photo CLAUDIO VIGNOLA
It’s Different magazine edizioni Mille srl anno 8 n.44/2017. free press Autorizzazione Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009 - itsdifferent.it
VITA CONTEMPORANEA
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RAVENNA UNO E DINTORNI
MAGAZINE
info@itsdifferent.it n.45/ 2017 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni - Claudio Notturni - Mara Pasti Lehila Laconi FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto info@millemedia8.it
Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 - 0544.1990044 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna
RIVISTA ACCEDITATA
73°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2016
Copertina Fotografo: Claudio Vignola Model: J Moon@The Lab Milano Stylist: Marty Pelli(IG:@baldambemba) mua: Eleonora G.Pellegrini hair: Andrea D’Amore
OLIVIERO TOSCANI SUORA E PRETE
OLIVIERO TOSCANI CINQUANTA ANNI DI MAGNIFICI FALLIMENTI
Certo a pensare che Oliviero Toscani sia un fallito si fa un po’ fatica, me se lo dice da solo e quindi ci crediamo. Per chi conosce un minimo la storia di Toscani, non si può che pensare che il fallimento sia per lui una prospettiva, perché sentirsi arrivati significa fermarsi e lui fermo è impossibile da immaginare. Nasce a Milano nel 1942 ed è figlio d’arte: suo padre, Fedele, è stato il primo fotoreporter del Corriere della Sera. Sono proprio il padre, la sorella e il cognato Aldo Ballo (il più affermato fotografo del design milanese) a spingerlo a non improvvisarsi, a studiare in una grande scuola, se il suo desiderio è quello di diventare fotografo.
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La migliore di quel momento è a Zurigo, la Kunstgewerbeschule. Il preside era Johannes Itten, il maestro del colore della Bauhaus, e tra gli insegnanti c’erano alcuni dei più importanti grafici e fotografi del mondo. Toscani non sa una parola di tedesco, ma tenta comunque i difficili esami di ammissione, per lo più pratici, che vanno avanti per 5 giorni di fila. Passano in pochissimi dei 600 che si presentano e lui è uno di questi. Lì impara la teoria del colore, la tecnica e la composizione. Dello stesso periodo sono anche gli emozionanti scatti che un Toscani appena 21enne realizza a Don Lorenzo Milani, nella sua scuola di Barbiana. Si diploma nel maggio del 1965 e finalmente è su piazza: può cominciare quella che si sarebbe rivelata una carriera scintillante. Quelli sono gli anni della frattura con il vecchio mondo, gli anni dei Beatles e degli Stones, della minigonna inventata da Mary Quant, delle contestazioni. Toscani immortala quei momenti con la sua macchina fotografica e non si lascia sfuggire gli eventi salienti che contraddistinguono la sua generazione. È in prima linea al concerto del Velodromo Vigorelli di Milano per fotografare i
Beatles in occasione della loro unica tournée italiana. Baffi alla Gengis Khan, stivaletti della beat generation e ovviamente capelli lunghi, Toscani ci mette poco ad affermarsi e a diventare uno dei fotografi più richiesti dalle riviste di tutto il mondo. Agli inizi degli anni ’70 decide di trasferirsi a New York e non va a vivere in un posto qualunque: si trasferisce per qualche tempo al Chelsea Hotel, intorno alle cui stanze ruota tutta la cultura Underground della grande mela. È lì che abitano, o avrebbero abitato, Bob Dylan e Leonard Cohen, Iggy Pop e Sam Shepard, Tom Waits e Robert Mapplethorpe e Sid Vicious. In quel periodo Toscani, si fidanza con la modella Donna Jordan e frequenta la Factory di Andy Warhol, con cui diventa amico e che gli fa spesso da modello per le fotografie. Passa le serate al Max Kansas City o al Club 57 e fotografa tutti i protagonisti della scena musicale e creativa di allora: Mick Jagger, Joe Cocker, Alice Cooper, Lou Reed. Il suo primo grande scandalo è del 1973: fotografa in primissimo piano il fondoschiena di Donna Jordan con su i jeans della marca Jesus e ci piazza sopra lo slogan “Chi mi ama, mi segua”. Il manifesto fa
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il giro del mondo e le polemiche infuriano come mai prima era successo intorno a una pubblicità. È Pier Paolo Pasolini sulla prima pagina del Corriere della Sera ad ammonire tutti quei facili moralismi, parlando di come quell’immagine ponesse un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista. Il nome di Oliviero Toscani, e non solo le fotografie, è ormai noto in tutto il mondo. Gli anni ‘70 sono quelli che lo vedono come forza creativa dietro i più grandi giornali e marchi di tutto il mondo: Vogue, Harper’s Bazaar, GQ, Elle. E poi Missoni, Valentino, Armani, Esprit, Prenatal, Chanel e soprattutto Elio Fiorucci, il vero innovatore della moda a livello mondiale, con il quale Toscani stringe una forte collaborazione, oltre che un amicizia indissolubile. Nel 1982 avviene invece l’incontro che cambia il mondo della comunicazione: Toscani inizia a realizzare le campagne per Benetton, dando vita a una serie che ognuno di noi ha ben stampata nella mente. Inventano il marchio United Colors Of Benetton, quel rettangolino verde che sarà posto sulle fotografie che scuoteranno le coscienze del mondo. Anziché usare foto di moda, Toscani con le campagne Benetton parla di razzismo, fame nel mondo, AIDS, religione, guerra, violenza, sesso, pena di morte. In quegli anni attira su di sé pesantissime accuse, quelle di sfruttare i problemi del mondo per fare pubblicità ai maglioni. È l’esatto contrario: Toscani usa il mezzo pubblicitario per parlare dei problemi del mondo. Anche dopo Benetton i suoi “scandali via advertising” arrivano puntuali: dà uno slancio alla discussione sulla regolamentazione delle unioni gay, creando una grande campagna che mostra una coppia di omossessuali giocherellare teneramente su un divano o spingere un passeggino. Nel 2007 invece scuote violentemente il fashion system, facendo trovare pronta proprio per la settimana della moda di Milano una campagna con la fotografia di una ragazza anoressica completamente nuda, a mostrare i segni distruttivi della malattia che le case di abbigliamento invece sfruttano. Da 10 anni, poi, gira le strade del Mondo con il suo progetto Razza Umana, con il quale ha immortalato con set estemporanei decine di migliaia di persone. Toscani vuole dirci che è nell’esaltazione delle differenze che si manifesta la più alta delle qualità degli esseri umani. Non possiamo dire tutto in queste poche righe, perché raccontare la storia di Toscani non è cosa semplice. Godetevi la mostra, di parole ne abbiamo spese anche troppe. Nicolas Ballario P.S. Ah, una cosa che non possiamo non dirvi: in mostra ci sarà anche il primissimo piano di un africano con due occhi diversi tra loro, fotografia con la quale Toscani lanciò il suo centro di ricerca, FABRICA, nel 1993. Non ve lo dico solo perché è la fotografia preferita di chi scrive, ma perché David Bowie fu così colpito da quell’immagine da decidere di scriverci su una canzone, Black Tie, White Noise. Ecco, giusto per farvi capire quant’è figo Toscani.
