Copertina Simply Architects.pdf 22/01/2007 22.27.59
Hans Ulrich Obrist, Yona Friedmann, Stefano Boeri, Enzo Mari, Massimiliano Gioni, Carsten Holler e Mario Botta 10+1 domande sulla professione dell’architetto
AsMA è l’associazione studenti ed alumni dell’Accademia di architettura, USI Mendrisio
AssociazioneMendrisioArchitettura
“Negli anni dell’università lo studente si forma confrontandosi con il livello massimo della cultura architettonica. Negli anni successivi il giovane architetto è atteso invece dal livello massimo delle difficoltà professionali. Questo libro si interroga proprio sul delicato passaggio dalla formazione alla professione. Quali sono gli strumenti con cui affrontare gli scenari del lavoro progettuale odierno? Quali le strategie organizzative per diventare a tutti gli effetti architetti? E quali le scommesse culturali per non diventare “solo” dei professionisti? 20 tra i nuovi studi europei più attivi e innovativi svelano le aspettative e gli ostacoli, gli smacchi e i successi con cui si cimenta oggi la complessa arte dell’architettura.” Bruno Pedretti
un libro prodotto da AsMA AssociazioneMendrisioArchitettura
Alessandro Martinelli, Matteo Soldati, Teo Valli
2 anni, 11 reporter, 22 interviste, 38 illustrazioni a colori su carta patinata, 109 immagini in bianco e nero
€ 10 /frs 15.-
20 studi di architettura
4 nazionalità europee
4 grandezze di studio
( e 15 temi per ripensarla )
una ricerca sulla condizione contemporanea dei giovani architetti in Europa con interventi di
10+1 domande sulla professione dell’architetto
SIMPLY ARCHITECTS
SIMPLY ARCHITECTS
SIMPLY ARCHITECTS
Three years ago, after a working period, we began to feel a certain restlessness because of the way architecture is communicated to the widespread audience in Italy, our homeland. We’ve thought architecture in itself has a sort of lack in “being communicated” and also, maybe, in “communicating”, and nothing about this topic was normally taught in architecture universities even. If architecture is rejected by the common people, it means architecture misses opportunities to act in the reality at every level, that’s its obvious aim. Actually architecture has ever been a sociopolitical device and communication a sociopolitical need to fulfill. That’s why we think communication-science can be a maneuvering space for architecture. In our opinion, communication could help us to manage all the micropolitics that usually misleads architecture and the city, because it treats them as concrete materials to process. At that time, we were attending Accademia di Architettura in Mendrisio (CH) but we decided to engage in extensive communication: we started to collaborate with the Italian Switzerland’s main daily newspaper and we founded Universo (www.luniverso.com) with students from different faculties, mainly communication-science and economy. In fact Universo has been a publishing enterprise that has let independent and crossover thinking from different kind of faculties to be expressed. At the same time we set up AsMA (www.as-ma.net), an independent association for research in architecture strictly composed by architecture students: in October 2004, while profiting from Universo experience, with this association we started “Simply Architects”, a research project about the profession of architecture and about the way job organization and communication deal with their own architecture products. With “Simply Architects” we tried to establish a “concrete” research that could be responsible to its own economical conditions and aware of those productive mechanism of architectural practice that are normally hidden. Alessandro Martinelli as AsMA
2A+P architettura, 99IC, Agence Manuelle Gautrand, AMID (cero9), Alles Wird Gut, Delugan Meissl Associated Architects, Exposure architects, gruppo A12, IaN+, LOVE architecture + urbanism, ma0, Metrogramma, NO.MAD, Peripheriques, Philippe Rahm architects, Querkraft, R&Sie(n), SPLITTERWERK, Stalker, the nextENTERprise
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città
Simply Architects è stato possibile grazie a
collaborazione
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computer
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concorsi
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editoria
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europa
formazione
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gioco
imprenditoria
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internet
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modello
www.taleaonline.com
realizzazione www.mantero.com
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144 pagine
ricerca
territorio
schizofrenia
ed il sostegno di UBS Mendrisiotto
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perché lavorate in questa città ?
qual è il nome del vostro studio ?
come funziona il lavoro di gruppo ?
siete una mente collettiva ?
a che gioco state giocando ?
vi interessano l’architettura, la città e la comunicazione ?
potete dire 4 nomi di architetti e 4 nomi di artisti che vi hanno insegnato qualcosa o semplicemente vi interessano ?
potete dire un film, un disco, un libro, un sito internet che si addicono a voi ed al vostro studio ?
usate il computer ?
cosa pensate dell’istruzione in architettura ?
come tirate fine mese ?
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Simply Architects è un prodotto del progetto di ricerca MeEtArch... intorno alla professione dell’architetto in Europa coordinato da AsMA, Associazione Mendrisio Architettura. Sede: villa Argentina, Largo Bernasconi, 2 CH-6850 Mendrisio. e-mail: asma.meetarch@gmail.com www.as-ma.net AsMA è l’associazione studenti e alumni dell’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana. Redazione e coordinamento editoriale Alessandro Martinelli, Matteo Soldati, Teo Valli “Operatori” d’intervista Alessandro Martinelli, Matteo Soldati, Teo Valli, Marco Finzi, Pietro Melloni, Roberto Fantoni, Sebastiano Manservisi, Matei Bogoescu, Maria Giudici e Lorenzo Pezzani
Per i testi delle interviste: © 2007 AsMA – Associazione Mendrisio Architettura. AsMA ringrazia gli autori e gli architetti per la disponibilità dimostrata e per aver concesso il permesso di utilizzare i testi e le illustrazioni nella presente pubblicazione. Ringraziamo inoltre Hellade Miozzari, Silke Schniedrig, Cloè Gattigo, Francesca Lucioli, Pico Meiuto Estrada e Yoni Santos Orban che hanno trascritto e rivisto alcune interviste... Ringraziamo Elon Danziger e Natalie Crest che hanno rivisto rispettivamente tutto il materiale in lingua inglese e francese; Paolo Poloni e Nicola Marinello che hanno alimentato la discussione ed il lavorio dell’impostazione grafica... Ringraziamo Bruno Pedretti per i consigli, le discussioni e la competenza con la quale ci ha guidato nella pubblicazione di questo libro... Ringraziamo Mario Botta e Gabriele Cappellato per le consulenze dirette e indirette... Ringraziamo Bruno Monguzzi e Tiziano Casartelli per le consulenze sulla grafica. Ringraziamo il gruppo fondatore del giornale studentesco indipendente L’Universo, quindi tutti i ragazzi dell’Università della Svizzera italiana di Lugano coi quali è nata una avventura editoriale grazie alla quale si sono innescate molte iniziative e molte energie che hanno portato a questo libro... Ringraziamo Sergio Pozzi, Roberto Borghi ed Anna della Torre per la fiducia e l’entusiasmo con cui ci hanno supportato... Ringraziamo l’Accademia di architettura di Mendrisio (e con questa il direttore Josep Acebillo), la nostra università, perché ha saputo essere un costante punto di riferimento... Ringraziamo i nostri genitori che con il loro supporto ci hanno dato la possibilità di fare quello che desideravamo.
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AsMA Alessandro Martinelli, Matteo Soldati, Teo Valli
Simply Architects
10+1 domande sulla professione dell’architetto
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La forma della lettera e noi di AsMA vorremo ora dire dell’intervista, nell’attesa di una qualche risposta, nell’eco di altre lettere passate, rappresenta bene, io credo, la condizione di frammentazione teorica ma anche di dialogo aperto in cui si muove oggi la pratica artistica dell’architettura, nell’incertezza delle sue ragioni di esistenza e nella certezza provvisoria di ogni opera. Vittorio Gregotti, XVII lettere sull’architettura
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prefazione Mendrisio, Gennaio 2007
2 ANNI, 11 REPORTER, 22 INTERVISTE note per un progetto di ricerca ed un libro “concreto”
La scintilla che ha fatto nascere il progetto di ricerca biennale MeEtArch... , sulla condizione dei giovani studi di architettura in Europa, di cui questo libro costituisce una materializzazione, è stata la curiosità. O meglio è stata la curiosità di alcuni membri dell’Associazione Mendrisio Architettura, al tempo studenti dell’Accademia di Architettura di Mendrisio (CH), e la loro volontà di uscire, in anticipo rispetto al traguardo del diploma, dai “confini” dell’università e sbirciare appena più in là chi, poco più grande, intraprende un’avventura professionale e fonda con successo un proprio studio di architettura. Si è usciti soprattutto dai confini territoriali della propria università per proiettare la ricerca su alcune città europee come Bergamo, Graz, Madrid, Milano, Parigi, Roma e Vienna, dove maggiore sembra il fermento della produzione di architettura disegnata e costruita. Scelti alcuni studi, secondo caratteristiche quali una certa rinomanza internazionale, l’età media, la peculiarità di lavorare come gruppo e la capacità di “fare rete” con altri professionisti, si è iniziato a raccogliere materiale e soprattutto ad allacciare contatti e relazioni. Lo strumento scelto per conoscere gli studi è stato quello dell’intervista, nella sua declinazione di libera conversazione “tracciata” secondo un canovaccio di 10+1 domande. Questo costituisce una base duttile alla ricerca, poiché permette di toccare alcuni nuclei fondamentali, ma concede allo stesso tempo la possibilità di andare alla deriva nel corso della conversazione, sfiorando terreni magari inizialmente impensati. Dal rapporto con il computer durante il processo di progettazione alle dinamiche di gruppo, dall’interdisciplinarietà al problema della formazione e degli istituti universitari, dalla capacità di “vendersi” ed essere competitivi alla necessità della ricerca specifica di architettura, diversi temi ricorrono nella maggior parte delle interviste, anche non direttamente sollecitati dalle domande, diventando così materializzazioni scritte di una singolare attitudine nei confronti della pratica dell’architettura. Terminate le 20 interviste previste dal progetto originario, ci si è finalmente posti, oltre alla questione della forma con cui presentare questo lavoro (un libro, un sito o una mostra…), il problema di quale potesse essere il contributo critico da affiancare alle interviste come autori. Chi realizza un’intervista ne influenza, e in qualche modo determina, il contenuto. Come è quindi possibile, in modo consapevole, aggiungere un’analisi o un commento ai contenuti di queste conversazioni? La scelta per cui si è optato, dettata anche dalla consapevolezza di essere studenti ancora criticamente inesperti, è stata quella di distaccarsi, astrarsi dai singoli contenuti e procedere ad una “indicizzazione” e frammentazione per quantità concrete e misurabili del magma di informazioni presenti nel flusso continuo del testo: partendo dall’ipotesi paradossale che in questo materiale
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fosse contenuto tutto lo scibile possibile, come in un’enciclopedia o in un database informatico, si è deciso di sviluppare una forma grafica del libro che consentisse l’accesso alle informazioni il più diretto e preciso a seconda della chiave di ricerca utilizzata. Come quando si naviga in Internet, sarà possibile entrare nella totalità di questo libro, e, partendo da un qualsiasi punto di questa “grande conversazione” fatta d’interviste, dipanare uno dei suoi molteplici fili conduttori. L’intervista è uno strumento comunicativo estremamente interessante in ragione del rapporto spazio-temporale che instaura tra i suoi costituenti fisici. Proprio per questo, però, la sua forma scritta rischia di perdere interesse per il lettore, poiché le informazioni in essa contenute non beneficiano più di quelle contingenze “atmosferiche” e dialogiche in cui sono inseriti intervistato e intervistatore. Ma nonostante questo rischio abbiamo deciso di pubblicare comunque un libro d’interviste (piuttosto che un sito o una mostra che comunque speriamo non tarderanno ad arrivare) per fissare come in un’istantanea il flusso continuo di informazioni e dati generati dalla ricerca. Anche per questo si è scelto di mantenere le interviste nella lingua con la quale si sono svolte per non perderne, in traduzione, le qualità dialogiche. Abbiamo inoltre chiesto ad alcune autorevoli personalità il compito di introdurre o concludere il lavoro, come nel caso dell’intervista-evento al critico-curatore Hans Ulrich Obrist concentrata sui significati teorici del dispositivo intervista, del breve racconto di Francois Roche sulla definizione di un territorio “concreto”, quanto l’impianto di questo libro, o dell’intervista conclusiva all’architetto Mario Botta pensata perchè si possa porre a confronto del corpus principale del libro. Noi speriamo questa ricerca sia utile ad alimentare il dibattito in merito alla professione dell’architetto, tanto affascinante quanto complessa nel suo continuo riprofilarsi. Ci auguriamo di trasmettere una sincera carica di ottimismo e continua speranza nel futuro professionale di tanti neo-architetti, e non solo, lanciando una visione positiva del lavoro che stiamo per iniziare a praticare.
Usando il nome di uno studio viennese intervistato non ci resta che dire: Alles Wird Gut! Tutto Andrà Bene!
Ale, Matteo, Teo
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sommario
prefazione
2 ANNI, 11 REPORTER, 22 INTERVISTE
prologo
Che lavoro fa Hans Ulrich Obrist?
10
interviste
2A+P architettura
21
99IC
24
Agence Manuelle Gautrand
27
AMID (cero9)
31
Alles Wird Gut
35
Delugan Meissl Associated Architects
38
Exposure architects
41
gruppo A12
45
IaN+
50
LOVE architecture + urbanism
53
ma0
57
Metrogramma
61
NO.MAD
66
Peripheriques
68
Philippe Rahm architects
71
Querkraft
65
SPLITTERWERK
77
Stalker
80
the nextENTERprise
83
epilogo
Che lavoro fa Mario Botta?
89
postfazione
autoritratti
95
I’ve heard about… 2050
pag. 6
135
AsMA @ Palais de Tokyo
138
AsMA @ Accademia di Architettura
140
8
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Hans Ulrich Obrist nel suo ufficio al Musèe d’Art Moderne de la Ville de Paris
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prologo Parigi, 5 febbraio 2005
Che lavoro fa Hans Ulrich Obrist?
indagine a margine sul dispositivo “intervista”
aperto il collegamento telefonico con Yona Friedmann, Hans Ulrich Obrist
Je suis en interview: il y a un groupe de
chercheurs de Mendrisio qui font un enregistrement sur la différence entre les conversations et les interviews. Vous avez développé des architectures qui déclenchent des conversations, pourriezvous me parler un peu de la notion de conversation dans votre travail et la différence entre la conversation et l’interview? Yona Friedmann
Pour moi le dialogue, plus exactement le multilogue, le plurilogue, doit être établi. La
difficulté pour l’architecture est que pour n’importe quelle décision, il est nécessaire un temps de réflexion. Rien n’est valable si on ne prend pas le temps de réfléchir. L’expérience m’a appris que ce temps doit être prolongé, par exemple l’auto planification à Ivry a pris en moyenne 3 mois, 3 mois et demi. Parce que les gens pensent quelque chose à premier impact mais après reviennent sur leurs paroles. Je crois que c’est la grande différence entre l’interview et ce que je vois comme application en architecture: le temps de réflexion, le temps de revenir à la première idée. Je pense que l’architecture est un processus, ce n’est pas un plan, ce n’est pas un dessin, ce n’est pas une réalisation. Un processus prend des années car les durées entre les différentes étapes sont toujours longues avec des cheminements rarement en ligne droite. Je crois que le fonctionnalisme est une erreur en architecture, de considérer une ligne droite et d’aller directement à l’optimum. Mais il n’y a pas d’optimum: c’est un zigzag pour arriver à quelque chose d’acceptable qui n’est encore pas optimale, seulement acceptable. Je crois qu’un processus, que se soit en physique, en dialogue sociale, en architecture… est toujours de liens serrés d’acceptable. Cela paraît évident mais ce n’est pas toujours reconnu. Lorenzo Pezzani
Quand vous dites acceptable, vous pensez à une discussion qui amène à achever
quelque chose d’intéressant. Qu’est il faut pour obtenir cela? Yona Friedmann
Une discussion est aussi la difficulté de réagir au premier impact. Si on veut arriver
à un résultat les distances temporelles sont nécessaires. Tout le monde pense lentement. Ceux qui réagissent trop vite sont généralement des démagos avec des formules préfabriquées. Pour répondre à une question qui nous touche, il nous faut du temps pour réfléchir. C’est pour cela que j’utilise le terme de processus qui par définition est relativement lent, il y a des distances entre les étapes. Souvent durant une interview on a l’impression de n’avoir pas eu le temps de tout dire. On se sent demi-bloqué car il nous faut du temps pour réfléchir. L’interview à réflexion serait peut-être nécessaire. Hans Ulrich Obrist
Cela nous ramène à la notion de la conversation infinie de Blanchot. Est-ce qu’il y a
une fin à la conversation ou partagez-vous l’idée de Blanchot?
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Yona Friedmann
Je vais même plus loin: la conversation la plus longue est celle avec soi-même. La
réflexion est une conversation avec soi-même. Toute conversation, tout interview, est au moins composée de trois participants: celui qui parle, celui qui est derrière -les pensées de celui qui parle- et celui qui interroge. C’est un schéma qui explique bien ce que je veux dire. chiuso il collegamento telefonico con Yona Friedmann, Hans Ulrich Obrist
Esiste l’idea che ogni conversazione ne
nasconda un’altra, una sorta di matrioska russa. Yona prima citava l’idea del pluriloquio, del multiloquio, citazione anche della polifonia che anima il mio progetto d’interviste. Molto spesso capita che io incontri qualcuno e dopo mi si proponga di incontrare un’altra persona. Per esempio, quando ho incontrato Dominique Gonzalez Foerster, lei mi ha proposto di visitare Andre Wogenscki e così ci siamo recati nella sua casa vicino a Parigi a trovare questo allievo di Le Corbusier poco prima della sua morte. Il mio progetto d’intervista non ha una dead-line, ha una sua temporalità interna: è una cosa che pratico ogni giorno e solo dopo capita che alcune interviste si pubblichino. Adesso c’è una collaborazione regolare con Domus: ogni mese vi pubblico un’intervista. Anche se questo dà un altro ritmo al progetto, l’idea rimane sempre quella di una pratica quotidiana. Fino adesso ci sono 900 ore d’intervista e anche un archivio digitale di 1600 ore in costituzione. Venendo dal mondo dell’arte, ho sempre avuto un interesse per la memoria dinamica: nel mondo dell’arte vive un’idea forte per cui gli artisti parlano di artisti anche di generazioni precedenti. Pierre Huyghe recentemente parlava di David Robins, artisti degli anni ‘90 parlavano spesso di artisti degli anni ’60 e ‘70 che si potevano riscoprire o rivisitare. Questo meccanismo ha luogo molto meno nel mondo dell’architettura: se io visito degli uffici di architetti è difficile mi suggeriscano di visitare un altro architetto che magari ha 80 anni! Per esempio Massimiliano Fuksas mi ha parlato di Lucien Kroll. Soprattutto non ci sono neanche istituzioni; in Italia non c’è un museo d’architettura, ce ne sono in altri paesi ma non hanno collezioni. In Canada c’è il CCA (Centre Canadienne d’Architecture) che ha una vera collezione, altrimenti sono pochi i musei di architettura che comprano questi archivi. C’è un grande pericolo di amnesia. E’ molto strano che su architetti come Yona Friedmann, quando ho cominciato a lavorare con lui dieci anni fa, non esistesse un libro sulla sua pratica: in un certo senso era totalmente dimenticato. Lo stesso vale per Cedric Price. Venendo dal mondo dell’arte era inimmaginabile l’amnesia che gli era stata dedicata. Come dice Eric Hobsbawn, “bisogna protestare contro il dimenticare”. Ho fatto anche un dialogo con Peter Smithson sulla nozione del tempo che andava nella stessa direzione. In qualche modo è interessante guardare l’architettura con uno sguardo proveniente dal mondo dell’arte. Queste interviste sulla memoria sono una parte di questo mio archivio, una memoria che non è nostalgica ma dinamica. Ci sono tante altre interviste anche ad artisti e architetti della mia generazione, l’ultima fatta solo ieri all’artista Trisha Donnelly. È una conversazione infinita in un certo senso. Lavoro come curatore qui al Museo d’Arte Moderna della città di Parigi e anche internazionalmente per delle Biennali, per esempio quella di Mosca che abbiamo fatto settimana scorsa con altri 5 collaboratori. Lavorando su queste mostre c’è una costante ricerca: non ricerco per le mostre, ma sono in un costante stato di ricerca da cui dopo escono le mostre. In un certo senso la ricerca è sempre all’origine. Alessandro Martinelli
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Quando parli di tempo infinito mi ricordi un lavoro di Fischli & Weiss che ho avuto
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prologo
l’occasione di vedere per intero giusto l’altro giorno al Beaubourg: si chiama Der lauf der dinge e mostra una catena infinita di eventi legati da una serie di rapporti fisico-chimici e dalle potenzialità che ci sono tra le cose che vengono o meno in contatto. Fischli & Weiss sembrano ritagliarsi il ruolo di catalizzatori di queste potenzialità. Tu nelle tue interviste, che ruolo svolgi? Sei catalizzatore di un tuo progetto oppure di una trama che respiri nell’aria? Hans Ulrich Obrist
Molto spesso è imprevedibile cosa esca da un dialogo. Il dialogo successivo
spesso nasce da una produzione di realtà: la conversazione non è mai finita dopo la conversazione, l’intervista non è finita una volta registrata. Dopo c’è una mostra, c’è un libro, c’è la necessità di produrre una realtà dove il dialogo sia sostenuto. Le mie interviste con Cedric Price sono durate 10 anni. Con Trisha Donnelly abbiamo cominciato due mesi fa ed ogni volta facciamo un’intervista in una diversa situazione: a San Francisco l’abbiamo fatta in un bar, a Miami a colazione in un hotel, ieri camminando nelle strade di Parigi, ce ne sarà una in treno, in aereo, in taxi, in studio, in giardino. In qualsiasi luogo possibile dove può avere luogo un’intervista. Alessandro Martinelli
Hans Ulrich Obrist
Una sorta di situazionismo urbano per interviste?
