GenerAzioni di scritture anno I, marzo 2015, n.1

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generazioni di scritture

A questo numero hanno collaborato accadere culturale testi_Chiara Agagiù Rossano Astremo Piera Miglietta Federica Rizzo Giorgia Salicandro

accadere culturale eventi_Forum_Giorgia Salicandro Livio Romano Mimmo Tardio Imam Saifeddine Maaroufi Ruggero Vantaggiato

accadere culturale eventi_Dibattito_Anna Maria Colaci Salvatore Luperto Cosimo Metrangolo Dario Marangio Sergio Aversa

rubrica Riflessioni laterali_Paolo Leoncini rubrica La scrittura che gira intorno_Livio Romano rubrica Le parole_Marco Gaetani

foto matite spezzate, Charlie Hebdo_p.3 di Emanuele Augieri_pp.12 14 dal film The Great Dictator di Charlie Chaplin_p.18 da “Grand Hotel” anno III, n° 128, 20 novembre 1948_p.19 di Aurora Mastore_p.22 Generazioni di scritture Rivista a cura delle Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. Anno 1 - n. 1 - Marzo 2015 REDAZIONE Direttore_Carlo A. Augieri Vicedirettore_Marco Gaetani Capo redattore, segreteria di redazione_Giorgia Salicandro Coordinamento recensioni_Chiara Agagiù Progettazione grafica_Emanuele Augieri Contatti e info www.milellalecce.it leccespaziovivo@tiscali.it giorgiasalicandro@gmail.com tel./fax 0832.241131


editoriale

anno I ● marzo 2015 n. 1

Il buffone, la marionetta, l’arlecchino, il clown: il riso “gaio” come liberazione dal riso “di gelo” Carlo A. Augieri

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erché irridere l’altro? Perché non maturare, invece, un riso in grado di avvicinarmi all’altro? Ridere con l’altro, in una sorta di familiarità gioiosa, che diventa liberatrice per me con l’altro; per l’altro con me. Il riso dovremmo significarlo non da solo; come chi ride dell’altro dovrebbe uscire dal proprio sguardo univoco, ristretto, per il quale l’altro è un ‘egli’ (non un tu) da sottoporre a valutazione: negativa, dunque, visto che ‘fa ridere’. Meglio non ridere ‘di’ qualcuno, bensì ‘con’ qualcuno: scoprire nel riso il gioco, considerato nella sua creatività non confinante, sì da coincidere con il propendere verso l’indeterminazione delle regole seguite ‘per gioco’. Riso e gioco stretti in un reciprocità di significazione, per la quale è il gioco a ‘illuminare’ il riso, così come il ridere relativizza la serietà grossolana, pericolosa del gioco, appiattito secondo il punto di vista del serio e del serioso vincitore: nel gioco non si può negare la presenza dell’altro, altrimenti senza l’altro non c’è con chi giocare. Nel riso non si può negare l’importanza dell’altro, altrimenti manca la gioiosità del ridere e del giocare. Il riso gioioso e giocoso non ha bisogno di divertire per riuscire a contagiarmi con ilarità, magari alleggerendomi della mia malinconia: perché nessuno deve farmi ridere, avendo nessuno un limite risibile. Dipende, del resto, se osservo il limite dell’altro con il “sentimento del contrario”, oppure con uno sguardo “contrario” al sentimento: oppure, con un occhio ermeneuticamente responsabile, anzi con una seconda vista ermeneutica di tipo maieutico, per la quale il limite dell’altro mi appare come confine. Ecco il punto ‘nodale’: saper vedere nel confine la soglia, grazie alla quale un’altra possibilità si apre attraverso un riso che abbia la forza della non irrisione, bensì la profondità di scoprire l’ambivalenza di ogni limite. Ambivalenza trasformatrice, per la quale l’‘è così’ su cui ridere contiene già nel suo interno il suo diverso possibile, che mostra l’aperto di ogni rigidità; l’affaccio di ogni chiusura.

Irridere significa fortificare la rigidità, rendendola addirittura offensiva nel suo volersi difendere come costruzione limitatamente identitaria; ridere, invece, può vuol dire invitare a mettere in gioco le proprie muraglie di appartenenza, per proporre lo sfondo di uno spazio più ampio, entro dove esse appaiano appiattimento rispetto ad una possibile profondità verso dove aprirle, confrontandole. Nel riso di Dioniso vedo contenuto lo sguardo bifronte di Giano: vedere nella fine della stagione dell’uva, seguita nelle fasi preparatorie, l’inizio della nuova sostanza dionisiaca, il vino, con cui brindare con riso gioioso nei giorni dell’anno, durante i quali il bere conviviale aggiungerà gesti festosi al ridere comune ed invitante. Mi piace incoraggiare il riso che non diverte, ma che converte l’unicità nel suo doppio, a partire dal considerare il proprio io come bisognoso di scoprirsi duale, bino, per accorgersi dell’incompiutezza di sé, senza farsi completare dalla propria abitudine; dell’alterità dell’altro, senza pretendere di ridurlo a copia di sé. Il riso di Zarathustra rifiuta di contenere il gelo, perché vuole essere danzante: ama conservare in sé ancora il caos, per “partorire una stella”; preferisce essere buffonesco, cerca di incontrare il pagliaccio, l’arlecchino, non il beffardo, il derisore, il ghignatore: sa bene che la stessa condizione umana, in qualunque modello culturale viva, è sempre inquietante, essendo non sempre presente il senso stesso dell’esistenza come chiara geometria del comprendere. Auspico un riso che liberi la fantasia, oltre l’avvicinamento comodo della normalità, così come l’inoltre del reale certificato, reso certo, perché accettato dal lungo tempo dell’adattamento culturalmente pigro. Mi interessano più le cosmicomiche, nello stile calviniano, che le cosmiche fantascientifiche: un modo come liberare il non conosciuto dai soliti paradigmi narrativi, entro cui la cosiddetta serietà quasi scientifica parla di leggi, esplosioni, azzeramenti, lotte, conflagrazioni: il vocabolario della guerra esteso fino all’intimità del tempo-spazio cosmico, che osserviamo calcolando, ma non ana-logizzando.


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Mi viene in mente il clown di Heinrich Böll: un uomo che ride con dentro il riso una moltitudine di opinioni, con cui comprendere, ad esempio, che gli “imbecilli usano il concetto di asocialità solo riferendosi ai poveri”. Con cui rappresentare le tante assurdità quotidiane, che segnano la vita civile, civilizzata ed in attesa di essere esportata, altrimenti da importare per mercanzia globalizzata: basata sui calcoli razionali dell’ “elevare a potenza” il superfluo, l’accessorio, il banale, la zavorra, fonte del tragico contemporaneo, così come del possibile, temuto approdo apocalittico. Non saper non sprecare, neppure non poter inquinare, nemmeno non cogliere il rapporto stretto tra super e superfluo non è cosa poco seria, da curare con il riso, senza bisogno di farlo diventare ridicolo? Il riso senza ridicolaggine e senza irrisione diventa un incontro concentrato di ‘co-interpretazione’, in cui gli uomini possano riconoscersi umani, scoprendosi nudi sotto le maschere delle loro differenze estranee, causa di eterne discordie ‘mascherate’ di distinzioni secondo ragione, come se non ci fosse la nudità che le rende rassomiglianti pur nelle molteplici ragioni: nudità come smascheramento, come ritorno alla convivialità entro cui il vino gioioso fa emergere un’altra verità dalla logica risiva, ridente, sorridente. Forse, ispirato dai colori molteplici dell’arcobaleno, ‘mandato’ come segno di alleanza proprio dentro il cielo grigio e nuvoloso, minaccioso a causa del diluvio distruttore, Noè incominciò a fare l’agricoltore ed a piantare una vigna: “bevuto del vino”, si legge nel libro della Genesi, si inebriò e si scoperse in mezzo alla sua tenda”. Come il clown di Böll, mi piace “raccogliere attimi” di scrittura per comprendere.

editoriale

Mi fermo un po’ lungo gli “attimi” dell’inebriamento di Noè: aveva visto egli l’arcobaleno, pertanto aveva superato la paura angosciante del diluvio; aveva voluto brindare, piantando la vigna ed ubriacandosi, al cielo ritornato azzurro ed alla colomba ritornata con l’ulivo. Forse il riso è arcobaleno, azzurro del cielo, volo che comunica il termine della paura, del pericolo, della serietà punitiva. Terminare e non confinare: il riso ne è premessa e promessa, ne è segno da dove partire, anche per accorgerci del nostro realismo, che deve essere sempre ambivalente, intenso perché contraddittorio, sempre doppio, mai da una sola parte, mai in possesso di una sola cultura. In effetti, considerati dal clown bölliano, dalla vista doppia nel saper cogliere l’ambivalenza, i realisti “a una dimensione” sono, alla fin fine, “stupidi come tutte le marionette che si toccano mille volte il colletto ma non riescono mai a scoprire il filo che le fa muovere”. L’effetto risivo (non ridicolo: rispetto l’implicita malinconia) è che per questo non scoprimento ci sentiamo più liberi degli altri, invocando una nostra libertà di realisti: è bene che il riso “seppellisca” ogni boria, ogni presunzione, ogni realismo dentro il credere mascherato di una cultura, che non sa riconoscere come reale neppure il proprio immaginario. Eppure, nel modo allegramente realistico del saper sorridere, brindare, dopo qualunque “diluvio”, è da attendersi il ‘mandato’ dell’arcobaleno di colorare in modo sempre più vario anche il cielo grigio: illusoriamente libero di essere sempre più grigio, ma forse non senza grigiore.


