cui verrà posizionata. È divenuta così un’icona intramontabile del design più autentico: niente diffusore, nessuna decorazione ed un unico colore disponibile, l’antracite. La Luminator è costituita da tre sottili gambe

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di metallo zincato che sorreggono uno stelo di ferro smaltato verniciato, in cima al quale è posizionata la lampadina da 200W dotata di un riflettore ad ampolla in vetro specchiato, che produce così una luce indiretta. La particolarità di questa lampada è stata la scelta di usare un tubolare, avente il minimo diametro per contenere il porta lampadina e di funzionare da contenitore per gli steli alla base durante il trasporto. Questa caratteristica del tubolare, così come la forma finale dell’apparecchio, riprendono sia nel nome che in alcuni aspetti formali la lampada Luminator progettata da Pietro Chiesa nel 1933, che però comprendeva in unica scocca il corpo, il sostegno e il porta lampadina. Il progetto Luminator si rivolge ai puristi, a chi ama l’oggetto in sé visto come la sua funzione stessa, fatta di un aspetto essenziale e scarno che manifesta forte personalità riuscendo ad inserirsi in ogni tipo di ambiente. Queste caratteristiche erano, sono e saranno la ragione per cui la lampada sembra sopravvivere indenne al passare del tempo, poiché come affermava lo stesso Achille Castiglioni: “Il design non dovrebbe essere alla moda. Un buon design deve durare nel tempo, fino a quando non si consuma.” La vocazione dei fratelli Castiglioni per la ricerca e la volontà di ridurre al minimo quanto non sia indispensabile è un approccio comune che verrà poi applicato anche alla lampada TOIO del 1965 o alla seduta San Luca del 1960. Nel 1955 grazie a questa lampada, Achille e Pier Giacomo si aggiudicarono il Compasso d’Oro. Lo stesso Achille Castiglioni ha dichiarato al riguardo in un’intervista a Domus del 1995 che “Si può dire che Luminator è nato appositamente per il

Compasso d’Oro del 1955, o meglio è scaturito come nostra riposta alla domanda di un “forma dell’utile” per l’industria italiana.”

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Superleggera (699) Giò Ponti – 1957

La 699, nota come Superleggera, è una sedia progettata da Giò Ponti, designer e saggista italiano nel 1957 per conto dell’azienda italiana Cassina e fa parte delle collezioni permanenti del Triennale Design Museum di Milano. Il progetto nasce dalla volontà di Ponti di ricreare l’archetipo della sedia impagliata: la sedia di Chiavari, un simbolo dell’artigianato ligure dell’Ottocento. Per le sue caratteristiche

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e le curiose campagne di comunicazione fatte per promuoverla, è diventata un simbolo culturale e uno degli esempi più interessanti per quanto riguarda l’arredamento. Ciò che caratterizza questa seduta sono: semplicità, leggerezza, tradizione, materiali naturali e costi ridotti. Per arrivare al prototipo finale ci sono voluti otto anni. Nel 1949 Ponti realizza un primo prototipo: lo schienale viene piegato


all’indietro, creando anche una sensazione di modernità, pur mantenendo la tradizione del modello di ispirazione. Nel 1951 il progetto si evolve con il modello Leggera messo in produzione dall’azienda Cassina: questo modello viene ridotto agli elementi essenziali e quindi pulito ed alleggerito, pur mantenendo le sezioni circolari dei montanti e delle gambe. Nel 1955 viene definito quello che nel 1957 sarà il modello Superleggera: l’intera struttura, gambe e montanti vengono nuovamente disegnati con una sezione triangolare, viene migliorata la robustezza, ma anche la sua leggerezza. La seduta prende il nome di superleggera in quanto è fatta in legno di frassino, che per natura è molto flessibile, infatti pesa 1,7kg e si può sollevare con un dito. Nonostante ciò, la sedia è molto resistente: si dice addirittura che per testarla sia stata buttata dal quarto piano di un edificio e anziché sfracellarsi a terra sia rimbalzata come una palla, senza alcun danno. La Superleggera ha la particolarità di: avere lo schienale che si curva nella parte superiore e la seduta viene realizzata con un materiale inusuale, la canna d’india, tipico della sedia di Chiavari. Viene fatto anche uno studio sui materiali per poter sostituire la canna d’india, con il cellophane colorato. Il risultato che si ottiene è quello di una seduta altamente tecnologica, ma che continua a conservare una somiglianza con il modello artigianale di riferimento, senza utilizzare materiali composti o non naturali. La Superleggera viene definita dallo stesso Giò Ponti come una sedia priva di aggettivi, una normale seduta che torna alle sue origini, senza alcuna caratteristica che la possa privare dall’essere una sedia normale.

La Superleggera è quindi uno dei simboli più citati del design italiano: dapprima concepita come una seduta “per il popolo”, è diventata negli anni a seguire un oggetto molto ricercato, non più rivolto alla massa e con un prezzo di vendita decisamente elevato. La struttura è ancora oggi in frassino ed è disponibile al naturale o nei colori bianco e nero mentre il rivestimento può essere in canna d’India o con sedile imbottito in tessuto o in pelle.

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Cubo Bruno Munari – 1957

Il Cubo o Posacenere Cubo è un portacenere progettato da Bruno Munari nel 1957 per l’azienda Danese ed attualmente esposto tra le collezioni permanenti del MoMA – Museum of Modern Art di New York. Questo oggetto segna l’inizio della collaborazione tra Danese e Munari nel campo del design industriale. Con quest’oggetto si è presentata l’occasione, per il designer, di progettare un posacenere, oltre che stilisticamente minimale ed essenziale, che fosse in grado di nascondere alla vista ed all’olfatto degli ospiti i mozziconi di sigaretta, creando un contenitore nascosto grazie allo studio razionale della forma. Munari utilizza un escamotage semplice ed intuitivo per arrivare al suo scopo, ripiegando un foglio di lamiera e infilandolo all’interno di un puro cubo di melammina, realizzato con un profilato di alluminio di sezione quadrata, tagliato a pezzi della stessa misura e chiuso sotto. Le dimensioni sono 6x6x6 cm. Il designer ricava così uno spazio apposito per i mozziconi di sigaretta, che risulta coperto dalle restanti parti ricavate dalla piegatura, nascondendoli alla vista ed attenuando il cattivo odore. La forma esterna risulta visivamente pulita, forse anche troppo per alcuni versi. Lo stesso Munari raccontò al riguardo che commise un errore di matrice psicologica, perché non tenne conto del fatto che le persone, non vedendo le sigarette spente nel “piattino”, non riuscivano a comprendere a

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pieno l’esatto utilizzo dell’oggetto e quindi rimaneva un oggetto misterioso. Per questo motivo il Cubo Ashtray rimase invenduto per due o tre anni, passando di rivenditore in rivenditore finché non lo produsse e pubblicizzò l’azienda Danese. A proposito di intelligenza delle piccole cose, la cosa geniale di questo progetto è la semplicità di utilizzo: per svuotarlo basta infatti estrarre la lamina di alluminio dal suo involucro e versarne il contenuto nella spazzatura, una volta fatto questo piccolo gesto la si potrà inserire nuovamente all’interno del cubo. In un filmato relativo ad un incontro all’Università di Venezia del 1992, Bruno Munari parla del Cubo e rammenta un episodio esilarante che lo vede protagonista.


Il designer racconta ai presenti un aneddoto sul prodotto: pare che una volta sia stato regalato un Cubo Ashtray ad una signora, ma montato al contrario, quindi addirittura ancora più criptico rispetto alla propria funzione di come si presentasse normalmente. La signora chiamò l’amica che gliel’aveva regalato esordendo con “bello quel cubo che mi hai mandato, ma che cos’è?” Allora l’amica le spiegò che si trattava di un posacenere, a quel punto la signora giustamente chiese come si utilizzasse, venendo illustrata sul fatto che si potevano inserire i mozziconi di sigaretta all’interno della fessura, che nel caso specifico risultava essere di poco più di un millimetro. Solo dopo una caduta accidentale dell’oggetto la signora ha poi scoperto che era montato a rovescio. Questo episodio evidenzia che per produrre un buon prodotto di design industriale anche i fattori sociologici e psicologici devono essere tenuti in considerazione e valutati perché il consumatore potrebbe non essere pronto per recepire o utilizzare determinati oggetti, anche se l’idea di base è buona e le linee sono accattivanti. Il design del Cubo è assolutamente attuale nonostante sia risalente al 1957. Anche l’idea

di Munari di serigrafare la scritta “fuma dopo” sul Cubo Ashtray, così da porgere un semplice invito al fumatore, che non sentendosi limitato nel fumare, potrebbe rimandare la sua pausa sigaretta. Ovviamente la scelta di apporre questa scritta denota anche l’intento ironico del designer che ha voluto inserire una scritta provocatoria e simpatica nell’oggetto. Se poi consideriamo che tutto ciò è stato fatto nel 1957 ciò rende questo fatto ancora più unico, perché precorre uno stile comunicativo che arriverà solo molti anni dopo con le campagne di marketing moderno. Il Cubo Ashtray rappresenta in pieno lo spirito ironico di Munari, capace di giocare con le forme ed i materiali ed il gusto per la provocazione, ma sempre privilegiando l’aspetto pratico e funzionale degli oggetti che in primis, dovevano servire alle persone per soddisfare la funzione per cui erano stati progettati, ma al tempo stesso l’umiltà del designer e l’autoironia nel raccontare aneddoti divertenti riguardo un progetto che ha rappresentato un simbolo del design italiano nel mondo e che è ancora oggi oggetto di ammirazione da parte di collezionisti ed estimatori.

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16 Animali Enzo Mari – 1960

Progettato nel 1960 per gli auguri di Natale, questo oggetto a firma di Enzo Mari e prodotto da Danese ha due anime ludiche che coesistono, legate ciascuna una propria funzionalità: un puzzle ad incastro e, allo stesso tempo, un gioco di costruzioni che consente una libera composizione degli elementi. Realizzato in legno pregiato e racchiuso in una scatola, anch’essa in legno, 16 animali, così come il successivo 16 pesci, può essere considerato un piccolo componente d’arredo per la casa dalla valenza quasi artistica, così come un giocattolo a tutti gli effetti. Da evidenziare la capacità progettuale di Mari nell’ottenere un perfetto incastro dei 16 componenti, sia tra loro, sia con la scatola stessa che li contiene, riuscendo comunque a creare dei profili iconici nella loro perfetta riconoscibilità. Nessuno avrà mai dei dubbi sulla riconducibilità di ciascuna delle statuette all’animale di riferimento; un talento che viene anche dall’esperienza di Mari nel campo della grafica e dell’illustrazione, come anche nel caso della serigrafia dell’Oca, sempre per Danese. In 16 animali, ed in 16 pesci poi, convive una terza valenza pratica e sociale del prodotto. Oltre al già citato e innovativo puzzle e al gioco di costruzioni a incastro, vi è un interessante gioco di relazioni tra i vari animali che i bambini mettono in atto in maniera più o meno inconscia nel periodo dello sviluppo e della

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scoperta: riflessione psicologica e sociologica della progettualità di Enzo Mari. Punto di interesse dei 16 animali e dei 16 pesci è la mancanza totale di invecchiamento tecnologico, cosa rarissima per un giocattolo commerciale, soprattutto nel mercato recente. Il materiale scelto è il legno: non soltanto per un motivo pratico, ovvero la facilità di lavorazione a intaglio, ma anche per la vicinanza ai prodotti ludici preesistenti, soprattutto nell’ambito delle costruzioni per bambini. Per un breve periodo 16 animali fu prodotto anche in resina, cosa che abbatteva notevolmente i costi e lo rendeva maggiormente attraente per un pubblico di bambini. In questo progetto è percepibile l’attenzione all’infanzia, influenzata dal lavoro e della vicinanza progettuale del maestro e amico

Bruno Munari. Enzo Mari seguendo la sua coerenza progettuale dimostra come un designer non debba soltanto limitarsi alla creazione di oggetti belli e formalmente piacevoli, ma debba anche ricordare l’imprescindibilità dell’aspetto funzionale, l’efficienza e la funzionalità, anche nel caso si tratti di un giocattolo per bambini.

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Sanluca Pier Giacomo Castiglioni e Achille Castiglioni - 1960 Sanluca è una poltrona progettata dai designer Pier Giacomo e Achille Castiglioni nel 1960. La poltrona Sanluca nasce dall’idea di svuotare l’imbottitura per arrivare alle curvature “strettamente necessarie” e si presenta come una serie continua di morbide curve rivestite in pelle, che danno forma a poggiatesta, schienale, seduta e fianchi con braccioli. Questo schienale espressionistico e dal profilo estremamente dinamico, muove dalla definizione di una linea di comfort ergonomico: lo schienale sorregge perfettamente il corpo. Il progetto della Sanluca ruota attorno a pochi concetti ma ben definiti: l’ergonomia è alla base dell’approccio progettuale e influenza ogni altra caratteristica della seduta. Non di minor rilevanza è l’attenzione da parte dei fratelli Castiglioni di rendere la Sanluca idonea a una produzione industriale: la poltrona è infatti concepita per essere stampata nei vari elementi che la compongono. La struttura della seduta, inizialmente in metallo, ma poi realizzata anche in legno, è eseguita in diversi componenti successivamente assemblati fra loro da viti. L’imbottitura è in poliuretano con gradi di densità diversi, i piedi della poltrona sono in legno di colore nero semi-lucido mentre il rivestimento è in pelle. I tre punti d’appoggio: sedile, schienale e poggiatesta permettono ad ogni parte del corpo di chi si siede di adattarsi perfettamente. Questa

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individualità dei componenti rende la seduta armoniosa alla vista ed elastica nelle forme, pur avendo una struttura molto rigida. Anche l’eleganza complessiva e l’armonia delle sue forme, non a discapito però della comodità, sono uno dei concetti principali del progetto San Luca, che pur avendo una struttura molto rigida e spessori ridotti, risulta molto comoda. La seduta è stata spesso identificata come la progenitrice del design moderno oltre ad essere una delle massime espressioni del design italiano ed è il primo frutto di una profonda collaborazione e amicizia fra l’imprenditore Dino Gavina e Pier Giacomo Castiglioni.


La sua progettazione avviene nel 1960 e ha richiesto uno sviluppo molto complesso, uno studio di formatura ottenuto con molteplici modelli plastici di vario materiale, creta, poi gesso e infine legno. L’anno successivo avvenne la messa in produzione da parte della neonata azienda Gavina SpA. Nel 1969 viene prodotta dalla Knoll, successivamente dalla azienda Bernini e dal 2004 è prodotta

da Poltrona Frau, che dallo stesso anno ne ha cambiato il rivestimento a favore della sua nota pelletteria. Dal 1991 entra in produzione anche il pouf Luca, che accompagna la poltrona e permette una seduta ancora piĂš comoda.

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Splugen Brau Achille Castiglioni e Piergiacomo Castiglioni – 1961 Splugen Brau è una lampada a sospensione a luce diretta, progettata da Achille e Piergiacomo Castiglioni nel 1961 e tuttora prodotta da Flos, una delle maggiori aziende nel campo dell’illuminazione. La caratteristica che rende unico questo pezzo è la sua forma: la sua rotondità la rende un oggetto che è possibile adattare a diversi ambienti, domestici e pubblici. La campana della lampada è formata da un pezzo di alluminio lavorato al tornio. Il metallo che compone la campana è lucidato e zapponato e riflette la luce come uno specchio: la sua forma ondulata permette di ampliare l’angolo di diffusione della luce, grazie alle riflessioni di luce che avvengono all’interno della campana. In più la forma è ondulata anche all’esterno della campana e riflette così la luce dell’ambiente circostante. La zapponatura è un trattamento superficiale protettivo del metallo con vernici trasparenti di alta qualità. La lampada si presenta contenuta all’interno di una scatola di dimensioni 41x41x27 ed il peso è di 1,5 kg. La campana ha un diametro di 360mm mentre l’altezza è di 210mm, dimensioni che la rendono piuttosto compatta. L’attacco al soffitto è di acciaio e questo è coperto da un rosone è in ABS sottovuoto di colore bianco lucido. La Splugen pende dal

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soffitto grazie a un cavo della lunghezza di 2200mm che è rivestito in polivinilcloruro (PVC). La Flos consiglia l’utilizzo di una particolare lampadina a incandescenza da 70 W che presenta una pellicola metallica nella parte culminare del vetro. Questa riflette


all’indietro la luce stessa della lampadina, evitando una trasmissione diretta della luce. Tale lampadina è dimmerabile, ovvero è possibile regolare l’intensità della luce.

lampade seguivano una linea moderna. Oggi il risto-pub non esiste più, poiché fu chiuso nel 1981.