Esatto. E molto spesso con la stessa persona ci sono 5, 10, 20 interviste. Per
questo volevo iniziare con Friedman: condivido con lui l’idea del tempo di riflessione, della lentezza necessaria. Non è l’idea di un’intervista che dura un’ora ma quella di una conversazione sostenuta. Si deve ricordare anche come alcune interviste siano molto lunghe. Per esempio, con Gabriel Orozco abbiamo parlato dieci anni per preparare l’intervista. Con Cedric Price ho passato 5 anni parlando ogni settimana. Con Rem Koolhaas, da 8 anni, faccio 3, 4 interviste l’anno. Penso sia anche molto importante fare ponti tra le discipline: le mie interviste vanno sempre in questa direzione. Come dice Gyorgy Kepes nella sua bellissima serie di libri Visions and values, c’è una costante angoscia di fare un pool di sapere. La mia conversazione infinita vuole andare oltre quest’angoscia, creare delle connessioni tra artisti-architteti, artisti-scrittori, artisti-scienziati. Vengo dal mondo dell’arte e questo è sempre il punto di partenza, non dall’architettura. Nonostante ciò il meccanismo d’intervista che abbiamo creato con Cities on the move o Mutations, attraverso tutte queste mostre sulla città, è stato per me una scuola dove imparare tutti giorni. Fare interviste è la mia scuola quotidiana ed allo stesso tempo diventa una scuola pubblicandola, quasi un Black Mountain College del 21’ secolo. aperto un collegamento telefonico con Stefano Boeri, Alessandro Martinelli
Mi torna alla mente l’incontro fatto con
i romani 2A+P che, insoddisfatti della loro istruzione universitaria, hanno cominciato a farsi una propria istruzione attraverso delle interviste per una rivista che autoproducevano. Esiste una sorta di strategia conoscitiva comune al fare dell’intervistatore? Qual è la distinzione tra intervista e conversazione (spesse volte infinita)? Stefano Boeri
Con Hans Ulrich abbiamo provato ad introdurre l’idea dell’ “intervista interrotta”, cioè
pensare che l’intervista non sia solamente una risposta ad un set di domande preparate ma che
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questa diventi anche un evento in tempo reale in cui accadano cose che non sono determinate dalle due persone che parlano. In questo panorama abbiamo provato ad interrompere delle interviste introducendo una terza persona che arrivava all’insaputa dell’intervistato. Ho ragionato molto sulla salutare funzione di “restarting” che questa apparizione improvvisa può avere sulla struttura logica dell’intervista. Mi ricordo due casi efficaci: un’intervista a Giancarlo de Carlo in cui è apparso Rem Koolhaas ed un’intervista ad Andrea Branzi in cui è apparso il fotografo Gabrielle Basilico. In tutti e due i casi scegliemmo due figure lontane ma che avevano intensi contatti intellettuali con gli intervistati. In quei casi creammo una situazione unica sul piano della comunicazione e del non-detto. Quando si fa un intervista la cosa più interessante è infatti quello che non c’è bisogno di dire o quello che non viene detto, il “foglio bianco” di Blanchot, e che rappresenta proprio ciò che c’è in comune tra l’intervistato e l’intervistatore. L’intervista ruota attorno a questo vuoto. Quando arriva un terzo, un intruso, una figura esterna, per quanto familiare, la zona di non-detto viene azzerata perché l’estraneo mette in discussione tutto. L’intervista in qualche modo riparte, ma in una condizione di regole del gioco che è stata stabilita prima e che si deve ricostituire. Nell’ambito di questa rivoluzione è bene però dare attenzione alle cose che non mutano, allo spazio, all’oggetto dell’intervista, ecc… chiuso il collegamento telefonico con Stefano Boeri, Alessandro Martinelli
Una buona conversazione sta più in una
buona domanda o nell’alchimia dell’incontro delle persone? Hans Ulrich Obrist
Sta anche nel silenzio. Il grande filosofo tedesco Gadamer mi ha rammentato di
come si debba sopportare i silenzi di una conversazione. aperto un collegamento telefonico con Enzo Mari, Hans Ulrich Obrist
Puoi farci un statement breve sulla tua idea di
intervista? Enzo Mari
Numero uno, ritengo fondamentale capire che la qualità dell’intervista dipende solo
secondariamente da quello che dice l’intervistato. Un’intervista generica dove mi si fa una domanda e io non so bene quali siano le coordinate culturali complessive all’interno delle quali è posto ciò che mi viene domandato è un’intervista falsa. La responsabilità dell’intervista riguarda sia chi fa le domande, sia chi fa le risposte. E ci deve essere una forma di dialogo. Durante un’intervista le domande possono anche essere a sorpresa ma bisogna capire quale sia la ragione dell’intervistatore. Se l’intervistatore intervista tutti senza fare domande, potrebbe farlo, dopo trarrà le conclusioni delle diverse interviste; determinerà delle coordinate generali, dei criteri scientifici che lui stabilirà, trarrà delle conclusioni. Parto dal presupposto che l’intervista non è una chiacchiera da caffé, anche se vi si può chiacchierare. Ma nel caos di oggi questo non è più accettabile. Bisogna capire perché si fa un’intervista. Provo ad ipotizzare: un’intervista si fa per acculturare l’intervistatore, però l’intervistato deve conoscere le coordinate culturali dell’intervistatore per non dare delle risposte equivoche. Oppure un’intervista si fa per comunicare a tutti certi valori, un certo ordine del mondo. Se si dà per presupposto che non è possibile lavorare su un ordine del mondo, su un idea generale, allora l’intervista fa parte del chiacchiericcio generale, dello sciocchezzaio
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prologo
generale, delle centinaia di migliaia di libri, articoli inutili che continuano a girare e lasciano tutti nel vuoto. Sto parlando soprattutto delle interviste che riguardano gli aspetti espressivi, riguardano gli aspetti della qualità del progetto di design, architettura, arte, musica, letteratura… Oggi siamo nel caos. Non sto pensando che sia possibile dare delle risposte precise, sicure, ma per lo meno che emerga una dialettica chiara dall’intervista. Questo mi sembra il punto centrale. L’importanza delle domande è uguale a quello delle risposte. Mi è capitato di leggere interviste intelligenti dove era più interessante sentire le domande articolate che non le risposte. Siamo nel marasma generale dove merce non sono gli oggetti ma sono il modo di lavorare, i pensieri, le filosofie... Nel momento in cui si parte del presupposto di una sorta di uguaglianza, esiste anche la realtà ovvia dell’affermare non tanto i propri principi veri, ma del giustificare quella che è una propria formula del lavorare condizionata dal progetto. Alcune formule di lavoro non sono esprimibili perché non corrispondono al blabla generale. Una delle ragioni di questo è che siamo in un sistema dove ciò che conta è la novità, la novità fine a se stessa, la novità di un’idea filosofica, la novità all’infinito. Come nella Biblioteca di Babele di Borgès tutte le idee risultano riproposte, ritritate, rimpasticciate. Non ho nessuna pretesa di autorevolezza hegeliana o kantiana. Non voglio essere il maestro di nessuno. Ma vorrei potere dialogare in un contesto dove avviene realmente la comunicazione. Ho l’impressione generale che i risultati siano un blabla infinito. chiuso il collegamento telefonico con Enzo Mari, Hans Ulrich Obrist Qui c’è anche l’idea idea di un rifiuto dell’intervista.
Ci sono artisti che non vogliono dare interviste, come On Kawara, o parlano attraverso qualcun altro. Massimiliano Gioni ha ormai la pratica speciale di essere la voce di Maurizio Cattelan. aperto un collegamento telefonico con Massimiliano Gioni, Hans Ulrich Obrist
Quando abbiamo fatto la mostra di
Maurizio Cattelan a Parigi, c’era una situazione oscillante: talvolta Maurizio ha risposto, talvolta tu hai risposto. Puoi parlarci un pò di questa vostra pratica dell’intervista oscillante? Massimiliano Gioni
Prima forse sono necessarie alcune parole per chiarire come sia iniziata questa
osmosi o oscillazione. Qualche anno fa, nel momento in cui stavo lavorando su un’intervista con Maurizio, intervista che era un processo abbastanza penoso perché a differenza di On Kawara che rifiuta di fare un’intervista, Maurizio accetta tutte le interviste, che però risultano alla fine fatte riciclando dichiarazioni o frasi di altri artisti o di altre interviste, come interviste in cui le opinioni siano una sorta di ready-made. Dopo quel primo incontro, Maurizio mi ha chiesto di diventare una specie di megafono e di rispondere alle interviste al suo posto, sia radiofoniche, che per via scritta. Sono diventato una sorta di personalità delegata. Era una scelta che rientra nella sua operatività perché Maurizio non fa nulla con le proprie mani, la produzione è sempre delegata e c’è una costante oscillazione tra il perdere e riacquisire il controllo in un costante processo di delega e verifica. Maurizio portava avanti questa presa di posizione da tempo con Permanent Food, un giornale fatto di tanti altri giornali. Un giornale in cui l’opinione è delegata a tante altre voci, una specie di polifonia. Questo scambio si svolge anche quando Cattelan deve fare delle mostre dove le istituzioni vengono invitate a ripensare il loro compito. Ormai sono cinque anni che le opinioni che la gente legge e associa a Maurizio sono “fabbricate” da me. Esiste un territorio di libertà e di
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ambiguità in cui ciascuno può inventare le opinioni di un’altro. Maurizio ha cercato di analizzarlo, di confrontarsi con l’idea dell’autorità, l’idea di potere, l’idea di autore… Qual è la verità, la vera interpretazione del suo lavoro? Ci sono tante altre interpretazioni oltre la verità. Hans Ulrich Obrist
Massimiliano Gioni
Quali sono le reazioni? Le reazioni sono diverse perché questo gioco non ha regole definite. A volte la
persona che intervista Maurizio sa che non sta parlando con Maurizio, altre volte non lo sa. A volte, nel caso di lecture pubbliche, si svela il trucco. Alla New York Summer School della fondazione Guggenheim, una studentessa aveva addirittura scritto una lettera al preside indignata del fatto che lei pagasse delle tasse accademiche per essere presa, in qualche modo, “in giro”. A questo proposito, interessante nel lavoro di Maurizio è come ci sia sempre una negoziazione a volte parassitaria, a volte complice. E quindi di volta in volta, sia con i giornalisti che con il pubblico, bisogna ricostruire le relazioni, capire se il ricevente del messaggio è abbastanza flessibile per essere incuriosito da questo processo, o se si senta preso in giro… Importante comunque rimane come, anche quando parlo io a nome di Maurizio, ci sia il dubbio latente che ogni affermazione non sia vera. Non è che io debba inventare una mia verità. Quando faccio interviste mi approprio di aneddoti magari non veri perché ho bisogno di insinuare il dubbio anche nel momento in cui dico la verità, che finisce col trattarsi di una mezza verità o di una falsità. Alessandro Martinelli
L’intervistatore è un essere schizofrenico? Se l’intervista funziona bene i ruoli
d’intervistatore e di intervistato si confondono? Hans Ulrich Obrist
Non c’è un master plan dell’intervista, però poco a poco questa si struttura in
un modo auto-organizzativo. Tutto assume uno stato fluido, la sua pratica è legata ad Alighiero Boetti, uno stato di vero scambio basato su reciprocità, generosità… L’importanza del dubbio è fondamentale anche per il lavoro di Carsten Holler. aperto un collegamento telefonico con Carsten Holler, Hans Ulrich Obrist
We’re having an infinite conversation. It has
its own temporality with a time of reflection and a time of doubt. We call Yona Friedmann and he said it’s not only a dialogue but also a plurilogue or a multilogue. Can you talk a little bit about those notions? Carsten Holler
We have a very strong link between us, and the link we have has to do with the fact
that we discovered something together and I really took it in the sense it became a really strong element in my work. This is the moment of doubt which somehow was born in a common situation and is something we have been speaking about through years since ‘99. And it’s something very hard to speak about, because we have been trying to use other words instead of it, like perplexity, uncertainty, but it didn’t bring us any further. Hans Ulrich Obrist
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Gadamer said the most difficult thing about interviews is the silence, because you
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prologo
can’t transcript it. Carsten Holler
I think you can feel it howhever because the interview somehow stops.
Hans Ulrich Obrist
We had this conversation about doubt with Philippe Parreno and the idea of stop
producing, the suspense in production. He sees a paradox because we speak about dialogues but at the same time somehow we continue to produce. How do you see this paradox? Carsten Holler
We have no choice. It’s not really a paradox: it’s more a dilemma situation in the sense
that whatever you do, you do it wrong. You cannot talk, producing all together because it doesn’t make any sense. And you cannot go on as you did it before because things have changed after you have introduced this moment of doubt. So, as the only way out of that, I propose to incorporate this moment of doubt in whatever you do. And by having a decent element in what you do, that means whatever you do is not necessarily the right decision, it could be something else. That opens up a wide field of possibilities very interesting to explore. You do one thing but it’s more about the meaning of what you do, in the sense that what you do doesn’t mean that it is the right choice. It‘s like a premise to what you’re doing. And in this sense, it is very interesting to introduce premise to non-exclusivity, so what is done is not the only thing… Alessandro Martinelli
Carsten Holler ha parlato di dubbio nel senso di non esclusività. Massimiliano
Gioni ha parlato della compresenza di verità e falsità. Questo in un certo senso mi ricorda come in una “mente collettiva” sia importante la ridondanza delle cose. Non è importante quanto queste siano corrette, piuttosto quanto il numero di interconnessioni che queste sviluppano fra le cose. La tua conversazione infinita è, in un certo senso, l’ultima mente collettiva? Hans Ulrich Obrist
E’ un grande “collaboratorio”. Perché tutti sono co-autori di questo progetto. E’
anche una passeggiata, una deriva, anzi è la scienza del fare una passeggiata, come per Lucius Burckardt e la sua promenadologia…
Hans Ulrich Obrist Divenuto celebre per le sue interviste, Hans Ulrich Obrist, storico dell’arte e critico, ha fondato nel 1993 il museo Robert Walser ed ha lavorato come curatore al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, dove ha creato il programma denominato Migrateurs. Attualmente è co-direttore alla Serpentine Gallery di Londra, dove cura le mostre e i programmi. Ha sperimentato e innovato le metodologie espositive tradizionali, agendo in video, online, in case private, spazi pubblici oltre che in centri per l’arte istituzionali. Dal 2001/2 al 2004/5 è stato titolare del laboratorio di allestimento espositivo presso la Facoltà di Design e Arti dell’Università di Venezia.
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Istruzioni per l’uso Lo scopo di questo libro è quello di organizzare e rendere accessibile, con diverse modalità, la grande quantità di informazioni contenute nelle venti interviste realizzate. Per rendere immediato l’accesso a queste informazioni, i riferimenti interni al testo sono stati riportati fin sulla costa del libro. Una prima e semplice modalità di accesso è basata sulla catalogazione del profilo di ogni studio, determinato da semplici informazioni come la sua dimensione o la città dove esso ha sede. Una seconda è derivata dall’indicizzazione dei temi di interesse comune emersi durante la ricerca e poi riassunti nelle seguenti parole chiave: città, collaborazione, computer, concorso, editoria, europa, formazione, gioco, imprenditorialità, internet, modello, realizzazione, ricerca, territorio e schizofrenia. Una terza, infine, è organizzata secondo le citazioni (di libri, architetti, film, ecc…) comuni a più studi. La due fasce esterne del libro sono delegate ad organizzare questi indici: in alto a destra trovano spazio quelli relativi alla dimensione ed al posizionamento dello studio di architettura trattato in pagina; al centro a destra trovano spazio le parole chiave, il numero assegnato univocamente ad ogni parola evidenzia nelle quattro colonne di testo la posizione della parola stessa o del nucleo semantico alla quale questa si riferisce; a sinistra invece sono ospitate, in forma di nota, le citazioni comuni individuate nel testo. Le piccole icone, videostill di ogni intervista, scandiscono a intervalli di dieci minuti la durata dell’incontro registrandone la dimensione temporale contingente.
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20 studi di architettura
4 nazionalità europee
( e 15 temi per ripensarla )
10+1 domande sulla professione dell’architetto
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4 grandezze di studio
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gr - la generazione... pag. 48
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2A+P architettura
Roma 00165
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Roma, 13/10/2004 - h 12.00
9 persone, 12 pc
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2A+P architettura (www.dueapiup.it),
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2A+P Non ci siamo mai spostati, abbiamo avuto
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Al di là delle tematiche architettoniche, come definireste la città di Roma?
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editoria
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ricerca
di gruppo, nasce nel 1998 quando decidemmo di occuparci di editoria e di fare una rivista che fosse diversa dalle altre, che ci permettesse di crescere e di conoscere. La rivista si chiamava 2A+P come la formula primordiale (2A+P Body-Home-Landscape, Castelvecchi Arte, Roma 2000) ma anziché l’univocità di un numero esprimeva la molteplicità e la ricchezza dei temi proposti. Raccontavamo di progettazione ma non solo dal punto di vista dell’architettura ma anche dell’arte e del pensiero e da quel momento abbiamo sempre cercato di avere un’attitudine che fosse fortemente operativa e inclusivista. Poi abbiamo voluto mettere insieme qualcosa che si potesse realizzare più velocemente di una rivista, un libro (gr - la generazione della rete, Cooper Castelvecchi, Roma 2001). Intanto il nome ci è rimasto addosso e ora è solo un suono. Infine nel 2000 varie vicende ci hanno portato a lavorare con altre persone e a realizzare nicole_fvr, un laboratorio che è esistito fino al 2004. Insieme abbiamo fatto bellissime esperienze, eravamo otto uomini con mille proposte e almeno nel nome volevamo una donna. Nel 2005 abbiamo realizzato Round Blur, una rotonda coloratissima e riflettente che si trova a Mirafiori, uno dei quartieri più grigi di Torino, un lavoro firmato, appunto, nicole_fvr / 2A+P architettura.
2A+P Sostanzialmente per questo. Il gruppo nasce
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da una sensibilità e strategie comuni. Ci siamo conosciuti il primo giorno di università e abbiamo iniziato a fare esami insieme: al secondo anno abbiamo fatto il primo concorso e così abbiamo avuto la necessità di uno spazio dove fare cose insieme… Non la camera di casa per studiare ma uno spazio per l’indipendenza… E questo ci ha dato quel coraggio che oggi ci ha convinto ad aprire uno studio qui a Roma, con tutte le sue difficoltà. Voi lavorate come una mente collettiva: avevate
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concorsi
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Quindi, oltre ad unirvi per necessità pratica, siete uniti anche da intenti comuni?
2A+P Forse la definizione più appropriata è città
infinita. Non è che sia tanto semplice descriverla. C’è da sempre, esisterà sempre; riesce a mantenere uno spirito incredibile dal punto di vista identitario. Ma allo stesso tempo, negli ultimi anni sta perdendo qualche cosa, si sta espandendo con una rapidità impressionante. Un tempo consideravamo Roma come compresa all’interno del grande raccordo anulare, ma oggi questo anello sta diventando una strada urbana; si stanno costruendo grandi centri commerciali e intorno a questi poli, come negli Stati Uniti, stanno sorgendo numerosi quartieri anonimi, veri suburbs fatti di piccole case a schiera. Prima esisteva il concetto identitario di borgata ma adesso questi quartieri non possono neanche definirsi
città
2A+P Il nostro nome, e anche la nostra coscienza
Perché il vostro studio ha sede a Roma?
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Perché il vostro nome?
G.Bombaci D.Cannistraci P.Chiodi M.Costanzo V.Franzone, via monte del gallo 26 - 00165 Roma (I), tel. +39 06 64400145
la possibilità di studiare all’estero, l’interesse a muoverci, ma non abbiamo mai avuto una reale intenzione di andare a lavorare in altri studi… Ci siamo laureati tutti da pochi anni, abbiamo un’età compresa tra i 31 e i 32 anni… Molto probabilmente dal punto di vista della ricerca Roma è uno dei posti migliori, ma dal punto di vista lavorativo è uno dei luoghi peggiori. Per diversi motivi, politici, economici, di mentalità. Magari a Milano, al Nord, ci sono una serie di industrie con le quali è facile collaborare. O magari in piccoli paesi, anche al Sud, è più facile sviluppare una serie di contatti o collaborazioni… Roma invece ha un territorio incredibilmente vasto, ha 4-5 milioni di abitanti e credo, allo stesso tempo, è una delle città con il più alto numero di facoltà di architettura nel mondo, che sfornano centinaia di architetti. Nonostante ciò c’è una certa assenza di ricerca, nel senso di ricerca applicata, e molto è ancora in mano ai costruttori.
periferici, sono quasi nuove centralità. Quasi, perché, oltre alle abitazioni e ai luoghi di commercio, sono completamente carenti di spazi pubblici e luoghi di relazione. Non sono quartieri operai, non sono quartieri popolari; sono semplicemente metri cubi che non fanno altro che aumentare le superficie urbana. Ed è proprio su questi temi che stiamo portando avanti una ricerca con romalab (www.commonground.it/romalab), un Laboratorio di Architettura Relazionale che studia lo sviluppo urbano, proprio lo sviluppo di quest’ultima città di cui vi parlavamo. romalab è nato dall’esigenza di confronto con altri studi e persone che lavorano in questa città. Ci siamo noi, Maria Luisa Palumbo, aQ, doppiomisto, ellelab, ma0, studiouap, tutte persone che credono profondamente che l’architettura debba avere delle finalità sociali.
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anche altri nomi, siete un po’ schizofrenici. Qual è il vostro modo di lavorare come gruppo? È impressionante quante somiglianze e quante differenze ci siano, allo stesso tempo, nel nostro gruppo. Molto spesso, lavorando come nicole_fvr, abbiamo partecipato a concorsi non lavorando tutti insieme. Anzi, proprio per quanto riguarda i concorsi, nicole_fvr rappresentava più una scissione che un’unione. Ci incontravamo, decidevamo quali fare, e spesso presentavamo due gruppi allo stesso concorso. La cosa affascinante di questo processo era la quantità di invenzioni che si mettevano in campo. Si produceva una grande quantità di progetti, e quando succedeva di lavorare sul medesimo progetto un gruppo “copriva con la mano” il proprio lavoro per non fare vedere all’altro cosa stesse facendo… La cosa divertente era che, quando si consegnava, le tematiche toccate erano praticamente identiche. Era differente la realizzazione del progetto, ma il punto fondamentale che il progetto stava toccando era lo stesso. Un caso è stato quello di Yourope, un concorso per studenti: bisognava progettare la prima ambasciata europea domandandosi se e come questo fosse possibile. Uno dei progetti era Under the skin e l’altro era Cactus. Entrambe avevano la volontà di affermare sia che l’architettura non è un elemento che si sovrappone al paesaggio, ma che nasce da una fusione con questo, sia che non essendoci una reale identità per la cultura europea, la sua ambasciata non doveva essere la bandiera dell’unione di questi paesi ma doveva inserirsi nel luogo che l’ospitava. Ci è sempre interessato lavorare sul concetto di località, di localismo, e così accadeva anche facendo due progetti diversi per lo stesso concorso. Oggi tutto questo non succede più, abbiamo un identità univoca e una strategia più chiara, però non abbiamo smesso di sperimentare… siamo solo meno schizofrenici.
“border-device”. Lavorare dal punto di vista della comunicazione significa anche impegnarsi nel comunicare un approccio, una visione che a volte è fatta da poli opposti.
2A+P
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Toyo Ito pag. 70 Stefano Boeri pag. 13-14,40, 62,63,82 Biennale pag. 47,49,52
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Superstudio pag. 82 ma0 pag. 21,58-61
Ci è capitato di intervistare Toyo Ito per definire l’idea di Europa, e lui, da orientale, l’ha descritta come un accumularsi di differenze. In questo sembrate molto europei, perché fate un progetto per tanti posti differenti, fate un progetto che diventa molto differente, siete tante persone differenti e però, come l’Europa, funzionate perfettamente insieme.