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Whitelight Art Gallery www.whitelightart.it
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atmosfera e sapori Cucina del territorio rivisitata Specialità di carne e pesce Pane fatto in casa Preparazione a base di foie gras e tartufi in stagione Formaggi d’alpeggio con mostarde e confetture Ampia selezione di vini nazionali
Aperto a pranzo anche per colazioni di lavoro. Ideale la sera, per cene intime, in una romantica atmosfera
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Via Faentina, 275, San Michele Ravenna (chiuso Giovedì) Tel.0544. 414312
COLORI
SAPORI E SORRISI DELL’ECUADOR
di Annalisa Giacomello Io e Paolo siamo partiti per questo viaggio senza ben sapere quello a cui andavamo incontro. La meta per questa seconda luna di miele, ben 25 anni dopo la prima, è stata scelta dopo aver visitato diversi siti internet e programmi di viaggio dei più disparati tour operator con destinazione Centro e Sud America. Non è stato un viaggio economico, anche se la vita in Ecuador costa poco: con poco tempo a disposizione, abbiamo organizzato il più possibile dall’Italia (guida locale, fuoristrada, haciendas ed hotel, voli interni e crociera) concentrando così le cose da vedere e da fare. L’intento era di percorrere la avenida de los volcanes, visitare mercati indigeni, città coloniali e naturalmente le Galapagos, una delle sette meraviglie naturalistiche del mondo moderno. Invece, ci siamo trovati avvolti in un turbine di emozioni difficili da raccontare: gioia, commozione, stupore e serenità, il cui ricordo ci pervade con un persistente velo di nostalgia. Arriviamo a Quito dopo un volo abbastanza lungo e con tre scali intermedi, ma il sole e la temperatura primaverile con cui ci accoglie la città ci fanno immediatamente dimenticare la stanchezza. Geograficamente siamo all’equatore, ma l’altitudine della città (2850 metri sul livello del mare) conferisce a questo luogo un clima di perenne primavera. La nostra guida, Guillermo, un ecuadoriano/cubano gentile e disponibile ci accompagna in hotel e ci lascia il tempo di riposare prima di accompagnarci al museo etnografico, per una prima panoramica dei luoghi e delle etnie che avremmo incontrato nel nostro percorso. Noi però siamo eccitati e cominciamo subito a vagare per vie e viuzze, assaporando odori e rumori di questa città. La stanchezza, però, a fine giornata si fa sentire e così dormo per dodici ore filate. La mattina seguente cominciamo il tour prestabilito, iniziando proprio dalla visita di Quito e del suo centro storico in spiccato stile coloniale, per poi andare sul Panecillo per una visita dall’alto della città. Guillermo ci porta a mangiare camorones e corvinas, annaffiati da un’ottima bibita a base di avena di cui non ricordo il nome. Nel pomeriggio, saliamo in teleferica sino a 4100 metri. Lo spettacolo è magnifico, ma l’altezza si fa sentire, così beviamo mate de coca per ricaricarci e scaldarci. Il giorno dopo lasciamo la città in direzione nord verso la mità do mundo ossia la materializzazione della linea dell’equatore latitudine 0.’00’00. Classica foto comprendente entrambi gli emisferi terrestri e via, anche perché non c’è proprio nulla più da vedere. Iniziamo il percorso tra le due cordigliere andine prima in direzione nord e poi in direzione sud,
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seguendo la Panamericana, stupiti per la maestosità dei vulcani, il verde intenso dei prati e dei campi coltivati, l’innumerevole varietà di fiori, l’enorme quantità di acqua: lagune, torrenti, fiumi e rigagnoli in ogni dove. Il territorio è disseminato di villaggi, con case in muratura semplici ma dignitose, visi sorridenti e disponibili al saluto. Caratteristiche somatiche ed abbigliamento cambiano di volta in volta a seconda della comunità incontrata: ci sono i Chachi, gli Otavalenos, i Cayambe, i Canaris, ecc. che incominciamo a distinguere, seguendo le indicazioni di Guillermo. In ogni paese, c’è il monumento alla produzione locale così troviamo il monumento alla cipolla o alla carota, quello al gelato ecc. Che dire, poi, dei mercati indigeni? Quello di Otavalo è sicuramente il più grande e ben fornito agli occhi del turista desideroso di souvenir, dove proprio non si può resistere al richiamo dell’acquisto, ma Latacunga non ha paragoni per chi desidera gustare ed assaporare i prodotti di quella terra. È una gioia per gli occhi ed una delizia per il palato girare tra i venditori e le bancarelle improvvisate, assaggiando frutta mai vista prima. Una parte del mercato è dedicata al commercio dei cereali ed anche qui ci sorprende la gran varietà di mais e di tuberi sconosciuti. Un’altra parte del mercato è dedicata alla comida: la mattina presto si comincia a preparare sopa (brodo) di gallina ed a cuocere la fritada (maiale fritto), e
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l’aroma si espande in tutto il mercato. Arriviamo in Ambato durante il “carnevale della frutta e dei fiori”. Purtroppo non c’è il tempo per assistere alla sfilata ma vediamo, negozi, balconi e la facciata della chiesa rivestiti con decorazioni floreali o veri e propri disegni realizzati con frutta, fiori e formelle di pane. Ogni sera alloggiamo in una diversa hacienda, dove consumiamo la cena e trascorriamo la notte. Sono dimore di gran charme e, anche se qualche volta lo scarico del lavandino perde o l’acqua calda non funziona bene, si può soprassedere e gustare appieno le peculiarità di questi luoghi. Prima di cena, si può gustare come aperitivo un canelazo (bibita calda alla cannella, cui viene spesso aggiunta aguardiente, cioè grappa) ed ascoltare musica folcloristica andina. Il percorso prosegue verso sud sulla Panamericana, ai piedi di maestosi vulcani e paesaggi selvaggi di una bellezza sconvolgente, circondati dal solo rumore del vento. In posizione scomoda, seduti sul tetto del trenino delle Ande, ci godiamo spaccati di vita comune sgranocchiando banane fritte acquistate da acrobatici venditori ambulanti che percorrono il tetto del treno, cercando inesistenti varchi tra le persone sedute. La ferrovia è alquanto sgangherata e malridotta da decenni