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anno I ● marzo 2015 n. 1

Senso e pratica del pensiero filosofico Nugae. Spunti e occasioni per parlare di filosofia di G. Invitto, pp. 120, Milella, Lecce 2014 Chiara Agagiù

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ugae di Giovanni Invitto è costruito come un “patchwork filosofico” (così definito dall’autore stesso nella premessa al volume) composto, in totale, da dieci interventi. In parte già pubblicati, in parte inediti, gli scritti presentano un comune fil rouge, quello della ricerca di senso. Proprio nel primo scritto l’autore riflette sul valore della ricerca, che si rivela il fattore accomunante la varietà degli approcci filosofici, in grado di travalicare la contingenza temporale entro la quale un determinato pensiero si è sviluppato. Prendendo ad esempio la multiforme produzione sartriana, Invitto riflette sulla varietà delle composizioni narrative entro cui il pensiero filosofico può prendere forma. Anche a seconda della forma narrativa entro cui il pensiero è veicolato, infatti, si modifica inevitabilmente il grado di comunicabilità del pensiero stesso: connettendolo alla valenza politica della riflessione filosofica, nel secondo intervento l’autore riflette sulla pratica del pensiero come resistenza al dogmatismo e come strumento di libertà. L’intrinseco valore politico della filosofia è sottolineato anche nel terzo capitolo dove, attraverso l’esempio di Simone Weil, l’autore insiste sul superamento dell’identificazione tra persona e proprietà. Il valore della differenza, contro la diffidenza, è coerentemente richiamato dalla citazione di Emmanuel Lévinas il quale, partendo dal presupposto di una alterità costitutiva dell’essere, ha teorizzato un concetto di volto tutto fondato sul “riconoscimento” dell’altro. Anche questo concetto assume una più ampia valenza politica nel senso che, grazie al riconoscimento, è possibile abolire le gerarchie e attuare una effettiva resistenza al potere. Come Invitto afferma nel sesto capitolo, il posto della filosofia non è l’Accademia, ma ovunque, perché il pensiero travalica i muri e non conosce barriere. Dialoga bene con i temi esposti nell’editoriale di questo numero il settimo capitolo: è interessante la ripresa di un dibattito ancora oggi molto acceso, l’ermeneutica critica dell’Occidente. Riprendendo le riflessioni di Cassano e Zoli su L’alternativa mediterranea, si ricorda la possibilità di un Occidente come luogo per sua natura “inclusivo”, dove la differenza sia in grado di diventare un valore; dove il femminismo, soprattutto quello di matrice islamica, necessita di essere supportato dalla pratica di un pensiero filosofico dal quale scaturisca una concreta ed impegnata progettualità per il futuro del Mediterraneo e dell’Europa. Ancora in dialogo con i temi affrontati in questo numero, gli “asterischi sul riso” di Invitto in qualche modo concordano con la decostruzione enunciativa esposta da Augieri nel suo ultimo lavoro critico (recensito nel precedente numero della rivista, n. 0, Gennaio 2015), e soprattutto sul riso visto come opposizione al potere: “la categoria ironica ha, però, un obiettivo preciso su cui esercitarsi e spendersi: la presunzione della libertà assoluta, che produce la morte del dialogo, della ricerca, del rispetto dell’altro” (p. 77). Invitto fa dialogare, concentrandosi sulle contemporanee filosofie dell’esistenza, posizioni ed approcci eterogenei sul tema del riso: da caratteristica eminentemente umana (Bergson), all’ironia come mezzo per giungere alla relativizzazione della realtà e dell’umano, come il dubbio lo è per la scienza (Kierkegaard), fino all’avvertimento del contrario teorizzato da Pirandello. Le “nugae” di Invitto si presentano, dunque, come versatili spunti per riflettere sulla contemporaneità; a dispetto del termine, come d’altronde si riscontra nell’uso che di questo fece Catullo, le nugae son tutto fuorché inezie, cose di poco conto: diventano, piuttosto, un importante invito all’esercizio di un pensiero più profondo, articolato, richiesto da una storia che indistintamente coinvolge tutti.

Nuove basi per nuovi percorsi Quando la differenza fa la politica a cura di M. Forcina, pp. 200, Milella, Lecce 2014 Federica Rizzo

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l testo Quando la differenza fa la politica nasce dalla collaborazione tra Università del Salento, Università di Roma Tre e il Monastero delle Benedettine di Lecce. I docenti interessati, tutte donne, danno voce al loro pensiero esaminando la politica attuale e cercando di tracciare dei percorsi alternativi. Nella trattazione vengono citate importanti pensatrici e filosofe che hanno segnato il pensiero filosofico-politico dei primi del Novecento. Come ricorda Marisa Forcina, la definizione che la Arendt dava alla politica si legava alla modalità con cui i molti stanno insieme, valorizzando il ruolo che le relazioni ricoprono per il bene comune: “Fare cose importanti semplicemente per i molti, a partire da sé, ma non solo per sé”. Francesca Brezzi fa sua questa interpretazione e introduce un tema basilare che caratterizza l’ultimo dibattito etico contemporaneo: la cosiddetta Virtue Ethic, una sorta di saggezza pratica che guida l’individuo ad agire con coraggio (del giudizio) per preferire il bene dell’uomo al bene in sé. Iris Murdoch, altra pensatrice del secolo scorso, collega i suoi sentieri filosofici partendo da un’unica soluzione: il Bene, inteso come impersonale e sovrumano. Ella sostiene, infatti, che l’uomo concreto è orientato verso il bene tramite l’amore e la virtù, attraverso l’esercizio di “uscire da sé”, il quale conduce l’individuo a raggiungere una “giusta visione del reale”. È questo il cammino che permette al soggetto di entrare in relazione con gli altri e creare, in questo modo, civiltà. Importante per la Murdoch è anche la mente in rapporto al linguaggio metaforico affinché


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Accadere culturale: TESTI

il soggetto progredisca moralmente. Ma nel panorama di “una comunità dell’ansia” come quella in cui viviamo, che rafforza gli individualismi e vanifica i legami sociali, come si risponde responsabilmente alle sfide che l’attendono?: è l’etica ciò che rende nobile l’azione politica, che si trasforma in istituzione. Solo un ampliamento del sentire, che tenga unite la sfera cognitiva del fare e quella emotiva dell’immaginare, accompagna gli individui a prendersi cura l’uno dell’altro, creando le condizioni per raggiungere una “società della cura”. La politica femminista, a partire dagli anni ’70, pose al centro della sua riflessione la vita delle singole e il desiderio di una soggettività libera, che si inseriva in una dimensione politica e relazionale. Il passaggio dal liberismo al neoliberalismo muove da una centralità di scambio ad una concezione in cui il soggetto diviene imprenditore di sé stesso. Tristana Dini rievoca “l’homo oecominomicus” di Gary Becker che spinge l’individuo ad una “ultrasoggettivizzazione”. L’individuo, divenendo la fonte stessa del suo reddito, tende a seguire l’imperativo “sempre di più”, accumulando desideri senza oggetto. Ne deriva, in questo modo, una frammentazione di vite che tendono a mercificare ogni forma di relazionalità. Per concludere, si invoca un ritorno all’essenziale mediante un lavoro di riconoscimento, in cui un “io” e un “tu” insieme possono raccontare qualcosa di vero. Attraverso l’esperienza laboratoriale del coro, Daniela De Leo mette in atto un percorso riflessivo fondato sull’ascolto. Di fatto, intrattenere un linguaggio con l’alterità induce gradualmente ad una narrazione del “sé”. In questo modo ogni singola voce si armonizza in un tutto. È l’individuo dunque, che avvia attraverso la sua creatività libera il vero motore del mutamento, capace di produrre nuove idee e innovazioni per il futuro.

L’uomo al centro dell’universo spirituale Don Tito Oggioni Macagnino: una pedagogia sulle orme del Concilio Vaticano II di D. Casciaro, pp. 192, Milella Lecce 2014 Piera Miglietta

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on siate una comunità egoista, chiusa nei suoi piccoli problemi: siate una comunità aperta ai problemi del mondo, solidale con tutti, specie con i più poveri… L’impegno maggiore non deve essere per le cose ma per le persone”. È uno dei passaggi chiave del testamento spirituale di don Tito Oggioni Macagnino, sacerdote coraggioso e illuminato che visse la missione di parroco e di educatore con spirito dinamico e aperto ai grandi cambiamenti culturali della seconda metà del Novecento. Un importante contributo alla conoscenza della figura e del pensiero educativo di questo apostolo contemporaneo è offerto dal volume “Don Tito Oggioni Macagnino: una pedagogia sulle orme del Concilio Vaticano II”, scritto da Daniela Casciaro ed edito da Milella nella collana “Pandemonium”. Sulla base di un’ampia documentazione d’archivio e di testimonianze scritte e orali, l’autrice ricostruisce con accuratezza storica e filologica i momenti fondamentali della vita e dell’opera di don Oggioni, facendo emergere gli aspetti più intrinseci della sua personalità e focalizzando l’attenzione su una prospettiva pedagogica nuova e significativa. Rettore del seminario vescovile di Ugento nei primi anni Sessanta, parroco di Acquarica del Capo per quasi trent’anni, missionario “fidei donum” in Africa dal 1991 fino alla morte, avvenuta nel 2002 in Rwanda, don Tito seppe affrontare le sfide della modernità, ispirando la sua azione pastorale ai precetti del Concilio Vaticano II e aprendo al dialogo con i non credenti.

Fu, infatti, convinto assertore di una spiritualità pragmatica e di un modello educativo improntato alla partecipazione, all’incontro e al confronto tra esperienze e culture diverseCon questo spirito, quando era parroco ad Acquarica, ideò la costruzione dell’oratorio parrocchiale e della chiesa “Cristo risorto”, che furono realizzati tra il 1971 e il 1975. Fu in questo contesto che, sulla scia del Vaticano II, cercò di dare grande impulso al dialogo comunitario, familiare e interreligioso, proponendo una visione olistica dell’uomo, capace di integrare la dimensione intellettuale, umana e spirituale in una formazione solida e concreta da offrire ai giovani e agli adulti. L’azione pastorale di don Oggioni, come si evince dai suoi scritti, si caratterizza per la concretezza delle iniziative e per il grande impegno di coscientizzare la comunità. Coscientizzare per Don Tito significa sostanzialmente offrire a ciascuno gli strumenti culturali necessari a prendere consapevolezza della propria soggettività per esercitarla responsabilmente nella realtà e nei processi di trasformazione della società moderna. La sua visione antropologica si inserisce nell’orizzonte del personalismo aperto e solidale di don Bosco, una prospettiva filosofica e pedagogica che pone al centro la persona e che considera l’uomo fine e non mezzo. Animato da un supremo anelito di amore oblativo verso i più bisognosi, nel 1991, all’età di sessantun anni, don Tito Oggioni Macagnino scelse di partire come missionario “fidei donum” in Rwanda, dove nel ruolo di maestro e di pastore affrontò con coraggio le tante problematiche del paese e i grandi drammi determinati dalla guerra civile e dal terribile genocidio del 1994.


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Riflessioni laterali “Critique religieuse” di G. Contini Rubrica ◆

