Vénti sul quadrante

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Ghiribizzi

1 Collana curata da Giulia Belgioioso, Marta Fattori, Anna Palmieri, Beatrice Stasi

Una collana che accoglie composizioni letterarie, trattatelli originali e bizzarri, ragionamenti e operette curiose, capricciose e serie.



Ettore Carpegna VĂŠnti sul quadrante


Copyright Š 2016 Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. ISBN 978 - 88 - 7048 - 632 - 2

Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. Viale M. De Pietro, 9 - 73100 Lecce Tel. e fax 0832/241131 Sito internet: www.milellalecce.it email: leccespaziovivo@tiscali.it Impaginazione e copertina: Emanuele Augieri


Indice

Prefazione pag. 9 Avvertenza » 23 La lettera La regola Le parole La città La sconosciuta I pensieri ovvero del destino Il sosia o dell’indifferenza L’ospite ovvero dell’attesa Gaetanino ovvero dei nomi Arianna o della vita tradita Il pezzente L’azione Le due signore L’aoristo Il tribunale

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Prefazione

Quindici racconti (polizieschi? filosofici? onirici? psicanalitici?), talora brevi, ognuno dei quali ha una sua precisa autonomia, un suo sviluppo individuale, con un principio e una fine, ma tra loro tutti reciprocamente connessi da fili che si intrecciano, da un’avvertenza intrigante che, con metodo filologico, denuncia omissis e lacune, ipotizza varianti, da un protagonista del quale forse, è possibile, si dovrebbe, accadrà di conoscere l’identità e la personalità (ma è vero? accertato? verificato?) e che ci trascina, concedendoci e concedendosi pennellate di realismo descrittivo e di ironica autoanalisi, nella sua vita quotidiana; questa si svolge forse in un commissariato o in una stanza d’ospedale o per le vie di Roma e il protagonista la percorre attraverso i suoi giochi enigmistici e linguistici, le sue stanchezze fisiche e psichiche, attraverso le sue indagini attente e professionali, solitario e burbero e insieme sentimentale, malinconico, generoso. Anche le indagini appaiono essere storie di un vissuto interiore che si fa realtà e di vissuti antichi e recenti che la memoria volontaria ricostruisce in quanto accaduti. Un romanzo, di fatto: i singoli racconti costituiscono i segmenti di un vissuto, in cui e attraverso il quale, il protagonista tenta di mettere 9


insieme le tessere della sua identità; talora si identifica o si proietta in identità di altri, in un altrove: cerca infine quella sintesi tra parole e cose che gli sfugge, lo irrita e lo stanca, lo sfianca fino a decidere, talora, di non riconoscersi e aspetta dagli altri, dall’altrove, dall’altro (il pezzente, Gaetanino, il sosia, l’ospite) la sola possibilità di una pur frammentaria sintesi. La personalità del protagonista, autore del manoscritto che, stando alle regole, avrebbe dovuto essere cestinato, essendo pervenuto all’Archivio del manoscritto e dei dattiloscritti recenti (A.M.D.Re) privo di mittente e di indirizzo, si costruisce attraverso addizioni di notizie (che dato lo stato del manoscritto sono discontinue e non verificabili). Fin dal primo racconto si ha notizia di una lettera indirizzata a E. L. Piccinini (p. 28) e questo nome, Piccinini, viene confermato quasi sempre, anche nell’inquietante racconto Il sosia, e messo forse in dubbio dalla variante A. F. Piccini: variante che ci viene offerta dallo stesso commissario Piccinini che chiede all’ispettore di turno di «aprire un’inchiesta della massima urgenza contro A. F. Piccini, nato il 15 luglio 1950 a Viterbo» (L’aoristo, p. 124); e ancora, e di più, nel racconto I pensieri ovvero del destino dove il dubbio su nome e mestiere (professore invece di commissario) sembra sancito da un’antica conoscente, titolare di una libreria di Cinecittà, di cui il protagonista era stato abituale cliente quando si era trasferito a Roma, quasi fosse impossibile, per il commissario, darsi un nome e un mestiere definitivi: 10


La signora Anna fu contenta di vedere il commissario, che la salutò, contento a sua volta di rivederla. Sapeva che il commissario non abitava più in zona e il commissario ne era sollevato perché ciò lo dispensava dal dover trovare giustificazioni (p. 54).