Nel 1961 i due fratelli furono incaricati da Aldo Bassetti-BRA (Birrerie Ristoranti e Affini) di disegnare quello che sarebbe stato l’intero ambiente dell’elegante risto-pub Splügen Bräu di Milano. Il progetto, definito di “total design”, includeva bicchieri e apribottiglie, ancora oggi ancora prodotti in un set dalla Alessi, nonché sedie, tavoli, e ovviamente le lampade. Lo stile del locale era un compromesso tra la nostalgia del passato ed il design moderno, tant’è che le sedute ricordavano vagamente quelle di un vagone di un treno di inizio Novecento, mentre le

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Toio Piergiacomo e Achille Castiglioni - 1962

Toio è un apparecchio di illuminazione da terra a luce indiretta ed è un oggetto di grande valore nella storia del lighting design italiano. Fu ideata da Pier Giacomo e Achille Castiglioni nel 1962 e prodotta da Flos, azienda italiana di apparecchi illuminanti che la produce ancora oggi in tre diverse colorazioni: bianco, nero e rosso. La Toio è esposta tra le collezioni del MOMA, Museum of Modern Art, di New York. Il nome deriva da un gioco di significati legato alla parola inglese “toy”, giocattolo, volendo rendere il prodotto una sorta di giocattolo per gli adulti per arredare appartamenti ed uffici. La scelta del nome così come la scelta dei materiali utilizzata denota l’ironia e il gusto per la sperimentazione dei due designer. La Toio è un prodotto “ready-made” ovvero realizzato tramite l’assemblaggio di oggetti di produzione industriale che hanno funzioni, applicazioni e appartenenze a campi totalmente diversi ma che dialogano perfettamente tra loro: la lampada è composta da un faro anteriore di un’auto, da uno stelo ricavato da una canna da pesca e da una base di acciaio. La versione più famosa è nel colore rosso laccato, che richiamava anch’esso il mondo dei motori. La lampada sarebbe dovuta essere ricavata da un faro anteriore di una Fiat 500, purtroppo però, a causa del prezzo troppo elevato del pezzo decisero di utilizzare un fanale anteriore di un’autovettura americana importato dagli

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Stati Uniti proprio all’inizio degli anni ’60. La base, che misura 21 cm di larghezza, presenta una struttura in lamiera d’acciaio ripiegata e verniciata a liquido: piegata ad angolo retto ai piedi per formare un appoggio sicuro, sul quale è sistemato un trasformatore, lasciato appositamente a vista, che dà stabilità all’intera struttura fungendo da contrappeso. Più in cima la lamiera è piegata in modo tale da formare una maniglia, per il trasporto e lo spostamento, e crea un alloggiamento per lo stelo, sul quale è montata una manopola composta da due alette in metallo che permettono di avvolgere la porzione di cavo in eccesso e di regolare l’altezza dello stelo. Lo stelo è a sezione esagonale, composto da ottone nichelato e si presenta di colore cromato e, grazie al suo movimento telescopico può essere regolato in altezza da un minimo di 158 cm ad un massimo di 195 cm. Saldati allo stelo troviamo due anelli passanti, uno alla base e uno in cima, ricordanti la canna da pesca che permettono al cavo elettrico di collegare facilmente e ordinatamente il trasformatore e la lampada. Quest’ultima, di 17 cm di diametro, monta una lampadina da 300 watt ed è posta alla sommità dell’oggetto alloggiando su una montatura di tubi metallici piegati e saldati allo stelo. L’oggetto presenta un secondo cavo elettrico che collega il trasformatore alla presa di corrente sul quale è montato un dimmer che permette di regolare l’intensità luminosa della lampadina. Il design dei fratelli Castiglioni si concentra prevalentemente sul product design e sulla realizzazione di progetti di architettura ed urbanistica, fin quando Achille Castiglioni decise di proseguire da solo la sua attività dedicandosi principalmente al furniture e all’industrial design.

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Sleek Piergiacomo Castiglioni e Achille Castiglioni 1962 Il cucchiaio Sleek è progettato dai fratelli Castiglioni Piergiacomo e Achille, ideato come oggetto pubblicitario per la Kraft nel 1962 e successivamente riportato in produzione nel 1997 da Alessi che lo ha rieditato in vari colori. Walter Thompson, un’agenzia pubblicitaria statunitense, chiese ai progettisti di disegnare un oggetto promozionale per la Kraft la cui parte piana del manico permettesse di inserire una scritta pubblicitaria. Previdenti di nuove modalità di progetto e attenti osservatori di usi e costumi umani, realizzarono un cucchiaio con una appartenenza popolare, ma capace di unire una forma unica ed accattivante all’utilità finale del prodotto per il consumatore. Ci sono oggetti che nascono da una figura o da una forma, altri provengono dai gesti, che a volte percorriamo verso le cose di tutti i giorni. Per esempio a tutti è capitato di usare il proprio dito come cucchiaio, per raccogliere il fondo da un vasetto le rimanenze di maionese, di marmellata o di crema di nocciole. Da questa esigenza golosa nasce il progetto di ridisegnare il concetto di cucchiaino, ripensandone forma e struttura: il cucchiaio Sleek è formato da un taglio sull’esatta curvatura della sezione di un barattolo e sostituisce una spatola, ritenuta fino ad

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allora il metodo più efficiente per prendere il contenuto del vasetto. Il cucchiaio, lungo 20 cm e realizzato in polimetilmetacrilato, è ricavato dalla sagoma in gesso di un vasetto uniforme e standard: ha la punta con lo stesso raggio di curvatura del barattolo, una parte intermedia diritta per aderire perfettamente alla parete cilindrica del recipiente, la parte alta della paletta presenta la medesima curvatura del raccordo tra cilindro e collo del raccoglitore, mentre la parte contro laterale resta sagomata come un normale cucchiaio. Il manico è piatto, ma una lunetta in rilievo


sul retro offre al pollice un appoggio che rende saldo uno strumento che di solito è scivoloso. Il design dei fratelli Castiglioni si caratterizza per una grande libertà di progetto applicata con intelligente ironia. Molti di questi oggetti, come il cucchiaio Sleek, prendono vita da una geniale intuizione: trasformare un ordinario oggetto quotidiano in un progetto capace di adempiere a nuove funzioni, ripensandolo nella forma, nei contenuti, nei materiali e nei colori. Achille e Piergiacomo Castiglioni hanno contribuito insieme in varie occasioni a farsi portatori di un’inventiva unica unita alla capacità di intuire le esigenze del marketing e del pubblico e quindi di ottenere un’ottima considerazione internazionale. Profondamente impegnati a coniugare espressività e funzionalità dell’oggetto, con i loro lavori hanno traghettato il design

italiano dalla dimensione dello stile legato al gusto e al costume a quella di un progetto inamovibile nel tempo.

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Arco Pier Giacomo e Achille Castiglioni 1962 I designer italiani Pier Giacomo e Achille Castiglioni, si resero conto che non esisteva una lampada che non fosse di intralcio sulla tavola e che allo stesso tempo fornisse sempre luce sul piano di lavoro. In un’intervista del 1970 dichiararono: “Pensavamo a una lampada che proiettasse la luce sul tavolo: ce ne erano già, ma bisognava girarci dietro. Perché lasciasse spazio attorno al tavolo la base doveva essere lontana almeno due metri, così nacque l’idea dell’Arco: lo volevamo fatto con pezzi già in commercio, e trovammo che il profilato di acciaio curvato andava benissimo.” Progettarono così nel 1962 la lampada Arco per l’azienda italiana d’arredamento e illuminazione Flos, dando vita uno dei prodotti di disegno industriale più famosi e venduti al mondo e vera icona del design italiano, facente parte delle collezioni permanenti della Triennale Design Museum di Milano e del MoMA di New York. La lampada fu progettata su due concetti base: versatilità e praticità. “Nella Arco niente è decorativo: anche gli spigoli smussati della base hanno una funzione, cioè quella di non urtarci; anche il foro non è una fantasia ma c’è per permettere di sollevare la base con più facilità.” Le lampade prodotte antecedentemente, con la loro base d’appoggio, occupavano una parte del piano di interesse, riducendo lo spazio a disposizione del fruitore. La Arco

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presenta invece una struttura che permette al suo utilizzatore di avere un punto luce effettivamente sospeso sopra al punto di interesse, ma senza presentare un intralcio se posta vicino ad una scrivania o ad un tavolo. Grazie alla particolarità di questa lampada, il punto luce arriva direttamente sul luogo desiderato con uno sbalzo significativo, così come potrebbe fare un lampadario,


ma a differenza di quest’ultimo può essere trasportata all’interno dell’abitazione o dell’ufficio che la ospita. La Arco di Flos è una lampada da terra a luce fissa, la cui base è un parallelepipedo di marmo bianco (marmo di Carrara), di 65 kg circa, con spigoli e vertici smussati. Dalla base si innalza una struttura in metallo, posta in una guida scavata in essa e dei supporti a vite, che presenta tre profilati d’acciaio con sezione a U, con una prima parte dritta che va poi a formare un arco vero e proprio, regolabile con lo scorrere dei diversi profilati. Alla fine dell’arco troviamo una calotta formata da due pezzi: una semisfera forata, che impedisce l’eccessivo riscaldamento del portalampada, e un anello in alluminio che serve a regolare la posizione della cupola in

relazione all’estensione dell’arco. La lampada dei fratelli Castiglioni è caratterizzata di un foro passante a sezione circolare collocato nella base di marmo, che permette, infilandoci un semplice bastone, di spostare l’apparecchio senza troppe difficoltà. Il foro è posto non nella sezione centrale della base di marmo, ma decentrato, così da ricadere nell’esatto baricentro dell’oggetto, di modo che durante lo spostamento la lampada si mantenga parallela al pavimento. La base che contraddistingue l’apparecchio è costituita da un blocco di marmo, scelta dettata non da un’aspirazione al lusso, bensì dal desiderio di adottare una soluzione economica per il mercato italiano che potesse produrre un contrappeso perfetto per conferire stabilità all’oggetto. La distanza massima in proiezione orizzontale del riflettore della base è di 2,2 m, mentre l’altezza da terra è di 2,5 m. La lampada Arco, essendo regolabile, permette di raggiungere un vasto numero di combinazioni e posizioni. Ancora una volta Achille e Pier Giacomo Castiglioni dimostrano come precise scelte funzionali e materiche, se ben studiate, possano avere come risultato finale anche un’eleganza estetica degna delle collezioni museali più prestigiose al mondo. 35


Lampada Gatto Pier Giacomo Castiglioni e Achille Castiglioni – 1962 Gatto è una lampada da tavolo a luce diffusa progettata dai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni nel 1962 per Flos, une delle principali aziende italiane nel campo dell’illuminotecnica di produzione industriale. La Gatto nasce dal desiderio di applicare progettualmente nuove tecnologie e materiali fino ad allora legati alla ricerca e nello specifico alla sperimentazione, come la tecnica di lavorazione del “Cocoon”. Formalmente, la Gatto si presenta composta da una serie di solidi coassiali: una sfera e due cilindri di sezioni differenti, collegati da un tronco di cono. Il telaio interno, in bacchette di acciaio verniciato bianco, offre una grande resistenza alla lampada pur mantenendo linee ammorbidite, che conferiscono all’oggetto un aspetto organico e crea un’ossatura strutturale. La luce emessa dall’apparecchio risulta soffusa e morbida e l’effetto è simile a quello di un bozzolo, con una luminosità lattiginosa e ovattata, proprio perché filtrata attraverso il Cocoon, materiale spruzzato a mano sul telaio metallico in rotazione. Negli anni di produzione sono state fatte piccole modifiche a livello costruttivo, migliorando l’apparato elettrico e introducendo un dimmer elettronico che consente una regolazione graduale dell’intensità luminosa. Prima di essere immesso in commercio, nella fase finale della lavorazione, il bozzolo ottenuto con la lavorazione spray viene ulteriormente rivestito da un protettivo

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trasparente che ne garantisce una maggiore durata e resistenza. L’obiettivo progettuale era quello di mantenere una forma sinuosa e colori tenui, che permettessero di inserire questo complemento in ogni stanza, senza mai mettere in secondo piano gli altri arredi. Il nome della lampada è infatti


ispirato all’animale domestico e al suo comportamento schivo e silenzioso, che ci osserva senza mai dare nell’occhio. La lampada Gatto è un oggetto discreto, dal design essenziale, ottenuto tramite una precisa scelta progettuale, figlia della sperimentazione più che della mera ricerca espressiva, ma che allo stesso tempo suscita affetto. E proprio di affetto parlavano i fratelli Castiglioni come di una delle tre grandi componenti del loro approccio al progetto, insieme al divertimento e alla curiosità. Achille e Pier Giacomo Castiglioni, in questo percorso progettuale, furono ispirati inoltre dal tipo di luce che si ricerca nella tradizione orientale con le lampade in carta di riso, ove si preferisce una luce più tenue a quella diretta e violenta che produce ombre, come afferma anche Junichiro Tanizaki nel Libro d’ombra. La Gatto è pertanto stata progettata più per non fare ombre che per generare luce e sempre tenendo a mente che “gli oggetti devono fare compagnia”.

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Falkland Bruno Munari – 1964

Falkland è una lampada disegnata da Bruno Munari nel 1964 per la manifattura Danese. Uno degli effetti principali di questa lampada, la sua “spontaneità formale”, le permetteva, a differenza delle altre lampade, di assumere autonomamente la sua forma finale come per magia. Una forma spontanea, generata unicamente dalla tensione delle forze interne che la compongono e capace di dissolvere la luce in maniera soft come se provenisse dall’interno di una nuvola. La storia della nascita di questa lampada è sintomo della genialità progettuale di Munari. Fu ideata pensando ad una maglia elastica tubolare che prendesse forma mediante l’inserimento di alcuni anelli metallici di diverso diametro. Munari si rivolse infatti ad una ditta che fabbricava calze da donna per realizzare quella che sarebbe divenuta una delle lampade più conosciute del design italiano: “Un giorno sono andato in una fabbrica di calze per vedere se mi potevano fare una lampada. Risposero: noi non facciamo lampade, signore. Vedrete che la farete.”

sola lampadina e un riflettore in alluminio che riprende la forma delle curve del tessuto. La lampada è alta più di 1.60 m con una diametro di 40cm e viene definita “forma spontanea” in quanto assume il suo aspetto quando viene sospesa per effetto della gravità.

La Danese dichiara sul proprio sito che: “Questa lampada corrisponde più delle La Falkland è formata da sette anelli di altre ai requisiti che Munari indica come metallo di diametri diversi, un tubo di filanca indispensabili per una corretta progettazione: bianco, ovvero un materiale flessibile, leggero, semplicità, efficienza, minimo ingombro di intercambiabile e dal prezzo contenuto stoccaggio e massima resa formale. Nasce utilizzato per primo proprio da Munari, una dalla commistione di oggetti lontanissimi

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tra loro, come le nasse da pesca, le calze da donna e le lampade di carta orientali.” Dopo la realizzazione della prima Falkland Munari ne creò altre due versioni: la 85 e la 53, che rappresentano l’interpretazione di una primitiva idea di Munari che era quella di realizzare Falkland a metraggio. Di questa lampada venne fatta anche una versione con basamento a terra. Munari, designer ed artista attento e curioso, si distingue nel mondo del design per la sua semplicità, linearità e per la sua essenza logica strutturale.

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Algol

ricaricabili, per poterlo guardare ovunque, sia con la normale presa di corrente per poterlo guardare comodamente a casa. Aveva una maniglia in metallo cromato estraibile che permetteva di portarlo comodamente ovunque e la brillante scocca era in plastica in tre varianti cromatiche: arancione sole, nero notte e grigio luna. Grazie al sodalizio dell’epoca tra Zanuso e Algol è un piccolo televisore portatile Sapper e tutti i loro collaboratori, Brionvega con schermo da undici pollici progettato produce ancora oggi apparecchi elettronici da Marco Zanuso e Richard Sapper per radiotelevisivi sugli stessi disegni originali, Brionvega nel 1964 con una caratteristica aggiornati nella tecnologia digitale per restare simpatica ed ingegnosa: lo schermo inclinato al passo con il mondo di oggi. verso l’alto. Si è così riproposto Algol al mercato, Fu una vera rivoluzione nel mondo del design completamente rinnovato nell’elettronica degli apparecchi elettronici e per questo Algol di Brionvega è esposto nei più famosi musei internazionali, tra cui il prestigioso Moma, Museum of Modern Art, di New York.

Marco Zanuso e Richard Sapper - 1964

Realizzato in plastica di ABS (acronimo per Acrilonitrile-Butadiene-Stirene), metallo e vetro, era un televisore destinato a rivoluzionare i precedenti canoni e gli stessi ambienti domestici che lo ospitano. Nella parte superiore si trovano i comandi d’uso per l’accensione, la regolazione di volume, luminosità e contrasto e infine la selezione dei canali VHF e UHF preselezionati. Con il suo schermo inclinato e arrotondato, Zanuso lo paragonò ad un cagnolino fedele che guarda in su il suo padrone. Questa particolarità dello schermo rivolto verso l’alto era stata pensata per poter garantire una visuale adeguata anche quando il televisore era poggiato a terra. Infatti era questa l’innovazione: poter guardare la tv quando e dove si voleva. Poteva essere alimentato sia con batterie

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grazie all’utilizzo di componenti digitali di ultima generazione come l’altoparlante a banda larga, cinque livelli di ottimizzazione video, telecomando ergonomico e multifunzionale. Invariato è rimasto invece il design che resterà sempre intramontabile. La collaborazione tra Zanuso e Sapper iniziò nel 1959 a Milano quando Sapper smise di lavorare per lo studio di design della Rinascente e durò per ben 18 anni fino al 1977. Il loro design era caratterizzato da un’estetica plastica, minimalista e perfino giocosa con caratteristiche funzionali ed ergonomiche davvero ingegnose: la parola chiave che caratterizzò molti dei loro prodotti fu la

portabilità. Erano proprio questi i canoni che caratterizzarono il design italiano, meglio conosciuto come “Pop design’’, negli anni Sessanta: un design caratterizzato da colori accesi e forme sinuose, ma senza tralasciare funzionalità e semplicità. In questi anni l’Italia fu sotto l’attenzione di tutto il mondo proprio per questo design divertente ed accattivante che trasformò e rivoluzionò l’oggettistica e l’arredamento, unendo al lato pratico un tocco creativo, colorato ed originale.