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di inesistenti manutenzioni ed il tempo di percorrenza si allunga così, a causa di una rotaia sprofondata nella fanghiglia (peraltro, prontamente sistemata dal personale ferroviario a bordo del treno) o del deragliamento del locomotore. Qui noi abbiamo proseguito a piedi dal momento che ci trovavamo a pochi chilometri dall’arrivo. Il treno è stato comunque riposizionato sui binari in poco tempo ed in meno di un’ora lo abbiamo visto arrivare in stazione. Continuiamo verso Cuenca, ultima città a sud nel programma di viaggio soffermandoci sulle rovine di Ingarpirca, sito Incas realizzato in simbiosi con analoghi edifici di cultura pre-incaica dalle popolazioni del luogo. Arriviamo a Cuenca a sera inoltrata. Possiamo così ammirare i paesini circostanti in una prospettiva notturna, a cui non siamo avvezzi: il centro del paese è nettamente distinguibile dall’illuminazione della chiesa e delle poche vie circostanti e rende una chiara idea di come l’inquinamento luminoso abbia oggi trasformato le nostre cittadine. Cuenca è una città coloniale pulita, ordinata e ricca. Capitiamo nel mezzo del carnevale: la città è semideserta perché gli abitanti hanno approfittato di questi giorni di vacanza per gite fuori porta. Girando per la città, diventiamo anche noi bersaglio del rito dell’acqua che qui accompagna i festeggiamenti del carnevale e che ci ricordano il nostro ferragosto. Visitiamo una fabbrica di cappelli (Panama) che in Italia sono commercializzati dalla Borsalino. La parola fabbrica non è però la più adatta per descrivere questo luogo. La vera costruzione del cappello cioè raccolta, essiccatura e lavorazione della paglia, intreccio e realizzazione del cappello, viene eseguita esternamente, principalmente da donne e bambini, che presumo sottopagati. La fabbrica provvede poi al lavaggio di questi prodotti, alla coloritura, sagomatura e commercio degli stessi, peraltro con ottimi risultati estetici e di marketing. Il giorno dopo abbandoniamo la Panamericana e gli altipiani tra le cordigliere andine, dirigendoci ad ovest verso Guayaquil. Attraversiamo la cordigliera ovest, passando per il parco del Cajas, su su fino oltre i 4000 metri di quota e quindi giù verso il mare. La vegetazione ed il clima cambiano durante il percorso. Non abbiamo sempre tempo per fermarci ma molte piante attirano la mia attenzione. Ci sono ora grandi coltivazioni di ananas, banane, caffè , cacao e riso. Le case di muratura diventano baracche su palafitte, i fiumi della sierra diventano mari d’acqua. La nostra guida non ama Guayaquil per la nomea di città malavitosa, ma, soprattutto per il clima caldo-umido tropicale. Guayaquil però è una città moderna nella quale un’amministrazione politicamente forte sta cambiandone la fisionomia. Il malfamato lungofiume, ora “Malecon 2000”, perché inaugurato proprio in quell’anno è diventato la passeggiata domenicale degli abitanti; negozi, ristoranti, giardini e percorsi pedonali sono sempre pieni di gente. La mattina dopo si parte per Baltra, per la visita alle Galapagos, ma questa è un’altra storia…
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HELIDON XHIXHA L’energia delle forme
Nell’incredibile atmosfera di Arte Fiera, che per ben quattro giorni ha decretato Bologna capitale dell’arte contemporanea, per via del fermento e delle innumerevoli iniziative svoltesi in tutta la città e che hanno coinvolto oltre cento spazi pubblici e privati, It’s Different ha incontrato Helidon Xhixha, un artista in continua e inarrestabile ascesa, il quale sta realizzando progetti molto ambiziosi. Nato a Durazzo nel ’70, Xhixha ha studiato prima all’Accademia delle Belle Arti di Tirana, poi a Brera, e infine, grazie ad una borsa di studio, alla Kingston University di Londra. Noto per le sue grandi sculture di acciaio, realizzate con tecniche innovative, si è imposto all’attenzione del mondo dell’arte internazionale attraverso una lunga serie di esposizioni: in America, in Inghilterra, a Dubai, in Germania e Francia, in Svizzera, Austria, Russia, e nel Principato di Monaco. Suoi anche diversi monumenti e installazioni pubbliche. Com’è stato studiare arte in Italia? Dal punto di vista artistico l’Italia è una meta ideale: del resto, il patrimonio artistico, storico e culturale di questo Paese è unico al mondo, è qui che tutto è cominciato. Dunque, quando grazie ad una borsa di studio ho potuto trasferirmi a Milano e frequentare l’Accademia di Brera, dove mi sono poi laureato, è stata per me un’occasione meravigliosa: ho raccolto stimoli culturali che hanno
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contribuito non poco ad indirizzare la mia ricerca artistica. Mentre a Londra? Molto significativa è stata anche la mia esperienza alla Kingston University. Ho potuto approfondire le mie conoscenze sulla scultura, sull’incisione e anche sulla fotografia. Sono del parere che un artista per essere tale, debba poter contare su una preparazione completa e a tutto tondo su quelle che sono le arti. I tuoi esordi? Ho iniziato a dedicarmi all’arte quando avevo appena sei anni. Sono figlio di un pittore e ho frequentato assiduamente lo studio paterno. Posso tranquillamente affermare di essere cresciuto respirando arte, addirittura nutrendomene. Anche mio fratello, cresciuto in quest’ambiente, è ora un artista. Entrambi, guidati da nostro padre, siamo stati educati al pieno rispetto della tradizione artistica del nostro Paese, dove era molto consolidata una impostazione figurativa che ci ha abituati sin dall’inizio ad una ferrea disciplina. Quali sono gli autori del passato che consideri maestri? Uno su tutti è Henry Moore. Sin dal primo istante in cui ho visto le sue opere, mi sono in qualche modo riconosciuto; trovo straordinari il plasticismo misurato
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delle sue composizioni e il rapporto tra vuoto e forma che le caratterizza, così come quello fra passato e presente. Ho ritrovare alcune analogie con il suo lavoro nelle mie ricerche fatte ancora prima di poterlo studiare e conoscere. Che cos’è per te la scultura? La scultura è per me un concetto visivo dinamico, capace di utilizzare la luce come materia prima, per restituire energia e movimento. Un giorno mi è capitato di osservare le forme e le luci in movimento che si vedono sott’acqua durante un’immersione subacquea, ne rimasi impressionato. Cercai allora di riprodurre, almeno parzialmente quegli effetti, lavorando con il vetro di Murano, un materiale speciale che scaturisce dal contrasto fra caldo e freddo, che permette di manipolare la forma, il colore, le trasparenze, la luce, per effetti di grande dinamismo. Ma è stato l’incontro con l’acciaio a dare una svolta importante alla mia ricerca poetica. Come avvenne? Fu del tutto casuale. Avevo messo piede in un’azienda per altri motivi, quando mi sono ritrovato al cospetto di un cassone che conteneva scarti di metallo: è stato come se mi si aprisse un mondo nuovo davanti agli occhi. Ho riconosciuto in tale ammasso, apparentemente informe,
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quelle che per me erano invece delle forme straordinarie, dove circolava un’energia indescrivibile. È stato circa dieci anni fa e da allora non ho mai smesso di lavorare con l’acciaio. Si tratta di un lungo percorso di avvicinamento e di conoscenza, perché naturalmente ho dovuto pian piano imparare le tecniche e anche sperimentarne di nuove, che mi hanno portato ad inventare speciali presse attraverso cui riesco ad ottenere gli effetti plastici che mi prefiggo. L’acciaio è un materiale incredibile e dalle doti nascoste, che risponde perfettamente alle mie esigenze di utilizzare i segni per canalizzare l’energia e la luce e al tempo stesso rappresenta una sfida continua dal punto di vista tecnico. Grandi installazioni urbane ti hanno fatto apprezzare in tutto il mondo. Quali sono adesso i sogni da realizzare? La mia principale ambizione, quello che io cerco di fare ogni giorno per mezzo del mio lavoro, è modellare la luce attraverso i segni. È per arrivare a questo che ho intrapreso da anni una costante ricerca stilistica e tecnica, che mi ha portato ad un linguaggio aniconico, in grado di raccontare il mio mondo interiore e l’energia che vi scorre.