Stalker pag 57,58,60,80-83 m28 pag. 58 Le Corbusier pag. 12,65,77,92 Peripheriques pag. 30, 68-71
2A+P Avere due realtà significava avere anche 9
Francois Roche pag. 30,51,135-136 IaN+ pag. 50-53,58,60,65 Armin Linke pag. 27
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due economie, due modalità di lavoro differenti. Sicuramente alcuni nostri progetti vivono di questa dualità. Una volta abbiamo fatto un piccolo intervento all’interno del corso di Stefano Boeri (Borderdevice(s), IUAV 2002/2003) e, visto che gli studenti lavoravano sul concetto di dispositivo di confine, abbiamo portato avanti questa idea di schizofrenia nel presentarci, in fondo noi stessi eravamo il nostro
A che gioco state giocando? L’architettura per voi è anche gioco? 2A+P È un gioco dove ovviamente ci sono delle 8
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regole, ma regole autocostruite. Il proprio lavoro, la propria sensibilità, la propria poetica, sono proprio regole che ognuno mette in discussione continuamente. Questo non è un gioco in senso stretto, ma rimane tale perché comunque ti deve entusiasmare. Uno dei primi progetti che abbiamo fatto, e credo anche uno dei più importanti, è stato Sand City. Era la Biennale di Venezia del 2000 e bisognava proporre attraverso quattro immagini, quattro file jpg per un concorso on-line, una visione sulla città. La nostra riflessione era molto semplice: la città sta effettivamente diminuendo sempre di più i propri spazi pubblici. Noi non consideriamo i centri commerciali luoghi dove potersi relazionare: siamo abbastanza scettici e contrari a queste modalità di sviluppo urbano. In questo progetto cercavamo di sviluppare una città che vivesse totalmente all’esterno. Era un’enorme superficie che copriva tutti gli spazi di spostamento. Oggi, probabilmente, uno degli aspetti più positivi della tecnologia è il poter lavorare a distanza, e questo porta a poter ripensare gli spazi tra edificio ed edificio, tra ufficio e casa, come spazi pubblici dove la gente possa relazionarsi. È naturale che Sand City, una enorme superficie, un’immagine astratta che deve molto alle immagini radical di Superstudio e di Archizoom, diventi assolutamente uno spazio per il “gioco della vita”. Una serie di superfici levigate e dolci potevano essere il luogo per un’infinità di attività. Uno spazio dove stare… Da questo punto di vista fare architettura è un gioco, ma è anche dare agli utenti di questi spazi la possibilità di giocare. Possiamo dire che l’architettura, se è un gioco, deve diventare un gioco anche per gli altri? Avete fatto progettazione partecipata?
2A+P Abbiamo
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lavorato ad un progetto organizzato da Osservatorio Nomade, si chiamava Immaginare Corviale, un enorme progetto contenente workshop dedicati alla reinvenzione operativa della megastruttura di Mario Fiorentino... All’interno di questi workshop hanno chiamato alcuni gruppi, tra i quali noi (anche qui schizofreneticamente come 2A+P / nicole_fvr), ma0, ellelab, Stalker ed m28. In questo caso ci era richiesto di aprire un dialogo diretto con gli abitanti. Poco prima avevamo concluso un progetto con una serie di serre negli spazi limitrofi al Corviale. In effetti parallelamente a questa grande struttura esistono circa 1 km di orti urbani, abusivi, ma molto belli.
David Cronenberg pag. 36
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2A+P architettura
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Questi orti sono però una barriera per il passaggio degli abitanti di Corviale che non possono godere della magnifica campagna che c’è oltre. Col progetto cercavamo di rendere questo spazio non più privato, non semplicemente un luogo al quale potessero accedere i proprietari coltivatori, ma che si aprisse in qualche modo alla collettività. All’inizio il progetto è stato fatto durante il workshop con degli studenti di Roma Tre. Finito il workshop abbiamo continuato a portarlo avanti e a definirlo. Forse un giorno se ci saranno dei fondi del comune… chi sa... Abbiamo un’incredibile passione nel cercare di capire come oggi l’agricoltura possa ritornare a far parte della vita quotidiana. Il nostro scopo, slegandosi da un singolo progetto, è cercare di rendere il suolo in qualche modo produttivo. Non riusciamo a capire il motivo per cui la produzione, qualsiasi tipo di produzione, si stia allontanando dalle città. Analizzando Roma, ma penso valga per ogni città, il piano terra degli edifici non è più un luogo produttivo e, al di là dell’attività degli ultimi artigiani che stanno scomparendo, ci sono solo luoghi di commercio. Anche i parchi sono semplicemente luoghi di divertimento in cui non c’è nessun genere di produttività. Inseguendo un sogno utopico, la nostra idea è quella di cercare di realizzare spazi collettivi, quindi di scambio, che possano anche diventare luoghi produttivi. Quando parlavamo del fatto che l’architettura si debba fondere con il luogo non intendevamo che debba “adagiarsi” sul territorio a livello linguistico e formale, la fusione deve essere qualcosa di più intenso: negli ultimi nostri progetti stiamo cercando di abbassare il tenore del linguaggio, stiamo cercando di diminuire la forza dell’immagine tentando di aumentare le reali relazioni che l’architettura crea con il territorio, con l’ambiente. Siamo totalmente contrari all’immagine modernista della scatola appoggiata sul terreno, vogliamo che questa si fonda con esso. Abbiamo così realizzato una serie di progetti che cercano di infondere nella “scatola” l’aspetto ”metabolico” della serra, quindi la respirazione, la ventilazione, l’assorbimento. Quello cui puntiamo è un organicismo non più formale: speriamo di riuscire a fare degli oggetti architettonici che non vivano una vita a sé stante, svincolata dai luoghi, ma che siano in continuità, in relazione con l’ambiente ed il territorio nelle sue varie accezioni… Tornando anche al discorso sulla partecipazione tempo fa abbiamo partecipato ad Idensitat Calaf / Manresa 05, una convocazione di progetti che analizzasse il cambiamento di identità di due piccoli centri Catalani in rapida trasformazione e crescita. Dopo una serie di interviste alla cittadinanza e agli amministratori di Calaf abbiamo intrapreso un processo partecipativo con gli anziani del paese per la progettazione del giardino del loro centro incontri, un’esperienza interessante dal punto di vista umano e progettuale… e a fine 2006 il progetto sarà realizzato.
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Potete dirci un film, un libro, un disco, un sito che vi hanno interessato? Ma in generale tutta la sua produzione ha avuto
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2A+P Potrei parlare di Existenz di David Cronenberg.
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Diteci 4 nomi di architetti italiani e stranieri, 4 nomi di artisti che vi interessano o vi hanno stimolato. 2A+P Iniziamo con gli architetti stranieri: dal punto di vista storico, gli Smithson sono un gruppo che ci ha sempre incuriosito per la loro capacità di dar forma alla ricerca e al progetto. Molto spesso in architettura alcuni grandi teorici scindono la professione, la progettualità dalla ricerca, dalla speculazione teorica. Un aspetto molto affascinante degli Smithson è che sono stati probabilmente i primi capaci di riunire l’immagine fotografica con l’architettura. Poi hanno partecipato all’Indipendent group creando una rete di relazioni in ambito architettonico e artistico. Ovviamente fondamentali sono anche la loro partecipazione al Team X e la capacità che hanno avuto di opporsi al movimento moderno, confrontandosi con Le Corbusier ed il CIAM. Invece guardando al contemporaneo abbiamo grande stima di alcuni gruppi francesi, che riescono a produrre dei progetti totalmente svincolati dall’immagine fredda della città contemporanea, Duncan Lewis, Peripheriques… François Roche per il legame che ha con il territorio. Poi, Actar, probabilmente… Ci piace molto la loro schizofrenia interna, tra architettura e ricerca. Nell’editoria sono sicuramente un punto di riferimento. L’Italia non è al momento uno dei luoghi più osservati, anche se in realtà meriterebbe una scansione. Abbiamo grande stima per alcuni gruppi con cui abbiamo collaborato e di cui conosciamo profondamente il pensiero. Tra tutti IaN+ e ma0, pensiamo siano apparsi al momento giusto (non crediamo abbiano niente da invidiare a moltissimi gruppi europei di grido) e presto raggiungeranno il successo che si meritano. Poi sicuramente Superstudio, l’esperienza radical in generale, sia per la capacità di essere visionari, sia per la capacità concreta di capire che in quel momento il design era l’unico luogo positivamente rivoluzionario. L’industria del design ci si aspettava potesse entrare veramente nelle case, nella vita di tutti. Non era solo una visione estetica ma un profondo pensiero politico. Se dobbiamo parlare di arte ci sono Botto & Bruno con le loro costruzioni di foto in grado di raccontare la città, le periferie urbane, gli spazi in disuso. Oppure Loris Cecchini col cui pensiero crediamo di avere un’affinità. Ha realizzato una piccola discoteca in Toscana oltre a tanti altri lavori veramente interessanti. Poi c’è Armin Linke, capace di far visitare il mondo con la sua tecnica incredibile. La sua immagine è rarefatta, inondata di luce bianca, quasi piena di nebbia... Ci affascina questo perdere i profili, entrare in città sfuocate…
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Vi interessate di città, di architettura, di comunicazione? Perché?
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2A+P La comunicazione è stata una necessità. Ci rendevamo conto che l’università non ci stava dando più nulla. Non si riusciva a imparare, non riuscivamo a relazionarci con nulla. Non per essere critici, ma l’università era un po’ chiusa. E noi, grazie alla rivista, ci siamo fatti un corso universitario parallelo. Comunicare è stato importante perché ci ha costretto a dover studiare, a doverci mettere in gioco ed a relazionarci continuamente con persone differenti. Sulla rivista comparivano lavori di architetti, artisti, pensieri di filosofi… Le questioni erano molto più grandi di noi e ci hanno costretti ad andare veloci. L’architettura è sicuramente una passione, ti fa fare sacrifici, una vita tutto sommato infame, senza orari, senza un riscontro economico. C’è una grossa differenza tra quelli che fanno architettura per passione e quelli che la fanno come lavoro. Noi adesso, crescendo professionalmente, stiamo cercando di coniugare i due aspetti… Rimane importante la ricerca, la sperimentazione. E’ una battaglia costante in un paese come l’Italia dove la ricerca non è presa in considerazione, in una città dove c’è un sistema sociale e politico abbastanza rigido. E’ anche un motivo per il quale tendiamo a costruire una rete di collaborazione anche con altri studi. Si rende più forte la voce di una singola realtà nel momento in cui la si unisce ad altre, soprattutto se ci sono punti di convergenza.
Che rapporto avete con il computer? 2A+P Usiamo il computer sia per formalizzare un 3-10
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concept, sia per verificarlo, sia per disegnare, sia per informarci tramite Internet. È un mezzo senza il quale oggi non potremmo lavorare. Forse è come un senso in più. Non crediamo abbia però deformato il nostro pensiero. Non siamo uno di quegli studi che ha la presunzione che una serie di comandi possano concretizzare le idee progettuali. Utilizziamo i software, utilizziamo Maya. Ma non abbiamo mai aderito a questa corrente, questo canale di deriva dove l’architetto inserisce una serie di dati e la formalizzazione, la strutturalizzazione del progetto avviene all’interno del computer. In questo siamo ancora tradizionali, usiamo quadernoni per gli schizzi. In verità quello che inseguiamo è la risoluzione di un concetto, e questo avviene per il 99% fuori dallo schermo. E’ però chiaro che la capacità del computer è anche immaginativa, nel senso che riesce a realizzare immagini che possono far sognare. Ma dobbiamo confessare che certi schizzi degli Smithson ci hanno emozionato molto più dei rendering di Libeskind. E infine… Come campate?
2A+P Sulla nostra organizzazione! Innanzitutto siamo 12
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uno studio molto piccolo ed abbiamo avuto poche occasioni per realizzare. Ultimamente una serie di lavori e gare ci hanno fatto entrare dei soldi in cassa. Siamo avvantaggiati dal punto di vista lavorativo perché comunque abbiamo capacità anche nel mondo dell’editoria e della grafica. Con qualche sacrificio, però, siamo arrivati ad una situazione in cui lo studio riesce ad avere un’economia propria ed autonoma. Stiamo costruendo un sistema…
Milano, 09/03/2005 - h 16.30
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un effetto devastante sulla nostra formazione. In Existenz comunque appaiono diversi aspetti affascinanti: la tecnologia che diventa organismo, la totale assenza della città in un film di fantascienza (tutte le scene vengono girate in una campagna anonima). Una colonna sonora… Ora abbiamo l’I-pod! Forse la musica elettronica con tutte le sue mille sfaccettature è una delle cose che ascoltiamo con più frequenza. Un libro, un romanzo… Penso la produzione di Wu Ming. Sono un gruppo e fanno scrittura collettiva, noi siamo un gruppo e facciamo progettazione collettiva; loro vedono la produzione come uno strumento di interazione con la gente e l’architetto è una persona che deve avere un impegno politico. In architettura, un libro che ci è stato di riferimento è Progettare secondo natura di Jack e Nancy Todd, due biologi. Propongono una visione imperniata sul concetto di sostenibilità. Web… Guardiamo con frequenza Arch’It (www. architettura.it). Crediamo che il lavoro di Marco Brizzi sia formidabile per la nostra generazione, non solo attraverso Arch’It ma anche attraverso un’infinità di manifestazioni che ha organizzato. Siamo molto grati della sua attenzione e della sua curiosità
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(www.99ic.com), G.Agoston C.Ammirati F.Dambrosio I.AlvesDaSilva G.G.Lugli S.Maderna M.Poli G.Silva, via Poma 18 - 20129 Milano (I), tel. +39 02 87393504 Perché il vostro studio ha sede a Milano? Matteo Poli L’idea di aprire uno studio a Milano nasce
abbastanza casualmente...
Eduardo Arroyo pag. 51,66-67
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Lo studio è composto da una portoghese, un ungherese, una persona che abita nei Caraibi… Non c’è una motivazione specifica, è un po’ capitato, diciamo, per comodità.
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Puoi dirci qualcosa di Milano? MP Milano è una città curiosa perché è molto
provinciale e globale allo stesso tempo. Ha una serie di pulsioni esterne che hanno carattere internazionale, però in realtà la quotidianità è molto sonnolenta.
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MP Non amo lamentarmi della situazione della giovane architettura in Italia! Non si può dire che non ci sia lavoro. 99IC non è un gruppo, ma una società a responsabilità limitata, con una serie di implicazioni che sono possibili solo nel momento in cui si ha un fatturato. Altrimenti sarebbe un’associazione culturale. Al contrario, siamo specificatamente orientati verso la produzione e la realizzazione di progetti. Insomma, qualcosa da fare dobbiamo averlo per forza...
Come funziona il vostro lavoro di gruppo? MP Il nostro gruppo si è ingrandito e ciò è dovuto
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sia all’interesse verso il nostro lavoro da parte delle persone che sono entrate a far parte di 99IC, sia ad una semplificazione dell’organizzazione. Nel momento in cui hai dei soci, tutti sono disponibili ad investire su quello che si sta facendo. Se invece lavori solo con dei dipendenti hai sempre problemi di partecipazione. A livello di organizzazione, abbiamo una sede qui ed una a Verona (AAPA), lavoriamo via email, con Skype e via ftp. Poi abbiamo delle responsabilità diverse all’interno dello studio, c’è chi si occupa di grafica, chi di architettura del paesaggio, chi di progettazione intesa come direzione lavori, etc... E poi c’è chi si occupa di gestione del progetto e dell’ufficio. Lavorate sempre tutti insieme, come un organico, o vi dividete ed entrate anche in competizione?
MP Nei concorsi, se riusciamo, lavoriamo insieme.
Partiamo dall’idea che abbiamo conoscenze ed esperienze professionali diverse che hanno come obiettivo creare un buon progetto. alla fine la
collaborazione
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più importanti di uno scopo finale. Si lavora e si producono idee spesso a prescindere dal risultato. Forse negli studi che avete visto succede che le persone comincino a lavorare insieme, poi facciano un progetto e fondino un gruppo. Noi invece abbiamo fatto subito una società, proprio perché ci sembrava una perdita di tempo aspettare magari due anni senza avere regole chiare e definite. È servito molto, perché ci ha dato da subito una struttura chiara. Poi, certo, ci sono degli obiettivi comuni, degli ideali che vengono spesso ridiscussi. Io sono convinto che non ci sia qualcosa alla fine ma ci sia qualcosa all’inizio.
concorsi
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Cosa significa il vostro nome?
editoria
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MP Significa cose diverse. Noi abbiamo aperto nel
’99 e quello è il motivo più banale. Poi, IC in statistica sono gli “intervalli di coincidenza”: 99IC significa, più o meno, quella parte di campione statistico in cui sei sicuro di trovare l’elemento di media che stai ricercando. Più è alto il numero, maggiore è la possibilità che il risultato sia affidabile; per convenzione 100IC non esiste. L’ 1 che ci manca per essere davvero completi non l’avremo mai, insomma. Trovo sia confortante...
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imprenditoria
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Riguardo all’idea di gruppo: siete una mente collettiva? MP È una questione di affinità. Lavori con delle persone cui sei vicino per motivi diversi. Noi abbiamo una storia “personale” abbastanza complicata. Abbiamo cominciato con persone che sono uscite dal gruppo e che sono sostituite oggi da altre che nel ‘99 non conoscevamo neppure. È per questo che non riesco a definire che cosa esattamente ci tenga insieme. Anche perché, per esempio, con una delle persone con cui abbiamo fondato lo studio (Gianmaria Sforza) abbiamo avuto una lite furibonda ma, nonostante questo, siamo molto vicini. A livello professionale non ha però funzionato. In verità si litiga su stupidaggini: su come gestisci i clienti, il tempo del progetto, etc…
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città
MP Ci sono interessi comuni a priori, secondo me
MP No, Milano è molto diversa. Usando la stessa
A Roma dicono che, probabilmente, nel nord Italia o più a sud di Roma stessa sia più facile lavorare…
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Cosa vi unisce?
Eduardo Arroyo ha parlato di Madrid come una città-puttana. Cosa ne pensi? Il concetto può riferirsi anche a Milano? metafora, Milano è una puttana d’alto bordo che costa molto. Non è certamente una puttana alla portata di tutti. Barcellona e Madrid sono più accoglienti.
collaborazione resta fondamentale. Abbiamo fatto qualche concorso presentando due consegne diverse, per cui c’è stata un po’ di competizione all’interno dell’ufficio, ed anche quello è un elemento stimolante. Per gli incarichi invece, dipende, nel senso che pianifichiamo all’inizio. Se c’è un lavoro che ha un certo budget, decidiamo chi ci lavorerà, quanto tempo ci investirà, etc…
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ricerca
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A che gioco state giocando?
stata una cosa fantastica!
MP Giochiamo a fare gli architetti divertendoci e 10
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Vi interessate di città, di architettura, di comunicazione? Perché?
provando a fare cose molto diverse: dal progetto di un sito web, per cui magari ci vuole mezzo pomeriggio, al progetto di un albergo. Ognuna di queste cose può essere affrontata in un modo più o meno serio. Secondo me ci vuole una componente non tanto giocosa quanto ironica. L’importante è che sul progetto non sia caricata un’aspettativa totale. Anche perché noi siamo aperti da cinque anni e, se valutiamo quante cose abbiamo progettato e quante cose sono state effettivamente realizzate o hanno avuto un riscontro, esiste una sproporzione mostruosa. Quindi, se uno non stesse un pò giocando, non farebbe l’architetto. Troppi fallimenti... C’è un progetto in cui il gioco ha avuto un ruolo fondamentale?
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MP Adesso stiamo facendo un prototipo di forcelle
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Google pag. 45,49,65, 74,77,83
Armin Linke pag. 23
Abbiamo incontrato di recente Bernhard Furrer, sovrintendente nazionale svizzero dei beni storici, che ci ha rammentato come l’architetto, insieme a poche altre professionalità, debba interessarsi di quasi tutto!
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È interessante intendere la bicicletta uno strumento per percepire il territorio, forse anche la città. Qualcuno ha scritto che il migliore strumento per conoscere la città sono i propri piedi, perché camminando si hanno tempi “giusti” con cui misurare cose invisibili, ad esempio, attraverso la velocità della macchina.
Hans Ulrich Obrist pag. 11-17,81
Rem Koolhaas pag. 13,14,30,35, 37,45,51,56, 58,61,62,67,70
per delle biciclette da corsa, forcelle ammortizzate (con Alfonso Cantafora). Detto così sembra un progetto poco pertinente, invece nasce dall’idea che la bici è in un certo senso uno strumento di rilievo. Quando viaggi in bicicletta hai una percezione del paesaggio che è completamente diversa da quando viaggi con qualsiasi altro mezzo. All’interno di questa idea di utilizzare la bici per rilevare il territorio stiamo facendo un progetto fotografico, compiendo dei viaggi in Europa. Quest’anno andiamo in Islanda e progettiamo una forcella ammortizzata ad hoc per le nostre bici da corsa. Questo è un progetto che ha dentro ovviamente una grandissima componente ludica. Attorno a cui puoi costruire una teoria. Puoi costruirci una teoria geometrica, per cui tu muovi le gambe in rotazione ma hai un movimento lineare, per esempio. Su ogni progetto si possono costruire mille cose e anche la “cazzata” più grande può diventare veramente interessante…
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MP Al Politecnico abbiamo organizzato con Domus un incontro, Bridge the gap 2. E’ un classico esempio di contaminazione, e secondo me non si sarebbe potuto organizzare da nessun’altra parte se non in una facoltà di architettura. Alla base c’è sicuramente un’idea di eclettismo per quanto questo termine abbia spesso un’accezione negativa. A volte però, su di un piano personale, se uno prescinde dall’idea che sia poco serio occuparsi di troppe cose insieme, l’eclettismo è una grandissima risorsa.
In relazione al lavoro di Domus, o all’esperienza di Bridge the gap 2: quale è l’importanza della conversazione, del dialogo o nel nostro caso dell’intervista nella cultura contemporanea?