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TS 502 Marco Zanuso e Richard Sapper - 1964

La TS 502 è una radio portatile a transistor progettata nel 1964 dai designer Marco Zanuso e Richard Sapper per l’azienda Brionvega. Si trova esposta tra le collezioni del MoMa – Museum of Modern Art di New York. La TS 502 è un oggetto composto da due scocche cubiche in plastica colorata a spigoli arrotondati, incernierate in modo da aprire e chiudere l’apparecchio, mentre le sezioni interne sono in plastica nera. Da chiusa la radio appare come un parallelepipedo arrotondato, da cui deriva il nome di Radiocubo utilizzato oggi dall’azienda o più semplicemente detta il “cubo” dagli appassionati. Riguardo alla genesi del progetto gli autori dichiararono: “Abbiamo voluto creare una radio che non riveli la sua natura, a meno che non la si apra. Abbiamo voluto fare gli oggetti per la casa che non mostrino che sono prodotti tecnologici a meno di utilizzarli”. Questa radio infatti non rivela il suo contenuto, se è chiusa sembra soltanto una scatola. Poco dopo nascerà la televisione “Black” che è stata creata con lo stesso scopo. Una volta compresa la sua funzione, si può incominciare ad ammirare tutte le qualità di questa radio: innanzitutto è pensata per essere portata con sé, nella parte alta si trova infatti una maniglia che permette lo spostamento dell’oggetto. La struttura è progettata appositamente per questo scopo ed è composta da due parti tenute insieme

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da cerniere con apposite scanalature per il passaggio dei fili da una parte all’altra, che permettono di chiuderla ed aprirla. Una volta aperta, infatti, si possono bloccare i due pezzi grazie ad una calamita. Inoltre viene alimentata da due pile poste nella parte retrostante. Sempre in alto sulla parte opposta alla maniglia c’è un’antenna telescopica per captare meglio il segnale. Infine è dotata di quattro piedini per l’appoggio. Nel 1964 era disponibile solo nel colore arancione, mentre dall’anno successivo venne distribuita nei vari colori che l’hanno resa un oggetto di culto per i collezionisti dagli anni ’60 a oggi: la Ts 502 non è più solo una semplice radio ma un oggetto da esporre e un ottima compagna che rende piacevole l’intrattenimento.Quando la radio e’ aperta, le due sezioni si uniscono posteriormente grazie a una piccola calamita. Il fondo è munito di quattro piedini posti sul fondo per un appoggio stabile. Le due schede con gli stadi di alta frequenza sono


comprese nella sezione interna di destra, mentre la bassa frequenza e l’altoparlante magnetodinamico sono in quella di sinistra. Nelle cerniere, dotate di apposita scanalatura, scorrono i cavi di collegamento tra le due sezioni. Il baricentro dell’apparecchio si trova spostato rispetto alla linea di giunzione e all’altezza della maniglia. All’interno è presente un circuito supereterodina a diodi a cristallo e nove transistor, Commutatore di gamma a tastiera e Sintonia separata Am ed FM. Scala di sintonia numerica semicircolare per la AM, sintonia automatica in FM, inoltre Sono presenti un’antenna AM incorporata fissa ed una FM incorporata a stilo. Le sue dimensioni sono 13.3 x 21.9 x 13.3 cm, rispettivamente altezza, larghezza e lunghezza, pesa 2 kg e ha un potenziale pari a 9 Volt, mentre le caratteristiche tecniche sono: Potenza di uscita 1 W col 10% distorsione. L’alimentazione è fornita da sei

batterie da 1,5 Volt. È costruita con plastica ABS (un comune termoplastico) e alluminio. La TS 502 di Brionvega ha visto diverse rivisitazioni nel corso degli anni, a partire dagli anni ’70 con la TS 505, con una ghiera ridisegnata per la selezione dei canali FM, alla TS 512, con la regolazione di acuti e bassi. Negli anni 2000 la gamma si amplia ulteriormente con i nuovi modelli TS 522 e TS 525 che riprendono il design originale della scocca integrando le nuove tecnologie, con l’inserimento di display LCD, ingresso USB per gli MP3, connessione wi fi, Bluetooth e Dab. Anche la gamma di colori si è ampliata: i nuovi modelli sono infatti disponibili nei colori classici arancione, giallo sole, bianco neve rosso e nero notte ma anche nei nuovi colori blu, rosa e viola. Inoltre con il configuratore on line è possibile personalizzare il proprio modello scegliendo due colori differenti per il rivestimento esterno. 43


K 1340 Marco Zanuso e Richard Sapper - 1964 La K 1340, nata dallo studio della K4999, è una seduta in plastica realizzata da Richard Sapper in collaborazione con Marco Zanuso, costruita nel 1964 per l’azienda Kartell che vinse il Compasso d’Oro nello stesso anno ed è esposta tra le collezioni permanenti del MoMA, Museum of Modern Art di New York. Il progetto risultò innovativo perché si trattava della prima sedia per bambini in plastica combinabile, completamente smontabile e facile da pulire. Progettata per essere insieme seduta e strumento di gioco richiedette ben quattro anni di sviluppo prima di entrare a tutti gli effetti in produzione. Si tratta della prima sedia al mondo creata completamente in plastica e la tecnologia usata è lo stampo a iniezione. La sedia risulta uno strumento di gioco perché le sedie sono assemblabili a piacere usando le gambe oppure il bordo sporgente dello schienale, dietro la seduta. L’idea iniziale era la progettazione di una sedia per bambini il lamiera d’acciaio ma in seguito i progettisti convenirono sul fatto che la lamiera non fosse il materiale più adatto da utilizzare per la realizzazione di una sedia destinata a dei bambini. Si decise perciò di utilizzare il poliestere rinforzato, per la grande esperienza dell’azienda con questo materiale. Utilizzando la plastica, e non il metallo, la sedia doveva per forza essere più spessa per avere una rigidità strutturale accettabile. Vennero quindi aumentati gli spessori delle sezioni portanti in corrispondenza delle zone sottoposte a 44

maggiore stress strutturale, si elaborarono delle gambe a forma cilindrica che potessero essere stampate separatamente e in seguito assemblate al corpo della seduta, rendendo la sedia smontabile e favorendo le operazioni di packaging ed il trasporto. La seduta quindi


sarebbe stata composta da due elementi: il primo formato dalla base e dallo schienale e il secondo dalle gambe cilindriche. A causa della forma cilindrica delle gambe le sedie non sarebbero però risultate impilabili, si risolse allora il problema tecnico con un espediente concettuale. Si decise di sfruttare questa difficoltà per rendere le sedie sovrapponibili e non più impilabili. Il fatto che l’utente fosse il bambino, permise ai designers di modificare il concept trasformandolo da una “sedia per bambini”, in una “sedia giocattolo per bambini”. Si progettò una soluzione strutturale che avrebbe permesso l’alloggiamento delle gambe e in più avrebbe permesso alle sedie di essere componibili. In sostanza si sarebbero potuti usare gli aggetti posteriori come base d’appoggio per le gambe delle altre seggioline. Il tempo impiegato per portare a termine il progetto fu di 4 anni, dal 1960 al 1964. Tempo che venne comunque ripagato dai premi e i riconoscimenti ricevuti in seguito: oltre al già citato premio Compasso d’Oro 1964

vinse la Medaglia d’oro alla Triennale di Milano1964 ed il Prize Grand Prix all’ International Plastics Exhibition di Londra 1965. La sedia per bambini K 4999 è inclusa nella collezione permanente sul design del MoMA, Museum of Modern Art di NewYork. Una particolarità della sedia è il fatto di essere interamente concepita a misura di bambino: risulta di dimensioni ridottissime e tutti i componenti sono di forma semplice ma che rimanda il bambino all’idea di giocattolo, dai cilindretti delle gambe al fatto di poter sovrapporre a piacimento le sedie, come se giocassero con le costruzioni. Al tempo stesso, il fatto di avere l’incastro tra le sedie dietro a seduta permette di scaricare il peso verso il basso e di giocare al contempo in sicurezza, senza rischiare un crollo repentino delle costruzioni e lasciando libertà di espressione al bambino. Anche i cilindri arrotondati staccabili possono diventare strumento di gioco in sicurezza, avendo una struttura cilindrica ed il fondo arrotondato, senza spigoli o punte. Kartell è un’azienda italiana fondata nel 1949 a Noviglio, in provincia di Milano, nella frazione di S.Corinna che produce mobili e oggetti di disegno industriale ricercato in plastica. L’azienda fu fondata da Giulio Castelli,un ingegnere chimico che cominciò la propria attivita producendo accessori per le auto e casalinghi in plastica.

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Valigetta portadocumenti Pio Manzù - 1965 La valigetta portadocumenti, progettata da Pio Manzù, venne proposta dal designer stesso alla FIAT perché venisse messa in produzione dall’azienda automobilistica torinese nel 1965. Nonostante la FIAT all’epoca fosse molto restia a collaborare con professionisti esterni, accettò il progetto e diede inizio alla fortunata, seppur breve, collaborazione con Manzù, che si concluse con la morte del progettista nel 1969, ad un passo dal lancio sul mercato della sua 127, un’automobile che avrebbe continuato la scia di successi commerciali del colosso torinese. Il designer, figlio d’arte e astro nascente del disegno industriale italiano, vide la sua valigetta prodotta e utilizzata come materiale promozionale e distribuita ai rappresentanti commerciali, grazie all’attenzione progettuale che ne abbatteva i costi. Realizzata in plastica, leggerissima, dalle linee per l’epoca modernissime, la 24 ore di Manzù era realizzata con un solo stampo e conteneva un’altissima percentuale di polistirolo. Era difatti la valigetta più economica mai prodotta e il gadget definitivo per i collaboratori FIAT. Ispirato da un suo personale studio riguardo la valigetta progettata pochi anni prima da A.G. Fronzoni per Valextra, Pio Manzù cercò come obiettivo finale di ridurre al minimo i processi di realizzazione del prodotto e dell’impiego dei materiali. Questa valigetta fu studiata e successivamente realizzata

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partendo da due elementi di materiale plastico identici (lo stampo utilizzato per entrambi gli elementi era il medesimo) che posizionati in modo simmetrico erano in grado di completarsi. La novità di questa valigetta a confronto di soluzioni simili apparsi da qualche tempo sul mercato Americano e Tedesco consiste nel fatto che parti solide sono prodotte in polistirolo, mentre per i pezzi mobili (cerniere e elementi di chiusura) venne usato del polietilene morbido. Il ciclo di produzione non presenta complicazioni perché i pezzi di polietilene si


saldano durante la formazione delle parti in polistirolo nello stesso tempo evitando così l’impiego di collanti. Prodotta inizialmente dalla Mazzucchelli Celluloide di Castiglione Olona, venne successivamente utilizzata come omaggio al momento della consegna delle vetture Fiat di quei tempi. Questo nuovo metodo costruttivo (protetto da brevetto) permette di usare una percentuale (95%) di polistirolo di basso costo. Di conseguenza si ottiene un costo di produzione irrisorio: è infatti la valigia in plastica con il prezzo più basso fino ad allora prodotta. Da notare la stabilità notevole dei due materiali che garantiscono una lunga durata di vita della valigia. I materiali impiegati ed i metodi di produzione fanno della semplicità la loro arma vincente. I due pezzi simmetrici di polistirolo sono stampati ad iniezione e sono applicati soltanto cerniere ed elementi di chiusura, a loro volta in polietilene e stampati ad iniezione.

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Grillo Marco Zanuso e Richard Sapper – 1965 Il telefono Grillo, prodotto nel 1965 dalla Siemens, è stato disegnato dai designers Marco Zanuso e Richard Sapper. Ha vinto il premio Compasso d’oro nel 1967 ed è esposto tra le collezioni del Moma, Museum of Modern Art di New York. Il Grillo era un concentrato di tecnica, funzionalità ed estetica, divenuto oggetto di collezionismo ed uno tra i simboli dell’art design moderno. All’inizio degli anni sessanta ci fu l’idea di creare una nuova concezione di telefono, creandone uno di dimensioni ridotte, meno ingombrante, con una maggiore libertà nella ricerca di forme e colori grazie alla scoperta di nuovi materiali ed alla possibilità di usarli nella produzione di apparecchi. A ciò si aggiungeva l’evoluzione tecnologica e la moltiplicazione di apparecchi e oggetti nell’ambiente domestico. Il nuovo telefono non doveva più essere fisso, ma, dopo essere collocato sulle pareti o posato sul ripiano degli ingressi o del corridoio, una volta in uso, diventava facilmente trasferibile da una stanza all’altra, e con una linea estetica tale da renderlo parte complementare dell’arredo. La realizzazione del prodotto fu curato dai laboratori e reparti tecnici della Società Italiana Telecomunicazioni Siemens, anche nota come Sit Siemens, società del gruppo Stet a partire dal 1949. Il nome Grillo deriva dal suono particolare che emetteva il telefono, che ricordava il suono di un Grillo e arrivava dall’interno della spina. I telefoni

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in uso di quel periodo avevano il corpo dell’apparecchio fisso mentre solo la cornetta e il microtelefono potevano essere impugnati: una delle novità del Grillo consistette nell’introduzione dello snodo a cerniera, che collegava le due parti del prodotto la cui rotazione permetteva di stabilire e interrompere il contatto con la centrale. Solo la parte più piccola dell’apparecchio, che conteneva il microfono, si chiudeva contro il disco combinatore ed il collegamento si interrompeva. Il telefono poteva così essere sollevato e, durante una chiamata, poteva essere tenuto con una sola mano. Gli obiettivi del prodotto erano: la comodità d’impiego, un ingombro limitato il più possibile, unito ad una linea estetica e funzionale da adattare in qualsiasi tipo di ambiente. Tutti gli elementi strutturali e funzionali vennero riuniti in un unico corpo, che conteneva al suo interno un disco combinatore, un gancio commutatore e un tasto, un microfono e un ricevitore. La parte superiore dell’apparecchio, fu realizzata in Abs, Acrilonitrile- ButadieneStirene, un materiale molto resistente che permise di realizzare un guscio a


forma di conchiglia dallo spessore di solo un millimetro. Il prodotto misurava, in posizione chiusa, 16 cm di lunghezza, 8 cm di larghezza e 7 cm in altezza. Al momento della conversazione il telefono si apriva e diventava di 22 cm: una misura necessaria per permettere al microfono e al ricevitore di raggiungere la posizione ideale per effettuare una chiamata. L’ingombro del telefono era ridotto dall’esclusione della suoneria, che veniva collocata tra gli organi murali fissi di collegamento alla linea, dall’utilizzo di un disco combinatore più piccolo di quello classico, usato frequentemente negli altri telefoni, e dall’uso di componenti elettromeccaniche miniaturizzate. Il Grillo, oggi come allora rimane un emblema della nuova concezione del telefono, avendo di fatto anticipato il concetto di telefono a conchiglia da utilizzare con una mano sola che verrà poi ripreso per le linee dei cellulari negli anni ’90. A due anni dalla sua produzione, nel 1967, la SIP, Società Idroelettrica Piemontese divenuta in seguito Società Italiana Per l’Esercizio delle Telecomunicazioni, decise di metterlo in commercio proponendolo ai propri clienti

come apparecchio addizionale dell’impianto a spina. Attraverso la spina, una novità di quegli anni, per cui ogni stanza potesse avere un telefono in più, rispetto a quello principale installato al momento dell’attivazione del contratto.