Il protagonista appare incapace di accettare questo riconoscimento troppo reale, troppo banale, troppo ovvio e finisce col farsi investire da un suv: La caduta fu fragorosa, attorno la gente si accalcò per portare i primi soccorsi, il suv continuò per la sua strada, dalla libreria la signora telefonò: mandate subito un’ambulanza, è grave, sospirò, è questione di minuti, il prof. M*** è stato investito (p. 55).

La città dove vive il protagonista con tutti i suoi doppi, i suoi sosia, i protagonisti della sua vita e delle sue indagini (la sconosciuta, l’aguzzino, l’ospite, Gaetanino, il pezzente, Emma, Giustina, Arianna), dei suoi giochi enigmistici (Spinoza, Leibniz, Agostino, Montale, Zopiro ad esempio), è Roma, nei suoi quartieri conosciuti: il Nomentano, dove lavora o sembra lavorare, da via Catania fino a Porta Pia; nei pressi di Piazza Mazzini, in via Oslavia, nella casa ereditata dove, al posto del suo nome, «aveva preferito lasciare quello dei vecchi proprietari» (p. 58), e dove frequenta, sia pure in incognito, la pasticceria Antonini di via Sabotino; piazza del Pantheon e Torre Argentina, fino a via Nazionale, nei pressi della quale si sofferma a rimirare la vetrina bibliografica della libreria Tombo11


lini. Forse è nato a Viterbo, a Roma si è trasferito per studio, ma i luoghi di Roma sono i suoi luoghi ed una vera identificazione è quella fra la sua decadenza e quella eterna della città: A Roma era arrivato per studiare e aveva finito col restarci. Gli anni che vi aveva trascorso avevano solo attenuato la sua cadenza e, certo, nessuno l’avrebbe mai scambiato per un romano. Solo ad una seconda lettura si accorse che in quel giudizio, apparentemente così severo e di condanna, in realtà si celava un’affermazione di eternità. La sua decadenza non finirà mai! Roma non finirà mai! Città eterna perché eternamente decadente. Si sentì sollevato e assaporò come una rivincita sull’antiromanità dei secoli. Quei nani, accecati dall’invidia (perché, ne era convito, di invidia si trattava, raramente di delusione), neppure erano capaci di sollevare gli occhi, figurarsi chieder loro di salire sulle spalle… di Roma per guardare oltre o dentro sé stessi. Dall’alto (La città, p. 41).

Ma anche questa Roma, che ama e della quale si sente cittadino, l’attribuisce ad una scelta a lui esterna: Si fermò davanti al Pantheon. […] amava quella piazza. Nonostante i turisti e le scolaresche scomposte, manteneva una dimensione cittadina. Amava i suoi caffè e le vie che vi confluivano. […] Quella piazza gli ricordava sua moglie, le passeggiate tra la Minerva e Sant’Ivo alla Sapienza. Erano stati troppo poco insieme. A Roma era restato per lei e, certo, l’avrebbe seguita anche altrove. […] (p. 42). 12


Il commissario, spesso scravattato e sudato, appesantito e stanco, indifferente e allo stesso tempo sensibile – «Era il suo lato debole, sentimentale, era capace di intenerirsi di fronte a un gatto morto, lasciato per strada, o agli occhi del suo cane quando quella bestiola capiva che l’avrebbe lasciata sola» (Arianna o della vita tradita, p. 87) – nei suoi monologhi, risultati e sintomi del suo male, ormai quasi impossibilitato a leggere perché «da quando era entrato in polizia non aveva più tempo» (Le parole, p. 36), riflette, discetta interiormente, trova significato e raramente tranquillità, nelle parole, nei giochi linguistici, nei dizionari, modello ed exemplum delle sue agende, delle sue classificazioni, delle sue tassonomie: «Per un attimo, il tempo di arrivare a via Volturno per prendere il 60, provò un’intima soddisfazione, per parole e cose. Per sé stesso» (p. 38). La soluzione di parole incrociate – un momento distensivo, la cui soluzione apparentemente rapsodica e casuale è gratificante e insieme risultato di un processo interiore che è storia e vicissitudini di vita – cristallizza parole che esse stesse rinviano a momenti della vita, tessere di un mosaico nel quale il protagonista colloca le sue diverse identità, che sono anche da nascondere, da tenere segrete, da uccidere – Biagini, l’aguzzino, sé stesso –; per il protagonista il cruciverba è la cura «per tenere allenata la testa senza pensare» (Il sosia, p. 67). Quasi il pensare potesse costituire la fatica di vivere: «Estrasse dalla tasca del cappotto una vecchia settimana enigmistica, aveva 13