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Jodhpur, la città blu Il colore di Jodhpur racconta la sua storia e la rende leggenda, quella di una popolazione che crea un paradiso nel cuore del Rajasthan, così caldo e ricco di tempeste di sabbia. Non ci sono citazioni storiche che giustifichino il motivo della scelta del colore blu. Però ci sono molti motivi scientifici e psicologici: • il colore blu è associato a Lord Shiva e a Jodhpur c'erano molti Bramini seguaci di Shiva che lo considerano sacro. • il colore blu è psicologicamente più rilassante (come ha detto Mark Zuckerberg, ”è uno dei motivi per cui Facebook è blu”) • dal momento che il colore blu riflette la maggior parte del calore, questo potrebbe essere le ragione più importante per mantenere la casa più fresca, dato che Jodhpur è la città dell'India che riceve la più alta quantità di energia solare per unità di superficie. • questa vernice è una miscela di calcare e di solfato di rame mescolato con acqua e applicato direttamente alle pareti sia all'interno che all’esterno delle abitazioni, dal momento che il calcare e il rame sono facilmente disponibili in prossimità della città, questa è anche l'opzione più economica. Claudio Notturni [info@sturbgraphic.com]
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and the carpet Alan Belcher, Walter Dahn, JirĂ Georg Dokoupil, Liam Gillick, Ilya ed Emilia Kabakov, Joseph Kosuth, Ken Lum, Jonathan Monk, Peter Nagy, JuliĂŁo Sarmento, Rob Scholte, Rosemarie Trockel, Heimo Zobernig
The Interior and The Carpet è una mostra di tappeti d’artista, realizzati in edizione limitata, prodotti da Petra Grunert Singh di Equator Production, New York (www.equatorproduction.com), che include i lavori di 13 artisti internazionali: Alan Belcher, Walter Dahn, JirĂ Georg Dokoupil, Liam Gillick, Ilya ed Emilia Kabakov, Joseph Kosuth, Ken Lum, Jonathan Monk, Peter Nagy, JuliĂŁo Sarmento, Rob Scholte, Rosemarie Trockel, Heimo Zobernig. La mostra, allestita al Pacific Design Center di Los Angeles, importante distretto per il design contemporaneo progettato dall’architetto argentino Cesar Pelli nel 1975, si potrĂ visitare fino al 23 giugno 2017. Il progetto espositivo The Interior and The Carpet ha l’obiettivo di mostrare l’evoluzione del concept che sta alla base del lavoro di Equator Production. L’esposizione presenta la prima lista di artisti a cui vennero FRPPLVVLRQDWL WDSSHWL GÂśDXWRUH WUD LO H LO :DOWHU 'DKQ -LÄœt *HRUJ 'RNRXSLO 3HWHU 1DJ\ 5RE 6FKROWH H 5RVHPDULH Trockel, cosĂŹ come una serie di tappeti piĂš recente, a partire dal 2014, realizzati da Alan Belcher, Liam Gillick, Emilia e Ilya Kabakov, Joseph Kosuth, Ken Lum, JuliĂŁo Sarmento, Heimo Zobernig. Questa selezione è stata curata da Cornelia Lauf per Equator Production, in un progetto gestito da GoldenRuler, Roma (www.goldenruler.eu). Alcuni di questi tappeti sono stati recentemente esposti alla mostra Wall to Wall: Carpet by Artists al Museum of Contemporary Art (MOCA) di Cleveland, sempre a cura di Cornelia Lauf. Il tappeto concepito da JirĂ Georg Dokoupil, Ohne Titel (unique) del 1986, e quello di Rob Scholte, Mens Erger Je Niet del 1988, sono i primi pezzi d’autore prodotti da Equator Production. Spiral di Walter Dahn, un tappeto che
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rappresenta l’immagine di una spirale con piccole figure disegnata a mano libera su fondo bianco, e Disease and Decoration di Peter Nagy, sono invece esemplari del 1991, quando l’azienda proseguiva già da qualche anno la sua avventura nel settore. Sempre del 1991 è Plus Minus, un tappeto che presenta una superficie ossessivamente punteggiata di segni positivi e negativi realizzato dall’artista tedesca Rosemarie Trockel. Tra i manufatti più recenti ci sono il tappeto di Joseph Kosuth, Remarks on the Foundation of Mathematics (2015), intrecciato a Katmandu, Nepal, che fa riferimento a un libro di filosofia della matematica, pubblicato nel 1956 da Ludwig Wittgenstein; il tappeto di Ken Lum, The Path from Shallow Love to Deeper Love (2015), che si appropria di un’immagine readymade e ne fa il soggetto dell’opera: un antico pattern decorativo grecoromano, di origini cinesi, pensato per simboleggiare l’infinito. Utilizzando colori caldi per tracciare il disegno labirintico, Lum usa un titolo poetico per suggerire un tortuoso, e a volte mistificante, viaggio nei sentimenti umani; il tappeto di Heimo Zobernig, Carpet / Rug (2015), che giocando, come a volte gli artisti fanno, con il linguaggio, pone la questione ancora aperta se è il tappeto è un semplice oggetto per coprire il pavimento o se è un oggetto d’arte. Il Lihotzky Carpet (2015) di Liam Gillick, artista britannico particolarmente noto per il suo uso del colore applicato a strutture in acciaio inox e plexiglass, riproduce, come fosse un manifesto, l’immagine di un disegno della cucina di Francoforte, progettata nel 1926 dall’architetto austriaco Margarete Schütte-Lihotzky, corredandolo di segni che alludono a percorsi domestici. L’obiettivo della cucina di Francoforte era semplice: creare uno spazio il più possibile efficiente, che fosse igienico e che facesse risparmiare tempo e denaro. È importante sottolineare che questo disegno separava la cucina dallo spazio della vita quotidiana, creando una linea di demarcazione tra il lavoro (la cucina) e il tempo libero (il soggiorno). Nel tappeto Hole in the Wall (2016) di Ilya ed Emilia Kabakov il decoratore nepalese ricrea con la lana un disegno che Ilya Kabakov ha realizzato nel 1970 per un portfolio di 72 stampe. L’immagine assomiglia alla mappa di un luogo in un campo rosso, forse un idillio di epoca sovietica in cui una delle figure rappresentate risiedeva. Blocks (2016) di Julião Sarmento si basa sui
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blocchetti di costruzione di un insieme architettonico. Di solito Sarmento crea architetture concettuali nei suoi dipinti, o paesaggi di memoria. In questa sottile fusione di spazio, matematica applicata all’architettura e arte tessile, l’artista trasforma le forme più basilari in materiali elementari. Dog Chew Rag (2016) di Alan Belcher, è un tappeto realizzato con i residui del giocattolo di pezza che il piccolo terrier dell’artista, Milo, ha masticato giocando. L’opera di Belcher è un esempio perfetto della società liquida in cui viviamo, un oggetto che va oltre il suo immediato riferimento aneddotico per dare forma a nuovi simboli culturali. È la sintesi rappresentativa di un oggetto prodotto in massa in Cina (il giocattolo), ricomposto al computer dall’artista nel suo studio, a Toronto, infine delegato via New York e Roma alla produzione in Asia, dove le pazienti mani dei tessitori di Katmandu hanno realizzato un tappeto la cui immagine finale ricorda un mandala. Infine, l’opera di Jonathan Monk, Untitled (Flying Carpet) (2017) che riproduce su tappeto l’immagine di una celebre copertina della rivista “Flash Art”, realizzata da Gino De Dominicis in omaggio al “salto nel vuoto” di Yves Klein, si basa su un’immagine che cattura l’essenza di un momento performativo. L’opera pone la questione dell’intraducibilità di tutte le cose – o al contrario – dimostra che tutto (anche un’opera d’arte), può essere mutato e fatto proprio.