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Pipistrello Gae Aulenti - 1965 Pipistrello è una lampada disegnata nel 1965 da Gae Aulenti per lo showroom Olivetti del 1967 a Parigi. La Pipistrello è una lampada da tavolo o da terra a luce diffusa, regolabile in altezza con movimento telescopico realizzata sin dal 1965 dall’azienda Martinelli luce. Il diffusore è realizzato in metacrilato opalino bianco, mentre il braccio telescopico in acciaio inox poggia su una base bianca o di colore scuro ed un pomello in metallo lucido. Il pomello è realizzato in sezioni modulari con incastro a canotto che si abbassano a seconda della pressione esercitata,

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consentendo così di variare l’altezza della lampada a proprio piacimento. Pipistrello è realizzata con tecniche di stampaggio del diffusore in metacrilato, innovative per l’epoca in cui è stata progettata. La forma sfuggente della base conica si sviluppa verso l’alto allargandosi nelle nervature del diffusore come lo spiegarsi della ali di un pipistrello. Appoggiata su un tavolo o a terra questa lampada caratterizza con la sua forza espressiva ogni tipo di ambiente. La lampada presenta un’altezza variabile tra i 66 e gli 86 cm il che la rende adatta sia come

lume da tavolo sia come elemento luminoso autonomo poggiato direttamente per terra. Nei primi disegni si vede il progetto di con un’altezza maggiore, pari a 130 cm. La cupola opalina è suddivisa in quattro elementi identici che vanno a costituire una forma che ricorda un fiore rovesciato, in cui petali partono dal centro per allungarsi verso il basso. Da qui l’idea di chiamarla Pipistrello, in quanto l’andamento delle forme è visto all’inverso rispetto a quanto si possa aspettare lo spettatore ed infatti partono dal fusto centrale per allargarsi in volute verso il basso. 51


Eclisse Vico Magistretti 1965 Eclisse è una lampada progettata dal designer italiano Vico Magistretti nel 1965 per l’azienda italiana di illuminazione Artemide. Si tratta di uno dei prodotti più importanti del XX secolo, divenuta un simbolo del design italiano in tutto il mondo, il cui pregio è stato riconosciuto anche dal Premio “Compasso d’oro” conferito al suo ideatore nel 1967 quale riconoscimento al merito del progetto. L’ingegnosità di questa lampada – armoniosamente compatta, dalle dimensioni di 18 cm x 12 cm –risiede nella capacità di poter dosare l’emissione di luce diretta o diffusa, attraverso il movimento di una “palpebra” che si sovrappone ad essa, oscurando parte della luce come accade al sole durante un’eclissi; la struttura in metallo verniciato, costituita da forme essenziali e composta da 3 semisfere: Base, Calotta esterna fissa e Calotta interna mobile, che scorrono su un perno centrale l’una nell’altra, ne consente l’uso da tavolo o l’installazione a parete. Orientata ad interpretare caratteristiche di funzionalità, praticità e versatilità, questa lampada nasce da un’intuizione di Magistretti: mentre viaggiava sulla Metropolitana di Milano, pensando alla lanterna di Jean Valjean descritta ne “I miserabili” di Victor Hugo, egli maturò il desiderio di creare un nuovo concetto di lampada, semplicemente combinando due

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sfere. Magistretti dapprima abbozzò uno schizzo sul retro di un biglietto e successivamente ne elaborò un progetto avveniristico, tutto imperniato sull’affascinante fenomeno astronomico dell’eclissi solare. Quest’ultimo fu poi richiamato non solo nel nome stesso della lampada, ma anche nelle caratteristiche strutturali proprie dell’oggetto. La piccola “Eclisse” era stata proposta dal suo ideatore in ben sette varianti di colore: Bianco, Grigio Silver, Giallo, Rosso, Arancione, Blu e Nero. Con il passare degli anni le colorazioni si sono ridotte ai soli due neutri ed all’arancione, e ciò per varie ragioni: alcuni colori erano legati alla tendenza del periodo ed una gamma di 7 colori in catalogo costituiva un onere maggiore a livello produttivo. A livello collezionistico, il colore simbolo di questa lampada anni ‘60 resta l’arancione, senz’altro conservato per mantenere un giusto legame con la storia del prodotto. Nella sua versione originale (senza rotella), è possibile reperirne esemplari all’interno delle collezioni permanenti dei più importanti e rinomati musei a livello nazionale e mondiale dedicati al design industriale, all’arredamento ed all’arte moderna e contemporanea, quali


vibrava abbastanza rumorosamente, creando effetti sonori di non gradevole impatto uditivo. La lampada è ancor’oggi in produzione sebbene, con il passare del tempo e l’avvento della legislazione in materia di sicurezza, i modelli più recenti abbiano subito una lieve modifica strutturale: l’inserimento di una rotella nera zigrinata, per regolare il fascio di luce senza dover toccare direttamente la calotta interna mobile, al fine di non provocare gravi ustioni all’utilizzatore. Con l’inserimento di questa rotella nera, o ghiera, tali inconvenienti tecnici sono stati sicuramente risolti, ma ciò a scapito dell’ “imprevedibilità” tanto cara a Magistretti. “Eclisse” è ancor’ oggi un oggetto di successo fra gli appassionati di design, tanto da essere ancora presente nel listino ufficiale di Artemide ed è straordinario constatare come questo oggetto semplice e geniale continui a suscitare suggestioni e curiose impressioni a ben 50 anni di distanza. il Triennale design Museum di Milano e la collezione del MoMa di New York. Unica pecca di questa lampada, o “elemento sorpresa” come lo chiamava Magistretti, è l’eccessivo surriscaldamento dovuto sia alla lampadina ad incandescenza, sia all’utilizzo di metallo. L’utilizzo di questo materiale, dominante l’intera struttura della lampada si è rivelato un pregio ai fini della longevità dell’oggetto, ma un difetto quanto alla elevata conducibilità termica: bisogna infatti ricordare che la prima versione di “Eclisse” non era dotata di alcun dispositivo atto a muovere la calotta interna mobile, ragion per la quale il fruitore era inesorabilmente destinato ad ustionarsi le dita per ruotarla; inoltre la medesima calotta

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Spider Joe Colombo – 1965

Spider è una lampada da pavimento prodotta dal 1965 per l’azienda Oluce sul progetto di Joe Colombo. La lampada ha ottenuto il premio Compasso d’Oro nel 1967 e fa parte delle collezioni permanenti della Triennale di Milano, del Philadelphia Museum of Art, del Kunstmuseum di Düsseldorf e del ‘’Neue Sammlung’’ Museum di Monaco di Baviera. Spider ha uno stile minimalista e seduce con il suo stelo esile e la combinazione di caratteristiche particolari e dalla funzionalità semplice: si può facilmente direzionare la luce dove si vuole, perché la testa della lampada è completamente regolabile. Lampade da terra, come la Spider, sono fonti di illuminazione multiuso in quanto possono essere utilizzate come illuminazione da ufficio o come lampade da uso quotidiano. E’ possibile scegliere il colore delle finiture tra bianco e nero. Il punto iniziale di questa lampada non e’ utilizzato per illuminare l’interno ambiente ma solo per una posizione definita, come ad esempio un dipinto sul muro. Joe Colombo ha immaginato che questa lampada possa essere installata in luoghi diversi come fonte di luce: tavoli, pareti, tetti, ecc. Si può utilizzare l’orientamento dello snodo per regolare i fasci di luce. Il punto luce viene rilasciato da una lampadina Philips senza ombra, scelta appositamente perché richiede solo un guscio

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per evitare incisioni o ustioni. Vengono combinati insieme elementi semplici e per creare la lampada completamente razionale e pratica. Come ha detto lo stesso progettista: “se abbiamo bisogno di dattilografia, fotocopie, disegno, usiamo prodotti appositamente progettati per quella funzione invece di guardare unicamente il lato estetico. Quindi se vogliamo illuminare il tavolo,dovremmo scegliere un dispositivo che


possa eseguire questa funzione”. Spider è verniciata a fuoco con riflettore in metallo, appositamente progettato per montare uno speciale bulbo luminoso. Uno snodo in plastica permette al riflettore di inclinarsi. Questa lampada monta anche una lampadina speciale, a spot orizzontale, la cui parte superiore è d’argento rivestito che permette alla luce di essere riflessa verso il basso.

Rimuove l’eccesso di caratteristiche non utili dal punto di vista funzionale, poste per convenzione nelle lampade generiche, riducendola all’essenza dell’illuminazione, creando un elemento di arredo elegante e pulito. Inoltre la sua forma è pensata per risparmiare spazio e posizionarla ovunque.

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Blow

l’impiego dell’aria come unico elemento strutturale, imprigionata da un sottile strato di PVC, cloruro di polivinile lavorato su stampi, che prevede diversi elementi gonfiabili termosaldati. La poltrona è venduta completa di gonfiatore a mantice. Inconfondibile grazie alle forme morbide e trasparenti, sperimenta materiali e tecnologie mai applicate nel settore dell’arredamento. La poltrona Blow è tra gli oggetti che hanno La poltrona tenta di superare la concezione fatto la storia del design e del Made in Italy: classica dell’oggetto d’arredo: nasce per creata nel 1967 dai designer De Pas, D’Urbino essere spostata a seconda dell’umore oppure e Lomazzi, ebbe subito un incredibile dell’esigenza, sta anche in auto o in valigia successo. e continua ad essere un prodotto di grande La poltrona fa parte delle collezioni successo. permanenti dei più grandi musei del mondo: Allo stesso tempo però Blow mette in MoMA, La Triennale di Milano, Vitra Design discussione l’idea di poltrona in quanto Museum. Blow è la poltrona gonfiabile oggetto pesante, solido e permanente. Non con cui il brand italiano Zanotta si lanciò è un prodotto da legare solamente all’acqua nella ricerca dell’arredamento gonfiabile perché galleggiante, ma anzi è un ottimo e che portò ad interessanti progetti anche elemento d’arredo da giardino anche per nell’ambito dell’architettura espositiva. Nel l’inverno. 1968 l’azienda ne inizierà la sua produzione Rivoluzionaria per la sua epoca ed emblema effettiva. degli anni Sessanta, completamente La poltrona è, inoltre, una novità per trasparente, leggera, mobile e accessibile, l’industria dell’arredamento poiché vi è Blow propone un modo diverso di vivere e trova sempre il proprio posto negli spazi interni ed esterni. Nella sua trasparenza panciuta, è quasi il simbolo del desiderio di comfort di un’Italia che comincia a sperimentare i primi piaceri del benessere di massa. La forma si ispira al gusto Pop di quegli anni, anche se l’idea di base dei designer è quella di applicare alla poltrona i principi costitutivi di un ‘canotto’. Ma in realtà Blow, pur ispirandosi al gusto Pop, fa parte del ‘radical design’, il quale nasce grazie ad alcuni giovani designer che cercano di emergere attraverso la progettazione di oggetti ironici ed eccentrici nei linguaggi e nelle forme e innovativi nelle funzioni d’uso.

De Pas, D’Urbino e Lomazzi - 1967

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Blow si rivolge ad un pubblico giovane proponendo un idea di casa alternativa. Viene presentata nei colori tipici della fine degli anni sessanta, ma adesso è anche disponibile nelle colorazioni trasparenti che mettono in mostra le caratteristiche uniche del prodotto.

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Plia Giancarlo Piretti - 1967

Plia è un progetto di seduta del designer Giancarlo Piretti del 1967 per Anonima Castelli e fa parte della collezione permanente del MoMa di New York. Dall’anno di inizio produzione, che è il 1969, ne sono state prodotte più di sette milioni di esemplari ed è tuttora prodotta. Viene considerata ancora oggi un oggetto di culto. Piretti con questo progetto ha rivoluzionato il concetto di sedia pieghevole: la genialità sta nello studio del perno composto da tre dischi di metallo, che collega schienale, gambe e sedile e che, una volta chiuso, fa assumere alla sedia una forma compatta di non più di 5 cm di spessore. Non meno importante è l’uso della materia plastica: il sedile e lo schienale sono in Cellidor trasparente, materiale di cellulosa termoplastico organico costituito per il 45% di cellulosa. La struttura è composta da tubi di acciaio cromato e snodi in metallo. La scelta di questi materiali, unita alla leggerezza ed alle dimensioni ridotte, la rendono adatta anche per essere utilizzata all’aperto. La sedia Plia è elegante, lineare e trasparente, ed una volta chiusa, può essere sovrapposta o appesa ad un gancio, ma si possono anche impilare più sedie aperte. La sedia fu presentata nel 1967 alla fiera del Mobile di Milano riscuotendo subito un

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successo notevole, tanto che alcuni visitatori se ne portarono via dei campioni. Per questo motivo, da allora in poi, per sicurezza, le sedie vennero legate con una catena per impedirne il furto. Plia divenne un’icona, simbolo della nuova cultura industriale basata sulla plastica, raccogliendo enormi successi anche per il basso prezzo a cui venne messa in vendita, inoltre si dava inizio ad un nuovo corso culturale: non solo funzionalismo del prodotto, ma anche divertimento,


provocazione e colore senza dimenticare la grande efficienza del “made in Italy”. Dalla sedia Plia derivò un’intera famiglia di prodotti, costituita dalla poltrona Plona e dal tavolo Platone. Plona è un poltrona pieghevole prodotta nel 1970, impilabile, con la struttura tubolare in lega di alluminio pressofuso ed uno snodo con dispositivo autobloccante di sicurezza. La scocca può essere in plastica o rivestita in tessuto plastificato. Al momento è fuori produzione. Platone è un Tavolo pieghevole disegnato nel

1970, con il piano in poliuretano rigido e la struttura in acciaio cromato anch’esso con uno snodo con dispositivo autobloccante di sicurezza. Platone occupa solamente 8 cm di spessore una volta ripiegato e anch’esso è al momento fuori produzione.

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Boomerang Rodolfo Bonetto - 1968

Boomerang è una poltrona disegnata e progettata dal designer italiano Rodolfo Bonetto nell’ anno 1968 per Flexform, ancora oggi inclusa nella collezione B-line. È senza dubbio un oggetto dal design inconfondibilmente Made in Italy e, come altri oggetti del suo calibro, si è guadagnato un posto nella collezione permanente del MOMA di New York come spiccato esempio di design italiano degli anni settanta. La seduta Boomerang si presenta come una poltrona comoda, dalle linee morbide ed essenziali, non dotata di piedini e perciò molto facile da spostare. Se all’ esterno abbiamo semplicità, all’interno troviamo una ossatura in acciaio e poliuretano espanso, dai caratteristici profili laterali, che appunto hanno ispirato il suo nome. Le tre viti di fissaggio rappresentano solidità della struttura, sono tornite e cromate, mentre le pieghe del tessuto rivestito sono lavorate a mano. La poltrona ha dimensioni di 700 mm in altezza, 900 in lunghezza e 740 in larghezza. Grazie a B-line ancora oggi è possibile godere di questo oggetto, il quale ha sempre mantenuto la sua identità, ma elegantemente può mutare la sua natura, ora infatti non solo si può utilizzare come poltrona singola, ma affiancato diventa un comodo divano modulare dalle linee essenziali, e dalla grande comodità. Boomerang si può trovare in diverse tonalità di tessuto Kvadrat e

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composizioni a scelta. Una chicca, che senza dubbio corona la bellezza dell’ oggetto, è la tasca posteriore, che negli anni settanta italiani, costituiva un must, per i lettori abituali dei giornali, e che ancora oggi, a distanza di anni, rispolvera il sapore di quel periodo. Rodolfo Bonetto, oltre ad essere considerato uno dei maggiori esponenti di design italiano del dopoguerra, è stato anche insignito di otto Compassi D’Oro, di cui l’ ultimo post mortem alla carriera, è inoltre un esempio di designer molto interessante perché a


differenza di altri grandi nomi è autodidatta. Una sua celebre citazione recitava: “Il Design è come una farfalla nelle mani: se le stringi troppo muore, se le tieni aperte vola via”. Bonetto interruppe la sua carriera da batterista jazz per dedicarsi al disegno, per cui aveva una naturale inclinazione. Grazie allo zio Felice Bonetto, pilota da corsa della Formula 1, entrò in contatto con il mondo del design e varie carrozzerie torinesi tra cui Vignale, Viotti e Boneschi che realizzarono alcuni progetti. L’ esperienza di Bonetto quindi non fu solo di progettazione di oggetti, ma si estese a vari campi, dopo l’ esperienza di sei anni come consulente per Pininfarina nel 1958 apre a Milano il suo studio di design. Dalla “Sfericlock” per Veglia Borletti, al telefono pubblico “Rotor”, fino al sodalizio con l’azienda torinese per eccellenza, per disegnare gli interni delle auto Fiat. Ricoprì diverse cariche, tra cui docente di design industriale ad Ulma e all’ ISIA di Roma, fu inoltre presidente per tre anni dell’ associazione ADI, e dal 1981 al 1983 dell’ International Council of Societies of Industrial Design.

