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Claudio N. Taurino
Finché sorge il sole …
A tutti quelli che hanno provato a rialzarsi e non ce l’hanno fatta
PREFAZIONE
Finché sorge il sole… è un titolo che infonde speranza ai lettori. È, infatti, questo l’intento che l’Autore con maestrìa vuole trasmettere e lo La lettura delle pagine è come un viaggio nella vita e attraverso la vita, un viaggio che ci consente di soffermarci sui diversi paesaggi che la quotidianità ci offre e che noi affrontiamo e viviamo ogni momento. È la vita nelle sue sfaccettature tristi, piacevoli, dolorose, nostalgiche e, soprattutto, reali che nel libro rivediamo attraverso esperienze variegate. Ci induce a soffermarci sul senso profondo dell’amore che, come potercene nutrire, sul senso del tempo che inesorabilmente scorre e che ognuno di noi dovrebbe dedicare a se stesso, nella sua dimensione qualitativa per poterlo apprezzare e viverlo ogni attimo. Il tempo psicologico che prevale su quello convenzionale che troppo spesso ci fagocita nella quotidianità e ci impedisce di cogliere le opportunità che la vita ci dona, un tempo che resta nei ricordi personali e in ciò che le future generazioni sapranno dimostrare di essere. E ancora l’Autore fa emergere la saggezza degli anziani che rappresentano la guida forte e sicura per i giovani che si approcciano ai valori sociali e della vita. fondo della vita, una vita che non sempre abbiamo il coraggio di vivere o della quale non sempre sappiamo cogliere la dimensione essenziale. Lo leggiamo nel racconto La solitudine virtuale che analizza il diffondersi pervasivo di una dimensione, appunto, virtuale che tende a deteriore i rapporti umani, ma che apre lo spiraglio di recuperare le relazioni
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umane reali che si concretizzano nell’essenza di un bacio, di un abbraccio, di un sorriso. Insomma, questo scritto è un viaggio che dovrebbero fare tutti perché coinvolge emotivamente e cognitivamente e sollecita ad andare che, in quanto luce, calore ed energia è fonte vitale e, metaforicamente, ci sospinge a riprendere la nostra vita in mano e a ri-progettarla, cogliendo sempre l’altra possibilità che la stessa vita continua, nonostante tutto, a offrirci sempre. Loredana De Simone
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INTRODUZIONE
Non sono un ‘nativo digitale’, venuto alla luce all’epoca degli smartphone, dei Personal Computer e dei Tablet, ma, solo un ‘immigrato digitale’. Come tutti gli ‘immigrati’, ho, quindi, problemi di adattamento ed integrazione. La rete, infatti, come la società globale non considera l’individuo come soggetto, ma, come una sinapsi, cioè come un punto di contatto Appartengo alla generazione di coloro che, per comunicare, andavano alla disperata ricerca dei ‘gettoni telefonici’ e di una ‘cabina della Sip’ funzionante. Uno di quelli, per i quali la paura più grande era quella che i gettoni In effetti, non bastavano mai ed imprecavamo quando, dopo un angosciante ‘bip’, cadeva inesorabilmente la linea. Uno di quelli, per i quali le parole erano un modo per esprimere sentimenti ed emozioni e non solo suoni convenzionali necessari ad esternare un concetto. Noi non avevamo le emoticons e, per esprimere stati d’animo, usavamo avverbi ed aggettivi. Sono, anche, un nostalgico della generazione precedente alla mia. Quella che comunicava con carta e penna, a prescindere se fosse una biro o una che si intingeva nel calamaio. Per la generazione che mi ha preceduto le parole, infatti, non erano segni o suoni, ma, tratti di colore, che gli aggettivi sfumavano, sul foglio bianco, come se fosse una tela. In quegli anni, la lontananza comportava la totale assenza di ogni contatto sensoriale, sia visivo che uditivo, ad eccezione del tatto.
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La parola impressa sulla carta, attraverso il tatto, consentiva, infatti, ceo «Libidine», ovvero ‘senso del piacere’. in chi la riceveva. Il tutto era lasciato all’immaginazione del destinatario. Chi scriveva, attraverso le parole, doveva cercare di entrare in sintoarrivare a toccare le corde dell’anima. quale avevi un contatto immediato o una conoscenza diretta. Conoscevi bene colui, o colei, alla quale ti rivolgevi. Del resto, anche, la comunicazione verbale era un contatto diretto. La persona con la quale instauravi un dialogo, o un confronto verbale, era sempre lì davanti a te. La potevi tranquillamente guardare negli occhi e percepire ciò che provava, le sue emozioni, le sue reazioni. La forma espressiva, al pari del contenuto, aveva un suo valore, anzi, la forma era essa stessa parte della sostanza. Ora, invece, si comunica semplicemente con un post, o, con un tweet, oppure, tramite messaggi in chat virtuali mediante messenger o WhatsApp, preMessaggi stringati, spesso criptati, buttati alla rinfusa sui vari social, non tanto per comunicare, quanto, per affermare quasi un diritto di esistere. sono postati istintivamente sui social, come ‘urlo’ in una piazza affollata. Si ‘urla’, non tanto, per dire qualcosa, ma, per attirare l’attenzione altrui e far comprendere che noi, anche se perennemente inascoltati, ci siamo.