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Pacific Design Center, Los Angeles È la massima risorsa per il design tradizionale e contemporaneo della West Coast degli Stati Uniti. L’intero distretto consiste in un campus di 14 acri con edifici monumentali interamente disegnato dall’architetto argentino Cesar Pelli nel 1975, ed è riconosciuto internazionalmente come centro nevralgico per il design contemporaneo e come luogo per le arti e per l’intrattenimento di tutta la comunità, alla quale fornisce spazi pubblici e privati per proiezioni, mostre, conferenze, incontri, eventi speciali e ricevimenti. Il campus raccoglie quasi 100 spazi commerciali di grandi marchi di design e arredamento e showroom internazionali. In totale circa 2.200 linee di prodotti disponibili per designer professionisti, architetti, facility manager, arredatori e rivenditori.
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Equator Production, New York Dedicata alla produzione di tappeti d’artista in edizioni limitate, Equator Production è stata fondata da Petra e Ranbir Singh con l’imprenditore Reiner Opoku nel 1985. Equator Production collabora con artisti interessati a misurarsi con il mondo dell'artigianato e del design, e volti alla ricerca di nuovi racconti e forme espressive. Commissionando tappeti d’autore ad artisti contemporanei di fama internazionale, e seguendo l’intero processo produttivo, dall’ideazione all'esecuzione (spesso affidata ai maestri tessitori tradizionali), Equator Production mira a creare una sintesi tra i vari approcci artistici. Varola | Pacific Design Center Aperto da Helen Varola, curatrice di base a New York, nel 2014, è uno spazio espositivo all’interno del Pacific Design Center di Los Angeles, nato con l’obiettivo di presentare mostre e progetti di artisti contemporanei. Varola è un luogo aperto ai linguaggi sperimentali, oltre che un sito di produzione contemporanea che intende il design come una sorta di prolungamento espressivo del linguaggio dell’arte contemporanea.
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DesignLAb | Pacific Design Center È una piattaforma per esplorare l’arte contemporanea che guarda al design. Concepita e diretta da Helen Varola, è resa possibile grazie al supporto di Charles S. Cohen, proprietario e presidente del Pacific Design Center, nonché collezionista e amministratore del MOCA Pacific Design Center.
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Il VenerdĂŹ El sabor de Espana La Paella
MILANO MARITTIMA SUMMER 2017
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FINLANDIA Di Luca Pinzi La Finlandia mancava tra le nostre mete dei Paesi del Nord Europa: effettivamente un po’ più distante degli altri, certamente più complicato, anche in termini di tempo, raggiungerla in caravan, il nostro mezzo abituale per le vacanze. Abbiamo quindi optato per la soluzione “fly and drive”, con il vantaggio di poterci andare proprio nel periodo migliore dal punto di vista climatico, e cioè dal 24 giugno al 5 luglio. La Finlandia, in poche parole, è davvero il trionfo della natura: pulizia assoluta, la gente che parla sottovoce, i bambini che non frignano. Accogliente e discreta, pratica e ospitale, tutto sommato con prezzi ancora accettabili e ben organizzata. Abbiamo scelto come data iniziale del nostro viaggio proprio il week-end della Festa di mezza estate, in occasione di S. Giovanni, che è peggio del nostro Ferragosto, nel senso che Helsinki fino al lunedì mattina era completamente deserta, una città fantasma, negozi chiusi, strade vuote: impressionante. Per apprezzarla appieno abbiamo dovuto aspettare il martedì successivo, l’ultimo giorno della nostra vacanza, quando finalmente le strade erano piene di gente a godersi il sole ai caffè e nei prati, il mercato del pesce con tutti i suoi colori, la piazza Senaatintori
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con la chiesa di S. Nicola finalmente animata. Ad Helsinki abbiamo dormito all’ostello Satakuntatalo: economico, spartano, pulito, ottima colazione, centralissimo. Una soluzione direi eccellente per non spendere molto. Helsinki è stupenda, ha un suo fascino particolare ma non va paragonata a Copenaghen o Stoccolma. Semplicemente è diversa. Teniamo conto che è una città moderna, i monumenti storici sono ben pochi (la bella Uspenski, la cattedrale ortodossa più grande del Nord Europa, e la chiesa di S. Nicola, luterana), l’architettura molto squadrata. Comunque bella, elegante, solo un po’ complicata da girare in auto perché le vie sono scritte piccolissime e il finlandese è davvero una lingua incomprensibile (naturalmente anche qui quasi tutti parlano perfettamente l’inglese). In compenso il traffico, anche dopo il rientro, è quello classico delle città del Nord: contenuto, scorrevole, ordinatissimo. Un mezzo decisamente economico per un assaggio complessivo della città è prendere il tram 3T che in un’ora fa il giro del centro della città e permette di averne una prima visione. Col traghetto siamo invece andati sull’isola di Suomenlinna, con l’immensa fortezza dichiarata patrimonio dell’Umanità. Vale la pena anche una visita al museo all’aperto sull’isola di Seurasaaren (raggiungibile in auto) dove sono state ricostruite le abitazioni dei secoli scorsi di varie parti della Finlandia (non paragonabili allo Skansen di Stoccolma o al Dem Gably di Aarrhus). Nelle vicinanze, anche l’originale monumento a Sibelius e la straordinaria Temppeliaukio, la chiesa moderna completamente scavata nella roccia. La vicina cittadina di Porvoo, con le caratteristiche case sul fiume, è stata una delusione a causa dell’unica giornata di vero brutto tempo che abbiamo incontrato nei 12 giorni di viaggio. Raggiunti dai nostri amici toscani e completata la comitiva (la nostra famiglia di 4 persone più una coppia di nostri amici) il lunedì abbiamo iniziato il viaggio verso la Lapponia. Iniziamo dirigendoci a est, per vedere velocemente la Carelia, fermandoci a Savonlinna, dove c’è uno dei castelli meglio conservati della Finlandia. Il paesaggio che ci accompagna sarà lo stesso per centinaia di chilometri: foreste, boschi, laghi, piccole cittadine sparse. Alla lunga un po’ monotono, anche perché i limiti di velocità imposti sono bassissimi e la strada sembra non finire mai. Comunque sia, proviamo il “brivido” di arrivare al confine con la Russia, dove