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Poltrona Sacco Gatti – Paolini - Teodoro – 1968

La poltrona Sacco è una seduta che nasce da un’idea del 1968 di tre studenti Italiani, di Torino: Gatti, Paolini e Teodoro per Zanotta. La Sacco è composta da un involucro contenente sfere di polistirolo espanso, personalizzabile e disponibile in svariati colori e finiture, dalla pelle al tessuto. Gatti, Paolini e Teodoro destrutturarono il concetto di poltrona, prendendo coscienza che una sedia non necessita necessariamente di quattro gambe, seduta e schienale, ideando qualcosa di molto più concettuale. Offre un comodo alloggiamento e oltretutto è modulabile: l’utente può dare alla Poltrona Sacco la forma che vuole, nei limiti del possibile, senza limiti di postura. Questo processo di destrutturazione, apparve rivoluzionario, interconnesso con il periodo in cui avvenne: la Poltrona Sacco fu creata nel ’68 e ne rispecchia tutti i valori e il desiderio di cambiamento. Fu anche per questo che divenne un icona e una delle sedute più imitate in assoluto. Il progetto è anticonvenzionale e di tendenza, il processo di rottura del Radical Design italiano degli anni 60 si stava ormai diffondendo in tutto il mondo. I tre studenti si presentarono direttamente da Aurelio Zanotta portando in spalla una sacca di plastica contenente palline di polistirolo, affermando di avere una poltrona e desiderando che fosse Zanotta a produrla. Aurelio Zanotta, avendo già cavalcato

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progetti altrettanto anticonformisti, colse la palla al balzo e fu proprio per via della poltrona Sacco che si coniò il termine Seduta, non essendo propriamente né una sedia né una poltrona. Arrivata negli States venne chiamata Bean Bag e successivamente ogni prodotto contenente simile imbottitura prese il nome proprio dalla “poltrona fagiolo”: la seduta delle nuove generazioni, dei Peanuts di Schulz, dei fan della musica pop. Colorata e informale, libera da vincoli di posture predefinite, facilmente trasportabile, amichevole, nel pieno spirito anni 60. La Poltrona Sacco divenne ben presto un


icona del Radical Design, che si distaccava dal Modern Movement, esaltando principi diametralmente opposti: rifiutando l’essenzialità e il minimalismo e investendo sulla creatività individuale e la libera espressione. A differenza dell’Anti-Design, che si opponeva al Razionalismo, il Radical era più teorico e sfruttabile, la forma era un tutt’uno con la funzione. Molti prodotti del Radical sono usabili a differenza della pura protesta effettuata dall’Anti-Design.Il Radical Design cercava di cambiare la percezione del modernismo proponendo prodotti utopistici e totalmente nuovi. La ricerca di un approccio più giovanile, meno serio di quello offerto dal Good Design degli anni 50, portò i designer a privilegiare oggetti dalle forme morbide, con una voglia di freschezza e cambiamento: da questo nasce la cultura Pop e le forme ardite rispecchiavano l’ottimismo degli anni ‘60, spazzando via definitivamente la durezza post-bellica ed essendo destinati ad un pubblico giovanile erano relativamente economici. Anche la scelta dei materiali, spesso plastica, rispecchiava la sperimentazione e il radicale cambiamento. La Poltrona Sacco è tutt’ora in produzione ed è esposta nei seguenti musei: The Museum of Modern Art di New York, Musèe des Arts Dècoratifs di Parigi, Museo dell’arredo contemporaneo di Russi (Ra), Fondazione Triennale Design Museum di Milano, Musèe National d’Art Moderne di Parigi, Powerhouse Museum di Sydney e Shiodomeitalia Creative Center di Tokyo.

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Serie Up Gaetano Pesce - 1969

La “Serie Up’’ è una famiglia di sedute progettata da Gaetano Pesce, uno dei maggiori esponenti del radical design a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Fa parte della collezione permanente di molti musei, come il MoMA di New York con il modello UP1, il Triennale Design Museum di Milano, Il Museo di belle arti di Montréal o il Vitra Design Museum. Fu prodotta a partire dal 1969 dall’ azienda d’ arredamento C&B, rinominata successivamente B&B Italia. Dal confronto tra il progettista e l’industria già preannunciato da due progetti del 1968 nacque l’esigenza di una costante ricerca d’innovazione formale che raggiunse l’apice proprio nella ‘’Serie Up’’, oggi uno dei prodotti di punta dell’ azienda di Novedrate. Con questo progetto Gaetano Pesce porta alla luce un’idea di donna tutta sua: “Raccontavo una storia personale su quello che è il mio concetto sulla donna: la donna è sempre stata suo malgrado, prigioniera di sé. Così mi è piaciuto dare a questa poltrona una forma femminile con la palla al piede, che costituisce anche l’immagine tradizionale del prigioniero”. Da questa stretta collaborazione con l’azienda, supportata da un grande knowhow tecnologico come leva per il proprio sviluppo, l’idea di Pesce trova il linguaggio più appropriato non solo per essere espressa al meglio, ma anche per essere trasformata in un frammento di arte contemporanea

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accessibile ad un vasto pubblico. La serie di sedute, sette per l’esattezza, è oggi considerata fuori dal tempo sia per l’idea universale che racconta, sia per il progetto che la genera e la tecnica con cui viene realizzata. Gaetano Pesce vede il design come un ulteriore mezzo che l’artista ha per esprimere il proprio pensiero e le proprie emozioni, contrapponendosi completamente al pensiero razionalista dove la forma doveva essere direttamente derivata dalla funzione. Ciò spiega la ricerca formale e l’ utilizzo di nuove tecnologie e materiali, in particolare sull’utilizzo del poliuretano legato a lunghi studi stilistici ed ergonomici. Tutti gli elementi della ‘’Serie Up’’, infatti, sono realizzati in schiuma di poliuretano flessibile a iniezione e rivestite da un tessuto elastico. Il modello originale veniva confezionato


dal grembo accogliente e allo stesso tempo prigioniera e il “piede” up7, oggetto-scultura, frammento archeologico ridisegnato con tecnologia contemporanea.

sottovuoto e occupava nell’imballaggio il 90% in meno dell’ingombro: l’imballaggio consisteva in una scatola piatta di cartone con un rivestimento interno in PVC che manteneva sottovuoto la seduta. Una volta scartata dall’imballaggio la seduta acquistava lentamente la sua forma definitiva, grazie all’aria che penetrava all’interno delle celle del poliuretano e ne aumentava il volume. La nuova versione della ‘’Serie Up’’, denominata Up 2000, a differenza della prima non viene più venduta sottovuoto, ma già nella sua forma definitiva. La moderna edizione della ‘’Up’’ è quindi realizzata in poliuretano flessibile a freddo “bayfit” e rivestita in tessuto jersey, con il fondo in iuta. Tra gli elementi che la compongono emerge la poltrona con pouf up5-up6, icona della modernità, metafora della figura femminile

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Tube chair Joe Colombo - 1969

La Tube chair è un seduta componibile progettata nel 1969 da Joe Colombo e prodotta da Flexiform l’anno successivo. La poltrona è tuttora esposta in diversi importanti musei come il MoMa, il Metropolitan Museum of Art di New York ed il Triennale Design Museum di Milano. La Tube chair è una poltrona componibile formata da quattro moduli cilindrici cavi di diversi dimensioni che possono essere posizionati a piacere attraverso ganci a morsetto, in modo da comporre una poltrona idonea alla posizione di seduta che l’utilizzatore aveva pensato. I quattro cilindri venivano venduti uno dentro l’altro, all’interno di un sacco in tela chiuso da una corda, proprio come le custodie dei sacchi a pelo: i moduli una volta sfilati potevano essere posizionati a piacimento dall’ utilizzatore, coinvolgendolo nella personalizzazione del prodotto, aumentando l’affinità fra oggetto e individuo, il quale poteva decidere quale forma dare alla poltrona o immaginare soluzioni ancora più fantasiose, come l’unione di più poltrone per adattarla all’ambiente. Il prodotto realizzato nel 1970 si presentava formato da cilindri concentrici realizzati in PVC imbottiti di gomma piuma e rivestiti di tessuto elastico o in pelle. I ganci a morsetto sono realizzati con delle sfere in sughero o legno per mantenere fissi i moduli. La seduta ebbe un grande successo appena prodotta,

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poiché rispecchiava appieno il contesto sociale e le avanguardie del periodo. Colombo fa del tubo non solo il motivo primario del design della tube chair ma soprattutto la struttura formale, creando un oggetto tanto visivamente semplice quanto innovativo e geniale, da renderlo uno dei prodotti più rilevanti del design mondiale. La poltrona è recentemente tornata in produzione per Cappellini in pelle o tessuto bielastico nei colori nero, bianco, giallo, turchese o arancio. Questa seduta, con i suoi innovativi esperimenti di modularità e flessibilità applicati all’arredamento, si è mostrata come uno degli oggetti più rilevanti del design italiano degli anni sessanta. Il design della seduta incarna pienamente lo spirito creativo di quegli anni, libero e spregiudicato.


i suoi prodotti può essere classificato radicale, si esprime al meglio attraverso uno studio sul rapporto forma-funzione del tutto razionale. La vivacità d’ingegno anticonformista di Joe Colombo, che egli stesso si era autodefinito un “anti-designer”, si riflette nella scelta di progettare una seduta scomponendone e destrutturandone il concetto stesso. Questa scelta dimostra come il design pensato da Colombo non abbracciasse pienamente i concetti del radical design, che aveva avuto enorme importanza in quegli anni, ma anzi esprime un attento studio razionalista sulla modularità e destrutturazione della seduta.

In Italia, cosi come in tutto il mondo occidentale, il ‘69 fu un anno caratterizzato da un’intensa voglia di cambiamento, accesa dalla contestazione giovanile che aveva invaso le strade e le piazze europee l’anno precedente. L’aria di svolta e la voglia di andare controcorrente diedero vita ad avanguardie artistiche come la Pop Art, che divenne spunto e modello per il radical design, fenomeno che riuscì ad emergere attraverso la progettazione di oggetti ironici ed eccentrici nei linguaggi e nelle forme ma innovativi nelle funzioni d’uso. Joe Colombo fu un designer contemporaneo al fenomeno del radical design e pur non essendone un esponente riuscì ugualmente ad affermarsi grazie ai suoi prodotti, come la tube chair, dove il linguaggio, che non in tutti 67


Black ST 201 Richard Sapper e Marco Zanuso – 1969

Black ST 201 è un televisore cubico portatile progettato nel 1969 da Richard Sapper e marco Zanuso per l’azienda italiana Brionvega ed è esposto tra le collezioni permanenti del MoMA – Museum of Modern Art di New York. Dopo lo sviluppo e la progettazione del televisore Doney nel 1962 , vincitore del Compasso d’Oro, ed il successo del successivo Algol 11 nel 1964 i due decisero di concepire e progettare un terzo apparecchio, questa volta di forma cubica e di colore nero. Il Black st 201 è diverso dai due precedenti, che sono più espliciti e rivelano alla prima occhiata la loro immediata funzione, rivelando da subito la propria identità di apparecchio televisivo. Quest’ultimo, al contrario, da spento appare come un cubo nero, spiazzando l’osservatore, e suscitando la curiosità del medesimo sull’oggetto nel tentare di immaginarne la funzione finale. Realizzato in plastica lucida con antenne movibili e rimovibili l’oggetto in modalità di non utilizzo perde ogni indizio evidente sulla sua identità, diventando puro stile svincolato dalla sua funzione. I progettisti vollero mantenere una linea pura per questo televisore: infatti non introdussero alcun ausilio per poterlo trasportare, nella parte superiore, a differenza sia dell’Algol che del Doney i quali possedevano una maniglia a scomparsa. Per le esigenze di trasporto Zanuso ideò e produsse in un secondo tempo una custodia in abs per poterlo trasportare

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in tutta sicurezza e comodità. A livello tecnico, come si nota dalla rappresentazione fotografica l’ oggetto è realizzato in metacrilato trasparente fumé. Nella parte superiore si trovano i comandi d’uso per l’accensione, la regolazione di volume, di luminosità e contrasto e la selezione dei canali, mentre sul retro é stata collocata la presa per il collegamento alla rete elettrica, alla batteria interna ricaricabile che consente l’uso anche fuori casa. L’apparecchio dispone di due antenne, una


rimovibile e l’altra a scomparsa in modo da poter essere utilizzato in qualsiasi situazione sia interna che esterna, sempre mantenendo la sua caratteristica forma cubica e pura. I due designer concepirono quattro piccoli appoggi posti sotto il cubo, leggermente all’interno della base e perciò nascosti alla vista, in modo da dare l’idea che l’oggetto sembri leggermente sollevato da terra e sospeso a mezz’aria. L’St 201 funziona grazie al classico tubo catodico in bianco e nero con una specifica particolarità relativa allo schermo, il quale, anziché essere bombato, come il Doney o l’Algol, é completamente piatto, proprio per favorire il gioco d’indefinita identità voluto dagli ideatori. Anche questo è un elemento che verrà ripreso in seguito e che contraddistingue tutti gli apparecchi televisivi moderni. I comandi posti sulla parte superiore sono concepiti in modo da essere utili per un uso sia domestico che esterno: i medesimi dovevano essere comodi ed evidenti per l’utilizzatore essendo l’apparecchio sprovvisto di telecomando. La posizione dei comandi, considerata la piccola dimensione dello schermo, può anche consentire un comodo uso dell’apparecchio. Il Black è stato uno dei primi televisori di piccole dimensioni, lo schermo musura infatti 12 pollici, concepito più come componente di arredo che come semplice televisore portatile. Ciò è un segno della forte componente sperimentale e anticipatrice dei due autori: oggi infatti tutti i moderni apparecchi per la visione portatile, come tablet e smartphone hanno lo schermo nero da spenti, ma che va ancora oltre ideando un oggetto che rappresenti nella propria essenza da Mario Bellini e ribattezzato Cuboglass pulizia formale e gusto estetico, unito alla TV, con con l’aggiunta di un rivestimento in ricerca di materiali e forme uniche e senza tempo. Il progetto è stato poi ripreso nel 1992 cristallo e aggiornamenti tecnologici per la ricezione del segnale.

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Valentine Ettore Sottsass – Perry A. King 1969 Valentine è una macchina per scrivere della Olivetti, prodotta nel 1969 su progetto di Ettore Sottsass e Perry A. King. Grazie a questo progetto Sottsass vinse un Premio Compasso d’oro l’anno successivo e nel 1971 la macchina per scrivere entrò a far parte delle collezioni permanenti al MoMA di New York. Negli anni ’90 tornò in produzione e nel 1999 fu protagonista di una mostra itinerante dal titolo “Rosso, rosso Valentine” che toccò oltre a Ivrea anche Milano, Torino, Genova, Praga, Budapest. La Valentine nella sua semplicità mostra aspetti molto innovativi., come la custodia che è realizzata in plastica ABS rosso fuoco, invece del solito alluminio, caratterizzandone la leggerezza e la facilita’ di trasporto. Notizie Olivetti nel giugno 1969 descrive la nuova macchina in questi termini: “E’ stata scelta dai designer una linea decisamente diversa da quella tradizionale delle altre nostre portatili. […] La tastiera si stacca dal resto della macchina in maniera netta, resa ancora più evidente dall’accostamento dei colori rosso e nero, in modo da fare dello strumento di scrittura un ‘oggetto’ atto a farsi notare, ad essere utilizzato anche da un pubblico meno professionalmente motivato alla scrittura meccanica”. Le novità non mancano neanche nel design e nella pubblicità del prodotto stesso: la campagna per il lancio della Valentine fu ideata tenendo conto che la macchina voleva

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essere un prodotto di largo consumo, un prodotto che tutti potessero usare dovunque. Ecco perché Sottsass, a cui fu affidato anche il coordinamento di tutte le componenti delle campagne pubblicitarie, disse al riguardo: “Siamo andati a mettere la Valentine dappertutto, in più posti possibili, per vedere come si comportava e cosa succedeva intorno e abbiamo fatto un sacco di fotografie. Così dopo un po’ siamo venuti in possesso di una grossa documentazione, una specie di reportage del viaggio fatto fra la gente da un oggetto invece che da una persona.” In Europa e in Italia per la società civile sono momenti di svolta, caratterizzata dalla rottura storica della contestazione tra il ’68 e l’autunno caldo del ‘69. L’aria di cambiamento e il disordine sociale sono le caratteristiche principali di quel periodo e le campagne pubblicitarie della nuova macchina da scrivere giocano proprio su questo aspetto, infatti l’obiettivo era quello di risvegliare l’attenzione di potenziali utenti prima poco


interessati a questo tipo di prodotto. Sempre Sottsass dichiarò: “Tutti erano contenti di giocare con questa Valentine, di starle insieme, e del resto anche lei, questo oggetto rosso, finiva per confondersi abbastanza bene con le cose che già ci sono nel mondo, le cose naturali e le cose artificiali che fanno questa gran confusione nella quale viviamo. Tutta la grafica con la quale abbiamo annunciato la Valentine non è perfetta: forse si scosta molto dall’antica, famosa, favolosa, classica impostazione della Olivetti, ma spero ci sarà perdonata la presunzione – che certo non è irriverenza – per aver tentato un’apertura verso i nuovi tempi e anche verso la nuova struttura dei programmi dell’industria che affronta ogni giorno responsabilità più vaste e società più coscienti”. La campagna pubblicitaria per il lancio della Valentine venne ideata tenendo conto che la macchina voleva essere un prodotto per un ampio pubblico di utenti e che tutti potessero utilizzare in qualsiasi luogo e situazione. Il successo riscontrato dimostra che non è una semplice macchina per scrivere ma una vera e propria opera d’arte per la gente del suo tempo, e il design rappresenta al meglio la cultura contemporanea di quel periodo. Nel catalogo della mostra dell’Archivio Storico Olivetti Sottsass ricorda: “La Valentine l’ho immaginata come la biro della macchina per scrivere, da vendersi a mucchi. E’ nata come il prodotto popolare della Olivetti in contrapposizione al carattere “chic” della Lettera 22. Questo traspariva in tutto: dal design alla comunicazione. Nell’immagine pubblicitaria la Lettera 22 era trasportata da una signora ricca ed elegante che scendeva dall’aereo, mentre la Valentine appariva in mezzo a dei bambini inglesi che giocavano a calcio”. 71