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Proprio come quella gente di manzoniana memoria «che attraversa la propria terra senza lasciarvi traccia». Nella migliore delle ipotesi indirizziamo il nostro post o il nostro tweet ad un amico virtuale di cui conosciamo poco, se non addirittura nulla, Il nostro ‘urlo’, simile a quello di Munch, non è un pensiero, una disperata inconscia richiesta di aiuto. Non importa che tra chi parla, o scrive, e chi ascolta, o legge, ci sia una elezione affettiva, o, una reciproca corresponsione di sentimenti od interessi, l’importante è che ci sia semplicemente la connessione alla rete. Non c’è dialogo, né confronto, perché manca la capacità di ascolto, la conoscenza, l’accettazione ed il rispetto dell’altro e del diverso. Il progresso, anziché avvicinarci, ci ha diviso. Prima condividevamo il necessario con la vicina di casa, ora condividiamo link con amici virtuali, che spesso nemmeno conosciamo, e non sappiamo nulla, invece, dei bisogni di chi vive nella casa accanto. Alla solidarietà dei semplici è subentrato l’egocentrismo digitale. Questa moderna capacità di comunicare e di condividere ci ha incattivito, perché costituisce un modo per dare sfogo alla nostra rabbia, al nostro malcontento, alle nostre insoddisfazioni ed alle nostre paure. Siamo morbosamente attratti da notizie scandalistiche, di cronaca, di malcostume, vere o presunte, per dare semplicemente sfogo al nostro ancestrale istinto di giudicare gli altri per assolvere noi stessi. Proprio come nelle arene dell’antica Roma, dove il popolo con il pollice verso, o meno, decideva il destino di un altro uomo. Basta scorrere un social o seguire un TG, uno Speciale per rendersi conto di come vengano veicolate solo ‘notizie cattive’. Le cattive notizie fanno audience, attraggono l’attenzione, suscitano interesse. Quelle buone invece, non interessano più nessuno. quella che vorremmo.
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Il nostro egocentrismo ci ha portato, infatti, a ritenere necessario offrire. Il non riuscire ad ottenere ciò che vorremmo, ci fa sentire frustrati e la frustrazione alimenta la nostra rabbia verso gli altri. Il pensiero negativo prevale su quello positivo, il pessimismo sull’ottimismo. Ci sentiamo vittime del ‘sistema’. Un ‘sistema’ che ci opprime e ci comprime, ma, di cui non facciamo parte e che, consapevolmente od inconsapevolmente, alimentiamo. Vorremmo spesso ribellarci, ma, non ne abbiamo la forza, perché siamo assuefatti al ‘sistema’ come ad una droga. Siamo parte di un ingranaggio. Il miraggio di una giustizia che, molto spesso, non c’è, alimenta le nostre paure ed il nostro senso di impotenza. Il ‘sistema’ è come un corpo avvelenato, rispetto al quale ognuno di noi potrebbe essere il potenziale antidoto. Cambiare ‘il sistema’ non è semplice, ma, non impossibile. Se tutti cambiamo, anche, il ‘sistema’, di cui siamo parte, cambierà. Proprio come un corpo avvelenato che reagisce all’immissione dell’antidoto. È vero la vita è un percorso tortuoso, spesso irto ed insidioso. La possibilità di cadere e farsi male è sempre presente ad ogni quotidiano passo. Il cadere e il farsi male non sono, però, un problema. Sono eventi normali della vita. L’importante è sempre trovare la forza di rialzarsi. Non importa quante volte si cade, ma, quante volte ci si rialza. La forza per rialzarsi nasce sempre da un atto di coraggio e dalla consapevolezza ottimistica e positiva: la vita offre sempre un’altra possibilità. Finché sorge il sole.
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Una raccolta di racconti, che narrano eventi reali, fusi in una realtà romanzata, per dare una differente lettura di come accadimenti negativi possano dare origine a soluzioni positive. Nella realtà non romanzata, ciò sarà o non sarà possibile? Non potremo mai saperlo a priori, se non troviamo la forza per provare. Il racconto è, anche, un esercizio ludico sull’uso della parola nella sua duplice valenza etica ed estetica. Questa raccolta non ha la presunzione di diventare un best seller, o, un successo editoriale, vuole solo essere un messaggio positivo di speranza, perché il sole sorge sempre dopo una notte buia, oppure, spunta dopo una burrascosa tempesta annunciata nel cielo da una plumbea coltre di nubi. Il sorgere del sole rappresenta la vita che nasce o che risorge, la speranza che il nuovo giorno sia migliore del precedente, la luce che prevale sul buio, il risollevarsi dopo una caduta. Dobbiamo imparare a lottare e a vincere il senso di rabbia e insoddisfazione che ci pervade. Abbiamo bisogno di ottimismo e di speranza. nuovo giorno. Potrà essere migliore o peggiore del precedente, non lo sapremo Dipende solo da come noi lo affronteremo, non dal fato o dagli altri. In ogni caso non sarà mai un giorno buio come la notte. Finché vedremo il sorgere del sole vorrà dire che noi siamo vivi, e, siccome la vita è una sola, non dobbiamo mai dimenticare che merita
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IndIce
Prefazione di Loredana De Simone Introduzione
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Il portico di Ottavia La giovinezza Una partita a scacchi con il destino Il natale La gabbia La giustizia ingiusta L’alchimia della felicità La solitudine virtuale Quello che non sono mai riuscito a dirti Il coraggio di andare oltre Il ferragosto
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Postfazione
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Ringraziamenti
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Finito di stampare nel mese di novembre 2021 da UniversalBook - Cosenza per conto delle Edizioni Milella