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vediamo legname accatastato per centinaia di metri: legno che arriva dalla Russia e che viene commercializzato in Finlandia, caricato sui battelli che risalgono i fiumi. Ben presto ci abitueremo alle piacevoli soste del viaggio: piazzole sempre pulite e attrezzate per i nostri pic-nic, a volte in riva a laghetti e complete di barbecue, e piacevoli caffè accompagnati da qualche dolce nei bar delle stazioni di rifornimento. Naturalmente, siamo in Nord Europa e quindi bisogna adattarsi ai loro orari: negozi che chiudono alle 5-6 del pomeriggio, prima ancora il sabato e lo stesso dicasi per i musei. Sono però numerosi i piccoli supermercati aperti fino alle 21, anche in Lapponia, e le reception dei campeggi aperti fino alle 23. Mercoledì siamo a Rovaniemi, anche qui ottima la sistemazione in ostello, ma senza colazione. La città non ha nulla di particolare, a parte lo splendido Museo Artico, ricchissimo di informazioni sul mondo artico e sulla Lapponia e i suoi abitanti. La visita al villaggio di Babbo Natale poco fuori è d’obbligo anche per i grandi: e l’incontro con lui, Babbo Natale in persona, che ti saluta in italiano, è comunque emozionante. Per il resto, il Villaggio di Santa Claus è un grande centro commerciale, con tanta robaccia per turisti. Riusciamo però a mangiare dell’ottimo salmone affumicato in una caratteristica tenda sami. E la sera, da uno dei ponti della città , possiamo goderci il nostro primo fantastico sole di mezzanotte. Nella mia ingenuità immaginavo il sole di mezzanotte come uno straordinario tramonto rosso fuoco in piena notte. Invece il sole di mezzanotte è il sole vero e proprio, praticamente quasi come fosse mezzogiorno, cioè altissimo nel cielo e con luce piena. Impressionante: abbiamo avuto la fortuna di goderci per tre sere consecutive un cielo perfettamente sereno a mezzanotte e andare a dormire all’una di notte con la difficoltà di cercare di creare un po’ di buio (accidenti a questi finlandesi che non sanno cosa siano le tapparelle…). E per tutti i dieci giorni del viaggio, il buio vero non l’abbiamo mai visto, nemmeno a Helsinki. Dopo Rovaniemi continuiamo a salire: arriviamo a Inari, l’ultima città (se così si può chiamare…) della Lapponia, circa 1.100 km a nord di Helsinki. Anche in questo caso avevo un’idea sbagliata: non mi immaginavo che il nord della Lapponia fosse così ricco di vegetazione. Foreste, laghi di tutte le dimensioni, renne che attraversano indisturbate. Ci sistemiamo in un campeggio con dei
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cottage bellissimi, disturbati solo dalle zanzare. Ci godiamo anche la nostra unica sauna del viaggio. Effettivamente il tempo, quasi sempre caldo, non invitava più di tanto a questo tradizionale rito. Venerdì decidiamo di arrivare più in “alto” possibile. Sarebbe fattibile raggiungere Capo Nord da Inari: ci separano circa 300 km, ma sinceramente raggiungere a tutti i costi la meta più classica e sfruttata turisticamente del Nord, tanto per dire “ci siamo stati”, non ci attira più di tanto. Optiamo quindi per la città di Kirkenes, in Norvegia (bruttissima) e per un giro dei fiordi meravigliosi che si affacciamo sul mare di Barents. Il paesaggio dopo il confine cambia improvvisamente: il mare, i fiordi, qualche altura, vegetazione decisamente più rara, la Norvegia che tutti immaginiamo. Ci fermiamo in una area sosta e scendiamo a piedi al mare, camminando su un soffice terreno : ci siamo solo noi, il blu del mare, la spiaggia sassosa, il cielo terso, l’aria decisamente frizzante. Ebbene sì, ora siamo davvero in capo al mondo. La sera rientriamo a Inari e passiamo la serata ad assistere a uno straziante karaoke nell’unico locale aperto del villaggio, con tanto di taxi che fa la spola a riportare a casa i vari ubriachi. Sabato iniziamo a ridiscendere la Finlandia percorrendo una selvaggia strada alternativa sterrata (beh, almeno qui non ci sono i limiti di velocità e alla fine si può “correre” più velocemente che su quelle asfaltate). Il tempo di una veloce tappa a Rovaniemi dove ci facciamo riprendere da una delle web-cam collocate in città con i nostri cartelli di auguri per il compleanno della figlia dei nostri amici toscani, suscitando subito la curiosità dei “freddi” abitanti e raggiungiamo la costa occidentale domenica per concederci qualche ora di sole al mare nella splendida zona delle dune di Kalajoki. Sono giornate veramente belle dal punto di vista climatico, con un po’ di coraggio si potrebbe anche fare il bagno. Purtroppo la strada segue la costa ma le foreste impediscono costantemente la vista del mare e quindi il paesaggio ritorna ad essere abbastanza monotono: si va piano, rispettando i limiti, boschi , foreste, spazi d’acqua. Rispetto al nord, mancano solo le renne. Ci fermiamo a Kristiinankaupunki, in un altro splendido campeggio in riva al lago. Dopo una bella grigliata, facciamo inutilmente un giro in città la sera: sono le dieci, c’è tanta luce ma è tutto chiuso, anche se è domenica. Solo qualche giovinastro che inganna il tempo sgommando per le vie centrali della cittadina. L’ultima tappa prima di Helsinki è Rauma, dichiarata patrimonio dell’umanità per il suo straordinario quartiere antico, con le case in legno perfettamente conservate. Finalmente, troviamo delle pasticcerie degne di questo nome. Sotto questo aspetto, la Finlandia ha decisamente perso il confronto con Danimarca e Svezia, dove avevamo trovato ogni ben di dio per i golosoni. L’ultima notte la trascorriamo nuovamente nell’ostello di Helsinki. Come dicevo, la città si è trasformata rispetto al week end precedente: tanta gente per le strade fino a notte tarda e nei negozi: irrinunciabile, per noi, un giro al grande magazzino più famoso, Stockmann. La mattina successiva, questa terra ci saluta inondata da un caldissimo sole, sfiorando i 30 gradi e mostrandoci tutti i suoi colori: il rosso delle fragole e delle ciliegie al mercato, l’argento e l’azzurro dei pesci, il bianco della stupenda cattedrale di San Nicola, il grigio dell’immensa scalinata nella piazza che lei domina, il verde dei parchi perfettamente ordinati e puliti, il blu del mar Baltico su cui si affaccia.