Abitacolo Bruno Munari – 1971

Abitacolo di Bruno Munari fu progettato nel 1971 per l’azienda Robots, che sin dal 1962 si occupò della realizzazione di espositori aziendali destinati ai punti vendita. Quest’oggetto prodotto da Robots viene premiato dal Compasso d’oro nel 1979 e continua ad essere in produzione ancora tutt’oggi. La struttura è fedele alle tendenze degli anni Sessanta e Settanta, periodo caratterizzato da un’intensa sperimentazione di coerenza tra arredare e vivere moderno. Munari si allontana così dagli stereotipi tradizionali sviluppando una soluzione modulare e multifunzione. Infatti, oltre ad essere un mobile, è anche un oggetto d’arredo che trasmette pienamente gusti, personalità e la passione di chi lo vive e lo abita. Pensato con l’idea di realizzare una nuova area per ragazzi che permettesse loro di trovare uno spazio per ogni oggetto e attività, l’Abitacolo si presenta come una struttura in acciaio con letto e tavolo integrabili e diversi accessori: due piani in rete, quattro mensole, un’illuminazione, una serie di pratici ganci appenditutto e un tavolino in laminato, regolabile in altezza. Si tratta di un vero e proprio spazio, mutabile sia nel colore che nella forma per poterlo personalizzare come meglio si desidera. Viene infatti prodotto in un colore neutro, grigio acciaio, e viene plastificato attraverso una lavorazione con ossidi, in questo modo è

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possibile una colorazione superficiale. Le dimensioni sono quelle di un letto singolo e l’altezza di un letto a castello. La struttura è pensata per la convivenza di due ragazzi, ma supporta il peso di venti persone. Si distingue per la facilità nella smontabilità e rimontabilità, data la presenza minima di viti e bulloni, oltre alla facilità di trasporto dovuta al peso di soli 51 chili. Inoltre la pulizia di questa struttura metallica è molto pratica, dal


momento che, non avendo veri e propri piani continui, è quasi impossibile che quest’ultima si impolveri o si sporchi. La progettazione dell’Abitacolo è nata da un’esigenza riscontrata nella vita personale del designer. Da piccolo aveva una camera da letto molto spoglia , composta di un letto, una scrivania e una valigia con all’interno tutti i vestiti necessari: un spazio poco vantaggioso per il lato educativo del giovane. Proprio per questo motivo ha pensato ad uno spazio stimolante poco ingombrante, leggero ma robusto, dove i ragazzi possano studiare, meditare, scrivere, ascoltare la musica, leggere, dormire, conversare con gli amici. A differenza di molti progetti quello dell’abitacolo non è nato da un disegno ma dalla creazione diretta di un modellino a grandezza naturale, dopo aver analizzato i difetti dei vari arredi in commercio, così da poter constatare immediatamente i problemi dell’oggetto e trovarne una soluzione.

Munari porta nei suoi progetti la ricerca e la sperimentazione delle forme, considerate non solo come soluzione funzionale, ma come espressione della cultura di un’epoca e di una società che rispecchia i bisogni della famiglia italiana di quegli anni. Il pensiero del noto designer può essere riassunto in questa massima: “se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. I suoi oggetti contengono spesso un valore educativo. Sempre impegnato sul fronte della pedagogia, il suo metodo diventa per il bambino strumento di conoscenza del mondo dove l’oggetto può essere interpretato come un grande gioco, posto a stimolare la fantasia di organizzare la propria “mini casa nella casa”. Psicologicamente dovrebbe dare al ragazzo che abita la struttura un senso di spazio proprio, isolato dall’ambiente esterno, dove ha la possibilità di conservare i propri averi e allo stesso tempo viverci, nonostante lo spazio sia limitato. 73


Box Enzo Mari - 1971

Box chair è una seduta progettata nel 1971 dal designer italiano Enzo Mari e prodotta da Anonima Castelli. La sedia si presenta con linee semplici e forme rigide che tendono molto alla perpendicolarità. Caratteristica della seduta, nonché fulcro dell’attenzione progettuale, non è chiaramente l’aspetto ergonomico o del comfort, poiché come nella tradizione progettuale di Mari, tutto ruota attorno alla funzionalità, elemento cardine che contraddistingue la filosofia del designer e che porta con sé il risultato formale. La Box è studiata per essere completamente smontabile e richiudibile all’interno della sedia stessa. Tutti i componenti, ovvero lo schienale e le gambe, sono infatti posizionabili all’interno della seduta. Questa soluzione offre non solo la possibilità di riporre la sedia in caso di non utilizzo occupando uno spazio ridottissimo, ma affronta anche e soprattutto le problematiche legate al packaging ed al trasporto: due dei cosiddetti “moltiplicatori del prezzo” che la produzione industriale contemporanea deve affrontare. La Box, non ancora assemblata, viene messa in commercio con i suoi componenti risposti al suo interno e necessita come imballaggio soltanto di una borsa di plastica, dalla minima incidenza economica sul prodotto finito. Risulta evidente come la progettualità di Enzo Mari ricerchi la funzionalità non solo focalizzandosi sull’oggetto stesso, ma anche

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sul complesso universo che ruota attorno al mondo del design e alla produzione industriale. Per arrivare a questa soluzione formale, Mari ha inizialmente lavorato a una prima versione con schienale in tela, scelta più semplice per affrontare i problemi spaziali, passando poi in un secondo momento a uniformare i due principali componenti della sedia e realizzando quindi lo schienale dello stesso materiale della seduta. Salvo la prima versione con schienale in tela, quella definitiva del 1976 è stata prodotta in plastica (seduta e schienale), mentre per le quattro gambe svitabili e per i supporti spalliera che reggono lo schienale è stato usato materiale metallico.


In questo prodotto traspare l’etica progettuale professata piÚ volte da Mari stesso, che spazia dalla percezione e dall’aspetto sociale del design, alla funzione del prodotto nella vita quotidiana, senza mai tralasciare il ruolo del designer nel processo industriale. Il progettista deve quindi tornare ad essere filosofo creativo e non un semplice interprete di tendenze.

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Parentesi Pio Manzù e Achille Castiglioni – 1971

Parentesi è una lampada a luce diretta progettata dal designer Achille Castiglioni sulla base di alcuni schizzi di Pio Manzù, scomparso nel 1969, e prodotta a partire dal 1971 dall’azienda italiana Flos, nota nell’ambito dell’illuminotecnica per aver lanciato molti prodotti divenuti nel tempo oggetti da collezione e legati alla storia dell’industrial design. La forma del prodotto Parentesi non è semplicemente una scelta estetica bensì strutturale: la lampada, razionale, priva del superfluo, vero manifesto del principio forma uguale funzione, vinse la XI edizione del Compasso d’Oro nel 1979 ed è attualmente esposta al MoMa di New York, al Museo del Design della Triennale di Milano, al GAMeC di Bergamo e in altri musei. Il nome nasce dalla forma del tubo in acciaio sagomato, elemento centrale della lampada, che ricorda appunto una parentesi. Manzù aveva immaginato “una sorgente di luce che potesse scorrere verticalmente da pavimento a soffitto e ruotare sull’asse di 360°”. Castiglioni disse al riguardo : “La prima idea della parentesi è di Pio Manzù, che aveva pensato ad un’asta fissa in verticale e a una scatola cilindrica con una fessura per la luce che andava su e giù: per fermarla ci voleva una vite. Ho sostituito l’asta con una corda metallica che, deviata, fa attrito e permette alla lampada di stare in posizione senza bisogno di alcuna vite”.

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La lampada è costituita da pochi e semplici elementi: un cavo portante in treccia d’acciaio, un tendicavo da barca a vela, utilizzato per regolare l’altezza da terra del basamento di piombo, rivestito in gomma nera, un tubo di acciaio sagomato verniciato, disponibile nei colori bianco, nero o rosso oppure nichelato, un copriforo cilindrico in metallo e un portalampada in bachelite o resina termoplastica, stampata a iniezione, all’interno del quale esce il cavo elettrico con spina per l’alimentazione. Il movimento verticale del corpo illuminante è ottenuto mediante lo scorrimento del tubolare sagomato sul cavo in acciaio, teso tra il plafone e il pavimento. La particolare forma “a parentesi” del tubo crea un sistema di attriti che impedisce alla lampada di cadere verso il basso, ma contemporaneamente, lo scivolamento del sottile tubo avviene senza sforzo, semplicemente spostandolo con la mano. Una semplice tecnologia che risponde a un principio altrettanto semplice

e al tempo stesso vincente: ottenere una lampada, orientabile, che possa scorrere tramite un semplice gesto umano. Sempre basato su questo concetto, Achille non si fermò solo alla definizione della lampada ma, coinvolgendo l’utente in una ludica e costruttiva attività di fai da te, si estese al packaging e alle fasi di montaggio. La prima versione di Parentesi, infatti, venne presentata e venduta al pubblico in un kit di imballaggio in materiale plastico trasparente, realizzato con la tecnica della formatura sottovuoto e permetteva di vedere tutti i componenti, perfettamente incastrati all’interno dell’imballo. L’imballaggio era costituito da due gusci speculari: uno trasparente che si incastrava su un altro bianco che fungeva da base ed era facilmente trasportabile tramite due maniglie laterali, ricavate nella confezione stessa. Secondo Castiglioni “un buon progetto nasce non dall’ambizione di lasciare un segno ma dalla volontà di instaurare uno scambio, anche piccolo, con l’ignoto personaggio che userà l’oggetto progettato”. Economia dell’oggetto, donazione di senso, riduzione formale, adattabilità a diversi ambienti sono dunque alcune prerogative che hanno reso la lampada Parentesi un prodotto senza tempo, così come altri progettati dall’architetto italiano, che saliva in piedi sulla cattedra per mostrare meglio ai suoi alunni tutti gli oggetti che collezionava e che diceva: “Se non siete curiosi, lasciate perdere”. In un’intervista del 1996 alla rivista Domus Castiglioni dichiarò che: “Il minimalismo non è un non far nulla perché è più comodo, il minimalismo formale non è di per sé sufficiente, deve corrispondere a un’idea, a un concetto, ed esiste dalla preistoria questa tendenza a fare il minimo, però in forma ingegnosa ed efficiente”. 77


Pratone Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso (Gruppo Sturm) - 1971 Pratone è un oggetto di disegno industriale progettato dai designer italiani Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso nel 1971 e messa in produzione nello stesso anno dall’azienda italiana Gufram. Si tratta di un prodotto molto rilevante nella storia del design italiano, è esposto in moltissimi musei d’arte moderna e di design (come per esempio al MART di Rovereto, ma anche al PLart di Napoli), fa parte della collezione permanente del Triennale Design Museum di Milano, dove è stato esposto durante la 4ª edizione di quest’ultimo “Le fabbriche dei sogni” nel 2011. Si tratta di un oggetto che ruota attorno al concetto di massima espressione di creatività a discapito anche di esigenze funzionali. Non a caso Pratone oltre ad essere un’insolita seduta, dove l’utilizzatore si abbandona sdraiandosi in modo del tutto non convenzionale tra gli enormi morbidi fili d’erba che la compongono, è principalmente un’opera d’arte contemporanea decorativa, che racchiude quindi tutto il concetto di inutilità che porta con sé il termine “arte”. La seduta è comunque funzionale nel suo scopo, permette quindi di raggiungere una posizione comoda anche se insolita. Si presenta come una grande porzione di prato i cui lati ondulati permettono di accoppiare più pezzi creando un vasto prato verde artificiale di grandi dimensioni; dalla base quadrata di ogni singolo pezzo si

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innalzano spessi fili d’erba sagomati orientati in modo diverso gli uni rispetto agli altri con una certa logica. Di colore verde molto vivace, Pratone è diventato presto un’icona dell’arredamento “pop” degli anni settanta e seguenti. Pratone è realizzato in un unico materiale, si tratta infatti di un unico pezzo in poliuretano espanso, schiumato a freddo e rivestito in vernice lavabile brevettata dalla Gufram stessa, denominata “Guflac”. Il materiale ha una densità tale che permette agli steli di avere ottime proprietà meccaniche


soprattutto per quanto riguarda la loro deformazione elastica; Gli steli infatti riprendono facilmente la forma iniziale dopo l’utilizzo. Tuttora prodotta da Gufram, fa parte della celebre collezione “I Multipli”, che raccoglie vere e proprie sculture realizzate in poliuretano espanso esposte nei principali musei d’arte contemporanea. Con l’accento sulla massima libertà creativa a discapito delle esigenze funzionali, questo elemento decorativo vuole rappresentare un prato artificiale su cui ci si può comodamente sdraiare. Colorato con vernice lavabile Guflac verde, è un manto di grandi steli d’erba dove adagiarsi in maniera totalmente informale. Pur essendo stato concepito con una precisa attitudine seriale tanto da essere modulabile e componibile per ricreare un intero e spensierato campo verde tra le grigie mura domestiche, Pratone a tutti gli effetti è un progetto radicale, icona della

rivoluzione culturale dell’anti-design. Si tratta di un oggetto per il riposo singolo e collettivo, momentaneo, instabile, sempre da conquistare per l’elasticità del materiale. Partendo da due misteri contrapposti, l’erba come riferimento biologico e il materiale di produzione industriale come presenza artificiale, questa seduta, si pone nell’ambito delle ricerche formali volte a liberare la gente da alcuni condizionamenti del suo comportamento abituale.

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Divisumma 18 Mario Bellini 1972 Divisumma 18 è una calcolatrice elettronica portatile realizzata dalla Olivetti nel 1972 ed è attualmente esposta tra le collezioni permanenti del MoMa, Museum of Modern Art di New York. Bellini ha cercato di rendere un oggetto per ufficio un articolo familiare, piacevole, che avesse un anima e che non passasse inosservato. Il design distintivo è stato ottenuto tramite l’utilizzo di un corpo in plastica gialla dai lati anteriori e posteriori bombati. L’apparecchio presenta una tastiera ridotta, ricoperta da una membrana di gomma, a destra della quale sono situati i pulsanti delle quattro operazioni aritmetiche, del totale e del totale parziale. A sinistra della tastiera si trova il display a 12 cifre e il sistema di stampa delle operazioni svolte, funzionante con uno speciale rotolo di carta metallizzata, al di sotto della stampante si trovano l’interruttore per l’accensione della calcolatrice, la rotella per la selezione del numero di cifre decimali da adoperare e una spia luminosa per la segnalazione dello spegnimento. Sul lato inferiore dell’apparecchio si trova lo sportello asportabile per l’inserimento del rotolo di carta metallizzata. Anche il design interno della calcolatrice è stato bene curato, il meccanismo di stampa è situato sulla destra, i due circuiti sulla sinistra, e le cellule ricaricabili lungo la parte superiore. La parte posteriore della custodia riprende il design elegante della parte anteriore. La caratteristica che

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rendeva particolare la Divisumma 18 consisteva tanto nel rivestimento in gomma, che forniva una maggiore compattezza e una sensazione al tatto molto piacevole quanto nelle sue ridotte dimensioni. Nonostante l’aspetto elegante dei suoi tasti, sotto la membrana di gomma vi erano microinterruttori meccanici vecchio stile, essi avevano un tocco molto leggero e quindi erano facili da usare rapidamente, la superficie tuttavia si deformava in seguito all’utilizzo. La calcolatrice era venduta con una batteria ricaricabile di riserva, il cavo per l’allacciamento alla rete elettrica, una confezione di rotoli di carta metallizzata e una custodia in finta pelle per il trasporto. La calcolatrice, alimentata da due cellule ricaricabili da 4.8 w integrate all’interno


della struttura, è dotata di un caricabatterie in plastica gialla della stessa forma da applicare sul fianco sinistro dell’apparecchio, su cui si trova la presa bipolare per il collegamento del cavo di alimentazione. L’introduzione sul mercato di calcolatrici con display, unito all’eccessivo costo di produzione della tastiera in gomma limitarono la produzione della macchina a pochi esemplari, destinati a una ristretta cerchia di persone. Nel 1987 il Museum of Modern Art ha tenuto una retrospettiva dell’opera di Bellini. Cara McCarty, direttrice dello Smithsonian Design Museum di New York, scrisse della Divisumma 18: “Poiché la calcolatrice è un oggetto portatile è destinato ad essere tenuto in mano, Bellini lo ha personalizzato attraverso un uso creativo delle forme e dei materiali. Ciò che è particolarmente interessante è la tastiera flessibile in gomma e il suo “effetto pelle”. La pelle, che protegge la macchina dalla polvere, è antropomorficamente suggestiva. I pulsanti articolati, coperti con la pelle morbida gomma, sono come i capezzoli. L’enfasi non è sul calcolo e potenza, ma nello

stimolare un senso di piacere. Le risposte emotive non sono di solito associate con macchine calcolatrici, ma questo è un artefatto irresistibile. Non si può fare a meno di volerlo tenere, toccare e giocare con lui. “ Mario Bellini progettò nel 1972 la Divisumma 28, una versione fissa della Divisumma 18. Nonstante fosse una versione da tavolo, essa mantenne le caratteristiche di un oggetto non pesante, facile da utilizzare, morbido e gradevole al tatto, essendo fissa sul fondo presentava il connettore della presa dialimentazione e poteva ospitare un rullino di carta di maggiori dimensioni. Le versioni di Bellini si differenziano molto dal primo progetto di Divisumma dell’Olivetti: la Divisumma 24 del 1956, su disegno di Marcello Nizzoli, anch’essa esposta al MoMa di New York, che risultava però più ingombrante. Questo modello di calcolatrice da tavolo aveva una forma squadrata con la pulsantiera sulla parte sottostante di colore grigio, rialzata per facilitare la digitazione, con tasti in rilievo di colori diversi e con un corpo molto alto di colore nero per contenere e far scorrere il nastro di carta bianca. 81