bisogno di non pensare» (L’ospite, p. 77). In questo continuo gioco prismatico, le parole, tutte cariche di significati storici e individuali, anche se apparentemente isolate e casuali, giocano il ruolo delle intermittenze del cuore di Proust, e mettono in gioco la memoria volontaria, ma soprattutto quella spontanea, sollecitata da una casuale sensazione – odore di incenso oppure della folla, colori, sguardi che si incrociano – che ci rituffa nel passato con un percorso alogico. Ognuna delle parole che il protagonista trova nel gioco del cruciverba – Intrédima, Spinoza, Lanzarote, Argan, Agostino, Pelagio, Leibniz, Zopiro, Kyrillov, Alioscia, Pavese, De Saussure, Lorca, Proust, Simone il fariseo, Hegel, Montale, Borges e altre – e questo può accadere ovunque, per strada o quando si sveglia la mattina, nella camera d’ospedale o a casa spaparanzato in una poltrona –, costruiscono un intreccio emotivo del suo vissuto; parole casuali che il protagonista trova in base a una definizione di un casuale cruciverba, ma tutte quante rinviano – nei singoli autonomi racconti – alla sua ricerca di un frammento di identità, che a sua volta rinvia ad un altro racconto, prima o dopo, e a un altro ancora, al tentativo che si rivela nello stesso tempo semplice e metafisico di identificare, per esempio, quel sosia che una mattina vede nello specchio del lavandino, ma che non riconosce, né come sé né come altro da sé, invaso dallo stupore, una volta sceso in strada, perché è salutato e riconosciuto e omaggiato (come commissario) nei luoghi e nei posti dove era viceversa certo che nessuno 14


lo potesse riconoscere, distrutto quando il vissuto emotivo sembra costringerlo a pensare, a trovare un nesso, una logica tra pensiero e pensiero: Doveva rompere quella catena malsana di pensieri. Con tutte le forze doveva liberarsi di quel veleno, smettere di pensare. Ormai da tempo non conosceva altro rimedio, per spezzare quella catena, che pronunciare e ripetere nomi (Gaetanino, ovvero dei nomi, pp. 83-84).

Il protagonista cerca di sottrarsi alla rete dei suoi pensieri, tra i ricordi che sembrano «di altre vite o altre vite» e privilegia la malinconia alla quale ascrive il merito di rari momenti di autenticità: «Gli piaceva immalinconirsi. Era un gioco tra sé e gli altri, tra sconosciuti» (La città, p. 84). Teme il pericolo di essere sopraffatto dai pensieri e cerca di imbrigliarli, creando un neologismo, pensometro: E, come distinguere un pensiero da un altro? […] Forse occorreva denunciare la mancanza di una metrologia del pensiero e inventare un pensometro (Gaetanino, ovvero dei nomi, p. 79).

I pensieri sono defatiganti, li rifugge («con tutte le forze doveva liberarsi di quel veleno, smettere di pensare»), ma non li può evitare, per quanto più rassicuranti appaiono essere le parole: Ciò che importava era solo la parola, anzi la Parola. In compenso ciascuno poteva applicare alla Parola qual-

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siasi chiave interpretativa e poteva altresì caricarla di tutti i significati (L’ospite ovvero dell’attesa, p. 74).

E il defatigante terrore del protagonista per i vissuti dei quali le parole sembrano segni e indizi forse spiegano il perché della presenza di Borges e Dostojeski, autori l’uno e l’altro di racconti sul tema del doppio e del sosia, il Sosia appunto (Dostojeski) e L’altro (Borges). Il mondo del protagonista è nato e costruito dall’amore per la lettura: nella casa ereditata, ove vive come un ospite, lascia tutto com’era, mobili e suppellettili, e di tutta la sua vita passata si porta dietro solo i libri, classificati per genere, racchiusi in valigie (le bibliovaligie); una era dedicata alla letteratura enigmistica, la più grande ai dizionari: Aveva poco tempo, si intrufolò tra gli scaffali, non aveva bisogno di chiedere e si diresse verso i dizionari. L’inquietudine non arretrava, acuita dal dilemma se fosse più appagante uscire vincendo l’irrefrenabile desiderio di comperare o cedergli. Riemerse con un dizionario in mano. La sconfitta della volontà e gli inutili tentativi di resistere gli fecero apparire quella decisione come ineluttabile, necessaria date tutte le circostanze. Pensò alla bellezza del cielo stellato e si sentì per un attimo in pace. Solo un attimo (I pensieri ovvero del destino, p. 54).