Montale dagli Ossi alle Occasioni Paolo Leoncini

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na enucleazione del significato sommerso - significato autentico, essenzialmente limpido - del linguaggio di Gianfranco Contini, connotato, nella “superficie” verbale dalla densità ellittico centripeta, è stata compiuta recentissimamente da Giorgio Agamben a proposito di un testo di Contini su Longhi. Da non molto Alberto Asor Rosa ha messo in rilievo, ma sempre condizionato da un’ottica storicisticomarxiana, in riferimento a Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine - testo francese di Contini, pubblicato nel 1944 sulla Rivista ginevrina «Lettres», ora ripubblicato in Altri esercizi (Torino, Einaudi, 1972) - che la critica di Contini si può assumere come “la chiave interpretativa più intelligente e matura del nostro Novecento”; mentre Daniele Giglioli, in Pedagogia della forma, postfazione a Dove va la cultura europea?, il volumetto edito da Quodlibet, a Macerata, nel 2012, che raccoglie il testo omonimo di Contini del 1946, già pubblicato in «La Fiera letteraria», dello stesso anno, afferma, coraggiosamente, ma con felice intuizione che “la sua [di Contini] filologia non comincia dove finisce la sua [di Contini] politica, ma ne discende, la prosegue e la attua”. Queste letture innovative dell’”esercizio” filologicocritico di Contini costituiscono una sollecitazione ad evidenziare come, soprattutto negli anni ‘30 e ‘40, la critica continiana, anziché essere ascritta alla “critica stilistica”, si possa considerare “critique religieuse”, secondo una “formula” adottata dallo stesso critico nella citata Introduction. I fattori linguistico-stilistici si pongono sul piano degli strumenti di indagine testuale seguiti da Contini, le cui istanze si configurano nel retroterra di una concezione etica della poesia. Nell’ambito degli scritti continiani su Montale, degli anni ‘30 e ‘40, la poesia che si fa seguendo i moventi del dono che diviene grazia nel tempo dell’”interno lavoro”, quando il “germe vital”, i “valeurs à naître” “un valeur du devoir-être tendant à l’être” “dans son avent jusqu’à sa naissance”, divengono ricerca, conquista; e si evolvono dalla “sensazione” e dallo “stato d’animo” ai “sentimenti concreti”, al “simbolo liberatore”, alla “conoscenza”: processo in cui, parallelamente, la “prosa” diviene “poesia” e la “psicologia” diviene “forma”. A proposito della critica delle varianti, il cui “manifesto” è costituito da Come lavorava l’Ariosto, del ‘37, l’”esercizio” filologico-critico recupera l’iter formante del testo, secondo motivazioni,

dice Contini, “in senso altissimo pedagogico”, ovvero secondo l’esigenza di comprendere l’uomo attraverso la letteratura: per cui se, sempre per Contini, “il problema politico” è “un problema di educazione”, così l’istanza ermeneutica è un’istanza pedagogico - formativa, e non formalistico-evasiva. Ne consegue che, come dice Contini in Introduction, “l’esprithumaniste” “réagit contre le dominantes crocéenne”, in quanto Croce “reléguait dans l’abstrait toute préparation à la poésie”. Contini cerca “un fil privilegié […] qui porte à la limite même de la poésie”, intendendo per “limite” il rapportarsi della poesia con la contestualità complessa, orizzontale, che si interseca con la poesia, nell’ambito delle relazioni che la poesia intrattiene con la storia esterna, e con le istituzioni storico-letterarie, rispetto a cui Croce intende la poesia “comme un présent, terme immediat et ponctuel d’une intuition créatrice […] ineffable en dehors d’elle-même parqu’adéguatement exprimé […] Le danger évitable mais toujours imminent d’une telle aptitude est l’aiguillage vers le passé: le jugeable risque devenir un jugé, et pour ainsi dire, une chose”. La poesia come presente immediato, intuizione creatrice, la poesia senza radicamento, senza tempo interno, senza spessore, rischia di venire assorbita a priori nel “passato”, nel “giudicato”, dice Contini, rischia di essere considerata “cosa “. Il “filo privilegiato” per cogliere, insieme, autenticità e limite della poesia, è considerare la poesia un “futuro”, “un valore del dover essere tendente all’essere […] dal suo avvento fino alla sua nascita”. Proviamo dunque a verificare i precedenti rilievi “teorici” sui sondaggi di Contini su Montale, negli anni ‘30 e ‘40. L’istanza ermeneutica implicita, non-detta, che Contini si pone dinanzi ai testi poetici di Montale da Ossi a Occasioni è come si compia il passaggio dalla grazia come dono alla grazia come conquista. Contini adotta, su questo piano, le formule della “grazia gnoseologica” e dell’”interno lavoro”. Montale non si distacca dalla percezione del presente storico, deludente, inadempiente, involutivo (la guerra e la conseguente dittatura, che entrano indirettamente nel “male di vivere”; a differenza di Proust che “salva” la letteratura dalla storia; o da Cecchi che “sostituisce” al presente la “soluzione classica”). I sondaggi linguistico-testuali (non stilistico-formali) di Contini tra le due raccolte montaliane si muovono tra la perdita del dono, dono come possibilità di


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salvezza, già presente nel testo incipitario In limine: vedi che si trasforma questo lembo /di terra solitario in un crogiuolo.// Un rovello è di qua dall’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva:/ si compongono qui le storie, gli atti// scancellati per il giuoco del futuro// Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te ho pregato, -ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…; e la riconquista, il recupero del dono “fuori da questo mondo, presente e distrutto, nel sospetto d’un altro mondo, autentico e interno, o magari ‘anteriore’ o ‘passato’ […]”. In questa “creazione ex novo del passato” la poesia di Montale “[…] porge l’esempio paradigmatico ma estremo d’una scrittura in principio tutta esorbitante dal dono, che a furia d’interno lavoro riesce a strappare, più esattamente a fabbricare la grazia” (da Esercizi di lettura). Ma non riuscendo a realizzare l’”altro mondo”, l’alterità radicale, il poeta si commisura sul “ricordo”, sul tempo passato, pervenendo ad una “grazia” strappata, fabbricata, volitiva, non donata: il riscatto del dono in grazia, difficilmente giunge in Montale, alla pienezza del dono. D’altro canto, invischiato nella dimensione dell’esistenza storica, la grazia può realizzarsi soltanto come “hygiène vital”, come dice Contini in Introduction. Il passaggio dal dono alla grazia - ma strappata, fabbricata - è il passaggio dal devoir-être à l’être, dove il “devoir-être” è l’”avent” e l’”être” è il futuro, promesso nel dono, la “naissance”: è il formarsi di quelli che con formula assai pregnante Contini chiama “valeurs â à nâitre” (sempre in Introduction), valori in divenire: il nascere pieno, il ri-nascere, la riconquista piena del dono nella grazia, sarebbe l’alterità radicale, a cui Montale non giunge. Secondo questo processo, quello che Contini chiama l’”istante privilegiato” della poesia (in Esercizi di lettura) è del tutto diverso dal presente immediato di Croce: in quanto l’“stante privilegiato” è sotteso dall’istanza della conquista, dal tempo dell’”interno lavoro”, dell’“infinita attesa”, per cui la “sensazione”

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non è fenomeno epidermico e disancorato, nella poesia di Montale, ma fenomeno sedimentato che approda al “simbolo”; dalla realtà diventata simbolica si può formare la “sensazione” come “sentimento concreto” e non come “stato d’animo”: ovvero, come fenomeno relazionale, ancorché superficialmente e faticosamente relazionale. I sondaggi continiani su Montale dagli Ossi alle Occasioni sono bilanciati tra assenza del dono-grazia (l’”indizio di grazia” che regredisce a “sensazione”; l’”indizio di salvezza” non colto; lo “iato” tra “senso e verità”; il “divorzio tra percezioni e significato”; lo “iato” “tra percezione e mondo delle verità”); e, d’altro canto, il riscatto faticoso del dono in grazia: in Arsenio “l’immobilità diviene sentimento per via d’un’incrinatura […] ‘un ritornello di castagnette’, segno d’un’altra orbita” (il “ritornello di castagnette” non suggerisce una “sensazione” disancorata, ma una “sensazione” innervata in un’istanza di riscatto, di recupero, di riconquista del dono-grazia); oppure in Delta tempo e memoria si “accordano”: Quando il tempo s’ingorga alle sue dighe/ la tua vicenda accordi alla sua immensa, ed affiori, memoria, più palese/ dall’oscura regione ove scendevi. Qui, l’”accordi” richiama il “si trasformi” di In limine. Si tratta di sondaggi esemplari, paradigmatici, della critica di Contini, che egli stesso definisce critique religieuse (in Introduction), in quanto coglie la poesia non nella sua nascita (il presente immediato di Croce), ma dal suo avvento (dal “germe vital”) fino alla sua nascita, ovvero segue il movimento dei “valeurs à nâitre”, dei valori in divenire, dal “dovere ssere” all’”essere”, dal “dono” alla “grazia”, dall’istanza del futuro alla realizzazione nel presente, istanza sottesa da un tempo formante, che, invischiandosi, indirettamente, nell’esistenza storica (“de l’Avenir impossibile” e de l’”Histoire conclue”, come dice Contini in Introduction: termini, oltretutto, di davvero inquietante attualità) è, per Montale, un tempo lento e faticoso, tuttavia rivelatore di un embrionale movente ascetico: che, per Contini, è il movente della “comprehensibilité du monde”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI G. Contini, Su Eugenio Montale-1 -Introduzione a Ossi di seppia (1933); II - Dagli Ossi alle Occasioni (1938): entrambi si trovano in id. Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, Le Monnier, Firenze 1947 (e successive edizioni). Id., Introduction à l’etude de la littérature italienne contemporaine (1944), in id. Altri esercizi, Einaudi, Torino 1972. Id., Pour présenter Eugenio Montale (1946), ivi. Cfr; inoltre: G. Agamben, Prefazione a Roberto Longhi Proposte per una critica d’arte, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Portatori d’acqua ed., Pesaro 2014. A. Asor Rosa, Letteratura italiana La teoria, i classici, l’identità nazionale, Carocci, Roma 2014. D. Giglioli, Postfazione a Gianfranco Contini Dove va la cultura europea? (1946), Quodlibet, Macerata 2012.


Accadere culturale: TESTI

anno I ● marzo 2015 n. 1

La poesia dietro le quinte del palco L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene di S. Giorgino, pp. 392, Milella, Lecce 2014 Giorgia Salicandro

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omo di teatro, cinesta, istrione televisivo? No, Carmelo Bene è stato prima di tutto un poeta. È questa la tesi con cui Simone Giorgino reinterpreta la produzione del grande maestro dell’arte scenica, tanto discusso quanto - se possibile - indiscusso: L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene (Milella, 2014). Ideologicamente de-genere, la scrittura di Bene lo è per intento dissacratorio quanto per spinta “eccedente” rispetto ai tradizionali confini di ambiti comunicativi e generi letterari. Partendo da questo assunto, Giorgino si sottrae alla tentazione di un’analisi dall’afflato universalistico, ma anche alla smania di stabilire nuove, minuziose catalogazioni laddove il Maestro aveva voluto che regnasse il caos, e concentra l’analisi sulle opere esplicitamente licenziate come “racconto”, “romanzo”, “poesia”: Nostra Signora dei Turchi, Credito italiano V.E.R.D.I., Pentesilea. Ovvero della Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, ‘l mal de’ fiori poema e l’inedito Leggenda. L’autore si addentra, cioè, nella sfera “canonica” della scrittura letteraria, che tuttavia nel caso di Bene coincide anche con la zona rimasta maggiormente in ombra, quantomeno nell’analisi della critica. Effetto collaterale della straordinaria affabulazione dell’artista teatrale: quel suo teatro è stato fatto assurgere a categoria interpretativa dell’intera produzione beniana. Giorgino ribalta il paradigma: non solo allestisce la prima monografia dedicata esclusivamente alle opere letterarie di Carmelo Bene ma, con scarto ulteriore rispetto al passato, rifiuta la prospettiva che ha avallato la fagocitazione della sua galassia scrittoria nella genealogia di una “macchina attoriale”, per usare un’espressione di Piergiorgio Giacché. Per l’autore, infatti, se proprio si vuol ricondurre l’eterogeneità eccedente di Bene a un principio fondativo, questo va cercato nella poesia. Poesia intesa come ricerca sul linguaggio, ovvero ricerca di senso nella quale il linguaggio, lungi dal rappresesentare un mero corollario espressivo, “significante”, diventa esso stesso contenuto elettivo.