MP E’ un rilievo: quando vai in bici fai un rilievo,
perché, per esempio, ti rendi conto delle altimetrie. L’anno scorso con gli studenti del Politecnico di Milano, abbiamo fatto un giro in bicicletta a Milano ed abbiano dormito fuori la notte. Abbiamo fatto più di 100 Km sezionando contesti molto diversi. Dai nuovi insediamenti abitativi fondati intorno ai centri commerciali, ai campi nomadi, ai villaggi abusivi, ai quartieri di periferia storici, alla Triennale; tutto questo a velocità di bicicletta. Per gli studenti è
MP L’idea di occuparsi di architettura, di urbanistica e di comunicazione come ambiti conclusi non ci appartiene. Ci occupiamo in senso generale di tutto ciò che può generare architettura, città o comunicazione. Nel senso che piuttosto che occuparsi di un edificio, o di un isolato, spesso è interessante rilevare o occuparsi di quello che succede dentro un edificio o in un pezzo di città o, a livello di comunicazione, tutto quello che può generarla. Sono campi che permettono di spaziare, di coltivare qualsiasi tipo di interesse e aspirazione. È una grandissima fortuna, perché sono poche quelle professioni dove puoi leggere un libro di strategie di marketing innovative e scoprire che quelle teorie possono essere interessanti da applicare a un progetto. È apparso un articolo interessante su una nuova strategia nominata margeting (marginal marketing) per cui le nicchie di focalizzazione del marketing vengono sempre più ridotte e rese specifiche fino a parlare di marketing per singoli individui. E poi, magari, il progetto a cui lavori in quel momento viene influenzato.
MP L’intervista è molto interessante. Ha bisogno di
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un catalizzatore; quello che fa Hans Ulrich Obrist è di creare connessioni, che può essere un pregio così come un difetto. Gli si dice che è una specie di Google umano, che ti mette in relazione con tante cose diverse ma che a volte rischia la superficialità. L’interesse di un’intervista è spesso riassumibile in sei righe, oppure nella massa critica che raggiunge
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l’ammassarsi di più interviste, come nel caso del libro di Obrist (Interviews vol. I, CHARTA, Milano 2003).
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anche per i modelli. Il CAD ti permette un maggior controllo estetico ma non spaziale; genericamente usiamo il 3D del computer dopo aver già progettato attraverso dei modelli reali.
MP Sicuramente è un dispositivo molto interessante anche perché chi parla dice dei nomi che magari non citerebbe mentre scrive. Quindi funziona...
Dicci 4 nomi di architetti italiani e stranieri e 4 nomi di artisti che sono stati importanti per te. MP Uno è Rem Koolhaas, perché molti di noi hanno
lavorato lì. Poi Yves Brunier, paesaggista francese molto interessante (è morto giovanissimo, a 26 anni, ma è stato una persona per me significativa). L’altra persona che è stata per me molto importante è Enric Miralles, e poi Aldo Rossi, per i suoi libri… Tra gli artisti direi Armin Linke, con cui ho lavorato spesso e da cui ho imparato tantissimo come serietà professionale, come dedizione. Anche Luca Vitone, che ha un approccio molto progettuale all’arte (uno dei suoi lavori più belli è un cd in cui ha isolato in tutte le canzoni rock il frame in cui dicono “yeah!” per poi farne un cd di mezz’ora solo con queste). Puoi dirci un film, un libro, un disco, un sito che ti hanno interessato?
MP Per quanto riguarda la musica, trovo difficile dire
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un disco. Anche per rapporto all’accessibilità che si ha oggi nei confronti della musica… Ultimamente ascolto spesso Antony & the Johnsons. Anche se poi con Internet non sai mai esattamente quello che stai sentendo. Apocalipse now è un film bellissimo. C’è una colonna sonora perfetta. Se uno dovesse fare quelle cose non potrebbe sognare musica migliore... I libri di Edward Tufte si occupano di visualizzazione dell’informazione: qualsiasi grafico, magari il più noioso del mondo, attraverso l’analisi della sua rappresentazione trova il modo di dare qualcosa al lettore. C’è un sito russo che si chiama Logotype (www. logotype.ru) e mette tutti i loghi di tutte le aziende in vettoriale. Tracciati da loro?
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MP No, se li fanno mandare. Insider trading dalle aziende. E li puoi scaricare gratuitamente! Un altro sito molto interessante è E-bay: è come entrare in casa di qualcuno e guardargli nei cassetti...
A proposito, che rapporto avete con il computer? MP Il nostro rapporto con il Mac è molto buono,
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L’intervista arricchisce di più chi la fa e chi la rilascia rispetto a chi la legge?
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Agence Manuelle Gautrand (www.manuelle-gautrand.com), M.Gautrand M.Blaising, boulevard de la Bastille 36 - 75012 Parigi (F), tel. +33 01 56950646
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Pourquoi travailler à Paris?
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Manuelle Gautrand La réponse est facile: c’est ma ville.
Mais je considère que la situation de l’architecture en France est très difficile. C’est très difficile d’avoir accès à la commande et c’est également très difficile quand on gagne un projet, d’arriver jusqu’au bout, avec le projet dont on a envie… Paris est une ville musée; peut-être existe-t-il un espoir que les choses changent un peu même si, en même temps, je pense que cela ne peut pas se faire sur le court terme. En effet de toutes façons il y a un problème de fond en France: le grand public n’a pas vraiment une culture architecturale, il n’y a pas en France une conscience commune de ce que l’architecture représente un élément essentiel dans notre société. Les français ont très peur de ce qu’ils percoivent comme “contemporain” ou “moderne” et c’est vrai qu’au delà même de l’ambition que pourrait avoir le pouvoir politique, elle se heurtera à des barrières très difficiles à franchir. En France, quand on parle d’architecture au grand public, il réagit en termes de patrimoine, pas du tout d’architecture et en particulier pas d’architecture contemporaine. Donc, il me reste à être optimiste sur le long terme, et je le suis.
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Comment votre activité a-t-elle commencé? MG J’ai commencé à Paris, il y a
une quinzaine d’années, à peu près. J’ai également travaillé beaucoup à Lyon, pendant 3 ans, et puis je suis revenue à Paris, il y a 13 ou 14 ans.
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ma usiamo anche Pc! E’ comodo, lo usiamo tanto
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Pourquoi Agence Manuelle Gautrand? Est-ce une référence à votre façon à vous de travailler? MG Ce studio porte donc simplement mon nom.
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A vrai dire, je ne me suis jamais trop préoccupée de l’image que peut véhiculer un nom ou de la communication à orchestrer autour du nom de l’agence. 12
Comment concevez-vous le travail dans l’agence? Comme un collectif ou comme une équipe sous l’autorité de quelqu’un? MG Là, vous touchez un point très important. En
fait, je suis la seule architecte associée et bien sûr que j’ai une part très importante dans la création des projets, surtout au début. C’est aussi vrai que parallèlement, dans mon agence il y a une vingtaine d’architectes et je suis tout à fait consciente du travail de groupe qui est accompli et je délègue beaucoup. En ce moment on a plus au moins une dizaine de projets à l’étude ou en cours de chantier. Chacun de ces projets a un chef de projet et j’essaie que ce soit la même personne qui assure ce rôle jusqu’au bout pour qu’il y ait une continuité. Je sais écouter et j’aime dialoguer sur les projets, en discuter parce que je sais que, souvent, c’est simplement en discutant que les idées naissent. Comment commence un projet dans l’agence? A l’Agence, nous travaillons avec plusieurs supports comme différents logiciels informatiques, des maquettes, des diagrammes, des prototypes, des matérieux de construction, etc...; Concernant les maquettes, que je fais moi–même au début (des pliages, collages, etc...) et avec lesquelles je conçois les projets, elles sont ensuites développées par l’équipe en variant les échelles et les matériaux. On aime chercher à se surprendre en laissant une place à l’inattendu, en travaillant dans un esprit de laboratoire. C’est tout un cheminement qui, à travers ces maquettes et ces dessins, nous conduit au projet. Mais ce qu’il convient de souligner, c’est que la conception d’un projet ne s’arrête jamais à la phase “concours”. Je suis intimement persuadée que le projet qui remporte le concours, sauf exception, n’en est pas à plus du tiers de sa phase d’élaboration. Quand ce concours se déroule sur un bref laps de temps, un ou deux mois, c’est très rapide, le client peut alors rester avec l’idée qu’il avait autre chose en tête. L’Agence se retrouve à ce moment-là, face à une double tâche, améliorer et approfondir le projet jusqu’à la fin du chantier et faire entrer durablement le client dans notre histoire en le ralliant à nos idées. Si je dresse un bilan de ce point de vue, je dirais que, s’agissant des projets qui ont vu le jour, nous sommes toujours parvenus à ce résultat. Mais,
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dans un certain nombre d’autres cas, j’ai renoncé à construire parce que cette alchimie, cette adhésion ne s’était pas réalisée. Comme vous voyez ce n’est pas tout de gagner un concours pour que le projet se fasse. Il peut arriver que le concours ne débouche sur rien de concret, sans compter les abandons en cours de route, ou les frustrations finales si le projet réalisé n’est pas tel qu’on l’avait imaginé. Il y a très longtemps nous avons construit un théâtre, c’était mon premier théâtre, à Béthune, dans le nord de la France. Un projet qui a connu des vicissitudes énormes qui en ont fait tout autre chose que l’image que je portais en moi. Mais c’est un projet que j’assume et même que j’aime. Aujourd’hui, le maire de Béthune aimerait que j’étende ce projet, que je le réalise jusqu’au bout, y compris en le modifiant pour lui restituer ses caractéristiques d’origine. D’une certaine façon, cela nous renvoie au rôle de l’architecte: face à des mésaventures doit-il capituler ou chercher le moyen d’aller jusqu’au bout? C’est une vraie question. Selon moi, capituler peut s’avérer une mauvaise solution, les aléas dans ce métier sont tels que savoir s’adapter, certes en posant les limites, est indispensable. Y a-t-il une différence entre un client du privé et un client du secteur public? MG De moins en moins... Il y a des “bons” clients
dans le secteur privé et dans le secteur public, et idem pour les “mauvais”; J’entends par “bons” ceux qui ont envie d’architecture et qui ont compris qu’un architecte peut très bien être créatif tout en respectant leur contraintes, leur budget, leur planning... Certains clients du privé n’a ont pas forcément l’habitude de jouer le rôle de maître d’ouvrage et ont un peu tendance à vouloir faire l’architecture à notre place, mais ce n’est pas toujours le cas, c’est même des fois l’inverse, ils nous laissent beaucoup de liberté. Prenons l’exemple du projet avec Citroën sur les Champs Elysées, c’est un client privé, pour lequel l’acte de construire, l’accompagnement d’un projet architectural n’est pas une habitude. Dès lors pour nous il s’agit à la fois de pousser notre propre projet et de guider ce client à travers une forme d’apprentissage. C’est forcément plus aventureux, plus complexe: devoir expliquer comment on construit, quels sont les enjeux. Mais face à cela, le client du privé n’a pas d’a priori, il lui arrive de se lancer sans retenue car il n’a pas forcément conscience du danger, et les relations ne sont donc pas dépourvues d’intérêt. Evidemment, il peut aussi en éprouver plus de peur mais cela reste intéressant parce qu’il y a cette double prouesse: mener à terme le projet et faire partager un moment d’architecture à quelqu’un dont la vocation, les centres d’intérêts sont ailleurs. Une autre différence tient au fait le maître d’ouvrage du secteur public ne construit pas pour lui-même mais pour la collectivité; son investissement
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personnel est donc différent. Il travaille avec l’argent public donc il est plus souvent sur la réserve, il se tient plus à distance du projet, au point qu’il peut nous arriver de ne plus réellement savoir pour qui nous construisons. Mais, quand ont doit se confronter avec un maître d’ouvrage du secteur privé, je sais pour qui je construis et la personne pour qui je construis sait ce qu’elle veut, elle apprend à savoir ce qu’elle veut. J’ai eu un échange très direct avec eux, j’ai pu vraiment dire ce que j’imaginais pour eux, et j’ai reçu des réponses.
cause pour le rendre plus riche, moins statique, moins uniquement numérique parce que ce n’est pas qu’un empilement de surfaces. Par example, pour le centre de communication de Citroën, nous avons vraiment travaillé en ce sens, j’ai essayé de faire en sorte que le bâtiment dans lequel les gens iront, ne soit pas juste un bâtiment commercial ou un musée, mais un bâtiment qui, lui aussi, propose davantage aux visiteurs qu’une simple visite. J’ai voulu qu’il leur offre une bouffée d’architecture, quelque chose de vertigineux, quelque chose qui, par sa verticalité, lui fasse presque peur, lui donne le vertige, en tout cas vraiment des sensations. J’ai essayé de construire du rêve, quelque chose d’impalpable.
Sur la création des projets vous vous comportez comme un cerveau unique ou pas?
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seul et à la fois on ne fait pas les projets seul... Je suis un peu comme une éponge par rapport à mon entourage, celui de l’Agence mais aussi celui que constitue les Villes de notre planète, la société dans laquelle on vit. Donc, comme un cerveau collectif, ou plutôt un cerveau unique connecté en réseau à un cerveau collectif, celui de notre monde! Parce que je ne crois pas au génie complètement isolé, je pense que tout être créatif est une sorte d’éponge qui absorbe beaucoup de choses de l’extérieur et qui évidemment les restitue sous une forme créative très personnelle. Mais pas ex-nihilo, ça sort forcément d’un contexte qui est multiple et polymorphe.
MG De fait, à un moment donné, le travail devient
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un jeu parce qu’intervient une part de stratégie, de choix et aussi parce que si nous appréhendons positivement toutes les difficultés à surmonter, tous les gens à convaincre et toutes les personnes avec qui il faut communiquer, si nous l’envisageons sous l’angle positif, ça devient grisant et exitant ! De la même façon, dans la création des projets, j’attache beaucoup d’importance à la sensation qu’auront les gens qui vivront dans les bâtiments. C’est vrai que quand j’ai la chance de travailler sur des bâtiment dont le programme est intéressant, qu’il s’agisse de théâtres, de musées ou par exemple de ce projet de centre dédié aux arts interactifs, je me dis que j’ai la chance de pouvoir travailler sur des projets qui, en eux-mêmes, ne sont pas “tristes”. En cherchant à rentrer en contact avec ses attentes, j’essaie de créer des volumes, des environnements, des ambiances qui soient originaux et inattendus. J’essaie toujours d’anticiper, dans les projets, la façon dont les gens vont vivre dans le projet. Très souvent d’ailleurs, quand nous préparons un projet pour un concours j’essaie de questionner notre travail, c’est à dire ne pas l’arrêter à la simple constitution du projet, à la stricte démonstration du programme ou à la seule expression d’une programmation déjà arrêtée. Nous essayons toujours de le remettre un peu en
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réduit le métier d’architecte à la mise en page d’un ensemble d’usages selon des modes complètement prédéfinis. C’est évident que, pour moi, le rôle de l’architecte va au delà, nous ne pouvons pas nous borner à traduire uniquement en plans et en façades une programmation avec des organigrammes. Je suis sûre que nous avons une énorme valeur ajoutée à apporter dans l’invention des espaces que le programmateur ne sait pas toujours anticiper, pas traduire, pas inventer parce qu’il n’est pas un créateur. Dans cette vision prospective, nous ne nous contentons pas de poser un bâtiment qui répond à une fonction, dans une ville, dans un tissu urbain ou dans un paysage. Dans tous les projets nous essayons de porter sur le programme un regard qui le remette en cause, de créer une dialectique entre l’accoutumance et la surprise. J’ai souvent envie de proposer des choses, et les trois quarts du temps c’est le cas, auquel le client ne s’attendait absolument pas parce qu’il n’a pas rêvé suffisamment loin le projet qu’il avait à faire. Je lui propose d’aller toujours plus loin ou dans une direction qui est complètement différente parce que j’ai entraperçu dans le programme une brèche qui permet de donner plus de fonctions, plus de place, plus d’un certain élément de programme, plus de flexibilité, enfin plus de quelque chose qui n’était pas prédéfini au départ. Vu sous un certain angle, c’est vrai que ça pourrait être facile d’être architecte: nous avons un programme pour des surfaces données, l’organigramme est fourni avec ses flèches de liaison etc… Mais pour moi, l’architecture, ce n’est pas ça. Parfois je fournie des réponses qui sortent complètement du programme voire du champ conceptuel des urbanistes. Nous sommes les seuls à pouvoir prendre à bras le corps, en même temps, le programme fonctionnel, d’un côté, et le lieu de l’autre. Souvent, quand nous faisons un concours, nous rencontrons un urbaniste qui a réfléchi au site mais pas au programme et un programmateur qui a fait son travail sans réfléchir au site. En pratique, ils ont travaillé complètement indépendamment l’un de l’autre et du coup, chacun apporte une réponse qui est totalement amputée d’une de ses moitiés et
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MG J’ai parfois l’impression d’étouffer, parce qu’on
Le jeu fait-il partie de votre travail? 8
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L’architecture est encore pour les gents une discipline spécialiste difficile a communiquer: quelle position prenez-vous?
MG Un peu les deux à la fois. On est à la fois très
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par conséquent, est dépourvue d’intérêt. Ce qui est génial dans le métier d’architecte, si nous nous en donnons les moyens, c’est de fabriquer cette rencontre du programme et du lieu et de savoir la fabriquer bien mieux que ceux qui ont ruminé le projet dans un premier temps, parce qu’ils l’ont fait avec beaucoup de pauvreté.
manière, c’est encore d’une extrême modernité. L’architecture vous intéresse? La ville vous intéresse? Et la communication? MG Evidemment, l’architecture, c’est ma vie, c’est
Quel est l’aspect qui influence votre conception de l’architecture? Quelques preuves de façades nous rappellent a la robe de Paco Rabanne… MG Dès que nous faisons les 11
Herzog & de Meuron pag. 37,70,77
Trouvez-vous l’inspiration, aussi, dans l’architecture antique?
Frank O. Gehry pag. 36,86
MG Non, pas directement, même si dans l’antiquité
Rem Koolhaas pag. 13,14,27,35, 37,45,51,56, 58,61,62,67,70 Francois Roche pag. 23,51,135-136 Jacob & Mc Farlane pag. 71
premières maquettes nous leur donnons des couleurs parce que nous avons forcément une idée de la couleur et de la matière que nous voulons recréer, du degré d’opacité, du degré du graphisme, du degré de miroir. Je pense que c’est ça, d’ailleurs, la difficulté dans la conception d’un projet. Elle ne peut se faire que de manière transversale, on ne peut pas faire les choses les unes après les autres, il faut, au fur et à mesure de la conception du projet, se façonner une image globale qui embrasse une multitude de facettes: la fonction, l’objectif du projet, la réponse à un lieu, la sensation que nous avons envie de donner, une ambiance. Or tout vient en même temps et se télescope. J’aime bien l’idée de surprendre par une réponse qui est inattendue mais je n’aime pas qu’elle renvoie directement à Manuelle Gautrand comme une évidence logique. Du coup, j’essaie beaucoup de me renouveler ce qui est difficile à chaque fois, de chercher des choses que je n’ai pas encore cherché jusqu’à présent, et de trouver des solutions que jusqu’alors je n’ai pas encore trouvées. Par rapport, aux robes de Paco Rabanne c’est vrai que mes inspirations sont multiples. Ce ne sont pas les revues d’architecture qui m’intéressent le plus c’est beaucoup d’autres choses qui peuvent être d’ailleurs visuelles ou non. C’est tout ce qui peut se passer dans notre société et à cet égard, le monde de la mode est très inspirant, celui du graphisme et de la musique m’inspirent beaucoup; Le monde de l’automobile, je l’ai découvert, est extraordinaire, le monde scientifique aussi est captivant. Je suis de toute façon très curieuse et je voyage le plus possible.
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aussi, bien sûr, il y a des choses remarquables qui me procurent beaucoup d’émotions.. Prenons l’Italie par exemple, ses paysages aux architectures extraordinaires; quand je vois en Toscane les villages plantés sur les sommets des montagnes, exprimant tant de densité, de dureté minérale, je suis frappée par leur extrême modernité; quand je vois Sienne, la continuité de ses façades par rapport au sol qui fait de la ville, finalement, une sculpture en creux ou les pleins et les vides sont façonnés de la même
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une passion! Mon mari travaille avec moi, et mes enfants entendent beaucoup parler d’architecture! C’est un métier passionnant parce que comme créateurs, nous avons le droit de projeter une œuvre et donc d’accéder aussi au bonheur de la réussir. C’est un droit énorme qui est à la fois terriblement dur et qui comporte des devoirs et des responsabilités très importantes vis à vis de notre société, mais je n’en ai pas peur. Concernant les villes, c’est vrai que j’ai un faible pour les projets dans les sites urbains. Je voyage beaucoup à travers les grandes mégapoles de notre monde, surtout asiatiques, et ces grandes villes me fascinent par leur vitalité, leur mélange, leur tension mais aussi leur langueur; Il y a tout notre monde en résumé, ses qualités et ses défauts, dans ces grandes villes. J’ai construit des gares de péage en pleine campagne. C’est un travail à l’échelle du territoire, à l’échelle du ciel, du paysage, de l’environnement. Pourtant, pour moi rien n’est plus fort que de travailler dans des sites enserrés dans de fortes contraintes, en pleine ville. Concernant la communication, elle est aujourd’hui, (comme hier?), indispensable dans noter métier comme dans beaucoup d’autres, nous y consacrons pas mal de temps et de moyens à l’agence, pas assez que nous le souhaiterions, peut-être; Ceci dit ce n’est pas une fin en soi... Il faut savoir relativiser cet aspect des choses et savoir prendre du recul, mais la demande est très forte.. Il y a-t-il un ou des architectes étrangers dont vous vous inspirez?
MG Je ne dirais pas “dont je
m’inspire”, car je m’inspire de tout et pas en particulier d’architecture, mais parmi des architectes étrangers que j’admire, il y a certainement Herzog & de Meuron, il y aurait aussi Peter Zumthor, Frank O. Gehry ou Rem Koolhaas, j’aime aussi l’architecture espagnole en ce moment. En fait, plus exactement, c’est souvent un de leurs projets que j’aime. Par exemple, Steven Holl, je ne peux pas dire que je sois subjuguée par toute sa production mais la résidence universitaire qu’il a construit comme un énorme bloc complètement creusé de l’intérieur, c’est un projet, pour moi, qui est extraordinaire. Pouvez-vous nous indiquer quatre architectes français que vous nous conseillez d’aller interviewer?
MG François Roche, Edouard François, Jacob & McFarlane, Périphériques…
Pouvez-vous nous indiquer quatre artistes qui vous
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MG Virginie Vasseur, les vidéastes Bill Viola,
Bruce Naumann, et aussi beaucoup d’artistes plasticiens, des sculpteurs. Mais j’aime aussi beaucoup la musique et cette sorte de télescopage qui, aujourd’hui, est de plus en plus fort entre le sonore et le visuel. Le phénomène actuel du “VJing” (images vidéo et musiques électroniques) m’interpelle beaucoup.
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Un film qui vous plait?