Manet e la parigi moderna Èdouard Manet ebbe un ruolo fondamentale nella storia dell’arte europea, testimoniato da tantissimi artisti che seppero riconoscerne il valore, legato soprattutto all’ enorme talento artistico che ne caratterizzava l’azione e alla sua sublime capacità di integrare la grandezza della pittura classica alla libertà di quella moderna. Pur essendo protagonista assoluto del movimento impressionista, con le sue idee e le pratiche inedite non volle però mai esserne attivamente parte. Non partecipò ad alcuna mostra impressionista tenutasi tra il 1874 e il 1886, mentre espose sempre e solo al Salon, unica sede per lui autorevole. Ciò che gli interessa maggiormente è che sia riconosciuta la sua opera innovatrice, la capacità di aver traghettato l’arte nella modernità, grazie a un taglio originale delle composizioni, a una pittura magnifica, ricca di virtuosismi, in cui i colori vengono trattati in tutta la loro energia. Un carisma e una creatività strepitose che si interromperanno solo con la sua morte. Fino al 2 luglio, si terrà presso Palazzo Strozzi a Milano la mostra Manet e la Parigi moderna, con l’intenzione di tracciare un percorso artistico di questo grande maestro, nato nel 1832 e morto nel 1883 nella capitale francese, che in circa un ventennio di attività ha prodotto 430 dipinti,
la maggior parte dei quali copie, schizzi, opere minori o incompiute, ma sufficienti a rivoluzionare l’arte moderna. Notevolissima la sua interazione con altri celebri artisti del suo tempo, spesso anche compagni di vita e di lavoro, con i quali frequentava gli stessi luoghi d’incontro, dai caffè alle residenze estive, ai teatri. Le opere presenti in mostra arrivano dalla prestigiosa collezione del Musée d’Orsay di Parigi: si tratta di un centinaio di opere, tra cui 55 dipinti, di cui 17 capolavori di Manet e altre 40 splendide opere di maestri come Boldini, Cézanne, Degas, Renoir e altri. Alle opere su tela si aggiungono 10 tra disegni e acquarelli di Manet, una ventina di disegni degli altri artisti e sette tra maquettes e sculture. Promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, questa mostra vuole ricordare il ruolo di Manet nell’arte europea dell’800 e mostrare le sue interpretazioni di temi e generi, dalla natura morta al paesaggio, dalle donne al ritratto, avendo come fulcro centrale la sua amatissima Parigi. Ben dieci le sezioni tematiche, ricchissime di stimoli, grazie alle collaborazioni con musei di prestigio. Una mostra indimenticabile per fascino, qualità delle opere e loro sistemazione; un’occasione unica per apprezzare un artista che è in grado con la sua arte di restituirci tutto lo spirito del suo tempo.
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La mostra è prodotta dal Comune di Milano con MONDOMOSTRE SKIRA www.palazzorealemilano.it www.manetmilano.it
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Bill Viola
rinascimento elettronico Fino al 23 luglio 2017, la Fondazione Palazzo Strozzi presenta al pubblico di Firenze Bill Viola. Rinascimento elettronico, una grande mostra che celebra il maestro indiscusso della videoarte contemporanea attraverso opere della sua produzione, dagli anni Settanta a oggi, esposte in dialogo con l’architettura di Palazzo Strozzi e in un inedito confronto con grandi capolavori del Rinascimento. La rassegna, a cura di Arturo Galansino (direttore generale, Fondazione Palazzo Strozzi) e Kira Perov (direttore esecutivo, Bill Viola Studio), si pone come un evento unico per ripercorrere la carriera dell’artista, sempre segnata
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dall’unione tra ricerca tecnologica e riflessione estetica, dalle prime sperimentazioni con il video negli anni Settanta fino alle grandi installazioni degli anni Duemila, che catturano l’attenzione del pubblico con forti esperienze sensoriali. In modo totalmente inedito, nella cornice rinascimentale di Palazzo Strozzi, la mostra crea inoltre uno straordinario dialogo tra antico e contemporaneo attraverso il confronto delle opere di Viola con capolavori di grandi maestri del passato, che sono stati fonte di ispirazione per l’artista americano e ne hanno segnato l’evoluzione del linguaggio. Nato a New York nel 1951, Bill Viola è internazionalmente riconosciuto come uno dei più importanti artisti contemporanei, autore di videoinstallazioni, ambienti sonori e performance che propongono al pubblico straordinarie esperienze di immersione tra spazio, immagine e suono. Esplorando spiritualità, esperienza e percezione, Viola indaga l’umanità: persone, corpi, volti sono i protagonisti delle sue opere, caratterizzate da uno stile poetico e fortemente simbolico in cui l’uomo è chiamato a interagire con forze ed energie della natura come l’acqua e il fuoco, la luce e il buio, il ciclo della vita e quello della rinascita. «Sono davvero felice di recuperare le mie radici italiane e di avere l’occasione di ripagare il mio debito con la città di Firenze attraverso le mie
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opere» dichiara l’artista. «Dopo aver vissuto e lavorato a Firenze negli anni Settanta, non avrei mai immaginato di avere l’onore di realizzare una così grande mostra in una istituzione così importante come Palazzo Strozzi». Creare una mostra di Bill Viola a Palazzo Strozzi, in un percorso espositivo unitario tra Piano Nobile e Strozzina, significa celebrare la speciale relazione tra l’artista e la città di Firenze. È qui, infatti, che Bill Viola ha lavorato agli inizi della sua carriera quando, tra il 1974 e il 1976 è stato direttore tecnico di art/tapes/22, straordinario centro di produzione e documentazione del video fondato e diretto da Maria Gloria Bicocchi. Ed è nella città di Firenze e in tutta la Regione Toscana che Palazzo Strozzi trova una diretta prosecuzione della mostra, attraverso importanti collaborazioni con musei e luoghi del territorio dove saranno esposte opere dell’artista, esaltando il suo rapporto con la storia e l’arte toscana, tra cui la Galleria degli Uffizi e il Museo di Santa Maria Novella a Firenze e il Museo della Collegiata di Sant’Andrea a Empoli In occasione della rassegna, Palazzo Strozzi ha inoltre creato un’esclusiva collaborazione con il GrandeMuseo del Duomo di Firenze. Grazie a uno speciale biglietto congiunto sarà possibile visitare la mostra di Palazzo Strozzi insieme al Battistero di San Giovanni e al Museo dell’Opera del
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Duomo. Qui saranno eccezionalmente esposti i video Observance (2002) e Acceptance (2008): due celebri opere di Bill Viola dedicate ai temi del dolore e della sofferenza, esaltando la riflessione sull’umanità e sul senso religioso nel mondo contemporaneo, che saranno messe in dialogo con due simboli del museo fiorentino come la Maddalena penitente di Donatello e la Pietà Bandini di Michelangelo, Bill Viola (1951) è riconosciuto a livello internazionale come uno dei più importanti artisti del nostro tempo. Pioniere della videoarte, nell’arco di una carriera di oltre quaranta anni, Viola ha lavorato con un’ampia varietà di media, realizzando opere oggi esposte nei più importanti musei del mondo. Suoi temi di riferimento sono esperienze umane universali come la nascita, la morte, il disvelamento della coscienza, che egli elabora attraverso il confronto con fonti artistiche occidentali e orientali e il riferimento a tradizioni religiose come il buddhismo zen, il sufismo islamico e il misticismo cristiano. Viola ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 1995 e tra le sue principali mostre personali si segnalano: Bill Viola: A 25-Year Survey al Whitney Museum of American Art a New York nel 1997, The Passions presso il J. Paul Getty Museum di Los Angeles nel 2003, Hatsu-Yume (First Dream) al Mori Art Museum di Tokyo nel 2006, Bill Viola. Visioni interiori al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2008, Bill Viola presso il Grand Palais di Parigi nel 2014. Due grandi installazioni dell’artista, Martyrs (Earth, Air, Fire, Water) (2014) e Mary (2016), parte della collezione della Tate Gallery, sono in esposizione permanente presso la Cattedrale di St. Paul a Londra.