Ma verso cosa tende una simile ricerca? Essa, come chiarisce Giorgino, “lavora sulla ricomposizione dell’unità, presunta e comunque perduta, fra voce e archè, cioè fra l’originario intestimoniabile e la voce che si affanna a pronunciarlo ma che, facendolo, è già inevitabilmente nella ‘differenza’, intesa come scomparsa o ritardo dall’origine”. La ricerca della voce è uno dei nodi focali su cui indugia l’analisi, a partire dal dialogo con le teorie filosofiche, linguistiche, teatrali che Carmelo Bene padroneggiava in modo eccezionale per un uomo di scena, e che l’autore dello studio mette puntualmente in luce. In particolare, il rifiuto del teatro come rappresentazione di ascendenza artaudiana (che Bene, un po’ immodestamente, riteneva di aver realizzato meglio del maestro), la teoria della “differance” di Derrida, ovvero dell’eterno scarto tra essere e testo, tra senso e segno, la destituzione della centralità del soggetto e della lingua che dovrebbe appartenergli - da Lacan e Deleuze (con quest’ultimo Bene scriverà addirittura un saggio, Sovrapposizioni). Se la scrittura si iscrive in una differenza sempre incolmabile con l’origine di senso da cui proviene, la “voce” è intesa allora da Bene come il soffio che permette di ricostruirne le tracce. Non è mymesis dell’origine - una simile operazione non avrebbe senso - ma ne è un analogo. Si comprende l’importanza riconosciuta alla musicalità, che permette di legare la parola a una dimensione performativa: l’unica che, seppur in una “differenza” irriducibile, tende alla vibrazione autentica del reale. Prima ancora d’essere una “scrittura per voce”, dunque (il che confermerebbe la teoria di una “attorialità” preminente) quella di Bene è “scrittura della voce”. In questo senso compare l’immagine dell’ultimo trovatore, cantore medievale della parola-musica trapiantato nel contemporaneo. Uno studio originale, che non presta il fianco alle posizioni critiche mainstream ma, pur nel riferimento costante a quelle, si spinge più oltre, nei luoghi “meno frequentati” della produzione beniana, e soprattutto lo fa partendo da un’ottica inedita.


generazioni di scritture

Accadere culturale: TESTI

L’intimo cantare: viaggio nella poesia di Augieri Nel rondinio del tempo di C. A. Augieri, pp. 180, Milella, Lecce 2014 Rossano Astremo

I

l viaggio poetico di Carlo Alberto Augieri inizia alla fine degli anni ’70. Prima sua pubblicazione fu Skarnificazione (1978), raccolta in versi in cui già erano presenti chiaramente alcune costanti che accompagneranno la fase iniziale della sua opera poetica: dissoluzione di ogni forma metrica, sperimentazione linguistica, radicale accusa nei confronti della società borghese e conformista. L’io poetico di Augieri nei primi lustri della sua produzione esisteva in quanto controcanto di un tu contro cui agire. Uno scarto, rispetto a questa produzione iniziale, si avrà a partire dal 2004, con la pubblicazione di Dissimiglianza, un ritorno, dove la voce del poeta non si solidifica in una criticità manifesta con il contesto in cui è costretto a vivere, ma si pone in ascolto, in dialogo, con uomini, donne, animali ed elementi della natura. Si può dire che da Skarnificazione a Dissimiglianze si assiste a un percorso di radicale cambiamento esistenziale del poeta, che abbandona gli afflati politici delle prime prove per accogliere un versificare privato e biografico. Nel rondinìo del tempo (2014), sua recente raccolta, Augieri radicalizza questa sua nuova visione. È un “cantare” intimo quello di Augieri, una raccolta in suoni e versi del mondo che lo raccoglie, in cui il perdersi nella natura si fa arricchimento di senso, leggerezza dell’esistere da cullare: “Mormorare lo scoglio / lo scavo / s’onda e / si piuma / un’eco tutt’una / leggera / leggerezza / l’anima sola / un sussurro”. Sembra che nello sguardo che Augieri rivolge al mondo non ci sia spazio per le sovrastrutture sociali, ma solo per un ricco retrocedere in una dimensione precedente, dove il ritmo del mare, la caduta dei raggi solari sulla terra, la crescita delle piante, lo scroscio della pioggia sul mondo sono le coordinate sulle quale adagiarsi: “E mare e mare e / maree / e spinta per / l’approdo, / un contorno / un tronco / un’inclinazione / girasole e gira il / sole e piove e / piove”. La voce poetica di Augieri si conferma tra le più originali nel panorama della poesia meridionale degli ultimi decenni e Nel rondinìo del tempo ci consegna un poeta al massimo della sua ispirazione lirica.


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anno I ● marzo 2015 n. 1

La scrittura che gira intorno Show, don’t tell Rubrica ◆ Livio Romano

F

ra i moltissimi manoscritti inediti che leggo e che aspirano a una pubblicazione, da ultimo mi ha colpito una sorta di poema in prosa che narra con ritmo vorticoso e incalzante la vicenda di una donna di cinquant’anni rispetto alla quale l’io narrante ha un rapporto di odio-amore, come si dice. Lui la vuole e la respinge, e lei pure: lo vuole e poi ne fugge, e si butta via in flirt di nessun valore, di cui soffre essa stessa. Anche il protagonista salta da un letto a un altro, e in maniera piuttosto compiaciuta, pur continuando a portare nel cuore questa affascinante donna con la quale, per dirla con gli U2, he “can’t leave with or without”. Non mi piace che l’autore abbia usato nomi stranieri per i personaggi: suona posticcio e l’effetto soap opera è dietro l’angolo perché il romanzo è precisamente ambientato, non si svolge in non luoghi né in posti immaginari. Le contrade, le marine, le scogliere, i paesi son detti con estrema chiarezza, e dunque perché mai su questi luoghi dovrebbero agitarsi personaggi che si chiamano con nomi inglesi o francesi se son salentinissimi? Ricordo nel lontano 1989 le parole di un potente editor: “Ok, tu vieni dalla poesia, ma io faccio l’avvocato del diavolo, cioè del lettore. Il quale ha bisogno di un minimo di intreccio perché si appassioni e prosegua la lettura, e dunque proviamo a tesserlo insieme”. Orbene, in questo manoscritto, pur nella tensione a tenere alta la suspense, a suggerire al lettore “vieni con me, ti porto in questo pianeta e te lo racconto”, a conclusione della lettura non ho capito se la donna torna dal protagonista o meno, se sceglie lui come approdo finale alla sua personalità sempre alla ricerca di un senso. E se la nuova vita, più semplice, più a misura d’uomo, invocata dall’uomo, è a sua volta a fianco a lei o meno. È un poema in prosa, ma lavorare sul plot è un atto di attenzione e riconoscenza nei confronti di chi ti legge. Di quest’opera ho poi molto apprezzato aforismi e riflessioni esistenziali che lasciano di stucco, fanno riflettere, pensare. Non son mai pedanti né didascalici né sovrabbondanti. Stanno dentro una cornice di tempi forsennati, di vita a cento all’ora, al massimo, come cantava Vasco Rossi. Spesso agli autori dico, invece, “il tuo pur finissimo pensiero non importa a nessuno, e pure se lo fai dire a un personaggio: è un di più inutile, prova a sfoltirlo al massimo” (lezione che mi impartì una delle più

grandi editor italiane, ahimè morta a 45 anni, e altri coltissimi curatori che la vita mi ha regalato di incontrare). La voce narrante lancia sì questi sassi, come dire?, filosofici, ma non si prende mai sul serio, è lei stessa la prima a dubitarne, e a riprender subito le fila della narrazione, del mettere i personaggi dentro una scena a dimenarsi, fare, dire, amare, odiare, fuggire, tornare. Ecco, il consiglio numero uno da dare a operazioni siffatte è molto semplice: far vedere meglio. È il segreto, il nocciolo primo della narrativa, al contrario di quel che pensano gli scrittori dilettanti o alle prime armi i quali tendono a usare troppe parole “malate”, come diceva Moravia, troppi lemmi vaghissimi, che non hanno sostanza alcuna - esempio classico: “Quel tramonto mi provocò emozioni fortissime”. Eh no! Tu mi mostri il tramonto, me lo descrivi, e mi descrivi cosa fa colui che lo guarda, come muove gli occhi, come respira, e diventi dizionario alla mano - accuratissimo con gli aggettivi e gli avverbi, ti metti a cercarne di originali, esatti come un bisturi, nonché eufonici, incastrati bene, metricamente, nella proposizione: solo così il lettore potrà capire la natura di quelle emozioni, e immedesimarsi (“Show, dont’t tell”, diceva Mark Twain). Inoltre sfoltirei le riflessioni della voce narrante autodiegetica le quali dicono della stessa cosa raccontata, e dopo averla raccontata. Precisamente, quelle che, con tono evidentemente censorio, annotano quanto sia falso e inutile stordirsi di femmine-coca-luci strobo-musica a palla. Si tratta di una “falsità” che l’autore fa vedere già, e tanto basta. Farglielo fare comunica già al lettore il giudizio che il protagonista esprime rispetto a quell’andazzo. Poi, da un certo punto, si avverte - molto dissimulata, molto nascosta nelle pieghe del “non giudico”, ma palpabile - una sofferenza, un’angoscia del protagonista a osservare le molte evoluzioni erotiche della donna, e un’efficace ironia nei confronti di qualcuno dei soggetti con cui la stessa intrattiene incontri amorosi. Ebbene, questa ironia si stempera un po’ nelle urgenze del politicamente corretto, del pensiero progressista e progredito del protagonista che vuol mantenere un qual distacco libertario dalle avventure dell’amata. Ma anche la gelosia è un ingrediente delle relazioni fra gli umani, e per quanto censurata emerge prepotente, così che sarebbe il caso di arrendervisi e approfondirla.