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MG Je suis une fan de Wim Wenders et je reste
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fidèle à des vieux films qu’il a réalisés. Mais je ne suis pas une grande cinéphile... 7
L’ordinateur est il important dans votre travail? MG Je dirais qu’il n’est ni important, ni pas important;
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C’est un outils extraordinaire qui permet des choses fabuleuses et qu’il faut utiliser à bon escient. Mais la créativité d’un architecte n’a rien à voir avec l’utilisation ou non d’un ordinateur... Que pensez- vous de la façon dont l’architecture est enseignée à l’université ? J’ai enseigné pendant 5 ans à l’École d’architecture de Paris - Val de Seine et à l’Ecole Spéciale d’Architecture de Paris, et également dans différents pays d’Europe à travers des workshops que j’ai pu faire. En France, je trouve que l’architecture est très mal enseignée, et c’est la traduction du fait qu’on n’accorde pas assez d’importance à l’architecture, ni à la capacité de l’architecture contemporaine de pouvoir s’insérer dans une ville. Tout cela forme un tout qui aboutit à ce que l’on n’accorde pas d’importance aux études d’architecture. Les études scientifiques en France doivent avoir des moyens bien plus importants que les écoles d’architecture dont tout le monde se désintéresse. Mon avis est que l’enseignement y est décalé, dépassé: on en est resté à une conception, dans lequel l’enseignement des nouveaux matériaux, de l’informatique, l’importance des voyages, de l’ouverture sur le monde, sont presques absents. L’enseignement est complètement cloisonné dans des disciplines qui datent d’il y a 20 ans et qui n’ont plus de raison d’être aujourd’hui. Je suis consciente de porter une vision personnelle de l’architecture, une vision nourrie de ma sensibilité. Mais quand j’enseignais j’étais également consciente d’avoir en face de moi 40 ou 50 étudiants chacun chargé de sa propre sensibilité, chacune originale. Mon but, et mon souci, étaient bien sûr de ne pas briser ces sensibilités en présentant un moule unique dans lequel tous auraient dû se fondre mais au contraire de prendre à bord dans mon enseignement toutes ces sensibilités. C’est de cette façon qu’il faut enseigner l’architecture. Il y a une part de subjectivité, de vision artistique forcément personnelle. L’enseignant a une obligation d’ouverture, d’écoute, de générosité
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à l’égard de projets qu’il ne pourrait pas revendiquer mais qui n’en suscitent pas moins son intérêt. L’enseignant doit être à cet égard comme un explorateur. En France, le problème c’est qu’on vit encore sur l’idée qu’il faut apprendre l’architecture par le biais d’un courant de pensée. Et ça, c’est devenu une position intenable. En Autriche ou en Lettonie par exemple où je me suis rendue pour faire des workshops et où j’ai pu me rendre compte des moyens à disposition pour enseigner comme dans la plupart des autres pays d’Europe. On arrive à faire venir des architectes de grandes renommées, on dispose d’ateliers de maquettes. On sent une espèce d’ouverture et de respiration qui donne l’impression que tout est possible. En comparaison, quand on rentre en France c’est étriqué, les locaux sont trop petits, on n’a pas d’outils informatiques, pas de laboratoires de maquettes. Les professeurs sont parfois là depuis 30 ans et au fond d’eux-mêmes n’ont plus du tout envie d’enseigner. Evidemment je ne connais pas toutes les écoles en France, certaines seront différentes, mais cependant je décèle une certaine récurrence de ce que je décris.
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europa
Vivez-vous de votre métier? MG Oui, j’en vis, mieux aujourd’hui qu’à mes débuts,
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mais je garde toujours à l’esprit qu’il faut être prêt à tout car pour un architecte rien n’est jamais acquis. Cela permet de ne pas s’endormir sur ses lauriers!
formazione
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modello
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AMID (cero9)
(www.cero9.com), C.Diaz Moreno E.Garcia Grinda, Paseo Imperial 6/1c - 28005 Madrid (Spain), tel. +34 09 13653527 Why is your office located in Madrid? Efren Garcia Grinda Is the city with the largest number
of bars in the world.
Cristina Diaz Moreno First of all, because we were
born there, although that is not significant. Second, because after travel around the world it is interesting the combination of ugliness and vitality of Madrid, a particular and weird beauty. And third, because it is the city with more bars pro capite in the world…
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città
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Mendrisio, 12/05/2005 - h 19.30
intéressent?
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What is the name of your office and what does it mean for you?
with efficiency and intellectual risk. We can be propelled into a heavy digestion or hasty down on a wall -professionally talking- but the exciting part is proposing ways to relate with our job, not only producing things for the cultural world of consume of the newness, or guided by the magic formula of the economic benefit and the efficiency. In short, we search for new runaways. It is comprehensible that in this global scenario we cannot distinguish between wisdom transfer and repetition of previously known things; between collective work and copies. It is a thin line and is hard to recognize one from another. It is an intriguing fact for which some firms that restless chase fraudulent copies and replicas of their original products use, let’s say, inspiration in works that belong to others. Or that the only thing that distinguish a brand product sold in a flee market for $15 and in Madison Square for $500 is the distribution channel and the sales environment. Or, why all the huge architectural offices are gradually more alike among them. EGG Or, that one of the most common and interesting emerging practices in the artistic field is to use in a direct way the work of others. And it is not enough to resist, or to appeal to nostalgia or to copy or not to copy; or to repeat always the same formula or not do it. It is much more complex. It is at the same time music and dj´s, art and curators… the posture that really interests us is to be aware of the role you play in your work, try to evaluate the consequences, and construct a speech starting from it. Definitively, it is not being naive, or what is worst, turn our head and ignore these phenomena. It is not about repeating or not, it is about been conscious of your way of working, learn from it and use it. Realize that even copying or repeating over and over again could be interesting if it is done in an open way: just for the aim of learning. CDM It is a way of methodological anarquism.
CDM A few years ago, we killed our former identity, cero9, and we decided that we should radically change our way of thinking and acting. Now, we are AMID, an English word -scarcely used- which means “in between”. EGG Yes, it is funny because now that we are starting to get known as cero9, we have decided to change it: we are absolute unconscious and suicide. CDM That is why we have to invent our job. Just a few dare to commission us something.
Do you project as a team? How does the office work? CDM Our team grows and shrinks constantly
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depending on what we are doing. Actually is a web of people with different ages, nationalities and education that makes it a mesh of interests, knowledge and techniques. Of course, this weave is not located just in one place; it is a big net of collaborators, free lance, and technicians with two persons as its node. From the beginning we thought it will be more interesting to work as a team, so we decided first of all to join us together and then work with other people: the more quantity and more different people, the better. The secret is to let the world come in, and add as many things as possible to make your work more real and more vital. EGG Basically we have a constant need and urgency to redefine over and over again the way we work. And the easiest and most direct way is by changing our configuration for each new assignment. I don’t know if we have achieved it, but Cedric Price used to say that to be young is to be able to constantly change your opinion. For us is extremely important to be able to manage different kinds of work and explore unknown paths. We are always between an intellectual relativism and a dizzy curiosity. Probably, when you work with the same people and you handle the problems in the same way, you get to a dead end. When you are dealing with automatic answers they start losing interest, because they don’t bring you any kind of knowledge, you do not discover anything.
Do you consider your office as a collective mind? CDM Sure! If he would work individually, he would do
Do you look for a constant renewal of your work? CDM When we started we
Cedric Price pag. 12-13 Olaffur Eliasson pag. 52,67
realized that there were some offices with a predisposition to produce repetitive outputs, and we thought “no, we don’t want to be like that”. In an economy based in efficiency, immediate surprise and a deep lack of risk, our attitude is complicated, almost suicidal. Any formula is quickly absorbed and devoured by the market economy. Instead of resisting and appeal to any kind of nostalgia, even radicalism or experimentation, we think is more interesting to face the project with different methodologies and techniques,
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something completely different than I. It is the same for the rest of our team. So that you could get the idea of how we work. Together we do something, literally, impossible to be done individually. Yes, definitively we are a collective mind that allows us to go beyond our own restrictions. EGG This is related to the people that collaborates with us, in and out the office… even in other activities. Like interviewing and being interviewed that allows learning of other people, sharing during a few hours a different way of doing. We have discovered through the interviews, writings or meetings that we can establish an interconnection, a conversation between ideas and approaches. Are you interested in architecture, communication or the city? Why? CDM Architecture… no. City, mhhh…
Communication, maybe. Communication is something complex; we obligate
Matthew Barney pag. 73
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ourselves to do it, because if you don’t communicate what you do, you don’t get any feedback. EGG It is an obligation. We know that above all… we are political beings and working as a group is first of all, try to understand the other. It is, again, talk about collaboration with other persons and in other scales. The way you think, the way you do, the way you work… There is a need to share, to discuss about, in order to develop our discipline, the society or any field that you work on. It is absolutely necessary, if not we would just work for the money! or for having fun, exclusively. About the city: Yes, we are interested. It is our environment. We have grown and fed, physically and intellectually, in the city. We love its bigness, its grotesqueness, its capacity of generate, at the same time, sweetness and ugliness, being a place of extreme poverty and misery but simultaneously the place where you feel the most comfortable… it is difficult to summarize, but there is nothing that interested us more. About architecture… Being sincere, I’m not interest at all.
to experience a similar situation, but this is a field extremely hard to change.
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Can you give us 4 architects names and 4 artists names (national and international) that inspire you? CDM Cedric Price. He is the best.
Artists… it depends, each day we are interested in a different one. We get enthusiastic with any interesting thing that reaches us. But, giving you two completely opposite examples we could say “Assume Vivid Astro Focus and Eliasson”. EGG Or Barney. Ten years ago the artistic world was going to die by a combination of economic success and intellectual paralysis. But now there is a big amount of people of different fields doing really interesting things. It is irrelevant if what they do is art. That is really suggestive. A decade after that, the architectural field is starting
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CDM Movie… today I would
CDM Imagine, we have been working for years and
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say 5 conditions, tomorrow, I don’t know. The cinema that interested us in this moment is the Korean and the Chinese. It is not about one or a few movies, is about a massive change in the way of doing them, linked with the brutal transformation that these countries were involved in during last years. EGG Nowadays cinema is uninteresting and extremely narrative. There are too many films and a 99,9% lacks of interest. Books, cds, web sites… I don’t know it’s hard to define yourself through the things you’re interested in. It’s something really private and it’s nourished as a perversion. It would be irrelevant to share it, neither we ourselves nor our perversions are important here. It is more interesting the other way around with the things you share with the ones you collaborate with. CDM In short, through the things you do. The book we are most interested in is Breathable, a publication that we have developed with many people. It is pretty interesting and it’s just to be published, you can buy it an answer this question. About the Net, what we are interested in are not web sites at all. That is a primitive and residual way of using it. Through Internet we have found a lot of connections with people that interest us especially, and we have contacted them… you don’t know them, they don’t know you… but you start collaborating in an effective and quick way, like if you knew them for years. Generally they are not artist, nor designers, they are not pure musicians, but they are people that had invented the way of producing something; people trying to find unconventional and renovated ways of dealing with reality. EGG Internet provides an enormous amount of information. It allows people of different fields to share tools and information in an easy way in real time. It reduces the complexity at the same time that facilitates the fundamental comprehension. Things that used to be a huge intellectual and logistical effort now can be done in a few minutes. That allows shy people, like us, to easily communicate with a big amount of people.
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What is your relationship with computers? EGG Computer... Screen… All day long… CDM But it must take no more than the 50% of 3
the process. We believe that a computer is just a tool. It is very obsessive by the way we relate with the environment through the screen, the lack of mobility… and because it is purely visual. But it has one excellent feature, the capacity of invent new ways to relate with your job, although it is just one of the infinite ways of working. We can draw, write,
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città
Can you give us the name of one movie, book, cd or web site you are interested in?
How do you subsist? we seldom get a commission. Like any other who wants to go further the mere profit of a business, we have an economic equilibrium, let’s say, instable. At the same time is a need, a challenge, a personal position, our office lives of everything. I mean, we teach at schools, we write articles, we do interviews, and we even earn money working as architects!. EGG Doing this job has something amazing, you are boosted to do hundreds of different things and you always feel that you are not prepared enough, and all at the same time. It is like the jobs you look for when you are studying: experience and professionalism is almost harmful. It hinders you to do things. In a creative way, getting experience could be interesting or could be the worst thing that could happen to you. CDM We wake up every day without knowing how we are going to deal with things during the week, or the month, and of course, the year, and that is extremely exciting. Pure adrenalin. There are no rules about what to do, and neither about how to do it.
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or make a model, we may produce 1:1 pieces, or start a conversation, summon a multiple chat, or use many other tools to do our job. EGG Computers have something amazing, they allow getting knowledge and being able to handle many different tools, you get different fields abilities in a quick way. 15 years ago, it was too complicated to use these kind of tools, with the universality of the commercial operative systems you can be a trainee music producer, movie director, graphic designer, or system analyst in a few hours. You get free access to a thousand of tools in a very simple, quick and easy way. If you are creative using them they open you an infinite field of possibilities to operate and share information in multiple different ways.
Forse è interessante partire da qui, dalla tua provenienza, perché di voi AWG due sono altoatesini, Roman Delugan (di Delugan Meissl Associated Architects) è anche altoatesino e i the nextENTERprise stanno lavorando a Caldaro (BZItalia). Direi che tra Vienna e il Tirolo italiano c’è una certa unità… FP Sì. Roman, io e Christian, che è un altro nostro
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What kind of relation do you have with education, with the university?
Hai studiato a Vienna? FP Si, ormai è quasi vent’anni che sono qui.
EGG It is a nice way of survival. CDM Teaching is a serious responsibility. What we try
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Perché Vienna?
to do is working with open structures of techniques and methods aiming to teach ways to incentive the creativity and collective work. But above all, we try to show to our students to be conscious of the field where they are going to develop their work, and that they can invent what they do. Teaching architecture is extremely complicated in a field that changes so fast. EGG At the same time, it is an exciting task. We have a very conflictive relation with teaching, more or less like the relation we have with architecture. It is a hard job and not highly valued, it demands a big amount of energy, capacity and generosity.
Vienna, 24/08/2005 - h 15.00
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AllesWirdGut (www.alleswirdgut.cc),
Delugan Meissl AA pag. 37,38-41,77 The nextENTERprise pag. 37,57,83-87 NL architects pag. 60,62,74 Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 37,45,51,56, 58,61,62,67,70
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A.Marth H.Spiegl F.Passler C.Waldnerr, grosse neugasse 27 - 1040 Vienna (A), tel. +43 01 9610437
Ho trascorso molte vacanze in Val Pusteria ed ora scopro che tu sei di S. Candido (BZ-Italia) Ho scoperto anche che lì avete già lavorato. Friedrich Passler Abbiamo sistemato la piazza: è un lavoro che sta andando avanti da anni. Un anno fa abbiamo vinto il concorso per il nuovo centro della protezione civile.
partner, siamo cresciuti in Alto Adige. Con Christian ci siamo conosciuti a Vienna in università. Roman ne era già fuori. In qualche modo l’essere cresciuti lì ha favorito i contatti. Ci invitano a fare concorsi, partecipiamo, vinciamo…
FP Per gli altoatesini ci sono molte possibilità. Anche per la lingua, il tedesco, per noi era più facile studiare in Germania o in Austria piuttosto che in Italia. Inoltre, quando ho iniziato a studiare non sapevo di voler applicarmi ad architettura. Ho scelto la città secondo le mie preferenze, secondo quello che volevo fare nel tempo libero. Ho studiato per un anno e poi ho cambiato per architettura. A quel tempo, fine anni ’80, a Vienna c’era un’ottima scena culturale giovanile, della musica rock che mi interessava molto… Per quello sono venuto a Vienna. Poi all’università ho conosciuto i miei partner di lavoro. Siamo stati tutti un pò all’estero; poi abbiamo partecipato assieme a un concorso, l’abbiamo vinto e abbiamo aperto lo studio.
Non avete mai pensato di spostare lo studio in un’altra città? FP No. Adesso sono sei anni che abbiamo aperto 12
questo studio. E stiamo costruendo a Vienna da appena tre anni. Prima abbiamo più o meno costruito in Tirolo, in Stiria. Nonostante ciò eravamo abituati a vivere a Vienna. Vienna era e rimane la home-base per tutti noi. Puoi descriverci Vienna in poche parole?
FP E’ una città molto tranquilla, a prima vista. Ha un’ottima scena culturale, molto varia. Molto difficile però da scoprire. Bisogna abitare a Vienna per trovare l’ingresso sotto la superficie pulita e perfetta di questa città “indipendente”. Nonostante ciò, qui c’è una cultura alternativa molto forte e vivace. Per questo mi è sempre piaciuto tornare a Vienna dopo essere stato all’estero. Un’altra cosa molto interessante sono i costi: per una certa qualità di vita sono relativamente bassi se paragonati con Milano, Londra o Monaco.
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Dove hai lavorato? FP Ho studiato a Montreal, poi ho lavorato ad
Amsterdam da NL architects. Anche Andi e Herwin sono stati a Rotterdam. Siamo stati un pò tutti in Olanda, perchè sette-otto anni fa era fondamentale: basti pensare a Koolhaas, NL architects, NOX…
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Quali sono qui a Vienna gli spazi della cultura alternativa di cui parli? FP Dipende da cosa vi interessa, perché per ogni interesse ci sono certi posti da frequentare; la cosa più facile è comprare una rivista settimanale che si chiama Falter: lì cerchi le cose che ti interessano e trovi i posti.
FP Sono appunto questi due aspetti che trovo molto 9
Cosa dice il nome del vostro studio?
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Mettersi sulla strada è un atteggiamento urbano? FP Si! Poi abbiamo le sedie apposta, quando c’è il sole ci mettiamo fuori, beviamo un caffè, fumiamo una sigaretta. Partecipi di più alla vita quotidiana così piuttosto che stando seduto in un piccolo
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di lavorare in gruppo per due motivi. Fin dall’università per ognuno di noi era importante conoscere i commenti degli altri. L’università tecnica di Vienna è molto grande, di professori ne vedi pochi. Per questo era molto importante trovare altri studenti bravi con cui discutere e da cui ricevere commenti. Il secondo aspetto è economico. Vinci un concorso e bisogna seguire il progetto. Se si è in due per un anno, un anno e mezzo non si può che lavorare esclusivamente a questo progetto; se si è invece un gruppo di quattro, cinque o otto, due persone lavorano al concorso mentre gli altri si adoperano su qualcosa di diverso. Per ogni progetto stabiliamo sempre un project leader e prevediamo settimanalmente alcune riunioni dove poter discutere il progetto con gli altri partner. Comunque occupiamo tutti lo stesso spazio e lavorando ci scambiamo i tavoli… Senza gerarchie alimentiamo una collaborazione permanente.
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FP Con esterni mai. Neanche con artisti. Di solito iniziamo un progetto parlandone nelle nostre riunioni settimanali. Discutiamo di come fare, scegliamo tra noi il project leader, facciamo un po’ di schizzi. In seguito il project leader continua a lavorare con alcuni collaboratori che lo aiutano. Per certi progetti proviamo varianti: uno prova un approccio, uno ne prova un altro. E dopo una settimana vediamo dove queste vie ci hanno portato. Siamo comunque una struttura piuttosto chiusa. Collaborazione con persone o artisti o architetti esterni non ne cerchiamo più. Abbiamo provato e non ha funzionato!
concorsi
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imprenditoria
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Avete un’idea comune di architettura? Vi potete definire una mente collettiva? FP Penso non sia proprio un’idea comune. E’ piuttosto un punto di vista comune. Per noi ogni progetto è diverso e i suoi parametri variano.
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Quando iniziate un progetto fate delle riunioni con persone esterne allo studio?
Il vostro studio è uno dei più accoglienti che abbiamo visitato. E’ l’unico al piano terra, sulla strada. C’è in vetrina qualcosa da vendere. Non si capisce se è un negozio, un ufficio! FP Anche questo è frutto della nostra attitudine. Non volevamo finire al terzo piano in un cortile, soli e senza niente da fare… Volevamo partecipare alla vita della città.
città
FP All’inizio abbiamo deciso
Parlavamo con Marie Therese Harnoncourt di the nextENTERprise appunto di questo: Vienna è una città lenta che sta cominciando a muoversi, allo stesso tempo rimane l’unica città austriaca ad essere realmente internazionale.
FP Mentre stavamo studiando abbiamo lavorato con continuità per altri studi. Abbiamo sempre però notato un po’ di odio per la propria professione, così come per la situazione nella quale la professione dell’architetto si trova. Tutti erano sempre un po’ frustrati. Così ci siamo detti “alles wird gut” (“tutto andrà bene”): è un po’ anche il nostro motto. Non bisogna preoccuparsi né lamentarsi troppo. Indica un certo ottimismo, la nostra attitudine verso il lavoro. E poi è un nome che fa sorridere sempre le persone con cui si ha a che fare. Quando abbiamo un committente e dobbiamo fare una presentazione diciamo “ciao, alles wird gut”. Otteniamo sempre un sorriso. È un buon punto di partenza!
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Come funzionano le dinamiche di lavoro di gruppo?
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interessanti. Questa lentezza, questo ozio viennese hanno, per la vita di tutti i giorni, una certa qualità. È una città dove puoi scegliere.
studiolo, distante da tutti. Poi è anche un messaggio. Siamo persone che effettivamente si interessano a una professione con cui tutti hanno a che fare. Perché tutti abitano, lavorano, si muovono in città. Un architetto si aspetta di poter definire i parametri del proprio lavoro. Però nessuno si interessa veramente all’architettura. Così il nostro studio, per noi, è un modo di fare pubblicità alla professione. Avere una vetrina: le persone passano. Vedono quello che stiamo facendo. Cerchiamo di portare un po’ di ottimismo nella nostra professione.
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Partiamo sempre in modo molto pragmatico. Iniziamo valutando i parametri dati: il contesto, il budget, la personalità del committente… Parametri diversi che generano sempre un punto di partenza pragmatico. Poi cerchiamo di trovare all’interno di questo pragmatismo una qualità spaziale, volumetrica. Qualcosa che un altro studio non troverebbe.
Dal punto di vista professionale, nel senso di impegno urbanistico, tutto dipende dalle commissioni che riceviamo. Se avessimo una commissione di carattere urbanistico ci farebbe tantissimo piacere ma, finché non ce ne saranno, non ci applicheremo. Voi venite in parte dall’esperienza olandese e, basta pensare a studi come MVRDV, da quel particolare interesse alla comunicazione: quale importanza date al divulgare quello che fate e quanto c’è di comunicazione in architettura?
Quando cominciate vi preoccupate del sito specifico? In seguito qualcuno ha un‘immagine fisica da applicare a quel contesto? FP L’immagine cresce col progetto. A un certo punto del lavoro nasce un’immagine di edificio, importante anche se diversa dal risultato finale. Comunque sia i nostri progetti, tra loro, sono completamente diversi e indipendenti l’uno dall’altro. Non abbiamo uno stile.