Nel continuo gioco di specchi che l’autore porta avanti nel tentativo di riconoscersi in una iden16


tità che non può non venire dall’altro, dal di fuori, dall’altrove, da altri, quest’ultimi, sconosciuti, finiscono per identificarsi e confondersi con sé stesso: Riuscì a leggere qualche nome, ma per quanto si sforzasse di fermare quel flusso continuo di lettere, ogni nome si trasformava nel suo, come se quella moltitudine rifrangesse all’infinito sé stesso. Ebbe un moto di ribrezzo (Il sosia, p. 66).

Viceversa la sua identità, quella reale quotidiana, spesso è stanca, sudata, desiderosa di tornare a casa e togliersi le scarpe: il sosia, questo sconosciuto e non riconosciuto protagonista, sfuma e si identifica con l’ospite, non a caso titolo di un altro dei quindici racconti. In questo contesto la parola diventa la cartina di tornasole del continuo passaggio dal fatto linguistico e astratto, metaforico e assoluto alla individuazione di precisi stati di animo anch’essi riconoscibili attraverso un nome, una parola, tessere di un mosaico che da un fatto linguistico si trasforma in realtà emotiva. Amante dei dizionari fin da sempre, il protagonista costruisce un suo dizionario psicologico e interno per cui la sua rubrica telefonica diventa un’agenda tassonomica, trascrizione psicanalitica di un dizionario dei sinonimi e dei contrari: Il commissario l’aveva trasformata in dizionario, per ogni lettera aveva destinato un certo numero di pagine, non lo stesso numero per ogni lettera, ma in proporzione al peso di ciascuna come iniziale nel vocabolario 17


italiano […] L’aveva chiamato dizionario delle opposizioni, ed era un modo di classificare il mondo, almeno quello che cadeva sotto la sua osservazione. Due opposti chiudono il mondo o una sua determinata regione: vivente/non vivente sono sufficienti a classificare tutto ciò che è nel mondo; […] Per qualche istante il commissario aveva dimenticato il problema che lo stava assillando, ma non appena gli si parò nuovamente dinanzi non si fece trovare impreparato, si ricordò, infatti, che nella sua agenda aveva tempo addietro principiato una classificazione in base alle somiglianze, andò alla lettera S e si fermò alla voce somiglianze, linee di. Aveva esitato se dedicare alla nuova classificazione un’agenda a parte, ma alla fine aveva preferito continuare con la vecchia agenda delle opposizioni, tutt’al più avrebbe potuto cambiare il titolo in Dizionario delle opposizioni e delle somiglianze… (pp. 61, 63).

Il sosia, l’aguzzino, l’ospite, sono frammenti di stati d’animo che, nella noiosa ricerca per dare il nome a un conoscente che gli ha incautamente telefonato disturbandolo, il protagonista rivive, pronti a togliere il velo ai suoi segreti, quei segreti che il commissario era riuscito a mantenere nascosti anche a sé stesso: compulsando agende e ricordi, non solo riesce a dare il nome all’incauto conoscente, ma ritrova con stupore e senza ricordarne l’occasione, il giudizio che egli stesso aveva annotato di sé stesso nella sua agenda delle opposizioni e delle somiglianze: Si sedette, riprese l’agenda e sfogliandola si fermò su una pagina che aveva completamente dimenticato, era 18


alla lettera A, la voce affinità morali. Lesse ciò che aveva scritto con insolita durezza vicino al suo nome: omofobo, pedofilo, narcisista. Non riuscì a ricordarsi né la circostanza né il giorno in cui aveva scritto quelle parole. Un buio assoluto. E se fosse stato un altro, quello stesso che lo stava perseguitando, che magari condivideva da mesi, da sempre, il suo appartamento? (pp. 64-65).