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A risposta aperta

FORUM ◆ Il primo Forum pubblico di GenerAzioni di scritture Giorgia Salicandro

È

, la satira, dispositivo di controllo del potere - di ogni potere - e quindi espressione da tutelare come valore universale e assoluto, o esiste un confine - e di quale natura? - determinato dall’opportunità della convidenza pacifica e del rispetto di tutti? È, questa, la domanda che la nosta redazione ha scelto di porsi in vista della realizzazione del numero primo della rivista, dopo il lancio del progetto lo scorso gennaio. È anche la domanda che ha animato il primo Forum pubblico di GenerAzioni di scritture, “Ridereirridere: sulla cultura del riso come incontro”, un appuntamento attraverso cui abbiamo voluto estendere al territorio una riflessione di interesse comune, che tocca questioni importanti e delicate quali la libertà di critica e la comunicazione interculturale. L’evento, tenutosi lo scorso 10 marzo e generosamente ospitato dalla Galleria Francesco Foresta di Lecce, è il primo di una serie che GenerAzioni di scritture intende realizzare per mantenere attento, vigile e aperto il dibattito pubblico sul territorio. Siamo partiti da un dato di triste attualità: l’attentato terroristico, di matrice fondamentalista islamica, al settimanale francese Charlie Hebdo. Scontata la condanna dell’atto che ha condotto all’eliminazione fisica di dodici

persone, non abbiamo tuttavia dimenticato la complessità dei rapporti politici tra i Paesi dell’Occidente e i Paesi investiti dalla cosiddetta “primavera araba”, né le falle dell’integrazione comuni a molte città e aree europee (di cui la parabola dei fratelli Kouachi, algerini cresciuti in Francia, e non solo quella, è una spia evidente). Il nostro interesse è stato tuttavia indirizzato su un aspetto in particolare: obiettivo di questo atto terroristico è stato una rivista satirica. A un dispositivo eminentemente culturale è stato quindi riconosciuto un potere talmente grande, pericoloso, destabilizzante, da “esigere” un atto di guerra. Non è, peraltro, la prima volta: ricordiamo la fatwa lanciata contro i vignettisti del quotidiano danese Jyllands Posten così come contro l’autore dei Versetti satanici, Salman Rushdie. Ci è sembrato di non poter più rimandare di affrontare la questione, aperta e sanguinante, sulla libertà di critica - e di satira. Una riflessione libera e attenta, la nostra, stimolata dallo stesso approccio “dissacrante” di Charlie Hebdo, i cui redattori certamente non avrebbero gradito il teatrino di superficiale “divinizzazione” della testata costruito a seguito dell’attentato. Abbiamo voluto sottrarci alla logica facile del “je suis charlie” per scavare nel profondo della questione. Non

cercavamo risposte ultime e definitive, avevamo, piuttosto, la necessità di rendere più complesse le nostre domande, in un momento che certamente - quale che ne sia l’esito - ci obbliga a riprendere in mano concetti sempre viventi e “liquidi” come quelli di cittadinanza, democrazia, libertà, spesso erroneamente cristallizzati in “assiomi”. Quattro relatori, dal background diversissimo, sono stati invitati a dare impulso al dibattito, che ho avuto l’onore e l’onere di moderare. Il nostro direttore Carlo Alberto Augieri ha introdotto e concluso i lavori. Livio Romano, scrittore (Niente da ridere, Marsilio 2007, Diario elementare, Fernandel 2012) e parte integrante della nostra redazione, ha fatto dell’ironia e della satira la sua cifra stilistica; Saifeddine Maaroufi, imam di Lecce noto per le sue posizioni progressiste all’interno della comunità islamica; Mimmo Tardio, membro dell’Università dell’autobiografia di Anghiari, ha riflettuto sulla vicenda di Charlie Hebdo entro il più ampio contesto della Francia contemporanea in Douce France; Ruggero Vantaggiato, direttore del semestrale satirico “La Carrozza” che si pubblica dal 1969. Saranno loro stessi a presentare, nelle pagine della rivista, il proprio punto di vista, a cui seguiranno le riflessioni di chi ha partecipato al dibattito.


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anno I ● gennaio 2015 n. 1

Quelle vignette, fiammiferi in una stanza piena di gas FORUM/1 ◆

Livio Romano

G

ià a 17 anni ricevevo minacce e convocazioni in Questura. Ho scritto pezzi al vetriolo mettendo in ridicolo modi, mode, costumi, atteggiamenti, tic verbali, espressioni, e prendendo di mira perlopiù potenti e notabili, tracotanti e fighetti che si danno delle arie, usanze balzane prese in prestito dalle metropoli e declinate pateticamente nella profonda provincia meridionale, e quel particolare contegno perbenista che vuole apparire a tutti i costi progredito o, al contrario, comportamenti collettivi à la page i quali, proiettati nelle cittadine nostre periferiche, tradiscono eterni e inestirpabili bigottismi. Ho dato alle stampe reportage lunghi e pamphlet satirici che denunciavano bonariamente ma con estrema puntualità fatti e vicende gravissimi. Ho sempre coltivato il gusto di mettere in scena episodi di ordinaria prevaricazione forzando la mano ed esasperando i tratti, le fattezze, la loquela tronfia del prepotente così come l’involontaria comicità della gente qualunque nell’atto di ostentare un modo di presentarsi al mondo che faccia il verso ai modelli mediatici. Pure in romanzi e racconti, questo manicheismo fumettistico, se così si può dire, è uno dei moventi principali della mia urgenza narrativa. E naturalmente non mi son mai risparmiato in bordate anticlericali così come in anatemi moralistici: chiunque faccia satira non può non sentirsi un po’ Savonarola, un po’ più probo, o sobrio, o colto rispetto all’umanità che sbeffeggia. Pure se non ci crede. Pure se il bersaglio

principale del suo umorismo resta, è il mio caso, nel 90% dei casi, se stesso. Insomma, in ipotesi, davvero potrei essere l’ultima persona al mondo a reclamare senso della misura se non norme giuridiche che pongano confini alla satira. Eppure c’è qualcosa che non mi torna, nei fatti di Parigi. Provo un fastidio sfumato nei confronti di questi vignettisti che insultano senza ritegno l’Islam. Bobbio avvertiva ogni operatore culturale: sappiate valutare gli effetti di ogni vostra presa di posizione, di ogni vostra esternazione. Ne faccio una questione giuridica e insieme politica. Se io domattina pubblico un articoletto al vetriolo in cui ridicolizzo un insieme di persone (mai attaccato una persona in particolare, bensì la categoria, il tipo sociale, la tribù cui appartiene), ebbene queste persone son cittadini della Repubblica, e godono dei diritti soggettivi riconosciuti dal sistema e, per esempio, possono portarmi davanti a un giudice e accusarmi di diffamazione. Se ti svegli e punti la tua mitragliatrice di parole e disegni contro una civiltà, una religione, i suoi simboli, gretti o meno che siano, come si difende l’abitante del paesino sulla catena montuosa dell’Atlante che ha visto quelle aggressioni su internet? Quale diritto soggettivo a non essere offeso può invocare? In quale sistema statuale? Ebbene, quell’uomo o quella donna, liberali o bacchettoni che siano, propensi alla battuta o meno: mezzi per difendersi dal flusso inarrestabile di cultura che promana dall’Occidente semplicemente non ne hanno.

Ma, soprattutto, trovo insieme irritanti e patetici questi satolli rappresentanti della gauche caviar che portano avanti una guerra che è persa da decenni. La nostra civiltà libertaria versus le teocrazie buzzurre che ci premono ai confini. Teocrazie che, per inciso, abbiamo depredato, armato, colonizzato. E che ora reclamano la loro fetta di ripartizione delle risorse del pianeta. Orbene, non dico nulla di nuovo se affermo che questa vecchia confortevolissima nave che si chiama Europa o si decide a fare i conti, a dialogare, a farsi contaminare dai popoli dei Sud del mondo oppure sarà destinata ad affondare. È la storia perpetua dell’uomo, darling. Puoi prender per i fondelli quanto vuoi, e procurerai altro odio, e altre bombe e altri attentati. E puoi anche sconfiggerli, questi attentatori ma la sostanza non cambia. Ogni civiltà ha avuto una nascita, uno sviluppo, una decadenza e una fine, quando non abbia saputo integrare i barbari. Io vado oltre. Io penso che, per forza numerica e senso di antichissima rivalsa, e al di là dell’alibi comodo della religione, sarà prestissimo la civiltà islamica a dover cercare i mezzi per integrare noi. E dunque se tu sei spiritoso perché ti diverti ad accendere fiammiferi in stanze sature di gas, be’: vattene a giocare in Islanda, o in lande dove i tuoi divertimenti possano provocare il minor danno possibile. È il minimo che puoi fare per portare rispetto ai milioni di uomini di buona volontà che, al contrario, provano a coltivare la cultura del dialogo, dell’inclusione, dello scambio proficuo e pacifico di senso.


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FORUM/2 ◆ Mimmo Tardio

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Il peso alato della leggerezza

N

on so se ridere sia arte o necessità, cura o sberleffo necessario e se in quel leggero moto dell’anima, che regala più nuovi pensieri, si guadagni quella gratuita leggerezza che ormai non ci appartiene. Come non so se la fede abbisogna di guardie barbute o di novelli crociati e non so se ogni Dio sorrida benevolmente delle loro barbe o dei loro profumati damerini, che se ne stanno nel mondo da tronfi

padroni. So però che il riso mi serve e mi rallegra e che se avessi anche avuto, in codice genetico l’allegra pantomima di Totò Tardio, mio padre, che incensava motti e sorrisi e strabiliava gli astanti, avrei conosciuto giorni più leggeri e felicemente inconcludenti. Con nel viso un più franco e perenne sorriso. Questo so, da figlio della novella commedia dell’arte italica, con epigoni il principe Totò ed Alberto Sordi, che mi insegnarono quanto sia bello ridere a partire da se’ stessi; che a prendersi troppo sul serio è poco il guadagno, se al fine manca la levità d’una salvifica risata. Questo so, anche per amore d’una terra e d’un popolo che mi “impararono” a tollerare e sorridere, ad essere uguali ma poi diversi, che ad esser fratelli è bella la strada, oltre che giusto e necessario. E che ogni pur tragica ferita va risanata con la tolleranza e la giustizia sociale e che ad armare popoli e baionette è gioco troppo facile per i tanti demagoghi cresciuti nel ventre sempre gravido della nostra sonnolenza. Questo so.

Una provocazione inutile se ferisce il sacro FORUM/3 ◆

Imam Saifeddine Maaroufi

N

ell’ombra di quanto accaduto a Parigi, o anche da quanto detto da qualcuno, che i musulmani non accettano o non capiscono il concetto di derisione, vorrei innanzitutto, rompere questo falso pregiudizio: la cultura musulmana e orientale araba in generale, possiede una grande storia nell’ambito della satira e della derisione. Infatti esisteva una categoria particolare di poesia satirica chiamata “Higià”, e tra i poeti famosi ad averla usata, c’è uno dei compagni del profeta Muhammad (pace e benedizioni su di lui), si chiamava Hassan Ibnu Thabet. Ma la particolarità del senso di Humour islamico della satira, è che rispetta certi nobili valori, ad esempio quella di non partire dal presupposto di superiorità sulla persona criticata, o di non prendere in giro un difetto fisico. L’obbiettivo era mettere il dito

su un errore comportamentale, criticando l’errore per indurre una presa di coscienza e di conseguenza una correzione, quindi il bene della società. Per quanto riguarda il fatto di ironizzare su quello che è sacro: parto da quello che faceva il giornale “Charlie Hebdo”. Se loro hanno visto un comportamento errato nel mondo arabo o islamico, potevano criticare e ironizzare sull’uomo arabo, o anche musulmano, ma loro hanno scelto la figura del profeta, per provocare, e questo fa male a qualunque musulmano, perché tocca il sacro. Ma questo comunque non doveva risolversi con la violenza, ma con le parole. Quando il precedente relatore (Mimmo Tardio, ndr) dice che il fatto che i legislatori francesi pensano a cambiare le leggi in merito a quello che si potrebbe criticare o prendere in giro, e lo considera molto grave, io non mi

trovo d’accordo: sappiamo che in Francia ci sono delle leggi che criminalizzano le critiche rivolte all’olocausto, o al negazionismo (non dico che non è giusto, perché fu un grande crimine contro l’umanità), e questo è giustificato dal fatto che fomenta odio. Credo che le leggi sono dinamiche e evolvono con le società: quanto accaduto a Parigi, ha provato che provoca odio e rischio per la sicurezza nazionale. Non bisogna credere che l’illuminismo o la laicità francese siano il “nec plus ultra” dell’umanità e di conseguenza, sono intoccabili: Credo che possano sempre evolvere per includere il rispetto verso la sensibilità degli altri e in questo caso parlo dei credenti in quello che è sacro e quindi intoccabile, ma senza regredire e smettere di ridere e irridere di quello che ci sembra sbagliato, sennò sarebbe la vittoria del terrorismo sulla nostra umanità.