Se penso a TurnOn non posso fare a meno di rammentare un’immagine molto forte che non si relaziona con il contesto, forse nemmeno ce l’ha. Com’è nato questo vostro progetto?
FP Non investiamo molto nella comunicazione dei
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FP È un progetto che Herwin Spiegl, uno dei nostri
partner, aveva iniziato a disegnare in università. E che poi abbiamo continuato a sviluppare qui in studio in occasione della mostra Den Fuss in der Tür, che si è svolta qui a Vienna. Avevamo deciso di produrre un prototipo di questo progetto proprio per la mostra. Questo però non è un progetto tipico per il nostro modo di lavorare quotidiano.
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Puoi dirci un film, un libro, un disco, un sito che vi hanno interessato?
Guardando le immagini di questo progetto vi si potrebbe chiedere se esiste una componente ludica nel vostro modo di lavorare?
FP Per il gruppo non li posso nominare, ve li posso
dire per me. Iniziamo col libro: The black dalia di James Elroy. Film: Alice doesn´t live here anymore di Martin Scorsese, fine anni ’70; ho appena visto LA Crash, non quello di Cronenberg…
FP Quello che ci diverte nel lavoro è la ricerca di
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David Croneneberg pag. 23 Delugan Meissl AA pag. 34,38-41,77 Querkraft pag. 75-77 Rem Koolhaas pag. 13,1427,30, 35,45,51,56, 58,61,62,67,70 Kazuyo Sejima pag. 56,65,70 Frank O. Gehry pag. 30,86 Herzog & de Meuron pag. 30,70,77
“effetti speciali”. È sempre importante pensare al punto di vista dei committenti e fare così cose molto semplici, immediate. Nella semplicità però cerchiamo un effetto speciale, una situazione di spazio, una certa vista, il movimento all’interno di in un edificio…
Perché ti piace?
Come vi interessate della città?
FP Mi piace tantissimo Los Angeles. È un film che
propone diverse vedute attraverso la vita quotidiana di Los Angeles: è una ottima sceneggiatura per la città, ha ottime immagini ed un’ottima storia.
FP Ci interessiamo alla città
perché nessuno di noi è cresciuto in città. Siamo cresciuti tutti in qualche paesello disperso tra le montagne e ci siamo spostati in città perché questa ci interessava come struttura, come organismo, come base culturale, come piattaforma di scambio con altre persone. Per fortuna siamo riusciti ad organizzarci in modo di avere tempo libero, così in questo tempo, grazie alla città, possiamo girare e coltivare gli interessi personali di ognuno. E poi questi interessi ci danno anche ispirazione per il lavoro.
nostri progetti, direi. Però il sito web per noi è importante. Cerchiamo di aggiornarlo molto spesso, per capire, per comunicare quello che sta succedendo in studio. Non ci siamo mai però interessati direttamente di public relations se non fornendo materiale alle pubblicazioni esterne. Abbiamo comunque creato una rivista annuale interna allo studio che raccoglie il lavoro dell’anno appena passato. E’ una rivista che poi distribuiamo o regaliamo. La comunicazione è un aspetto importante quando si preparano le presentazioni per i concorsi o direttamente per un committente. Sicuramente spendiamo tempo per pensare come e cosa presentare. In un concorso la cosa importante, forse più della qualità architettonica, è la strategia di comunicazione. Quello è forse l’aspetto della comunicazione che ci interessa.
La colonna sonora?
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FP Al momento direi Bonnie Prince Billy e Matt Sweeney - Superwolf. Questo genere di musica lo si chiama americana ma è, sulla scena indipendente americana, una via di mezzo tra folk e country blues. Un sito internet… Direi Nextroom (www.nextroom. at) che è un sito austriaco di architettura… Mi interesso molto di cose che vengono costruite in Austria perché sono paragonabili direttamente alla
the nextENTERprise pag. 34,35,57,83-87
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nostra esperienza. Cerco di sapere fino a che punto si possa osare in Austria. Anche perché questa non è certo paragonabile alla Spagna o all’Olanda. I parametri sono completamente diversi, così vedere cosa fanno i colleghi è molto importante. Ci sono tantissimi studi che rispettiamo. Non necessariamente a Vienna… A Salisburgo, in Stiria, a Linz… Dicci 4 nomi di architetti austriaci e stranieri, 4 nomi di artisti che vi interessano o che vi hanno insegnato qualcosa.
professore sempre alle spalle. Praticamente è stata una formazione quasi da autodidatta. Non è stato sempre facile perché a fronte della grande libertà non c’era una vera guida. Secondo te la formazione dell’architetto può essere da autodidatta?
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FP Studi austriaci… Solo 4?!
Marte & Marte, Pool di Vienna e Delugan Meissl Associated Architects perché dal punto di vista scultoreo ritengo siano i migliori austriaci; stiamo seguendo anche i Querkraft. Internazionali: Koolhaas, Sejima, Mansilla & Tunon spagnoli, Neutelings & Riedijk olandesi. Secondo voi il computer può o ha dato nuovo impulso all’architettura? Che programmi usate?
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FP Convenzionali: Microstation, Archicad, ogni tanto Rhyno, Photoshop, Illustrator… Il computer per noi non è qualcosa su cui sperimentare, lo usiamo come una penna. Secondo me, per come stiamo lavorando, non ha cambiato il nostro approccio. Ha facilitato molte cose ma rimanendo uno strumento.
Siete uno dei pochi studi che incontriamo a dire “pochi modelli, non essenziali”. 12
FP Sì, per me non sono essenziali per lavorare.
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Usiamo invece moltissime sezioni. Anche schizzate. Una sezione mi basta per immaginare lo spazio; non ho bisogno di costruire un modello enorme per capirlo. È una questione di immaginazione, penso. Troviamo il nocciolo del progetto lavorando e ricercando. Non smettiamo di lavorare a un progetto finché ci sono due o tre aspetti che lo fanno speciale.
FP Difficile da dire… Penso che ogni università abbia un approccio diverso, secondo i professori, nuovi o vecchi che siano. Posso solo raccontare della mia esperienze di sette, otto anni fa. Quando io ero all’università di Vienna c’erano moltissimi studenti e pochissimi professori: si era praticamente liberi di fare qualsiasi cosa si volesse. Questo era, per me almeno, più importante che avere un
concorsi
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FP Per me la ricerca non è questione di dimensioni dello studio ma di aspetti economici. Gehry o Herzog & deMeuron possono chiedere quello che vogliono per un progetto. Il budget che hanno a disposizione permette di investire in cose che noi non ci possiamo permettere. Noi abbiamo un certo salario è quando questo è finito non abbiamo altre risorse. Facciamo solo cose che possiamo permetterci economicamente.
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FP I the nextENTERprise hanno un approccio completamente diverso dal nostro. Per noi è importantissimo costruire. Costruire un progetto e pensare al prossimo. Nessuno dei nostri progetti è il capolavoro. Questa professione per noi è una professione come altre. Non siamo degli artisti, ne intellettuali. Facciamo una professione, facciamo il nostro lavoro, facciamo dei progetti che per noi avranno senso soltanto se costruiti. 12
FP È da più di sei anni che abbiamo aperto lo studio. Abbiamo iniziato per un concorso vinto, un piccolo centro polifunzionale. Quegli anni erano durissimi! Abbiamo lavorato troppo, con poca esperienza, e per ogni passo che dovevamo fare consumavamo tantissimo tempo ed energia. Poi, dopo due anni, vincendo altri concorsi, avendo più commissioni, la situazione è migliorata. Ora stiamo bene: lavoriamo di meno, abbiamo più tempo libero, siamo più esperti, non perdiamo tempo nelle impasse, i progetti diventano sempre più grandi… “Tutto andrà bene”.
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imprenditoria
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L’ultima domanda: come arrivate a fine mese?
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computer
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I the nextENTERprise cercano appoggio per la loro ricerca in fondi municipali, nazionali ed europei: secondo te ci sono in Austria canali dov’è possibile fare ricerca?
FP Si. Sono importanti ma non essenziali.
Cosa pensate delle scuole di architettura? E del metodo di insegnamento?
FP Secondo me non guasta, ma essere autodidatta necessita grande entusiasmo ed interesse, anche solo per trovare tutte le informazioni di cui si ha bisogno. Per una formazione standard, il sistema scolastico tradizionale è forse migliore. Nonostante ciò l’università aiuta tantissimo in questo tipo di formazione anticonvenzionale: dà tutti gli strumenti, iniziando dalle librerie, di cui si ha bisogno. Nel momento in cui si ha bisogno di un professore lo si cerca, senza che nessuno faccia pressione.
Per voi è possibile fare ricerca in architettura in un piccolo-medio studio come il vostro?
Fate modelli?
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Vienna, 19/08/2005 - h 15.00
changing those things so fast; they change slowly and when something new comes up the days are already passed by. SB I like it very much because it’s an easy city: for me it’s a metropolitan cultural city. Nice place to stay. Although the weather in Vienna can be quite hard in summer there are a lot of places where one can get out and enjoy life. IH First I had the impression Vienna could be in a way similar to German cities, then I realised very quickly that it’s obviously really different. Also you can feel the influence of Eastern countries here. What’s the name of your studio and does that name say something about you and your way of work? DF Roman Delugan and Elke Delugan-Meissl are the
Delugan Meissl Associated Architects
two founders of the studio. The name has changed two years ago to Delugan Meissl Associated Architects. There are altogether five associated architects now.
(www.deluganmeissl.at), E.Delugan-Meissl R.Delugan D.Feistel M.Josst C.Schweiger, Mittersteig 13/4 - 1040 Vienna (A), tel. +43 01 5853690
Do you think it will change in a few years? DF Last year we were talking about changing the
Why do you work in Vienna? Can you say few words about the city? 5
Dietmar Feistel There are no special reasons that I’m
here; it’s the city where I studied.
Philip Beckmann I came to Vienna because I wanted
to work in this office: I saw some publications, I sent my curriculum, they answered me and in three days I was in Vienna! Sebastian Brunke At the end of my studies in Germany, I wanted to do an apprenticeship. Actually there were a few companies I was interested in. One of these was Delugan Meissl, and it was my first choice… Vienna is a nice city. However I didn’t choose the city first and then the company. Imke Haasler For me it was the same. I have to say that the situation for young architects is not that good in Germany at the moment. This might be the reason why many German architects are working in Vienna. DF About 90% of our stageurs come from Germany. Ursula Ender Instead I come from a western region of Austria. I worked there for 4 years, and then I decided to go to Vienna to work during the summer. Delugan Meissl was the decision… and now I’m here for the second time. If you have to define Vienna, what would you say? DF For me Vienna is not just one thing. Cities are a 1
Simply Architects_LATEST-2007_2.38 38
conglomeration of places with personal attributes we used to give them… They are personally experienced and one can’t talk about them in an abstract way.. It’s a private thing I suppose. PB I think Vienna is a very nice city but it’s a little bit slow. “Slow” does not mean bad. It’s a city where you can find a lot of things. Vienna however is not
name for a more neutral one but we thought it would not be so good because “Delugan Meissl” has already become a sort of trademark. It was born twelve years ago and everybody knows it. It is better not to vary the name when you have run so far. IH However the word “associated” expresses something different than before. Hold on, the name is a way of marketing but could it also be changed quickly? DF I don’t know if it’s every time
a conscious step to change the name, sometimes it’s because of sudden splits in a group of people. In the “world of fashion” it is quite the opposite: Dior, for example, has a name which stays and the people behind it keep changing. I guess changing the name very often could work in art projects but economically this wouldn’t be a good solution for an architectural firm. The way you work, do you involve all the people in the office?
DF In this moment we are working on about
twenty projects. We have large projects, like the museum for Porsche, and others not so big like roof extensions or single family houses: of course we need completely different strategies to manage both kinds. For example, six persons are working on the Porsche-Museum: one of them must be a kind of director, a person who communicates the project to other people, to the planning group, to the external planner. And there’s another person who is a central figure in the internal structure of
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Delugan Meissl As. Ar.
Wien 1040
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the team who knows everything about the project, all details on doors, windows – everything! There are different possibilities to structure the projects. It would be senseless to have six people working on a small project; then one person does everything and others twiddle their thumbs. At the moment I’m managing six projects and they all have different internal structures with a different number of collaborators.
Does it happen that if you have a competition some people stop what they are doing to help the competitors?
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DF There were some occasions we did but there
Can you consider yourselves like a collective mind? DF It’s not always possible to
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were special reasons. Normally we have started by working up a project and when it became interesting for other persons we invited them to join us. Not always from the beginning. Our architecture is not diagrammatic, it’s very personal, it’s something coming from our heart! I can only work with people I like and I know very well. Brainstorming is very important for me but with people I have a common “code” with… The feeling must fit. If there is someone new in the office he/ she has to understand how we work, how we are thinking … It’s somehow like a friendship. PB For the Filmmuseum in Amsterdam, an exhibition curator took part in the brainstorming. We call him when we do a concept for a museum or something like this. He’s an external person we work with. I think a team has to have a big variety of personalities. In fact we have many contacts, maybe we didn’t explain ourselves: we are not working in our nucleus and hiding, we are open but when we get a project we are focussed on it. What do you need to stimulate your creativity?
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UE Work! DF It’s really like this. It’s a good answer because
How many people are in the sudio? DF I guess seventeen in the whole office. The
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what’s really stimulating is an office which is producing. It would be the most negative for me if I were working in an office where I have the feeling that nothing works, nothing is moving. UE In this office we are many different people: it’s open-minded, and often it happens that people are just smoking a cigarette while talking about a creative point, standing together, discussing and then they go on working. It’s an open structure, and not completely defined. PB It’s easy because it’s a small office and everyone knows what is happening, everyone knows who everyone is and what he/she is doing, everyone follows projects they are not directly involved in. You are overexposed! UE I think the office is like a city where everything is inside, with many different cultures spread around and inside.
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città
Do you have any conversations with other experts, maybe artists or external architects? What about working with other professionals?
have had some situations with someone who had to get aid with some projects they are working up because it became too large. IH At the beginning of each project there is a brain storming. For competitions for example the partners sit together with people involved in the process – be internal collaborators or external specialists – and discuss the approach and concept. DF Yes, but we are not divided this way: one person for competition and another for realisation… Normally we start a project with a competition and the same persons go on with the realisation. It’s not only more interesting, it’s continuous. It’s clever to have the flow of information from the former to the latter step.
challenge is to manage the office in a way that everybody has enough work to do as there is often an uncertainty about the course: some projects come earlier, some later, and sometimes they don’t even come at all. If only you could see the future! PB Some projects are going up and down, other projects are going down and up. Like waves. Everyone has to be very flexible.
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five projects and you get crazy. However we have people that are not a fixed part of the team who can be asked to help in this or in that project. But this is really an extreme scenario.
DF Normally I’ve my project and it stays like this. We
have a collective talking about everything not least due to a lack of time. Often it’s very hard to have your own project running. IH I think it’s even more interesting if you have controversial opinions, because you are able to go forward this way, not everything has to be clear from the very first. If everybody has the same position it’s obviously a static situation! DF If we take for example the competition we are doing at the moment: it started that fast that we were just able to work on the project a couple of hours… But after a while we realised that we were not happy about it! It’s impossible to find a good concept in one hour. Matured concepts need a lot of time, they need a lot of thinking, working, talking and discussing…
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DF It’s not possible. Sometimes you work on four or
Do you interfere with other people’s project?
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It seems that your office is a good area for communication! DF Yes, but it’s a difference when we are sitting
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new territories in the city? DF We’ve thought about new worlds in university:
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and talking, when we are eating and when we are working. I think this is not meant to be playing. You can compare our work with improvisation, in a humorous but serious way because building for people needs to be serious and respectful. Is it like taking chances from it?
DF We are easy: because the work we are doing for
the next two years lets the studio exist, and working with this expectation makes it easier to work. In this situation you can improve your experimentations a little bit, on the other hand every project makes you more experienced and you know what will be possible or not. Architecture is a mixture of knowledge and craziness if you want. 1
We know a single family house you have built upon an office building in Vienna. In Vienna there is also the renowned Coop Himmelb(l)au rooftop. Is there some special law about the roof construction in Vienna or is it architectural craziness? DF One day, as if in a flash of enlightenment, Roman
Delugan said, “Why don’t we build on those many flat roofs over Vienna?” The first idea was to take something like a helicopter and place it on the roof: technically it was not possible because you have to respect too many conditions. IH It was a coincidence because Roman and Elke were looking for quite a long time for a traditional roof extension. One day they realised that the flat roof opposite our studio would be the ideal starting point. It was like a building gap but within the roof landscape. It’s really impressive: if you stand on the terraces of house ray1 and look around you’ll see the diversity of the city with all those individually built niches, spaces of recreation and extensions to existing buildings. It’s another world, another dimension of the city and its absolutely imaginable that one day we‘ll have connections between these roofs as another layer of the city. If you cut off one section of the city and lift it up you would see similar things, or if you take a look at internal gardens. It doesn’t matter if you live on top, inside or outside of a building, it will look in a way all the same, because it’s just private life that becomes visible.
Stefano Boeri pag. 13-14,22, 62,63,82
We were interviewing Stefano Boeri and he said that in Milan a lot of things are changing on the city roofs because of a change in the laws; the city will have a new face. Do you think we have to discover
we could live under the water, in the air, on the facade. I’m sceptical. IH I think it is possible and also important to discover new potentials of the cities: for example there was a place in Vienna called Cafe Bratislava; this was a bar in a pedestrian underpass of the subway. It is an occupation of a transitory space which was overlaid with a new temporary use. DF There are possibilities to find places which you can activate or read in a new way. But not for living. I think this is another thing. However the mistakes some cities did until the ’80 remind me of science fiction films. They tried to invent a completely new world, like there was an atomic bomb which erased everything. I guess Blade Runner was the first film which combined the historical city with an utopian scenario. It opened my eyes to the city. Changes need a very long time; the European city always reflects the coexistence of past, present and future. Do architecture, city and communication interest you? DF Architecture is not the only one.
And what about other ways of communicating? DF Architecture must not be only realizing houses.
Also you can work in an architectural way on books or on whatever you want. One of the associates is a deejay and I guess he’s working in this part of his life like an architect and also viceversa from music to architecture. There are some techniques which he uses when he plays music that come from architecture. To have the possibility to mix up a lot of stuff is one of the main desires I have had since I started to study architecture. The core that defines architecture is that it has to be open to other media, to other thoughts. But that’s my personal opinion. I could imagine a scenario with two interesting approaches: to be very open-minded and to be very narrowminded. It seems that for you architecture is to have different things to come together.
DF It is interesting not to separate things but to
bring them together. This does not have to be in a superficial just formal way, it has to become a functional interconnection.
Where does the project come from? Maybe the form? DF It’s not just the form we are interested in even
though this is the essential material we are working
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Exposure Architects
you talk about music, two things come to mind. First it is Christopher, one of the associates, who’s our deejay and secondly our server where we have put all our music, about, I guess, twenty thousand songs. It’s a pool of information, of memories, that unsystematically come out of the computer. It’s like choosing not just one song but all the songs. UE Random playing! Like in a radio station which is specialized on what I like. It would be perfect. You told us, about music, that the PC interests you for its randomisation. Is the computer part of your design process or just a tool? DF The computer is a tool, nothing else. We’re still 3-11
building physical models: they are essential for emphasizing a project. Computer rendering is only a tool: looking at something, changing quickly and seeing what happens; it’s fast, like drawing on paper. However we are really mixing up different media for our work but it is not just the computer and its possibilities that are the main theme in our office. UE I think it is a parallel working. We need complex PC shapes that help to understand the building, but there are physical models to better see and experience the space, because you can move around the model, it’s difficult to move around a screen. DF That’s a new aspect we are now working up: physical models from 3D designs. For Porsche we first built a model in the computer then we built it out in reality. Because it’s easier to control, it’s faster. It’s a continuous changing between physical models and 3D models. Changing and looking, changing, and looking…
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4 persone, 8 pc
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What do you think about architecture schools? 1
DF I studied for ten years and then I taught for four
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years. Being at university was like having more freedom to produce designs but there came a moment when I was fed up with all these abstract themes: houses for philosophers, houses for astronauts… Now I like what I didn’t like before: The building site, where I talk with the workers and I can see the thing grow.
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DF Yes, but I wouldn’t miss the times at university but
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it’s of course a luxury to produce things with such a plenty of time there. When people apply for jobs in our office and send their portfolios you realise how much work they put into their presentations. I always wondered how do they do it? How much time do they spend on it? That is something I would criticize: it’s thinking in pictures, sometimes of course in impressive images. Maybe this results from the fact that there are many people studying architecture and that there is a great competition. When I left university I felt the themes were far away from reality. For me it’s interesting to work with reality, with prices, with material, with construction and also with crazy things to mix it up. This way it’s not necessary to be an architect who builds large things: you have the same problems in big and small projects.
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How do you reach the end of the month?
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DF We are not rich but… we live on architecture.
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Exposure architects
exposurearchitects.com), O.Godi D.Mizrahi, via Manganoni 6 - 24123 Bergamo (I), tel. +39 035 512066
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(www.
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La prima domanda è “perché” Bergamo?
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Dorit Mizrahi Dopo New York, dove Oliviero ha avuto un’esperienza, siamo andati un anno a Madrid e lì abbiamo lavorato con un nostro amico.
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Is the university now a bit too crowded?
Can you tell us a movie, a song, a book and an internet site you like? DF I do not have a favourite film or a book. When
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on. Even a sculptor would not think only of the form, but also of the immaterial building, the influences, impulses, thoughts behind. We have participated in a competition for a Filmmuseum in Amsterdam which we recently won. The client told us in the beginning: “when you turn in this project, forget it in the same moment: it should only be a vision, it must be not a complete design for a museum”. We were not able to work without a form, however it was possible to formulate something like a vision. We were trying to think how we could communicate a vision or an idea because we normally communicate with our buildings, not with diagrams or text. Architecture is form and it is also function. Therefore we made a form which was a possibility of what we can do: the main vehicle that could carry our ideas was a model and its photos. Now that we finally have a restriction, we really have to forget the starting form, but it will remain in our memories.
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Oliviero Godi Uno che lavorava con me da Zaha Hadid. DM Al tempo io mi ero appena laureata. Abbiamo capito che lì sarebbe stata dura perché non conoscevamo nessuno. Perciò abbiamo pensato di tornare in Israele. Quando però Oliviero è arrivato là ha capito di dover fare ancora due anni di architettura (lui prima si è laureato in economia e solo in seguito in architettura). OG Se avessi fatto dei semestri integrativi in Israele il riconoscimento mi sarebbe valso solo in Israele, mentre quelli italiani valgono sia in Europa che in Israele. Anche perché fare gli esami in ebraico mi riusciva difficile! Allora siamo tornati. Siamo arrivati nel 1999, dovevamo rimanere due anni ma adesso siamo ancora qui. Ma non siamo sicuri di stare qui per la vita…
Cosa significa il nome del vostro studio? OG Ci chiamiamo Exposure architects perché a noi piace definire l’architettura come la manipolazione dei programmi, non delle funzioni. “Programma” per noi può essere una fabbrica oppure una mensa. Se tu manipoli questo programma, lo esponi e porti alla luce delle condizioni che normalmente la gente non nota. La nostra funzione non è quella di inventare qualcosa ma di creare delle vicinanze, e quindi la possibilità di eventi, in modo sia che questi diventino particolari, sia che se ne possano creare di nuovi. In un certo senso il nostro lavoro è portare alla luce, esporre, da qui Exposure Architects.