Tizio Richard Sapper - 1972

Tizio è una lampada da tavolo progettata nel 1972 dal designer Richard Sapper per Artemide, un’azienda italiana specializzata nella realizzazione di accessori per l’illuminazione. L’utilizzo di soluzioni tecnologiche innovative per l’epoca ed il grande successo commerciale ottenuto negli anni rendono questa lampada rivoluzionaria, consacrandola tra le icone del design. Molti i premi ed i riconoscimenti vinti: oltre ad essere stata selezionata per il premio Compasso d’Oro nel 1979, è anche entrata a far parte della collezione permanente del MoMA di New York. Il concetto fondamentale che sta alla base della Tizio è avere una lampada da lavoro che accosti ad una forma snella un ampio raggio d’azione, in modo da concentrare la luce sulla scrivania solo dove serve. Inoltre Sapper voleva che fosse facilmente regolabile, anche con una sola mano, mediante movimenti fluidi delle sue parti. Una delle caratteristiche più innovative di questa lampada è l’assenza totale di fili che collegano la base alla testa. Grazie all’utilizzo di una lampadina alogena, che può essere alimentata a bassa tensione, l’elettricità viene fatta passare direttamente attraverso i bracci conduttori senza che questo crei un pericolo per chi tocca la lampada. Un’altra grande innovazione è la progettazione di un intelligente sistema di contrappesi che garantisce l’equilibrio della

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struttura e permette di spostare la lampada in ogni posizione desiderata. La Tizio è formata da una base che garantisce stabilità, nella quale è posto un trasformatore a bassa tensione, da due bracci dotati di contrappeso connessi tra loro da bottoni automatici (come quelli usati in ambito sartoriale) e da una testa dove risiede la lampadina alogena. Successivamente è stata aggiunta alla testa anche una piccola asta con funzione sia di regolare la posizione della lampada che di evitare il contatto della lampadina con la scrivania, viste le alte temperature raggiunte durante l’utilizzo. Inoltre mediante un pulsante sulla base è possibile regolare la luce


su due diverse intensità. produzione una nuova versione, la “Plus”, La lampada Tizio è stata prodotta con varie che prevede la possibilità di orientare la testa finiture e dimensioni. Il modello classico è la anche in senso trasversale. 50 (il numero si riferisce alla potenza in Watt della lampadina) con finitura nera. A questa sono state aggiunte la 35, di dimensione media, e la 20, che può essere usata come lampada da comodino. Oltre alla versione classica esiste anche con finitura bianca, color metallo e in alcune edizioni speciali in alluminio lucidato. In seguito è stata prodotta anche una versione da pavimento chiamata “Terra”, formata da un piedistallo cilindrico su cui poggia la classica Tizio. Artemide produce ancora oggi la Tizio, praticamente invariata nella forma. Le uniche modifiche effettuate riguardano il comparto tecnico: la lampadina alogena è stata sostituita da una più efficiente a LED. Recentemente è anche stata aggiunta alla

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Sciangai Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, Paolo Lomazzi – 1973 Sciangai è un appendiabiti progettato nel 1973 da Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi per Zanotta ed è esposto nei principali musei del mondo, dal Moma di New York al Kunstgewerbemuseum di Berlino, fino al Triennale Design Museum di Milano. La realizzazione di questo progetto è valsa ai tre designer italiani il premio “compasso d’oro’ nel 1979, il più antico e prestigioso riconoscimento legato al disegno industriale da parte dell’ADI, su un palcoscenico che vedeva premiati in quella edizione Bruno Munari, Sapper, Achille Castiglioni e Enzo Mari. Il materiale usato per la realizzazione è legno di faggio o rovere e viene tuttora proposto verniciato nelle due varianti lignee, al naturale oppure laccato bianco, nero, grigio, bordeaux, petrolio e wengé. Questo appendiabiti si ispira all’antico gioco cinese che consiste nel lasciare cadere dei bastoncini sottili di legno sul tavolo, per poi raccoglierli uno per uno tentando di non spostare gli altri. Nella configurazione aperta, l’appendiabiti sembra fotografare i bastoncini del gioco proprio nell’istante in cui, avendo il giocatore appena aperto la mano, essi cadono a ventaglio sul piano di appoggio. L’appendiabiti è completamente richiudibile, una volta chiuso si presenta come un mazzo di bastoncini allineati, e il suo ingombro è minimo: Sciangai misura 160x11 cm da chiuso e 145x65 cm da aperto, inoltre quando

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è chiuso non rivela la sua funzione finale. Queste particolarità permettono lo stoccaggio e il trasposto dello stesso in maniera più semplice ed inoltre risulta meno oneroso per l’azienda produttrice, il che rivela una ricerca nella praticità di utilizzo per l’acquirente. Ogni elemento in legno costituisce un appoggio a terra nella sua estremità inferiore e un sostegno per cappelli, cappotti e altri indumenti all’estremità opposta. I componenti, infatti, sono connessi tra di loro poco al di sopra del centro, creando un’ampia circonferenza di appoggi alla base che assicura la stabilità e una più raccolta serie di


ganci per gli abiti in sommità. Fa parte, de facto, di quella corrente che oggi definiamo come “Radical Design”, generatasi a cavallo del 1968, dove i designer trovano sbocco nella progettazione e ri-progettazione di oggetti in chiave ironica ed eccentrica, nel linguaggio e nelle forme d’uso, attraverso la destrutturazione dei classici stilemi fino ad allora concepiti. In piena visione radical, Sciangai si inserisce nel design di contestazione si diffonde velocemente affondando le radici geografiche della propria genesi a Firenze dove gravitavano Archizoom e Superstudio, per poi espandersi in tutto il panorama internazionale, prendendo spunto e ricollegandosi alla Pop art e perlomeno nei primi anni, anche alle avanguardie artistiche. Nel panorama nazionale trova mezzo di diffusione e divulgazione sulle pagine della rivista “Casabella” dove si coniava in varie declinazioni il prefisso nella parola “Radical” per quel movimento di rottura e contestazione totale con il passato. Innumerevoli gli esempi identificativi che, coetanei di Sciangai, escono dalla fantasia creativa in quegli anni, trasformando gli aspetti e le soluzioni abitative ovunque, usando, sperimentando e rendendo comuni anche nuovi materiali, plastica, gommapiuma, poliuretano e nylon in primis. Come la seduta “Galeotta” sempre frutto della collaborazione dei tre designer, che componendosi in tre singoli pezzi cambia la sua funzione da “lounge chaise” a meno ingombrante “meridienne”.

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Autoprogettazione? Enzo Mari – 1974

Nel 1974 Enzo Mari presenta il concetto del ‘Made in Italy’ con la sua proposta per un’ Autoprogettazione, nata come progetto ed in seguito divenuta un libro, la quale include oggetti di ogni tipo che sono utili in un ambiente domestico e che incorporano il concetto del “fai da te”. “Un progetto per la realizzazione di mobili con semplici assemblaggi di tavole grezze e chiodi da parte di chi lo utilizzerà”, con queste parole Enzo Mari ci introduce cos’è l’ Autoprogettazione. Mari crede fermamente che questa sia: “una tecnica elementare perché ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica”. Usando i suoi progetti strutturali chiunque poteva creare l’oggetto che desiderava con le proprie mani e inviare una foto della sua versione presso lo studio di Mari a Milano. Tra gli oggetti più famosi ricordiamo la Sedia 1, che mostra una tipologia di sedia semplificata al massimo. Questo perché non si tratta di un design finale e Mari ribatte che questa sedia e le altre sue creazioni per un’ Autoprogettazione sono dei suggerimenti o dei punti di partenza. Della misura di 52x50x85 la Sedia 1 è la base per una forma più complessa di una sedia a base di legno. Nel progetto della Sedia 1 Mari sollecita l’utilizzo di chiodi e sottolinea come la sedia, così come gli altri suoi oggetti, siano stati creati a mano prima di essere disegnati.

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La sedia 1, tra i modelli creati da Mari, è l’esempio perfetto di come questi oggetti siano da utilizzare “solo come sollecitazione e non come modello da ripetere” affinché ognuno sia libero di creare liberamente il proprio oggetto. Il Tavolo 2, meglio noto come Tavolo Quadrato, ha una struttura sottostante al piano d’appoggio molto articolata, con 3 assi per lato “poste in posizione conficcata” per ottenere la stabilità dell’oggetto. Della misura di 140x140x70 il Tavolo Quadrato è uno degli oggetti in cui Mari descrive il lato economico del suo progetto:


“come qualsiasi tavolo, per fare questo esempio, prodotto correttamente con la macchina, richiede non più del trenta per cento del materiale impiegato nei modelli proposti con risultati di solidità e di durata ben superiore”. E sottolinea come il legno utilizzato non sia un’opposizione alla produzione di oggetti con l’ausilio di macchinari né “la riproposta di un materiale di antica tradizione rispetto a quei materiali moderni”, ma che la scelta di questo materiale e la sua tecnica fossero le uniche opzioni per la realizzazione di questo progetto. Designer Italiano nato a Cerano nel 1932, Enzo Mari prende posto nel mondo del design tra i più importanti creatori di oggetti del made in Italy. Formatosi in letteratura ed arte all’accademia di Brera nel 1956, si dedica subito al design industriale il quale gli permette la libera espressione della sua visione di come il design influisca sulla

vita quotidiana di tutti noi. Durante la sua carriera lavorativa oltre alle sue creazioni, Mari si unisce a vari movimenti legati al design e ha numerosi impieghi come docente.

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Proust Alessandro Mendini – 1978

La poltrona Proust è una seduta collocabile all’interno del design postmoderno disegnata da Alessandro Mendini nel 1978 . L’idea nacque durante un viaggio in Veneto durante il quale venne trovata una poltrona in stile settecentesco: un finto in stile, la cui struttura era decorata a mano a pennello in colori acrilici, assieme al tessuto, con una texture ripresa da alcuni particolari dei quadri di Paul Signac. La scelta era mirata in modo che la poltrona non avesse riferibilità filologica. Già nel 1976 Mendini aveva iniziato a pensare alla realizzazione di un “tessuto Proust”, un tessuto che nascesse dalle sollecitazione letterarie ed pittoriche, come impressionismo, divisionismo e puntinismo, legate allo scrittore francese Marcel Proust, persona vicina ai pointillisti francesi. L’idea non ebbe seguito, ma si sviluppò due anni dopo nell’idea della “poltrona di Proust”. La prima Poltrona Proust esordì nel 1978 a Palazzo dei Diamanti a Ferrara per la mostra “Incontri ravvicinati di architettura” a cura di Andrea Branzi ed Ettore Sottsass realizzata nel 1978: era uno dei vari elementi di arredo e design presenti nella “Sala del Secolo”, poi traslata alla Biennale di Venezia organizzata da Paolo Portoghesi. Questo primo esemplare fa parte da vari anni della collezione di Guido Antonello a Milano. Nei dieci anni seguenti ne furono realizzate altre versioni, tutte realizzate a mano e personalmente controllate da Mendini, che

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ne ha anche firmate alcune. Qualcuna di queste è oggi in collezioni private o gallerie d’arte, mentre altre sono esposte in musei: una è al Museo d’Arti Applicate di Gand in Belgio, due sono al Groninger Museum in Olanda, una è al Museum Kunstpalast di Düsseldorf, una al Museum für angewandte Kunst di Vienna, una al Vitra Design Museum di Weil-am-Rhein, una al Die Neue Sammlung di Norimberga. Dopo una breve interruzione, dovuta all’impossibilità di Mendini di sovrintendere


ogni pezzo, nel 1989 riprende la produzione. Da allora la serie è continuata, anche con singole poltrone realizzate in materiali diversi come bronzo e ceramica. Da alcuni anni è Claudia Mendini, nipote di Alessandro, a dipingere le singole poltrone, sempre in collaborazione e con la supervisione dell’autore. Ne esistono alcune varianti, approntate da aziende di design. Cappellini nel 1993 commercializza la Proust Geometrica: sono mantenute le forme originali e la lavorazione a mano, ma il tessuto è rinnovato nella decorazione e nei colori, ottenendo due versioni cromatiche: multicolor azzurro/ grigio/giallo e multicolor nero/verde/rosso.

Per il marchio Magis Mendini ne ha progettata una interamente realizzata in polietilene: a tinta unita e disponibile in sei colore base, adatta anche agli ambienti esterni. Per questo motivo è stata prevista tra la seduta e lo schienale una piccola fessura in modo che l’acqua piovana possa scolare. Per Superego nel 2009 Mendini approva una serie in tiratura limitata di poltrone Proust in ceramica e in miniatura, di circa 40 centimetri d’altezza, mentre per Robot City nel 2014 Mendini ne realizza una versione in marmo di Carrara in tiratura limitata.

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9090 Richard Sapper - 1979

9090 è una caffettiera espresso progettata dal designer tedesco Richard Sapper nel 1979 per Alessi che ha vinto il premio Compasso d’oro nello stesso anno.Inoltre la 9090 è la prima caffettiera mai prodotta da Alessi, nonché il primo oggetto di cucina dopo quelli degli anni ’30, ed il primo oggetto di quest’azienda ad essere esposto nella collezione permanente del MOMA, il Museum of Modern Art di New York. I motivi per cui questa moka è una delle più famose di Alessi, se non la più famosa, sono varie, date dalle innovazioni che Sapper ha saputo dare al progetto: una di queste è la particolarità della forma della moka e della base. La 9090 è di forma cilindrica, con la base più larga rispetto alla parte superiore, la quale ha una superficie di contatto con la fiamma più ampia rispetto ad una moka tradizionale. Questo è reso possibile grazie alla particolare forma data alla base stessa, composta da anelli posizionati a serpentina, facendo cosi aumentare la superficie a contatto con il calore e al tempo stesso diminuendo il tempo di riscaldamento dell’acqua all’interno. Tutto ciò rende più veloce la fuoriuscita del caffè. Sapper dichiarò in un celebre discorso: “Volevo dare a questa macchina delle prestazioni che le altre non hanno. Come la possibilità di aprirla di aprirla e lavarla con una mano sola. Volevo sfruttare meglio il fuoco, e per questo si allarga alla base, anche

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per proteggere il manico dal fuoco.” Altre particolarità della 9090 sono nella forma del beccuccio da dove fuoriesce il caffè per essere versato e nel modo in cui questa moka si apre. Il beccuccio della moka ha una forma particolare, non presente nelle caffettiere moka tradizionali, la quale si è rivelata molto funzionale e comoda nel versare il caffè, ripresa dal prototipo originale di Sapper.


Il modo di aprire la moka, per poter procedere alla preparazione del caffè, è stato totalmente ripensato e rivisto, usando appunto una parte della moka che fino ad allora aveva solo la funzione di impugnatura: il manico. La 9090 infatti si apre agendo sul manico stesso, il quale si sgancia nella parte inferiore, aprendo così la moka, si fa poi scivolare la parte superiore della moka in avanti e si ha la 9090 aperta. Questo sistema è vantaggioso, in quanto non si ha bisogno di filettature per unire le parti della moka, semplificando così l’apertura e la chiusura, e velocizzando appunto i movimenti necessari per poterla aprire: un vero esempio di soluzione semplice e funzionale. Il manico è, come il corpo della moka, fatto di un materiale ferroso, ma di composizione diversa rispetto al resto dell’ oggetto. Grazie a questa diversa composizione esso non si surriscalda, permettendo di poterlo impugnare senza il rischio di scottarsi. Sapper dichiarò al riguardo: “Non volevo fare una maniglia di plastica perché prima o poi finiscono col bruciarsi tutte e allora butti via anche la macchina del caffé.”

oggi nel museo Alessi. Dopo vari tentativi, Il progetto della 9090 venne presentato da arrivarono alla forma che ha ancora oggi la Sapper alla Alessi non sotto forma di disegno, moka. bensì con un modellino da lui costruito I progetti di Sapper non venivano disegnati composto da fogli A4, matite e un tubo da lui, infatti nel suo studio non vi erano di Scottex: originariamente, le 4 aste che disegni, ma venivano fatti fare a terzi, sotto la sono alle estremità dovevano rappresentare supervisione di Sapper in persona, seguendo l’impugnatura della moka ma in seguito, con meticolosamente le sue indicazioni inerenti al lo sviluppo del prodotto, vennero tolte. progetto. Il progetto andò avanti, e Sapper iniziò a far realizzare diversi modelli in legno e in acciaio da un tornitore, i quali sono esposti ancora

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Carlton Ettore Sottsass 1981 La Carlton è una libreria progettata da Ettore Sottsass nel 1981 per Memphis Design. Questo oggetto è una scaffalatura totemica, che andrebbe pertanto sistemata al centro della stanza o come parete divisoria dell’ambiente e non come una classica libreria

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a muro. La funzionalità è assolutamente ridotta e non è obiettivo progettuale, in quanto i componenti che dovrebbero essere verticali, sono in realtà obliqui. Questi particolari rendono virtualmente inutilizzabile l’oggetto, poiché l’intento è quello di realizzare qualcosa che si avvicini maggiormente a un’opera d’arte che non ad un oggetto funzionale. Viene a sparire una certa ortogonalità prevedibile e presente nella maggior parte di questo tipo di arredi. I colori variopinti e misti vogliono giocare con il gusto kitsch ed il grottesco, così come la scelta di utilizzare materiali poveri ed economici come il laminato. Essendo la Carlton un oggetto antifunzionale e dall’estetica totalmente estrema e brutale, è molto più interessante analizzarla dal punto di vista sociologico che da quello progettuale. La Carlton nasce come elemento di rottura, in piena filosofia Memphis. Il Gruppo Memphis è stato un collettivo di progettazione attivo tra il 1981 e il 1987 fondato dallo stesso Sottsass, che però lasciò il gruppo già nel 1985. Il nome del gruppo, così come anche gli oggetti, giocano su questa dicotomia culturale data dalla quasi omonimia tra la città natale di Elvis Presley, Memphis, e la città di Menfi dell’antico Egitto. Ad ispirare questo gioco di parole fu la canzone di Bob Dylan “Stuck inside of mobile”, il cui vinile si bloccò sulla frase «with the Memphis Blues Again» durante la riunione di costituzione del collettivo.