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Il mercato di Cai Rang è il più grande mercato galleggiante del delta del Mekong, ci si arriva facilmente da Can Tho, seguendo il corso del Song Can Tho (un ramo del Mekong) affiancando barche vivacemente dipinte ancorate lungo la riva, navi mercantili che trasportano carichi lungo il fiume e case costruite su palafitte. È bene arrivarci alle prime luci dell’alba, anche se il mercato prosegue fino a mezzogiorno. Una volta sul posto ci si rende conto della grandezza del luogo. Più di un chilometro di fiume interamente ricoperto di imbarcazioni cariche fino all’inverosimile che vendono verdure, cocco, banane, angurie, pompelmi, ma non solo: si possono trovare offerte di servizi che solitamente vengono proposti sulla terraferma, come meccanici, benzinai, carta da parati, vestiti, cosmetici e mobili solo per citarne alcuni. I pochi metri liberi tra una imbarcazione e l’altra sono preda di brachette che vendono bibite, vino e cibo per la colazione. Ma in tutto questo trambusto come si fa a capire dove andare per acquistare quello che occorre? È molto semplice, ogni barca ha una lunga pertica verticale su cui sono appesi i campioni dei prodotti in vendita. In questo modo, i venditori non devono gridare per pubblicizzare ciò che stanno vendendo e gli acquirenti possono facilmente vedere da lontano le merci vendute sulla barca. Basta guardare in alto e sai immediatamente dove poter acquistare i prodotti che stai cercando.
ELOGIO ALLA LUCE
di Lehila Laconi Forse non è una scelta che fa per tutti, poiché moti di voi potrebbero sentirsi privati di un po’ di privacy o di un senso d’intimità. Certo è che le grandi pareti vetrate stanno conquistando sempre più l’architettura delle abitazioni, in cerca di una connessione sempre più invisibile fra spazi interni e mondo esterno. Per i Paesi nordici, le case con ampie vetrate sono di consuetudine, nei Paesi caldi rappresentano un’assoluta novità. In ogni caso, sapranno regalare magnifici scenari in grado di emozionare anche il più freddo degli spettatori. Chi vive ai piani alti di un palazzo godrà certamente di un bellissimo scenario. Tende e tapparelle non fanno altro che oscurarne la naturale bellezza. Eliminarle e lasciare respirare gli spazi del proprio appartamento appartamento, equivale ad acquisire in men che non si dica di una nota di fascino e di carattere elevatissima. Date le altezze, saranno da preferire le finestre e porta finestre blindate con vetri antisfondamento e infissi blindati. Chi ha la fortuna di possedere una casa indipendente con
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giardino, o addirittura immersa in un parco naturale o in una zona di montagna , decidendo di optare per le pareti vetrate scorrevoli, potrà godere della splendida vista della natura, pronta a farsi sentire in tutti i momenti della vita quotidiana. Le pareti vetrate che si affacciano sui giardini domestici creeranno degli scenari molto suggestivi, valorizzati da una mirata e studiata illuminazione. Le pareti vetrate infatti, sono anche un’ottima soluzione per rendere gli interni più luminosi, accoglienti e spaziosi. Cucinare in un ambiente ben illuminato sarà molto più piacevole, per non dire pranzare davanti a uno scenario mozzafiato. Anche gli ambienti di passaggio, come le scale e i corridoi, potranno trarre alcuni vantaggi dalla scelta delle pareti vetrate per la propria casa: appariranno più luminosi e saranno quindi più piacevoli da vivere. mPer le pareti vetrate della camera da letto, consiglio di installare delle tende per finestre oscuranti da interno, che permettano il giusto riposo nelle ore notturne ma anche durante il giorno. Inoltre, per chi lo volesse, garantiranno un minimo di privacy e di intimità. In commercio sono disponibili diversi modelli, che sapranno soddisfare certamente le esigenze di tutti risolvendo qualsiasi situazione progettuale
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KEITH HARNING
UN GENIALE ARTISTA AMERICANO
Fino al 18 giugno 2017, Milano celebra il genio di Keith Haring (1958-1990) con una grande mostra, allestita a Palazzo Reale: saranno in esposizione opere del geniale artista americano, molte di grandi dimensioni, alcune inedite o mai esposte in Italia. La rassegna rende, per la prima volta, il senso profondo e la complessità della sua ricerca, mettendo in luce il suo rapporto con la storia dell’arte. All’interno del percorso espositivo, i lavori di Haring vengono posti in dialogo con le sue fonti di ispirazione, dall’archeologia classica, alle arti precolombiane, alle figure archetipiche delle religioni, alle maschere del Pacifico e alle creazioni dei nativi americani, fino ad arrivare ai maestri del Novecento. L’esposizione Keith Haring. About Art, curata da Gianni Mercurio, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, Giunti Arte mostre musei e 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, con la collaborazione scientifica di Madeinart e con il prezioso contributo della Keith Haring Foundation, presenta 110 opere
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provenienti da collezioni pubbliche e private americane, europee, asiatiche. La rassegna ruota attorno a un nuovo assunto critico: la lettura retrospettiva dell’opera di Haring non è corretta se non è vista anche alla luce della storia delle arti che egli ha compreso e collocato al centro del suo lavoro, assimilandola fino a integrarla esplicitamente nei suoi dipinti e costruendo in questo modo la parte più significativa della sua ricerca estetica. Le opere dell’artista americano si affiancano a quelle di autori di epoche diverse, a cui Haring si è ispirato e che ha reinterpretato con il suo stile unico e inconfondibile, in una sintesi narrativa di archetipi della tradizione classica, di arte tribale ed etnografica, di immaginario gotico o di cartoonism, di linguaggi del suo secolo e di escursioni nel futuro con l’impiego del computer in alcune sue ultime sperimentazioni. Tra queste, s’incontrano quelle realizzate da Jackson Pollock, Jean Dubuffet, Paul Klee per il Novecento, ma anche i calchi della Colonna Traiana, le maschere delle culture del Pacifico, i dipinti del Rinascimento italiano e altre. Keith Haring è stato uno dei più importanti autori della seconda metà del secolo scorso; la
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sua arte è percepita come espressione di una controcultura socialmente e politicamente impegnata su temi propri del suo e del nostro tempo: droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, discriminazione delle minoranze, arroganza del potere. Haring ha partecipato di un sentire collettivo, diventando l’icona di artista-attivista globale. Tuttavia, il suo progetto, reso evidente in questa mostra, fu di ricomporre i linguaggi dell’arte in un unico personale, immaginario simbolico che fosse al tempo stesso universale, per riscoprire l’arte come testimonianza di una verità interiore, che pone al suo centro l’uomo e la sua condizione sociale e individuale. È in questo disegno che risiede la vera grandezza di Haring; da qui parte e si sviluppa il suo celebrato impegno di artista-attivista e si afferma la sua forte singolarità rispetto ai suoi contemporanei. La mostra sarà ordinata in un allestimento emozionante e al contempo denso di rimandi al contesto in cui la breve ed esplosiva vita di Haring gli consentì di esprimersi, come una delle personalità più riconosciute dell’arte americana del dopoguerra. Il catalogo, pubblicato da GAmm Giunti/24 ORE Cultura, comprenderà oltre a una vasta biografia illustrata e a tutte le opere esposte, i saggi del curatore, Gianni Mercurio, Demetrio Paparoni, Marina Mattei e Giuseppe Di Giacomo.
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