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anno I ● marzo 2015 n. 1

Taglienti a viso aperto contro la città bacchettona FORUM/4 ◆

Ruggero Vantaggiato

I

n relazione ai numerosi proiettili che il mese scorso sono stati recapitati alla redazione del giornale LA CARROZZA, più di qualcuno tra gli operatori dell’informazione ci ha chiesto: “Quale peso e quale incidenza potranno aver sulla linee del giornale il vigliacco gesto intimidatorio?”. La nostra risposta: “Nessuna!”. I proiettili erano tanti e sicuramente pesavano ma non hanno turbato più di tanto la nostra serenità né tanto meno modificheranno la linea del giornale. I turbamenti veri li abbiamo registrati nel corso dei 45 anni del giornale, allorquando abbiamo ricevuto lettere, letterine e letteracce da anonimi mittenti che offendevano e minacciavano il nostro percorso giornalistico. Per contrappeso è bene sapere che nei 45 anni di pubblicazione de LA CARROZZA mai nessuno dei personaggi leccesi bersaglio del nostro sano umorismo e della nostra satira graffiante (pur avendo ricevuto pugni sul naso) ha avuto il coraggio di querelarci. Anzi una sola volta nel dicembre del 2011, l’ex sindaco di Lecce, l’onorevole Adriana Poli, sentendosi offesa per una vignetta sulla scandalosa vicenda del filobus e sulle “mazzette” di via Brenta, informò gli organi di stampa che aveva presentato querela nei nostri confronti. Una querela subito ritirata, quando noi replicammo che eravamo contenti e felici di andare dai giudici, poiché finalmente l’onorevole Poli, che sulle vicende di via Brenta e del filobus non era mai stata sentita dai magistrati neanche come persona informata dei fatti, avrebbe salito insieme a noi le scale del tribunale. Il non aver mai ricevuto una querela ci inorgoglisce, ma al tempo stesso ci induce a fare una amara riflessione: nessuna differenza tra la Lecce perbenista e bacchettona e la Sicilia omertosa e mafiosa. A nostro avviso le pubblicazioni di satira e di umorismo, soprattutto quando sono edite da editori puri che non hanno padroni, vanno difese nella loro libertà da lacci e laccioli; poiché costituiscono l’unico deterrente contro il potere gestito in maniera truffaldina, contro i governi dittatoriali e le gestioni monocratiche di coloro che credono di essere “uomini della Provvidenza”. I giornali umoristici e satirici educano il cittadino alla libertà e allargano gli spazi di democrazia. La satira, quella del fuoco e del riso, appartiene ai leccesi e ai mediterranei tutti. Forse lo spirito dissacrante ci deriva dalla tradizione greca (la farsa dopo la tragedia) passata a Roma (le atellane ed altro) e quindi giunta a noi sotto il dominio della presenza romana:”Ridendo castigat mores”. La componente umoristica, la satira, la battuta salace si ricollegano all’arte delle bambocciate e dei pupazzetti di creta ( che una volta i barbieri realizzavano nelle loro botteghe) e sono elementi che

da sempre si sono relazionati allo spirito sapidamente mordace dei leccesi. LA CARROZZA riteniamo che si sia inserita nella più pura tradizione umoristica-satirica cittadina, evolvendosi nella continuità. Il foglio, nato quasi per scherzo, è ormai diventato una voce della città di Lecce. Umorismo e satira ci educano, ci rendono più tolleranti. Se sapremo ridere prima di noi e poi degli altri, come sostiene il nostro amico Mario De Marco, non solo avremo esorcizzato ciò che definiamo cattiveria, ma avremo dato un contributo a chi soffre per le tegole che gli cadono o gli scagliano sulla testa.


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Le parole Modernità e Tradizione alla prova del presente Rubrica ◆

Marco Gaetani

L

o spirito della ragione moderna, si sa, è corrosivo. L’aggettivo “moderna”, apparentemente generico o superfluo, è in realtà decisivo. Il principio di ragione, in se stesso, non è infatti estraneo alle grandi epoche storiche dell’Occidente pre-moderno. Per averne una conferma evidente basterebbe anche solo tratteggiare, per esempio, la storia dell’Aristotelismo. Il razionalismo moderno introduce dunque almeno un elemento di discontinuità rispetto all’uso e al valore che alla facoltà razionale venivano riconosciuti nelle epoche precedenti. La ragione moderna ambisce a essere, per dir così, ubiqua; si esercita su tutto. La sua caustica lucidità è infatti intimamente totalitaria. Si applica - forse prima ancora che ai fenomeni, naturali o storici che siano - alla struttura stessa dell’esperienza, che intride e giudica senza remore. “Giudica”: perché quello dell’a-valutatività del principio di ragione è un mito tra i più fuorvianti. La ragione riconosce (il verbo ha qui un senso euristicocognitivo e insieme assiologico-relazionale) solo se stessa, si confina in un circuito di autoreferenzialità che è anche il dominio chiuso entro cui, soltanto, può corroborarsi e progredire. Quella moderna si definisce pertanto come una ragione costitutivamente negatrice dell’alterità (dell’altro-da-sé), e questa sua originaria vocazione tautologica si dispiega -lungo i secoli nei quali si svolge la Modernità - con sempre maggiore potenza, assumendo una forza di deflagrazione che in alcuni frangenti storici particolarmente trionfali (l’Illuminismo, mettiamo) appare significativamente pronunciata. L’alterità assoluta, per la ratio nella sua tipica espressione moderna, è da identificarsi nella “Tradizione”. Un nemico, questa, che essa non può che fare a pezzi: la ragione avanza secolarizzando, s’impone dis-sacrando, si diffonde disincantando e demistificando. Se serve, ridicolizzando senza riserve: per l’ethos implicito alla moderna razionalità non possono sussistere “zone di rispetto”. Non è neppure necessario evocare qui la risata beffarda di Voltaire:

epitome icastica di un certo modo di procedere ruvidamente spiccio - del razionalismo (moderno) trionfante. Questa ragione di tipo nuovo - che si fa presto spirito scientifico, per rifluire molecolarmente nelle società-tutte-amministrate e nelle esistenze individuali (alienate) - non può che assumere (fin dai suoi iniziatori: si pensi esemplarmente a Spinoza) la religione, il sacro, come il recesso più ostile e pernicioso di quei tenebrosi territori che essa intende finalmente esplorare e chiarificare, anzi dissodare una volta per sempre. Verso la religione, la fede, non si usano riguardi. Alla “Tradizione”, in generale, può forse essere concesso l’onore delle armi. Alle religione, che è avvertita come uno dei gangli vitali del mondo pre-moderno – a nessun costo. *** Sarebbe interessante cercare di comprendere, fenomenologicamente più che storiograficamente soltanto, se la ragione moderna porti davvero in qualche modo a compimento, inveri (come qualcuno ritiene), una presunta essenza del Razionale, e se tale essenza- posto che sia davvero rilevabile - risulti poi effettivamente in-conciliabile con un (altrettanto eventuale) substrato eidetico del Sacro, dell’esperienza religiosa individuale e collettiva. Indagine questa, si suppone tuttavia facilmente, per porre termine alla quale non basterebbero molte vite di studi. Può però essere osservato fin da ora - semplicemente rivolgendo uno sguardo alla storia delle civiltà come non sempre ci sia stata guerra aperta tra la ragione umana e il senso del sacro – con le sue istituzionalizzazioni confessionali. L’epoca della scissione, dello strappo, dell’impossibile conciliazione, dell’aut-aut radicale tra queste due forme di esperienza - quella razionale e quella religiosa - è, peculiarmente, la temperie moderna. Solo nella Modernità allora la ragione, ubiquamente insediatasi nel mondo storico, rivendica il diritto a


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ridere di tutto (beninteso, anche di se stessa). Ma l’“uomo religioso”, resistente o redivivo, può giungere a ritenere -al contrario - che non si possa e debba ridere di nulla (s’è vero che tutto è opera di un Dio, e che Dio è “una cosa seria” - non è forse questa peraltro la storia che si narra, in modo ironicamente fazioso, nel più noto romanzo di Umberto Eco?). Se il primo atteggiamento è sicuramente non privo di conseguenze (perché ignora quelle sensibilità, quelle culture, quei valori, quei vissuti che la ragione nella sua inarrestabile marcia ha creduto frettolosamente di poter ritenere ormai liquidati), l’esperienza religiosa, il sentimento del sacro, distanziando fermamente l’habitus razionale moderno e chiudendo ogni possibilità di reale dialogo con esso, non fa che giustificare la posizione di quanti, in nome di un razionalismo conseguente, annettono ogni esperienza di fede e ogni senso religioso, ogni istituzione confessionale, ai residui oscuri di una civilizzazione incompiuta: fossili culturali da cui un genere umano finalmente emancipato dovrebbe disfarsi. Ciò che più di tutto bisognerebbe sforzarsi di evitare sembra allora essere, come quasi sempre, proprio la polarizzazione, quella contrapposizione inemendabile (e anzi virtualmente soggetta a incremento esponenziale) che discende da ogni forma di oltranzismo. In forza di un simile oltranzismo (essenzialistico, quindi universalistico) non tanto si disconoscono, semplicemente, le ragioni dell’Altro, ma si nega la loro più intima legittimità; legittimità non di merito o di metodo (chiedere di riconoscere reciprocamente le quali sarebbe forse, in effetti, chiedere troppo - e ingenuamente), bensì rispetto a una condizione umana che è comune, e che costituisce l’unica dimensione entro cui i fenomeni (che infatti permangono storico-antropologici anche quando sembrano chiamare in causa Assoluti e Fondamenti) andrebbero sempre, saggiamente, ricondotti e compresi. La ragione post-illuministica - che lungi dall’avere smussato le proprie idiosincrasie le ha per molti versi accentuate, sprigionando energie nuove dal

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supplemento di disincanto attraverso cui ha imparato a considerare se stessa - non ha il senso del limite (se non di quello che essa stessa si riconosce): brucia ogni alterità indiscriminatamente, annichilisce. Ma rifà così la parte storica che per secoli hanno giocato le religioni “positive” (e in Occidente particolarmente il Cristianesimo), ne ricalca errori e omissioni, ne ripercorre e rilancia la iattanza totalitaria, ne riproduce la scandalosa postura autoritaria. Le religioni, per converso, dopo aver resistito all’onda d’urto della secolarizzazione, riprendono vigore fronteggiando la nuova temperie di una Modernità che, fedele alla propria vocazione originaria, non può che volersi “globale”; e nel disagio crescente di milioni d’individui e di talune particolari culture trovano nuovi margini, le religioni, per riaffermare se medesime, per rivendicare il perdurante valore di una Tradizione che si fonda sul Sacro. Non sono forse due spinte eguali e contrarie, nel loro porsi apparentemente antagonistico? Non sono due forme (psicologiche, culturali, ideologiche) di alienazione, d’intransigenza, di fanatismo? Quel fanatismo - sia chiaro - che non occorre esser (stati) seguaci dei Lumi per ravvisare e riprovare, ma che vede pure perfettamente ogni autentico spirito religioso, ogni credente sincero (la fede buona è infatti sempre buona fede) in qualcosa che esorbiti l’umano e lo comprenda. Forme di hybrise d’integralismo che proprio la capacità di non deridere, da una parte, e quella di accettare un riso che sia bonario (cioè in grado di non de-ridere, di non ir-ridere: di non umiliare e ferire), dall’altra, aiuterebbe forse a superare. Reciproco e pur implicito riconoscimento - non privo di un minimo quoziente di empatica com-passione per l’Altro, per i suoi sempre poveri idola - come componente umana indulgente e solidale che può essere condivisa da tutti e ciascuno, credente e non credente (in Dio o nella Ragione). Parte non marginale di quell’unico universalismo che ci sia concesso concretamente di conoscere, di sperimentare.