Lo stile del gruppo Memphis gioca sui luoghi comuni e sui movimenti culturali di portata più popolare, con la scelta di materiali più bistrattati ma al contempo di uso più comune. Questo, in controtendenza con il mondo elitario e cervellotico che aveva contraddistinto il mondo del design fino a quel momento.

L’esperienza del collettivo Memphis è stata di breve durata ma ha influenzato profondamente artisti, musicisti e stilisti, rivelandosi un movimento che non ha riguardato solamente il mondo del design ma che è stato capace di avere influenza su personaggi in svariati ambiti tra loro differenti, come David Bowie e Karl Lagerfield. 93


Tolomeo Michele De Lucchi - Giancarlo Fassina -1987

Tolomeo è una lampada a braccio da tavolo progettata dal designer Michele De Lucchi e prodotta dall’azienda italiana Artemide a partire dal 1987. Riscosse grandi consensi alla presentazione milanese di Euroluce 1987, quando ancora era allo stato di prototipo, e ricevette una lunga serie di premi e riconoscimenti, tra cui il Compasso d’Oro nel 1989. La lampada da tavolo Tolomeo ha bracci e testa orientabili in tutte le direzioni ed è concepita per diversi tipi di utilizzo: con una base,un morsetto o un supporto fisso ottenendo così le diverse versioni. Grazie a un gioco di molle e di tiranti, può essere direzionata in modo variabile. La fonte luminosa è costituita da una lampadina a incandescenza che può essere spostata nei vari punti per mezzo dei suoi lunghi bracci, come una sorta di grande compasso ad ampia apertura. Tolomeo è un oggetto dal design ammirevole per la leggerezza e la purezza delle forme: un modello del 1987 ma ancora oggi intramontabile. Il modello da tavolo o da scrivania, è una rivisitazione delle tradizionali lampade a molla di una volta, ma reinterpretate con tecnologie moderne e linee contemporanee. Nacque negli anni ‘80 l’esigenza di creare una nuova lampada da scrivania che fosse regolabile e con la quale si potesse orientare semplicemente il fascio di luce. De Lucchi, affrontando il tema dal punto di vista tecnologico disse: “Il vero problema della lampada da tavolo è

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quello di studiare la frizione. Io avevo degli esperimenti in atto con l’elastico e con gli ingranaggi da cui sono derivate poi altre lampade ma volevo verificare altre soluzioni possibili. Studiando quali sono le possibilità per fare delle lampade da tavolo, viene fuori che, in realtà, ci sono tre possibilità: una è la frizione tradizionale, grosso snodo con grande superficie di attrito, un’altra è evitare la frizione mettendo un contrappeso e in questo caso l’esempio più bello è la Tizio di Sapper, mentre la terza possibilità è la molla, di cui esiste l’esempio stupendo della Naska Loris. Girando sempre attorno a queste tre possibilità, alla fine, quella che mi è sembrata la più intelligente era la molla e allora ho cominciato a lavorare su quella”. Nasce , prima della lampada stessa, l’idea di un nuovo meccanismo, osservando per caso un pescatore che tirava faticosamente una canna per issare la sua rete.


Per rendere più agile l’operazione l’uomo aveva fissato a terra l’asta e la issava tirando una corda collegata alla cima dell’asta con una carrucola. “Mi sembrava intelligente che, con un piccolo braccio di leva e un cavo, si potesse sospendere un’asta alla quale attaccare qualche cosa, ma non avevo ancora pensato di applicare questa suggestione a una lampada”. Indagando sul principio della molla, il designer ferrarese cercò di occultarla il più possibile, migliorando l’aspetto estetico e giocando sulla misteriosità del meccanismo. De Lucchi presentò l’idea del nuovo meccanismo a Ernesto Gismondi, fondatore di Artemide, che ne volle fare subito un prototipo in alluminio che però non funzionò: fu Giancarlo Fassina, al tempo direttore tecnico della ricerca in Artemide a suggerire di sostituire l’alluminio delle pulegge con il nylon. Per la messa a punto dei meccanismi del progetto è stato importante il contributo di quest’ultimo, con il quale De Lucchi ha

ritenuto di condividere la firma. Si arrivò al risultato della lampada da tavolo attuale, con la struttura composta da bracci di alluminio lucido, piedistallo tondo, calotta tronco-conica: proprio quest’ultima è una delle caratteristiche della Tolomeo, rimpicciolita rispetto alla precedente Luxo, e con un foro per il raffreddamento della zona della lampadina. La Tolomeo è ancora oggi in produzione ed il diffusore è disponibile in alluminio opaco, in carta pergamena, in seta di raso o ad anello in acciaio inox.

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Rotor Rodolfo Bonetto – 1987

Il telefono pubblico Rotor fu progettato da Rodolfo Bonetto e prodotto da IPM, Industria Politecnica Meridionale, nel 1987 per l’allora azienda SIP - Società Italiana Per l’Esercizio delle Telecomunicazioni, poi trasformatasi in Telecom, rappresenta uno degli oggetti pubblici più evocativi degli anni ’80 e ha rappresentato un punto di riferimento per un’intera generazione. Questo telefono ha accompagnato l’Italia nel suo passaggio dalla Lira all’ Euro, ma venne inizialmente prodotto considerando la possibilità di inserire unicamente monete da 100, 200 o 500 lire o il classico gettone telefonico del valore di 200 Lire e solo successivamente venne aggiunto un supporto laterale per le schede telefoniche. La struttura del Rotor era costituita da una carcassa di acciaio spessa 3 millimetri, dalla forma molto squadrata e geometrica ma funzionale, rivestita da vernice antiossidante e resistente a graffi ed abrasioni, la cornetta era in plastica molto resistente agli urti. Il Rotor ha un display numerico a 16 cifre, con tecnologia LCD a segmenti. Questo telefono con gli anni risultò essere davvero indistruttibile e resistente ad atti di vandalismo ed intemperie. Le sue dimensioni nella versione “solo a gettoni” erano di 440×240×185 mm per 16 kg di peso, mentre nella versione con scheda telefonica erano di 705×240×185 mm per 32 kg di peso.

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I colori richiamavano alla mente immediatamente la società telefonica pubblica, con un arancione acceso che rivestiva l’acciaio nella parte anteriore, le parti in polimero nere e la parte posteriore e il contenitore delle monete grigi. Il progetto era molto intuitivo per qualunque fruitore: un pannello esplicativo del funzionamento nella parte centrale in alto, posizionata sotto il display, indicava durante la composizione numerica il numero che si stava chiamando e successivamente l’importo in lire ancora disponibile. La piastrina con fessura in alto dove inserire il denaro era inclinata, come la parte centrale su cui erano collocati il pannello selettore e la cornetta. In basso, ben visibile, vi era la bocchetta da cui ritirare il denaro rimanente con il resto espulso dalla macchina. Stessa logica di funzionamento anche nella versione a carta telefonica, in cui in aggiunta troviamo spie che si illuminavano, per permettere all’utente di capire dove inserire e dove ritirare la scheda nei vari passaggi di utilizzo. La cornetta anch’essa dalla forma molto semplice e allungata era facilmente afferrabile sia da adulti che da bambini. Il Rotor non venne mai convertito per accettare l’Euro e dal 2002 venne man mano sostituito dal successivo telefono pubblico “Digito” prodotto da Urmet e IPM Group.

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Ghost Cini Boeri - 1987

Ghost è una poltrona in vetro progettata da Cini Boeri, realizzata da FIAM. Questa seduta rapppresenta di fatto una poltrona mai realizzata prima; una seduta che non si vede, cioè trasparente, che grazie alla sua virtuale invisibilità si distingue dalle altre concorrenti sul mercato dell’home design. La poltrona prende forma a partire da un’unica lastra di vetro dello spessore di 12 millimetri, prima incisa da un getto d’acqua ad alta pressione e alta velocità (1000 metri

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al secondo) con cui viene ricavato un unico taglio precisissimo e poi formata a caldo (cioè curvata). Il progetto verte sul piegare un rettangolo di vetro, curvarlo a dovere dopo aver inciso un taglio longitudinale che a a disegare effettivamente le forme del’oggetto. Come spesso accade nel design italiano, alla base vi è un’idea elementare, di quelle che sono tanto semplici che finiscono per portare nei musei in giro per il mondo un oggetto di uso comune che ridefinisce dei canoni estetici


e funzionali. Il vetro temperato crea una struttura sottilissima, che tuttavia non va a incidere sulla solidità del prodotto. Il risultato finale è quello di una seduta monomaterica e realizzata in un solo componente, un traguardo che è stato spesso seguito nella storia del design mondiale e che vide la sua prima effettiva incarnazione nella celeberrima Panton chair. Il vetro, di certo non di facile lavorazione, sia nella flessione che nel taglio, non si è dimostrato materiale così ostile ad una progettista abituata da sempre a lavorare con materie morbide e tondeggianti, che in precedenza le erano valsi addirittura il compasso d’oro ed un grande successo commerciale in collaborazione con Arflex.

La seduta è come generata da un origami orientale, in cui la piegatura serve non solo a offrire comfort all’utilizzatore, ma anche a creare solidità e strutturalità. Altro aspetto interessante è la scelta del nome Ghost, che va ad enfatizzare ancora la fisicità effimera della poltrona, che non è soltanto trasparente, ma anche alleggerita di qualsiasi componente. Se si esamina con attenzione la storia del design, rimangono effettivamente pochi casi di poltrone, definibili tali sotto ogni aspetto che riescono a fare a meno di ogni imbottitura. Cini Boeri, pseudonimo del designer e architetto Maria Cristina Damiani Dameno, progetta quindi a fine anni ’80, una seduta che ha pochi eguali e che presenta ancora oggi aspetti tecnici e soluzioni formali assolutamente interessanti.

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Anna G. Alessandro Mendini 1994 Il design originale di Anna G. è nato da una collaborazione di Alessi e Philips: Alessandro Mendini e Alberto Alessi hanno ripreso le forme del design olandese, dopo aver sviluppato una serie di elettrodomestici da cucina. Questa è una cooperazione eccezionale che sancisce l’accordo tra la fabbrica del design italiano e la nota società multinazionale, dal quale nacquero numerosi oggetti di successo. Per rinforzare la catena di design, Stefano Marzan, Design Director di Philips, decise di creare una mascotte e commissionò ad Alessi questo progetto: nacque così “Anna G”. L’oggetto è un apribottiglie, che si rifà alla figura femminile di Anna Gili,designer e artista, come omaggio a lei dedicato. Alessandro Mendini ha voluto riprodurre una persona vera per rendere il prodotto vivace e attraente,negando l’iniziale rigidità del cavatappi. Nel 1994, nasce la prima Alessi “Anna G”, grazie alla semplificazione della forma assieme all’uso di colori vivaci: la prima versione venne creata con 4 colori diversi : blu, rosso, giallo e verde. Il materiale è la resina termoplastica con lega di zinco cromato,ogni pezzo ha in abbinamento una collana. Il meccanismo si basa su una semplice rotazione del pollice e dell’indice sulla superficie semisferica, per ridurre la forza applicata. Con l’andar del tempo, oltre ad aggiungere i nuovi colori, furono create

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delle edizioni limitate di “Anna G” . Grazie al suo stile intrigante, questo oggetto ebbe un grande successo, e ne furono venduti 1.5 milioni. Fin dall’inizio molto popolare nel mondo, Alessi considera l’apribottiglie di “Anna G” come un modello di design del ventesimo secolo, non solo per il nome, ma anche perché è il re-design di prodotti per la casa tradizionale. Si può dire che tale prodotto sia diventato un simbolo dello spirito per Alessi, al punto che


oggi, alle porte della sede di Alessi, si erge una statua di “Anna G”. Alessandro Mendini dichiarò al riguardo: “Spesso mi concentro sull’osservazione della statura umana e dell’aspetto. Questo come arma, sia in arte o in creazione architettonica, questo è il modo più antico, ma duraturo, All’inizio della creazione, io rivisito l’animato dell’artista tedesco (Oscar Schlemmer). Inoltre, e mi ricordo di mia nonna che apre la bottiglia sul tavolo, come un meraviglioso e commovente spettacolo. Quello che ho deciso di fare è un prodotto antropomorfo.” Poi, col passare del tempo si creò un’intera gamma di oggetti che, seguendo lo stile di “Anna G”, ricrearono la tipica famiglia italiana. Alessandro Mendini ha progettato nel 2003 un secondo personaggio, “Alessandro M”: un apribottiglie a forma di uomo con la bombetta. Si tratta di un autoritratto del designer, forse un po’ geloso del grande successo ottenuto dal primo prodotto “Anna G”.

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Zoombike Richard Sapper – 1994

Zoombike è un modello speciale di bicicletta ideata nel 1994 da Richard Sapper per Elettromontaggi che vinse il premio Compasso d’Oro nel 1998 ed in seguito l’ Industrie Forum Design Award 2001 di Hannover. Il veicolo presenta le stesse dimensioni di una normale bicicletta, ma a differenza dei modelli classici è totalmente piegabile. Una volta rilasciati i blocchi il telaio si piega comodamente riducendosi ad un volume compatto, mentre impugnandola dal sellino la bicicletta viene spinta scaricandone l’intero peso sulla ruota, che le permette di aprirsi in totale scioltezza. Viene realizzata con due freni a tamburo, catena a scomparsa all’interno dello chassis, sellino regolabile e un sistema di ammortizzazione anteriore. I rapporti di trasmissione, nonostante le ruote di piccole dimensioni, sono identici a una normale bicicletta da strada. Le ruote a disco esercitano una minima resistenza all’aria, aumentando l’efficienza meccanica. La bicicletta è composta di tre ingranaggi, interamente costruita in alluminio con un peso di soli 10kg. Ogni dettaglio del progetto venne sottoposto a numerose e continue verifiche, arrivando alla realizzazione di prototipi perfetti sotto l’aspetto tecnico. Ciascuna bicicletta è composta da 250 pezzi. Questa bici dà la possibilità di riporla in spazi anche molto stretti, come ad esempio dentro

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gli armadi, oppure di essere trasportata all’interno di un altro veicolo e utilizzata in caso di necessità e per questo motivo venne definita da Sapper “bicicletta intraveicolare”. Fu proprio quest’ultimo motivo che spinse e guidò Sapper nella realizzazione di tale progetto: un veicolo che potesse essere sempre portato appresso da chiunque come fosse un ombrello, così da incentivare le persone all’utilizzo dei mezzi pubblici. Sapper notò che le biciclette pieghevoli tradizionali richiedevano troppo tempo per essere montate e smontate, inoltre erano scomode da portare in giro ed erano poco sicure, in quanto troppo corte rispetto alla lunghezza della bici normale. Vennero realizzati disegni e modelli in legno della bicicletta come guida nella realizzazione. Si è pensato anche ad una versione più leggera in lega di magnesio, in fase di sviluppo.


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con il contributo di Baggio dal 1919 - Torino

Finito di stampare nel mese di settembre 2017. Tutti i diritti riservati. Foto Š degli aventi diritto.

Š Modulo Edizioni / Michele Albera – Direttore editoriale Luca Calderan

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“Un buon progetto non nasce dall'ambizione di lasciare un segno, il segno del designer, ma dalla volontà di instaurare uno scambio anche piccolo con l'ignoto personaggio che userà l'oggetto da noi progettato.” Achille Castiglioni

€ 18,00 106

Baggio dal 1919 Torino


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