E si chiede «Ma chi poteva conoscere quei segreti che, per vergogna, teneva nascosti anche a sé stesso?» (p. 66). Gli indizi (nomi, parole, sensazioni, luoghi) rinviano e si rincorrono dal primo all’ultimo racconto, ne abbiamo sottolineati solo alcuni, ma quello che emerge è la costruzione di una personalità a tutto tondo, sfiancata dallo scarto fra il suo quotidiano – impegnato, generoso verso gli altri, quanto più essi appartengono al popolo dei dimenticati e dei diseredati, bravo nelle indagini, anche se avrebbe preferito fare indagini «solo intellettuali, senza sentire», rispettato e in grado di insegnare ai giovani nel lavoro professionalità e rispetto degli altri – e un assoluto che non ha la capacità di cogliere: A volte provava verso sé stesso un sentimento di tenerezza, che nasceva dalla sproporzione tra il peso che gli gravava sulle spalle e le sue forze. C’erano di mezzo, fianco a fianco, le domande fondamentali sull’esistenza e la cravatta non intonata alla camicia, la calvizie e l’obesità, uno sguardo o una parola sbagliata, detta o sentita poco importava, il motivo di una canzone e così via: le solite cose belle o brutte. Ugualmente 19


in agguato per farlo soffrire. In più, l’attesa. L’attesa di qualsiasi cosa. Era la tonalità della sua esistenza, il marchio della sua finitezza. Ad essa si contrapponeva l’onniscienza divina (L’ospite ovvero dell’attesa, p. 69).

L’assoluto, ricercato, con esistenziale ironia, con sforzo inadeguato attraverso citazione, parole e segni che rinviano per esempio a Matteo o Luca o a Paolo, al libro del Genesi o all’Esodo, trova il suo contraltare nell’aguzzino, insieme distonico ed ego-sintonico al sintomo: Occorreva non dare troppi appigli, agire di sorpresa, prenderlo alle spalle, a volte bastava un attimo, un cedimento, una debolezza e il losco individuo, quello stesso che si faceva beffe di lui con velenoso sarcasmo, l’unico a conoscerne tutti i punti deboli, le sue miserie più nascoste, i suoi limiti, bastava un niente perché l’aguzzino prendesse il sopravvento. Avrebbe poi condotto la partita per tutto il giorno, indulgente nel suggerire giustificazioni, lenendo le ferite, blandendolo con ogni sorta di adulazioni (I pensieri ovvero del destino, p. 50).

Nell’ultimo racconto, Il tribunale, il protagonista non riconosce nessuno nella a lui ben nota aula VI del palazzo di giustizia, dal giudice al suo seguito «di cancellieri, segretari, agenti, inservienti», eppure conosceva la maggior parte dei cancellieri e dei segretari ed inoltre «aveva spesso collaborato con il giudice. Chi erano costoro?» (Il tribunale, p. 127). L’incipit ricorda Kafka, e di fatto quest’ultimo racconto sembra 20


sintesi e risultato delle tracce di mollica gettate lungo il percorso per trovare una via, una via di uscita: convocato perché si mormora che abbia dei segreti, dei segreti legati alle sue parole, il commissario si stupisce, non capisce, poi risponde alle domande («Sei stato segnalato. Dicono che hai delle cose da dirci»), ricorda e racconta parabole che gli creano un uditorio e disteso ed eloquente, e con calma afferma che lui non ha parole sue, che tutti hanno parole e che «le parole dei più sono parole di altri». Alla fine il commissario, chissà se è effettivamente lui, si rasserena e a lungo avrebbe parlato, detto, discusso. Ma forse, ancora una volta, si tratta solo di un vissuto onirico. Scritti in un registro linguistico raffinato, attraverso un’attenta ricerca lessicale, i racconti sono lievi e penetranti al tempo stesso, e se il protagonista forse ha segreti e forse non ha mai condotto indagini in vita sua, l’autore si muove come un commissario che conduca indagini intellettuali, con divertita o amara ironia, all’interno di una realtà psicologica che avvicina e allontana e riunisce percorsi spaziali (il commissariato o il treno o la casa o il tribunale o l’ospedale o Piazza del Pantheon o via Nazionale o il lago di Trevignano ecc. ) e temporali (ab aeterno, l’oggi, il domani, lo ieri, la notte, l’alba, le cinque del pomeriggio, le otto di sera). Marta Fattori

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