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Dibattito / Alle relazioni è seguito un vivace dibattito. Di seguito riportiamo gli interventi pervenutici

DIBATTITO/1 ◆

Senso comune:

un bene comune Anna Maria Colaci

S

orridere e ridere, senza irridere o deridere: appare difficile in una società come la nostra in cui per recuperare una certa ilarità ci facciamo beffe dell’altro-da-noi soltanto perché diverso, tuttavia il buon Socrate insegna che questa non è ironia, perché l’ironia non si prende gioco dell’altro e delle sue opinioni, ma, attraverso la desacralizzazione del senso comune, cerca di condurre alla ricerca della verità. Perché il senso comune appartiene a tutti: tutti possono incorrere nell’errore di ritenere la propria opinione universale e necessaria e questo può, forse, strapparci un sorriso, tuttavia ciò che non deve mai venir meno è il rispetto reciproco. Nella strage di Charlie Hebdo non c’è ironia e nessuna delle due parti cerca la verità: la satira, quella vera che deriva dalla parresia greca, non offende l’intimità dell’uomo né il suo credo religioso, ma punta, per esempio, sugli aspetti deteriori della politica e del costume. Deridere una religione significa per dirla con Jung - distruggere un fatto psichico. Chi potrebbe reggere a tanto? Con queste parole non si vuol giustificare la violenza, ma metterla in conto nel momento in cui il rispetto si sfalda per lasciar posto all’irrisione.

Matite spezzate da un potere vulnerabile DIBATTITO/2 ◆

Salvatore Luperto

I

vignettisti del noto giornale satirico Charlie Hebdo comunicano il loro pensiero ricorrendo a espressioni appartenenti al segno e alla sua visualità. Con la parola in simbiosi con l’immagine esprimono un significato, utilizzando la forza di due potenti canali di comunicazione il cui significato, spesso simbolico, direttamente o indirettamente incide nell’immaginario di ciascun lettore. Nella vignetta il contenuto è concentrato, sovrapposto in rapporto allo spazio e al tempo: lo spazio del giornale e il tempo del lettore. Il vignettista, per venire incontro ai nuovi tempi esistenziali del lettore, tralascia le forme espressive tradizionali e ricorrendo al linguaggio dei poeti verbo-visivi e dei pubblicitari, privilegia l’immagine caricaturale e la semplice parola. Gli umoristi Wolinski, Cabu, Tignous, Honorè, Charb, vittime dell’attacco al giornale Charlie Hebdo, sono stati uccisi dagli estremisti islamici soltanto perché la loro penna satirica incideva la coscienza dei lettori con la “battuta” della caricatura, soprattutto con quella più mordace. Con la scrittura e l’immagine concentrate nella vignetta, il messaggio, diretto a tutti, di facile e immediata comprensione, diventa tanto più penetrante quanto più sferzante, a tal punto che l’umorismo anche quello più cauto, è percepito come irrisione, scherno. L’efficacia di un’illustrazione satirica, in particolare di una caricatura consiste nell’alterazione dei difetti, volutamente accentuati, caricati (da qui il termine caricatura) di un luogo, di una persona, per comunicare in tono canzonatorio, una determinata realtà, provocando reazioni rapportate alla sensibilità delle persone cui è rivolto il messaggio. Si può irridere sempre e comunque? Per alcuni evidentemente no. Determinati luoghi, persone, eventi storici e divinità religiose sono vietati a qualsiasi dileggio, nonostante che fin dalle antiche civiltà più evolute la caricatura è sempre stata uno dei mezzi più rivoluzionari, soprattutto nei periodi di potere assoluto dei regimi forti. La caricatura con la sua forza immediata e penetrativa agisce sulla coscienza collettiva più degli eserciti in guerra; essa senza usare armi, ma la semplice distorsione dei difetti riesce a ritrarre una persona o una situazione in modo più preciso e reale di ogni descrizione narrata. Il grande artista Daumier aveva compreso l’efficacia del disegno satirico sulla massa e utilizzò le rotative di stampa e le litografie, durante la rivoluzione del 1830 contro il reazionario Carlo X, per diffondere le caricature degli autoritari politici di quel governo sulla rivista La Caricature. Daumier con il suo occhio acuto e uno spiccato senso dell’umorismo, con la sua arte, riuscì a cogliere i difetti dei personaggi politici, privandoli di carisma e di autorità, inficiandone la sacralità, rendendoli in questo modo vulnerabili e fragili. Chi esercita il proprio potere con l’imposizione autoritaria e minacciosa nei confronti degli umoristi satirici certamente ha paura della derisione come l’elefante ha paura del topolino. Non si può e non si deve in alcun modo e in particolare con la violenza delle armi impedire di esprimere le proprie idee anche con il sarcasmo. Chi è forte e sicuro di sé non può avere paura di una matita sarcastica. Ogni reazione così come la storia c’insegna, è sempre motivata dalla paura di perdere e di essere sconfitti.


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DIBATTITO/3 ◆ Cosimo Metrangolo

L

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Una questione di qualità

a satira è riproduzione ironica, e non cronaca, di un fatto. Essa è un modo soggettivo ed opinabile di vedere le cose. È sottratta al parametro della verità ed è eterogenea rispetto alla cronaca. Quest’ultima, infatti, avendo la finalità di fornire informazioni su fatti e persone è subordinata al controllo del riscontro storico. Al contrario, “la satira assume le caratteristiche della inverosimiglianza e della iperbole per destare il riso e sferzare il costume”. Deve riguardare tematiche e questioni sociali in quanto non è consentito ridicolizzare condotte e situazioni riferibili ad ambiti privati e intimi della persona, prive di rilevanza collettiva. L’esposizione della notizia deve evitare aggressioni gratuite alla altrui reputazione. Deve altresì esistere un interesse sociale alla diffusione della notizia, sebbene possa riguardare anche un numero limitato di persone. Nella satira, il limite della verità non è funzionale a contenere la critica, soggetta, invece, alla continenza ed alla pertinenza. “La critica può, in certe condizioni, offendere legittimamente la reputazione adoperando parole aspre e pungenti; deve esserci, però, un giusto equilibrio tra l’interesse individuale alla tutela della reputazione e quello alla libera manifestazione del pensiero”. “La satira - al contrario - esprime attraverso il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico sul fatto.” Essa è, dunque, assoggettata all’unico limite della continenza e della funzionalità dell’espressione e dell’immagine rispetto allo scopo di denuncia sociale e politica perseguito. La società di oggi è società che predilige la tecnologia e i piaceri derivanti da essa. È società indifferente ai bisogni dell’altro, è società utilitaristica che ambisce al ritorno economico, inneggia al riso e privilegia quanti sanno far ridere. Il ridere, infatti, ci distrae dalle problematiche esistenziali e sembra quasi che il target da raggiungere sia il ridere. Il riso chiassoso, il dileggio, le battute salaci oggi fanno parte delle abitudini di vita. Il buon umore è la regola della convivenza, del buon vivere sociale, dell’accettazione. “La famiglia, pilastro della società, educa al ridere, esige dai figli che sappiano ridere e far ridere. Di quei giovani che non sanno far ridere si dubita della loro capacità di realizzarsi, se ne critica la capacità di stare con gli altri, di non amare la vita in comune. La riservatezza, la serietà, la discrezione vengono guardati come malinconia e chi ne è affetto è etichettato come incapace di comunicare, ghettizzato come individualista. Si viene definiti come soggetti scarsamente vivaci.”

L’opportuno e razionale confronto tra due cose o due nozioni in opposizione tra loro è la causa del ridere. La comparazione congiunta, insolita ed arguta, fa nascere il ridere. In tal guisa, il far ridere è un ridere intelligente e sano. Non è quel riso amaro, sarcastico, sciocco di colui che è dominato dal pregiudizio, dal livore, dalla grettezza. In chi sa far ridere si presume attitudine alla saggezza, si suppongono raffinatezza, eleganza, vivace intelligenza e creatività: “la capacità di ridere - e far ridere - suppone razionalità”. Il peccato di derisione, invece, è il ridere dell’altro. Quel ridere che offende l’altro. Il verbo greco è kaghelao: derido, rido di te, schernisco, mi faccio beffe, beffeggio. Il deridere può essere una critica positiva, un giudizio negativo quando il deriso lo merita: “Dio ride dell’empio”. È accezione negativa quando si deride il giusto, il diseredato, lo sventurato, il pio. “La modernità ha portato con sé una crescita esponenziale di stima per il ridere”. “Il ridere comporta, dinamicamente, un aspetto positivo ed uno negativo” Positivo perché l’aumentata stima per il ridere è connessa alla serenità d’animo, al benessere, al buon carattere, all’ottimismo, al buon andamento delle cose. Soprattutto, il sano ridere è legato a benevolenza e a considerazione per l’altro. Maggiore è l’attenzione dell’uomo all’uomo. Più ci si allontana dallo spirito e più ci si avvicina al pragmatico, all’utilitaristico. Teorie illuministiche hanno ripreso il modo pagano di ridere, legato alla gioia sensuale, al successo mondano, al potere, al diffondersi dell’irriverenza. La gioia trionfale, l’esuberanza delle passioni relazionate all’illuminismo, derivano dalla “illusione razionalistica” dell’uomo che tutto può, dell’uomo autosufficiente. È, questo, un ridere deturpante ed annullante il rapporto con il sereno vivere sociale. Il rischio di oggi, pertanto, è quello di una stolta esagerazione nel ridere e nel ludere, soprattutto in quei contesti istituzionalmente riconosciuti come esempio di responsabilità, di compassione e di condivisione per i mali del mondo: guerra, emarginazione, povertà, malattia. L’eccesso del ridere fa pensare con immediatezza al proverbio “risus abundat in ore stultorum”. Tale atteggiamento fa pensare che sia il segno di grave, irrispettosa incoscienza in confronto ai propri doveri. È come un allontanamento dalle proprie responsabilità. Il ridere ironicamente dei propri e degli altrui vizi diviene virtù quando nasce come severa conquista di lealtà, serenità, onestà e giustizia.