Cosa dite di Bergamo?
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OG Pubblicandoci in Spazio-Architettura, Diego Caramma ci ha definiti stranieri in patria, e può darsi che abbia ragione: è come se parlassimo due linguaggi molto diversi. Semplicemente non ci capiamo. E non è neppure che noi parliamo meglio, né che Bergamo capisca male, semplicemente si parlano due lingue diverse. DM Penso che in futuro questo cambierà… OG In ogni caso c’è una serie di persone che, vuoi per esperienze cosmopolite, vuoi per un certo tipo di cultura, vuoi per un certo tipo di sensibilità, capiscono il nostro modo di lavorare. Abbiamo lavorato all’inceneritore di Dalmine. Ne abbiamo curato la parte architettonica. L’abbiamo fatto per Fausto Radici, responsabile generale del gruppo Radici. Per lui abbiamo fatto un sacco di cose. Siamo stati anche in Argentina per fare il masterplan di una loro grandissima tenuta; abbiamo allestito e allestiamo tutt’oggi per il gruppo Radici le fiere, organizziamo per loro anche gli eventi. Per esempio, siamo tornati recentemente da Praga dove abbiamo organizzato per loro un evento e tutta la coreografia correlata. Volevano un’opera d’arte industriale e noi abbiamo agito di conseguenza. Fausto Radici è venuto a mancare tre anni fa e da allora per noi lavorare a Bergamo è diventato molto difficile. Abbiamo continuato la collaborazione con il gruppo Radici, ma a parte loro, per noi qui c’è poco
lavoro, anzi non c’è proprio lavoro. Dorit sta facendo uno showroom per un cliente che vende attrezzatura hi-fi di alto livello per automobili; uno show room di 600 mq. In verità non conosciamo nessuno qui: io sono stato via per più di dieci anni, lei è israeliana e quindi abbiamo pochi contatti. E senza quelli in Italia si va poco lontano. E se doveste dire due parole espressamente sulla città, cosa direste? OG Io sono nato e cresciuto a Bergamo, sono stato poi via per più di dieci anni, ma tornando mi sono sorpreso di trovare esattamente la stessa gente che parla delle stesse cose, con le stesse idee. È una città provinciale, molto bigotta, molto ricca, piuttosto chiusa, tutto sommato noiosa. Non succede assolutamente nulla, tant’è che quei pochi negozi o bar nuovi che aprono sono subito pieni. Dal punto di vista urbanistico, avendo visto molte città nel mondo, penso sia una delle peggiori. La circolazione stradale è assurda per una città così piccola. Abitiamo dall’altra parte di Bergamo rispetto a dove lavoriamo, sono 4 km ma ci vogliono anche 40 minuti per arrivare a casa. DM C’è un altro esempio: Piazza Libertà. È una piazza nuova dove tre anni fa volevano costruire una fontana. Andate a vedere! Non ho parole… Il progetto di Piazza della Libertà è stato fatto da un architetto d’epoca fascista molto bravo che si chiamava Bergonzo. Edifici, slanci e uno spazio pulito davanti. A suo tempo, negli anni ‘20 o ’30, il progetto era completato da una fontana che è stata cassata perché orribile. È una copia della fontana Contarini di Città Alta ma di cui si è cambiata la scala. Non si riesce a vedere l’acqua… Uno zampillo e basta… Hanno raccolto le firme di molti architetti per riprogettarla. Alcuni però si sono impuntati affinché questa fontana venisse costruita in onore di Bergonzo che poco dopo è morto. OG Quella piazza normalmente viene usata d’inverno per il pattinaggio e d’estate per le partite a calcetto. D’inverno è coperta di protezioni in gomma e d’estate il campo di calcetto è costretto contro la fontana stessa. DM Comunque la città è molto bella ma molto chiusa. E questa chiusura penso si riconosca anche nell’architettura. Diciamo: se uno ha deciso di essere aperto e fare una cosa moderna, chiama Jean Nouvel. Ma penso che sia un problema generale in Italia in questo momento. Tipo il Kilometro Rosso: l’hanno commissionato a Nouvel perché è un nome che attrae gli investitori. È in ogni caso un problema di real estate, dove ci sono grandi investimenti di capitali e si cerca un ritorno. Il fatto di usare una grande star internazionale giustifica o omologa certe scelte. Non so se l’avete visto questo Kilometro Rosso. È un muro alto 15-18 metri e lungo un chilometro; vorrei capire quelli dall’altra parte cosa riusciranno poi a vedere!
Zaha Hadid pag. 84
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Exposure Architects
Siete un gruppo? Come funziona il vostro lavoro?
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OG Abbiamo una serie di persone che ci aiutano… perché lavoriamo molto in Thailandia. Lavorare in Thailandia significa lavorare “all’antiprogetto”. Là viene chiamato così: c’è lo sviluppo del progetto definitivo a grandi linee, poi in situ l’architetto locale, l’impresa locale sviluppa tutti i disegni. Noi li verifichiamo tutti, li firmiamo e a quel punto parte la costruzione. Quindi, nel caso della costruzione in Thailandia, non abbiamo bisogno di molta gente. Quando abbiamo fatto dei lavori qui, per esempio l’inceneritore di Dalmine (BG - Italia), allora avevamo dei collaboratori. In generale tendiamo a fare quello che in inglese si chiama “outsourcing”. Per esempio, adesso la Pirelli ci ha contattato, insieme ad altri dieci studi internazionali, per fare un progetto alla Bicocca di Milano, e quindi stiamo cercando ragazzi che abbiano voglia di lavorare per noi.
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Quindi vi è capitato di progettare senza essere sul sito, senza visitare l’area? DM In Thailandia siamo stati, conosciamo l’ambiente,
anche se non conosciamo bene il paese. Sappiamo com’è. Non è foresta, è campagna. Tutto e sempre verde. Perciò costruire qua oppure là è abbastanza
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Questa attitudine al lavoro è forse una delle risposte al perché avete scelto Bergamo? In fondo i vostri stimoli non vengono dal vostro ambiente.
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Vi abbiamo chiesto quanto credete nell’idea di mente collettiva perché nel contesto dei giovani studi di architettura romani è emerso come tutti i componenti facessero parte quasi di un gruppo unico composito, per attitudine e per scambi operativi.
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obbligato. Vi faccio un esempio: a Ranica, un paesino nella provincia di Bergamo, hanno appena fatto un concorso per la progettazione della nuova biblioteca pubblica: 2 milioni di euro come valore dell’operazione. Per poter partecipare bisognava essere o Renzo Piano o un gruppo di quindici architetti normali messi insieme. Bisognava avere avuto quindici dipendenti fissi nei cinque anni precedenti il bando!
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OG Penso che qui in Italia funzioni così. Sei
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È nato come un criterio per garantire l’affidabilità professionale.
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OG Sì. Però così si tagliano fuori i piccoli o, se si consociano, viene fuori un’insalata russa. Perché già io e lei, avendo delle idee simili ma non uguali, vi assicuro creiamo un processo di progettazione difficile ed estremamente pesante. Anche perché essendo marito e moglie usciamo di qui e a casa siamo sempre gli stessi! DM I bambini stanno lì e ascoltano i genitori che litigano anche per lavoro!
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Al giorno d’oggi è assolutamente indifferente dove abiti, potresti vivere in Groenlandia come in un altro qualsiasi posto. DM Non è proprio così! OG Certo, perché in Groenlandia esci dall’ufficio e ti trovi in mezzo al ghiaccio! Io penso che se costruiremo qualcosa in Italia dovremo andare a seguire i lavori direttamente perché ogni posto è diverso dall’altro. In Thailandia i costruttori sono veramente bravi, eseguono perfettamente secondo i nostri disegni e le nostre indicazioni specifiche. In Italia si parla con gli operai e loro girano la testa, fanno quello che vogliono. Non so perché, è una mentalità diversa. È più quello che abbiamo fatto demolire che il costruito. Forse quello che manca in Italia in generale è la figura che c’è in Spagna dell’architetto “aparqador”. Non è il geometra, uno dei mali più profondi dell’architettura in Italia, ma una figura particolare di architetto tecnico. Fa solo due o tre anni di Università e il suo compito è quello di prendere i disegni dell’architetto e farli diventare edificio. Noi abbiamo una figura simile come referente per i nostri progetti in Thailandia. OG
DM Noi non stampiamo più nulla assolutamente
su carta. Tutto circola tramite internet. Abbiamo collaborato con la Kenwood in Giappone e ci arrivavano tutte le indicazioni tramite internet. Funzionava così: loro di solito ci mandavano un brief e noi dovevamo rispondere entro una settimana con un progetto. Abbiamo progettato dei miniDVD per la Toyota, piuttosto che delle casse acustiche per la Sony, o altre cose… OG In quei casi il nostro progetto non arrivava mai alla conclusione. Era solo il loro punto di partenza. Noi dovevamo dare loro degli spunti e loro avrebbero fatto il resto. Per darti un’idea, noi non abbiamo mai conosciuto quelli della Kenwood. Siamo diventati molto amici del loro presidente ma non l’abbiamo mai incontrato personalmente. Ci parliamo tre volte alla settimana via internet. Da sei anni ci sentiamo via internet, mandiamo le nostre risposte, veniamo pagati, ma in tutto ciò non ci siamo mai visti! In Thailandia siamo arrivati al punto per cui hanno posizionato una webcam che riprendeva il cantiere dove stavamo costruendo. Era il primo edificio che facevamo là, e noi giornalmente vigilavamo l’avanzamento dei lavori. Certo non si vede il dettaglio… Abbiamo amici anche negli Stati Uniti e anche con loro la corrispondenza è chiaramente via internet. I disegni ormai li mandi direttamente via internet, soprattutto perché ogni persona che lo riceve ne ha bisogno come file.
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indifferente.
Legato a questo c’è l’idea di quello che noi chiamiamo mente collettiva. Voi che ne pensate? Può essere una definizione del modo in cui lavorate, del modo in cui si fa un progetto, del modo in cui si lavora tramite internet?
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Se ci sono sei architetti dove tutti devono giustamente avere il diritto di dire quello che vogliono… immaginatevi: diventa un pasticcio!
nostro edificio diventa cultura popolare. In università abbiamo fatto un progetto in Sri Lanka con l’atelier di Heinz Tesar, ma per alcuni studenti è stato difficile progettare senza visitare il sito.
È solo un pasticcio o può nascere qualcosa di valore?
OG L’anno scorso la Thai Airlines ha aperto un nuovo volo diretto Bangkok-Milano. Noi siamo stati invitati perché uno dei nostri amici è dirigente della Bangkok City of Fashion. Ero a Milano con una Saab Cabrio nella quale questo mio amico thailandese continuava a piegarsi in avanti come per proteggersi… Non riuscivo a capire cosa stesse facendo. In realtà cercava di nascondersi sotto l’ombra del bordo del parabrezza perché il sole gli dava fastidio! All’opposto per me quel sole era una cosa fantastica! È tutto così. C’è la necessità di capire, vedere che tutte le proprie abitudini, il proprio modo di vedere le cose lì non c’entrano nulla. Dalle cose più banali… Da noi gli edifici sono esposti col lato più lungo, se vuoi che si scaldino, a sud. Loro mettono gli edifici nelle stessa posizione ma perché vogliono che il lato più corto sia a est e a ovest. Queste sono le direzioni che là prendono più sole data la verticalità che questo raggiunge. C’è il discorso del clima. C’è il monsone invernale e il monsone estivo. La nostra mensa è messa in modo tale che prenda sia il vento del monsone estivo, sia che quello invernale passi attraverso l’edificio. Poi c’è un discorso di capacità costruttiva. All’inizio avevamo dei problemi perché la struttura dell’edificio è molto sofisticata. C’è una rampa di duecento metri trattenuta da pali del diametro di dodici centimetri ed alti otto metri. E questi devono resistere non soltanto alla spinta verticale ma anche a quella laterale. Quindi l’inclinazione di ogni singolo palo non è casuale ma è determinata per resistere alla spinta laterale. Avevamo paura non fossero capaci di costruirla… E invece sono stati bravissimi…
DM Hai visto qualcosa di valore ultimamente in
generale?
DM Purtroppo solo i grandi stranieri li vedi in grandi
opere. Purtroppo è così. Ci sono moltissimi giovani architetti che non hanno possibilità. Quindi secondo voi è più una necessità che una possibilità questa tendenza ad unirsi?
OG La tendenza a unirsi deve nascere spontanea, non deve nascere dalla necessità. Questo per me è sicuramente una limitazione. Il nostro modo di progettare è abbastanza problematico perché oltre ad essere colleghi siamo marito e moglie e abbiamo tutti e due dei caratteri molto forti con idee precise. Non lo auguro a nessuno. Abbiamo appena iniziato un progetto per Pirelli RE e non so se sopravviveremo… DM Anche perché è un progetto grosso! Sicuramente essere più di uno a progettare apporta ricchezza alle idee. Però ci deve essere anche unità, ci devono essere dei modi di vedere comuni e ci deve essere un atteggiamento nei confronti dell’architettura simile se non identico. Altrimenti è un pasticcio.
A che gioco state giocando? Questa domanda è un po’ provocatoria e può essere letta in diversi modi. Da un lato chiede se c’è un parte ludica nella progettazione…
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Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,51,56, 58,61,62,67,70
OG Sicuramente progettare è divertimento. Mi sono lanciato 3 anni fa nella progettazione di alcune barche che adesso sto costruendo, il cantiere è a Ranica (BG - Italia)… La cosa che mi piace di più, per esempio in Thailandia, è che abbiamo finito questa fabbrica e questa mensa per gli operai e ci siamo resi conto di come l’edificio realizzato fosse per gli utenti un’esperienza diversa. Per me è il massimo! Non tanto la pubblicazione sul giornale, le riviste, l’apprezzamento generale. Ma il vedere che la gente usa e vive in maniera diversa gli edifici da noi progettati. Questa mensa è una cosa molto particolare, è un modo di pranzare completamente fuori dai canoni, fuori dagli schemi. Un’altra cosa che mi ha fatto piacere è che adesso c’è in Thailandia una nuova pubblicità per gli spaghetti istantanei. Sono delle scatolette di cartone, ci si mette l’acqua calda, si scuote e gli spaghetti rinvengono. Sono una cosa diffusissima, popolare come il McDonald in Occidente. In questa pubblicità scorrono le otto meraviglie della Thailandia e dopo il Palazzo Reale appare una delle nostre costruzioni. Ecco, per noi è bellissimo se un
Un’architettura pensata per un posto lontano nasce da queste nuove regole del gioco autoctone o deve comunicare la nostra realtà straniera?
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OG Chi siamo noi per imporre qualcosa? Forse siamo noi stessi a dover imparare qualcosa. DM Chiaramente non possiamo creare qualcosa completamente thailandese. Deve essere una cosa d’insieme. OG Progettiamo un edificio adatto all’uomo… Il contesto è una delle cose più importanti, anzi è la cosa più importante, al punto che noi non facciamo mai due edifici che si somigliano proprio perché i contesti sono sempre diversi. Ma non solo il contesto geografico, anche il contesto sociale, storico, culturale. E sono le ragioni sulle quali si basa il nostro modo di lavorare. Il programma non è che la trasposizione in architettura di un certo modo di vivere, di lavorare, di comportarsi. Ci hanno chiesto di disegnare un’abitazione per
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quattro, sei o otto persone abbastanza flessibile, nei luoghi del post-tsunami. Noi abbiamo scelto Puket. Ed abbiamo fatto quel progetto conoscendo quel poco che sapevamo della zona e del suo clima.
Un sito? OG Google nella sua banalità. Oltre a questo
trovo molto belli anche quelli delle società che fanno abbigliamento sportivo e auto sportive. Nike, Adidas…
Che rapporto hanno i thailandesi con vecchio e nuovo?
Perché?
OG Non si fanno problemi a demolire il vecchio per
costruire un grattacielo!
Come in Cina? Fino al limite di non conservare il loro patrimonio culturale? 10
DM Penso che abbiano passato questa fase
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N.Artuso A.Balestrero G.Barreca A.Bruzzese M.DeFerrari M.Marchica, via Colletta 18 - 20135 Milano (I), tel. +39 02 5512352
gioco
La prima domanda è perché Milano? O meglio perché stare tra Milano e Genova? A12 Genova è la città dove tutti noi siamo cresciuti,
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abbiamo studiato e dove il gruppo si è formato due anni prima che ci laureassimo, con la quale abbiamo ancora adesso un legame fortissimo. Milano è la città in cui, subito dopo l’università, molti di noi, si sono trasferiti perchè parallelamente all’attività di gruppo A12 hanno lavorato per altri studi, continuando tuttora a viverci. Si tratta di opportunità di lavoro e vicende biografiche personali. Ma la nostra sede da tempo è a Milano.
OG Un film che da tanto non vedo e che rivedrei volentieri è Brazil. DM Anche GATTACA è un bellissimo film per architetti! OG Se io dovessi consigliare invece un libro da leggere, sceglierei Viaggio in Italia di Goethe. L’ho trovato fantastico. Soprattutto per la sua capacità di vedere le cose, la sua capacità di cogliere dettagli e particolari. Giusto per non citare i soliti Delirious New York di Koolhaas o Architecture disjunction di Tschumi…
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internet
realizzazione
Potreste parlarci di queste città? Genova e, o, Milano? Genova è una città che, particolarmente in questi ultimi anni, ha avuto uno sviluppo urbanistico ed un rinnovamento incredibile. Forse più che altre città italiane, Genova, sfruttando occasioni come quelle offerte dai Mondiali di Calcio Italia ’90, dalle celebrazioni colombiane del ’92, dal G8 del ’98 a Genova Capitale Europea della Cultura nel 2004, ha avviato e saputo concretizzare un vero processo di rigenerazione. In 12-15 anni, attraverso eventi che si sono succeduti con tappe regolari, l’amministrazione
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gruppo A12 (www.gruppoa12.org),
Ci potete dire un libro, un disco, un film, un sito che vi piacciono, interessano o vi hanno stimolato?
OG Il Concerto di Colonia di Keith Jarrett.
OG Hanno tanti soldi da spendere! E hanno una grafica molto bella. I siti li guardo dal punto di vista grafico. DM Ne avevo in mente uno bello. Internet è incredibile: oggi apri un bel sito e domani lo dimentichi.
Milano, 09/03/2005 - h 18.00
vent’anni fa. Adesso è diverso. Arrivando a Bangkok non sembra di essere in un paese asiatico. Sembra di essere in un qualunque paese occidentale. OG Io sono un po’ fautore della dinamite. Ci sono due problemi: le case di nuova costruzione sono fatte in maniera pessima. E poi, a parte qualche edificio significativo, se anche sparisce tutto il resto non succede nulla. Qui in Italia è il contrario. Per la paura degli amministratori di demolire qualsiasi cosa si tiene tutto. Tenendo tutto non succede assolutamente nulla! Poi ogni tanto succede qualcosa… Qui a Bergamo hanno demolito un edificio degli anni ’30 bellissimo: un deposito pullman fatto in curva perché entrassero i mezzi, con una corte centrale di cristallo… E non è l’unico ad aver subito questa sorte. Di fronte a noi c’è un edificio di fine ‘800 orrendo. La facciata va però mantenuta per regolamento. Essendo a cavallo tra ‘800 e ‘900 gli amministratori la tengono, e di conseguenza l’edificio è stato buttato giù tutto mantenendo solo l’orrida facciata. In generale non c’è nessuno della pubblica amministrazione che si prende la responsabilità di demolire qualcosa... Così si fanno dei regolamenti edilizi immani dove tutto è contemplato e dove nessuno può modificare alcunché. Questo, oltre i geometri, è uno dei grandi problemi dell’Italia.
Qualcosa di musica...
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pubblica ha saputo utilizzare intelligentemente finanziamenti nazionali e comunitari, spendendoli nei posti giusti. Non si è investito, infatti, solo ed esclusivamente nel centro storico della città, o meglio, il centro storico, che al tempo aveva i caratteri di problematicità di una periferia, è stato oggetto di numerosi e capillari progetti di riqualificazione, ma non si è ceduto a quella tendenza, a nostro avviso criticabile, di rigenerazione esclusiva delle parti più nobili e facilmente visibili a discapito di zone della città meno in vista. Buona parte del merito va alle amministrazioni che hanno saputo operare con una buona dose di cinismo e strategia comunicativa, talvolta con derive semplicistiche e superficiali come spesso accade, ma anche con una insolita attenzione allo spazio urbano, sia per quanto riguarda la selezione dei progetti che dei progettisti. Genova è stata concretamente in grado di portare avanti un processo di rinnovamento. Soprattutto con progetti importanti sul porto, sul fronte mare…. A12 Alla base c’è stato un efficace rapporto tra i vari
Enti locali. Provincia, Regione, Autorità Portuale, Comune hanno capito che alcune sfide avrebbero dovuto essere affrontate in sinergia. E, se all’inizio, l’uguale orientamento politico dei diversi enti ha facilitato la cooperazione, in seguito, da quando la Regione ha cambiato “colore”, la distanza politica ha aumentato, piuttosto che annullato, la spinta alla trasformazione: la Regione infatti ha “invaso” ambiti di competenza tipicamente comunale e portuale appoggiando una proposta di trasformazione radicale di tutto il fronte mare della città a firma Renzo Piano (la pubblicità portata dal coinvolgimento di un grande nome non guasta mai!). Una intromissione pesante, ma che, da un certo punto di vista, può essere considerata propulsiva e in fin dei conti positiva, perché ha inserito una proposta di profilo comunque “alto” e di respiro generale nel dibattito e perché ha costretto gli altri enti a rilanciare la sfida sulla qualità puntando su altri temi. Che bilancio fareste di Genova 2004?