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Il paradosso della satira che pretende di essere sacra DIBATTITO/4 ◆

Dario Marangio

N

ulla giustifica la violenza. La pace vera si basa sulla reciproca comprensione e rispetto e si costruisce con la rinuncia a forme di reazione sproporzionate o lesive del bene supremo della vita. Premessa indispensabile, questa, per evitare ogni equivoco. Ammettiamo, però, che apparteniamo ad una società che ha smarrito il concetto del sacro e, quindi, non può comprendere quanto possa essere aggressiva, offensiva e provocatoria la satira, che diventa irrisione gratuita e irresponsabile, verso diverse sensibilità, diversi costumi, diversi modi di vivere e di credere. “Dissacrare” o “provocare” sembrano espressioni sempre e comunque lecite, in qualunque contesto sociale; l’assenza di ogni limite sembra voler essere la riaffermazione di una libertà diversamente negata. La forma di comunicazione più efficace è il rispetto, da dare ed anche da pretendere, in funzione, peraltro, di un ‘indispensabile reciprocità: un rispetto verso i simboli più significativi di una cultura e di un credo, che sia il profeta Maometto, come Gesù Cristo in croce. È paradossale rilevare che la sacralità negata su quei simboli viene invece pretesa dalla satira stessa, che diventa essa stessa sacra quando la si vuole irrinunciabile e intoccabile.


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Venti quesiti su satira e religione DIBATTITO/5 ◆

Sergio Aversa

C

ome si può da una parte togliere il crocefisso e non fare il presepe per non urtare la suscettibilità dell’altro e dall’altra prendere per i fondelli Allah e il suo profeta? Non sarebbe meglio far convivere simboli diversi ed essere un po’ più rispettosi delle divinità altrui? E come si può, da una parte, autorizzare la costruzione di moschee, grandi o piccole che siano, mentre, dall’altra, si continua scientificamente a radere al suolo tutto ciò che può in qualche modo simbolizzare la presenza della chiesa cristiana? Ho sempre pensato che sorridere sia il modo migliore per dire un “sì” a chi da noi se lo aspetta. Che ridere sia il modo migliore per rilassarsi, ricaricarsi e trasmettere serenità. E che irridere sia invece il modo peggiore di porsi rispetto all’altro. Ma nel nostro caso non c’è irrisione! Possiamo stare tranquilli: è solo satira. O no? Vogliamo provare a toglierci il dubbio? E allora, quando è che la satira diventa irrisione? Forse quando il destinatario della satira è un soggetto che si trova in una situazione di disagio? Fisico, psichico o culturale che sia? E nel nostro caso? Vogliamo proprio negarlo un pizzico di disagio culturale, quanto meno negli esecutori materiali dei “fattacci”? E questo disagio culturale, andando un po’ indietro nel tempo, siamo proprio certi che non siamo stati proprio noi a volerlo? Siamo proprio certi di aver agevolato la loro cultura propinandogli prima colonialismi di vario genere e colore e poi dittatori al soldo di potenze e multinazionali? E non è forse vero che la peggiore schiavitù è proprio quella di tenere una persona lontana dalla cultura? E se la satira può essere intesa come provocazione costruttiva, che cosa è l’irrisione? Secondo me: pura codardia. Perché quando il ridere diventa irridere, il bersaglio dell’irrisione è sempre un bersaglio debole. E in quanto atto destinato ad un bersaglio debole, l’irrisione non è quindi offesa per il destinatario, ma lo è invece per l’intelligenza (?) di chi la mette in atto. Ma questo purtroppo il destinatario non sempre lo comprende. E a volte si incazza. Ma tutto ciò significa allora che “quelli” che hanno combinato tutto il casino di Parigi, hanno fatto bene? No, ma se uno viene nutrito (da chi ha interesse a farlo) a pane e odio, se gli impediscono di leggere un libro che non sia il Corano (sempre se gli consentono di leggerlo), se gli mettono in mano un kalashnikov quando ha solo dieci anni e gli fanno capire che quello è il suo unico sistema di sopravvivenza: forse una reazione del genere te la devi aspettare? Perché? Forse perché dovremmo sempre ricordarci che dopo aver volontariamente scavato un abisso culturale tra noi e loro, le parole della mia cultura e quelle della sua, pur sembrando uguali possono avere significati profondamente diversi? Forse perché tu ahivoglia a dire che hai lottato strenuamente per la “libertà di espressione”, se per l’altro “libertà” ha solo il suo significato più tradizionale? Quante domande! E nessuna risposta! Tranquillo Sergio, non dubitare. Alle risposte ci penseranno loro: politologi, tuttologi e intellettuali. Quelli veri e soprattutto quelli presunti. Assenti ingiustificati (o poco presenti): storici ed economisti. Che siano anche loro al soldo dei potenti?


Chiara Agagiù Lecce, 1987. Conclude la sua formazione umanistica nel 2013 presso l’Università del Salento, specializzandosi in critica letteraria con una tesi di laurea interdisciplinare sulla rappresentazione del volto umano. Strenuamente impegnata nella dialettica tra affrancamento e ricerca delle proprie radici, è impegnata in progetti legati all’economia e alla storia della sua terra d’origine. Ultimamente svolge attività di ricerca nell’ambito degli studi visuali interessandosi, in particolare, al rapporto tra parola e immagine. Rossano Astremo Nato a Grottaglie (Taranto) da anni vive e lavora a Roma. Ha pubblicato raccolte poetiche, racconti, romanzi, saggi. Suoi, tra gli altri, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita (Newton Compton 2009), il romanzo Tutto questo silenzio (Besa 2010) con Elisabetta Liguori, Con gli occhi al cielo aspetto la neve (Manni 2013), biografia di Antonio Verri. Emanuele Augieri Grafico editoriale e pubblicitario, attento osservatore del design comunicativo nelle sue varie sfaccettature. Dal libro alla fotografia all’animazione fino a raggiungere l’oggetto fisico. Responsabile del Centro Culturale ITES-Lecce. Sergio Aversa Nato a Monteroni (Lecce) nel 1946, ingegnere trasportista sino al 2013, dirigente alla Mobilità del Comune di Lecce, ora in pensione. Nel tempo libero scrive, dipinge, canta e cucina. Anna Maria Colaci Insegna Storia della pedagogia all’Università del Salento. I suoi interessi scientifici sono orientati verso una ricostruzione storica del processo formativo, anche attraverso il contributo degli ambienti culturali non espressamente pedagogici, ma che influenzano comunque la formazione delle coscienze, della cultura e dei comportamenti. Tra i suoi ultimi lavori figurano L’educazione all’igiene nel ventennio fascista (PensaMultimedia, 2008), Rieducare. Eros e costume in Terra d’Otranto (Milella, 2012). Marco Gaetani Lavora presso il Centro per il Simbolo dell’Università di Siena. Ha pubblicato saggi sugli scrittori italiani del Novecento (tra gli altri, Calvino, Fenoglio, Gadda, Montale) e intorno a temi e problemi di teoria letteraria. Professore a contratto di etica alla facoltà di Medicina, è membro del Consiglio direttivo del Centro studi Fabrizio De Andrè dell’Ateneo senese. Paolo Leoncini Docente di Letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia dal 1970 al 2008, dal 2006 codirige “Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale”. Si è occupato di letteratura veneta del Novecento e dei rapporti tra letteratura e critica, in riferimento, in particolare, a Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, sui quali ha pubblicato, tra gli altri, L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini (Adelphi, 2000). Salvatore Luperto È coautore e direttore artistico del Museo di arte contemporanea di Matino (Lecce). Insegna Materie letterarie negli Istituti superiori, attività che affianca a quella di critico. Tra i progetti da lui curati l’ultimo, in ordine di tempo, è L’arte e altri saperi, Officine Cantelmo, Lecce, 2014. Saifeddine Maaroufi Imam e rappresentante istituzionale della comunutà islamica leccese, è arrivato in Italia nel 2011, fuggendo dalla Tunisia di Ben Ali. Ha fondato, nel 2012, l’associazione di promozione sociale Noi Salento, che si occupa delle necessità dei musulmani leccesi e di dialogo interreligioso.

Dario Marangio Funzionario di banca. Interessato a varie forme di comunicazione, al confronto e all’interlocuzione di diverse maniere espressive tra generazioni. Cosimo Metrangolo Laureato in Medicina e chirurgia presso l’Università degli studi di Messina, è specialista in Anestesia e rianimazione. Ha esercitato per quarant’anni presso l’Asl “Vito Fazzi” di Lecce ed è stato cultore delle materie di Igiene e Medicina scolastica alla facoltà di Magistero. Appassionato in primis di discipline umanistiche, ha praticato anche arti marziali e paracadutismo. Ha realizzato un calendario satirico dal titolo “Rianimiamoci con…”. Piera Miglietta Giornalista pubblicista, si è laureata in Materie letterarie con una tesi sperimentale su Semantica della lontananza e dell’arcano in Myricae e nei Canti di Castelveccchio. Collabora da quasi quindici anni con Nuovo Quotidiano di Puglia come corrispondente dai comuni della provincia di Lecce e critico letterario. Ha scritto la prefazione al libro Ulivo: simbolo del Salento (Centro studi Aldo Moro, 2004). Appassionata di letteratura (soprattutto i classici), poesia, storia, teatro, cinema del neorealismo. Federica Stella Rizzo Nata a Santa Cesarea (Lecce) isola felice cullata dal mare e carezzata dal vento. Laureata in Lettere e filosofia, ha svolto una tesi sul ruolo della metafora e dell’immagine nella strutturazione del pensiero, traendone un metodo per facilitare l’apprendimento. Porta avanti un percorso di studi personali sull’importanza dell’espressione artistica e della differenza sociale. Livio Romano Maestro elementare di inglese, momentaneamente occupato in un dottorato di ricerca su Pier Vittorio Tondelli. Laureato in giurisprudenza, scrive da sempre. Collabora con una gran quantità di periodici fra cui l’inserto barese del Corriere della sera. Ha scritto e condotto reportage e radiodrammi per la Rai e pubblicato tre romanzi, fra cui Mistandivò per Einaudi e Niente da ridere per Marsilio, due pamphlet di costume satirici, svariati racconti su riviste e antologie. Insegna scrittura creativa in associazioni, licei, università e cura l’edizione di inediti come freelance. Giorgia Salicandro Giornalista pubblicista, scrive di politica, cultura, costume su quotidiani e riviste. È stata responsabile, dal 2009 al 2012, del settore “Università e scuola” per il quodiano salentino Il Paese Nuovo. Interessata al rapporto tra corpo e scrittura, ha dedicato all’argomento due tesi di laurea, rispettivamente su Patrizia Valduga e Pier Vittorio Tondelli, oltre a diversi contributi presentati in convegni a carattere nazionale. Mimmo Tardio Tra i fondatori della Libera Università dell’autobiografia di Anghiari, insegna lettere nelle scuole superiori e tiene laboratori di scrittura autobiografica. Collabora con Enti culturali e artistici. Ha pubblicato saggi, poesie, racconti e altri scritti; tra gli altri, Historietta (2002) e Strade Maestre (2008). Ruggero Vantaggiato Giornalista e uomo politico, dirige dal 1969 la rivista satirico-umoristica La Carrozza, e dal 1979 il periodico di attualità, politica e cultura Informazioni Sud. Ha collaborato con diverse radio e televisioni locali. È presidente dell’associazione Lega per la difesa del cittadino.


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