A12 Ce lo hanno chiesto più volte… diremmo
positivo. La mostra Arti & Architettura 1900/2000 di Germano Celant è stata un evento importantissimo. Forse il taglio avrebbe potuto essere più critico e si poteva produrre una mostra meno descrittiva e meno puntata solo sul passato; magari una mostra anche orientata al futuro o, per lo meno, al presente. Soprattutto dal momento che questo evento, per esplicita volontà del curatore, ha fatto “terra bruciata” intorno a tutte le altre proposte orientate al contemporaneo. In ogni caso ci sembra che il bilancio sia stato comunque positivo anche se, come in tutte le occasioni di questo tipo, quando in una città confluisce così tanto denaro, così tanta attenzione da parte dei media, è molto facile che
alcuni eventi siano un po’ superficiali, non pienamente pensati e costruiti. Evidentemente è diverso fare un bilancio di un singolo evento o in generale della qualità culturale delle iniziative e valutare cosa abbia lasciato questo anno alla città. La successione delle trasformazioni avvenuta negli ultimi anni, in concomitanza delle occasioni che abbiamo ricordato, ha lasciato segni profondi proprio nel centro della città: la pedonalizzazione di alcune vie ha permesso di cambiare radicalmente il modo con cui si usavano parti di città e ha permesso di riconnettere una serie di percorsi che collegano la parte novecentesca dove c’è piazza De Ferrari, passando per il centro storico, all’Expo. La riapertura dell’Expo è stata una delle trasformazioni più importanti: Genova si è riappropriata di un pezzo di città prima tagliato fuori dai circuiti pedonali, inaccessibile, chiuso dall’autostrada e dalla sopraelevata, dedicato solo alle attività portuali: il vero elemento dirompente di questi interventi di ricucitura è che hanno costretto i genovesi di guardare la propria città in maniera diversa. Il vostro nome: cosa ci dice di voi? A12 C’è stata un’occasione precisa: avevamo
l’opportunità di organizzare una mostra e quindi dovevamo trovare un nome comune che ci rappresentasse… Tendenzialmente abbiamo scelto A12 per 2 motivi. Primo perché l’autostrada A12 che collega Genova a Roma và verso oriente e rammentava il viaggio in oriente… ci piaceva l’idea di evocare qualcosa di “lecorbusieriano”… Secondo perché l’autostrada A12 è l’unica incompiuta: si arriva a Livorno e poi si deve proseguire in superstrada fino a Roma. Dava l’idea di qualcosa in corso, in processo… Conoscendo poi la velocità con cui vanno queste cose in Italia, eravamo certi che questa condizione sarebbe rimasta tale per un po’ di tempo. Sono infatti passati 12 anni e l’autostrada non finisce ancora. Vi considerate un gruppo? Come funziona per voi il lavoro di gruppo?
A12 Ha influito moltissimo il fatto di esserci conosciuti
al primo anno di Università: abbiamo studiato insieme, disegnato insieme, progettato insieme fin dall’inizio ed abbiamo condiviso la maggior parte dei riferimenti culturali e teorici che l’università poteva offrire. Si è costruita nel tempo non solo una consuetudine al lavoro di gruppo e una facilità di intendersi immediatamente sulle cose ma anche un approccio al progetto e un bagaglio di riferimenti e immagini mentali condiviso. Questo background comune è quello che ci ha permesso di sviluppare anche una grande fiducia reciproca sul piano lavorativo oltre che personale. E’ sufficiente impostare i principi generali, i criteri, i
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temi che si vogliono approfondire in ogni progetto, poi gruppi più ristretti proseguono la ricerca…
tempo il gruppo si è naturalmente ridotto… alcuni hanno preso altre strade senza che ci siano stati attriti particolari.
Non sono mai in competizione questi sottogruppi?
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A12 ci sono due componenti culturali alla base del
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nostro lavorare insieme oggi: il fatto di aver una base formativa comune che ci è stata data dall’università, ma che non ci ha impedito di coltivare idee, profili e specificità personali e l’aver messo in comune, quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, tutti i nostri libri. La ricchezza del gruppo, ancora oggi, consiste nel fatto che il mondo di esperienze professionali e di ricerca di ognuno di noi, certe specificità individuali legate ai propri interessi ed alle specializzazioni che nel tempo ognuno ha coltivato autonomamente possano confrontarsi e dialogare costantemente dando luogo ad un progetto comune dalla personalità forte. Una situazione contemporanea, in una condizione di equilibrio precario, al tempo stesso interessante e fertile - siamo come vasi comunicanti dove le esperienze, come i liquidi, passano da uno all’altro – ma anche estremamente faticosa, per la difficoltà di conciliare impegni, tempi diversi. Siete una mente collettiva?
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insieme dopo tanto tempo è il fatto che sia un’esperienza emozionante, nel senso che procura emozioni. Nello svolgimento del nostro lavoro ci sono sicuramente anche momenti di divertimento, ma la componente più propriamente ludica non è tanto nelle modalità di lavoro quanto nel contenuto ironico o provocatorio di alcuni progetti. Per la nostra mostra al Tensta Konsthall di Stoccolma abbiamo costruito un intero appartamento usando solo tavolini Lack dell’Ikea, di colore rosa, come fossero un modulo “universale”. Una sorta di gioco che ci ha permesso di affrontare con leggerezza il tema dell’identità dello spazio domestico e delle sue relazioni con la produzione di massa. In un’altra occasione, per la mostra Luna Park arte fantastica a Villa Manin, abbiamo realizzato una catapulta che lancia pupazzi… In generale però è la dimensione dell’animazione (di cui il gioco può essere una delle componenti) che ci interessa: le nostre architetture, acquistano significato nel momento in cui le persone cominciano ad usarle. Coloro che le attraversano diventano personaggi attivi che, interagendo e abitando gli spazi li trasformano completamente. Questo testimonia il nostro tentativo costante di costruire spazi pubblici che possono essere reinterpretati e liberamente usati dalle persone. Ciò è evidente in alcuni nostri lavori, come l’installazione di un padiglione temporaneo, LAB, per il museo Kröller Müller ad Otterlo o il la Zona, Padiglione temporaneo della Biennale di Venezia.
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gioco
Nathalie Zonnenberg, una curatrice indipendente olandese che stava organizzando una mostra al Kröller Müller Museum di Otterlo ci ha invitato a realizzare uno spazio per ospitare i lavori degli altri artisti all’interno del parco del museo. Il titolo della mostra era LAB, il labirinto, inteso come possibile metafora della città contemporanea. Un tema cha abbiamo cercato di rielaborare architettonicamente senza evocare iconografie scontate, ma lavorando in senso più astratto sull’idea di smarrimento. Su una radura all’interno del parco, abbiamo costruito, ricalcando un rettangolo pavimentato esistente di 75 per 50 metri, un corridoio fatto di muri di legno, attraverso il quale si accedeva alle stanze in cui erano esposti i lavori degli artisti. Il tutto era un percorso obbligato: si entrava in questo corridoio a cielo aperto e da lì, percorrendo il recinto di palizzate, nelle stanze da cui si percepiva la presenza di un giardino interno. A12
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formazione
Potreste parlarci del vostro progetto per Otterlo?
A12 Sicuramente sì, se per
mente collettiva intendiamo una “personalità” che è creata dal contributo creativo di individualità anche molto diverse tra di loro. Il gruppo “pensa” con una testa che è più della semplice sommatoria delle teste dei suoi membri. Ormai a volte diamo per scontato il valore e la forza del saper creare insieme. Senza dubbio la dimensione collettiva del lavoro ci appartiene, l’abbiamo praticata da sempre. A partire dalla consapevolezza banale ma fondamentale per la tenuta del gruppo che i progetti che escono dal lavoro collettivo sono più “ricchi” di quelli che ciascuno di noi potrebbe fare da solo. Non si tratta dell’annullamento in una entità superiore, ma di una sorta di elettricità positiva che nasce da un lavoro molto concreto, fatto anche di rapporti di vicinanza. Non è stato irrilevante, soprattutto all’inizio, il fatto di essere amici, prima che colleghi. Il tentativo di relazionarsi con chi stava lontano è sempre stato difficile. Eravamo 12, siamo stati anche 14 e con il
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A12 Uno dei motivi per cui continuiamo a lavorare
E’ interessante la vostra presentazione di una struttura collettiva che preserva delle individualità…
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A quale gioco state giocando? Ci sono componenti ludiche nel vostro lavoro?
A12 No, perché c’è totale comunanza di obiettivi e di
metodo: dopo la discussione collettiva iniziale, con scadenze più o meno regolari, ci si confronta per poter tenere alto il profilo della qualità del progetto. Questo meccanismo di scambio e di revisione interna innesca una dinamica che fa sì che i progetti siano condivisi: penso non esista progetto in cui qualcuno di noi non si riconosca.
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schizofrenia
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Quest’ultimo era però accessibile solo uscendo dalla struttura e, dopo averla aggirata, rientrandovi attraverso una scala a ponte che scavalcava il corridoio. Si trattava perciò di una sequenza di spazi contigui ma non comunicanti che instauravano tra loro relazioni complesse e sottili, anche grazie all’ambiguità dello schema costruttivo che contribuiva a ribaltare il rapporto interno/esterno.
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Voi lavorate tra Milano e Genova: quanto vi interessa la città, quanto l’architettura e quanto la comunicazione in questa e nel vostro lavoro? A12 E’ difficile considerarle campi a se stanti o fare
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una classifica, architettura, città e comunicazione sono 3 dimensioni estremamente differenti ma siamo convinti che il progetto di architettura non possa prescindere dal contesto nel quale si colloca, dalla città nella sua complessità; in questo senso la comunicazione, più che un oggetto di interesse di per sé, è uno strumento che permette al progetto di essere compreso e condiviso. Senza dubbio, la città è spesso stata al centro di alcuni nostri lavori di indagine. Abbiamo sempre considerato la dimensione urbana, non solo come sfondo ma anche come oggetto di ricerca. Con diverse lavori abbiamo indagato, a modo nostro, differenti città a partire dall’osservazione di alcuni specifici caratteri e fenomeni di trasformazione: la dismissione di sale cinematografiche a Genova, il ruolo e il carattere dell’arredo urbano a Ginevra, gli “oggetti” che permettono di costruire una mappa mentale a Kitakiushu in Giappone, la natura dei quartieri di edilizia residenziale pubblica costruiti negli anni ’50 a Milano. Lavori che si sono tradotti nella maggior parte dei casi in istallazioni e mostre in gallerie (Pinksummer a Genova, Attitudes a Ginevra, CCA a Kitakiushu, Palazzo dell’Arengario a Milano) Avete un vostro modo di analizzare la città? 99ic addirittura lo fanno talvolta in bicicletta!
A12 L’osservazione diretta resta uno dei modi più 1
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gr - la generazione... pag. 21 2A+P pag. 21-24,58,60 Massimiliano Gioni pag. 15-16
efficaci per comprendere la città. Muoversi a piedi o in bici ti consente di guardare le cose con tempi relativamente lenti, di percepire sfumature, dettagli, aspetti che difficilmente si catturano dall’automobile, per quanto anche quello sia un modo interessante, complementare e non alternativo, di analizzare la città. La visione, ad esempio, che si ha entrando a Genova dalla sopraelevata è straordinaria e probabilmente con essa, con un unico piano sequenza, si capiscono molte più cose della città che con una semplice passeggiata, o meglio, altre cose.
Massimiliano Fuksas pag. 12,50,51
Diteci 4 nomi di architetti italiani e stranieri, 4 nomi di artisti che vi interessano o vi hanno insegnato qualcosa.
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A12 A questa domanda preferiremmo rispondere con
un riferimento a un nostro testo, provocatoriamente manicheo, scritto alcuni anni fa per il libro gr - la generazione della rete, sperimentazioni nell’architettura italiana (curato da 2A+P, Marco Brizzi e Luigi Prestinenza Puglisi), in cui nomi di artisti, architetti, personaggi storici e riferimenti culturali in generale, autonomamente suggeriti da ogni membro del gruppo, sono divisi in due diversi elenchi: i Sì e No. La cosa interessante emersa, accanto alla condivisione di molte simpatie e avversioni, è l’estrema varietà dei riferimenti e in alcuni casi anche le contraddizioni. Se invece dovreste dire 4 architetti con cui vorreste confrontarvi o collaborare, di chi fareste il nome? A12 Per un soggetto collettivo come il nostro
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le collaborazioni vanno gestite con attenzione, perché i meccanismi della comunicazione ed i processi creativi funzionano seguendo schemi del tutto particolari e codici non immediatamente comprensibili ad estranei. Questo non significa che lo scambio con altri non sia di stimolo. Ad esempio con altri soggetti collettivi, come è avvenuto diverse volte in passato, soprattutto nei primi anni della nostra attività. Oppure con autori con cui condividiamo i medesimi temi di ricerca, magari affrontandoli da punti di vista differenti, o con professionisti strutturati ed organizzati, dai quali si ha sempre molto da imparare. Negli ultimi anni ci sembra che soggetti di questo genere si trovino soprattutto in area nord europea, dove spesso questi aspetti coesistono nelle stesse persone. E gli artisti?
A12 Con gli artisti è spesso
interessante parlare, perché di solito hanno un’idea molto precisa del significato profondo del proprio lavoro. Quando agiscono rispetto alla trasformazione dello spazio, lo fanno con un approccio del tutto differente rispetto a quello degli architetti, anche quando si servono dell’architettura per i propri scopi. Per noi, che spesso agiamo a cavallo di questi ambiti disciplinari, è piuttosto confortante riconoscere di non perdere la nostra identità di architetti. Come gruppo di architetti-amici ci consigliate un film, un disco, un libro, un sito internet?
A12 Parlando di libri… Noi ci siamo laureati con una
tesi collettiva. E come metodo di lavoro per costruire i nostri riferimenti, abbiamo messo in campo un sistema di catalogazione attraverso una serie di scatole: ognuno leggeva dei testi, scelti liberamente e che riteneva utili all’approccio generale, ne faceva una scheda molto semplice, in cui c’era però titolo, autore, un sunto, una frase topica, e la poneva nella scatola della categoria appropriata, ad esempio libri sul paesaggio. Pian piano le categorie aumentavano,
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Potete parlare brevemente di parole.org, dato che questo progetto in qualche modo riguarda il computer…
le schede aumentavano, le si definiva meglio, le si spostava da una scatola ad un’altra. In fondo si trattava di una Wikipedia ante-litteram… Abbiamo così raccolto tantissimi libri: e i libri che leggevi tu diventavano degli altri e viceversa… Ma forse c’era una scatola-biblioteca!
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In relazione a un progetto, avete mutuato ispirazione dalla musica o da un film? A12 Massimiliano Gioni, come direttore artistico
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della Fondazione Trussardi, alcuni anni fa ci ha chiesto un contributo per il piccolo libro Panorama Milano, fatto di immagini di Milano consigliate da architetti ed artisti. In quella occasione abbiamo scelto un’immagine tratta dal film Totò, Peppino e la Malafemmina: Totò e Peppino che, spaesati, chiedono indicazioni a un “ghisa” sullo sfondo della Galleria Vittorio Emanuele. Poi per il biglietto di invito per la festa per i 10 anni di gruppo A12 abbiamo scelto un’immagine della festa di Holly (ovvero Audrey Hepburn) in Colazione da Tiffany… Nel nostro immaginario, come in quello di tutta la nostra generazione, il cinema è una cosa importantissima e regolarmente discutiamo sui film che ci sono piaciuti o meno. Un’ulteriore conferma che le cose che condividiamo non sono monolitiche.
Usate ancora schizzo e matita per progettare? A12 Sempre e tantissimo come supporto al
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pensiero. Quando si fanno delle riunioni collettive all’inizio di un progetto, chi sviluppa il progetto deve potersi portar via da quella riunione non solo idee trasmesse a voce ma anche qualcosa di fisico che tenga ancorati all’idea condivisa ed al segno grafico. Anche se per noi il disegno a mano, come il computer, è solo uno strumento per comunicare e verificare l’idea progettuale, non disegniamo per amore del bel disegno o dello schizzo d’autore.
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Ormai è diventato una sorta di riflesso automatico a qualunque argomento uno debba trattare.
Come campate? E di cosa, naturalmente… A12 Solo negli ultimi anni il
gruppo ha iniziato a poter pensare di sostenere lo studio interamente con il proprio lavoro, parallelamente a gruppo A12 abbiamo quindi portato avanti attività professionali individuali. In qualche modo è stato un vantaggio perché all’inizio ha permesso di seguire progetti interessanti anche se non remunerativi. Gruppo A12 è stato tutelato dalla necessità di fare cassa, mantenendo una certa libertà nell’ambito della ricerca.
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Intervistando Bernhard Furrer, sovrintendente generale dei beni storici in Svizzera, abbiamo parlato di come gli architetti dovrebbero avere più potere anche a livello politico per riuscire ad intervenire profondamente nella realtà. 13
A12 E’ una questione un po’ complessa. Sicuramente
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in Italia la categoria professionale degli architetti non è potente come altre lobby. L’ordine professionale che ci rappresenta ha molte colpe in questo, perché negli anni, (probabilmente a causa del disimpegno della grande maggioranza degli iscritti) si è trasformato in un organo che gestisce le briciole di potere di chi ne detiene, invece che sforzarsi di tutelare gli interessi generali della categoria.
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A12 La prima cosa che mi viene in mente è Google…
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quanto noi siamo stati l’ultima generazione ad essersi laureata con i disegni a china.
tesi di laurea che aveva per tema gli strumenti di interpretazione e descrizione della città contemporanea e di cui faceva un glossario per definire e ricollocare tutte i termini che avevamo incrociato nell’indagine: avevamo un repertorio di un centinaio di termini. Chiusa la tesi abbiamo pensato a quanto questo materiale potesse essere realmente interessante, ed abbiamo continuato a rielaborarlo e svilupparlo con l’idea di trarne forse un libro. Quando Fuksas nel 2000 ci ha invitato a partecipare alla Biennale di Architettura di Venezia da lui organizzata, abbiamo così colto l’occasione per riaprire quel progetto. In quel caso la presenza di internet si è rivelata uno strumento straordinario. La collaborazione con Udo Noll, artista e web designer tedesco che avevamo conosciuto qualche tempo prima, è stata fondamentale perchè questo archivio di termini che definiscono la città si arricchisse di alcune valenze fondamentali come l’essere dinamico. Dopo “parole.org” dovete per forza segnalare anche un sito!
Che parte ha il computer nella progettazione, come vi influenza? A12 È uno strumento ormai indispensabile, per
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A12 Il progetto ha le sue radici ancora nella nostra
A12 Comunque probabilmente i libri a cui ognuno
di noi è più affezionato sono diversi… Giancarlo De Carlo potrebbe essere l’unico architetto che potremmo pensare di riconoscere tutti come uno dei nostri maestri. Non tanto per le architetture che ha fatto, quanto per il suo approccio al progetto e la sua concezione alta del mestiere dell’architetto, ma soprattutto perché cinque di noi hanno partecipato, in tempi diversi all’ILAUD (International Laboratory of Architecture and Urban Design) il laboratorio estivo che De Carlo organizzava in Italia, un’esperienza formativa importante ed intensa.
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Se corressimo veramente ai ripari non ci sarebbe il rischio che qualcuno si accolli esclusivamente questa responsabilità di interagire con il potere, con “ideali” solo economici, lasciando perdere l’idea di buona architettura?
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Perché abitare a Roma? Perché aprire uno studio in questo contesto? LG Primo perché è molto difficile non lavorare nella
A12 Porre la questione in termini di potere non è
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comunque un buon punto di partenza. E’ piuttosto un problema culturale. La condizione della professione in Italia, al pari delle condizioni disastrose del territorio, è lo specchio di una cronica carenza sul piano culturale da parte della classe dirigente. Probabilmente se la società esprimesse (come un po’ di più accade in altri paesi) un livello culturale più alto, più rivolto alla contemporaneità, ed una maggiore consapevolezza dell’importanza di gestire in maniera attenta la trasformazione dello spazio fisico, agli architetti sarebbe riconosciuto un ruolo più centrale. In Olanda ad esempio esiste una figura chiamata l’architetto del “gabinetto”, ovvero l’architetto del Consiglio dei Ministri il quale detiene un mandato, analogo a quello governativo, per sovrintendere allo sviluppo urbano dell’intera nazione e garantire, in quanto ritenuto di importanza fondamentale, che la figura dell’architetto (al pari delle altre figure professionali per i rispettivi ambiti di competenza) sia presente a tutti i livelli, durante un intero processo di trasformazione, non solo a decisioni già prese.
una serie di relazioni all’interno del territorio.
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propria città. Anche se io e il mio socio abbiamo lavorato in studi internazionali, io a New York da Peter Eisenmann, lui a Berlino da Max Dudler e poi da Fuksas sia a Roma che a Parigi. Se uno vuole aprire uno studio radicato al territorio, interessato ai problemi della città contemporanea, sicuramente la propria città è il luogo ideale. Dove è possibile sperimentare, agire, dove ci sono i primi contatti, dove puoi essere supportato da una serie di amici e conoscenze. È strano il fatto che noi IaN+ non si riesca ad integrarsi all’interno dell’università. A noi interessa insegnare per due, tre anni poi smettere, continuare a progettare, ricaricarsi e poi ricominciare a trasmettere agli studenti qualcosa. In Italia purtroppo si entra dentro l’università e ci si muore! Noi invece abbiamo insegnato in workshop a Seoul, lo scorso semestre alla Cornell University e prima ancora alla UPenn di Philadelphia: esperienze molto più brevi come workshop o singoli semestri ci consentono di avere degli scambi molto più attenti con gli studenti e di girare. Quello che per un architetto dei primi del ‘900 era il viaggiare, oggi è il muoversi da una scuola all’altra. Oggi le scuole sono dei connettori. Ci puoi descrivere Roma in tre parole?
LG È una città in cui vivere e
Roma, 11/10/2004 - h 15.00
lavorare è difficile. Allo stesso tempo non se ne può fare a meno. Camminare a Roma è quasi un ripercorrere la sua storia. Da un certo punto di vista è abbastanza pesante, da un altro molto stimolante. Essendo stratificata si può decidere in che strato viaggiare un giorno piuttosto che un altro. Io sono convinto che qui stia per succedere qualcosa. Purtroppo questo, tra architetti, lo si dice da dieci anni! Da un punto di vista professionale si ha il tempo di pensare, cosa che in altre città italiane, molto più legate al mercato, è difficile. Qui c’è un ritmo più placido.
IaN+
(www.ianplus.it), C.Baglivo L.Galofaro S.Manna, viale Marco Polo 121 - 00154 Roma (I), tel. +39 06 57300403
Massimilano Fuksas pag. 12,49 FOA pag. 65
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Francois Roche pag. 23,30,135-136
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Eduardo Arroyo pag. 25,66-67
Luca Galofaro …Questo [indicando la periferia fuori dalla finestra] è uno spaccato delle zone periferiche di Roma. Ci sono edifici residenziali, una strada a scorrimento veloce, i servizi nati dopo e dietro campi. C’è il parco dell’Aniene che però non è attrezzato. È interessante per le nostre ricerche lo stare in una zona periferica della città di Roma. Siamo a contatto con una realtà abbastanza difficile, per la mancanza di servizi, di attrezzature. Per un concorso vinto di recente stiamo realizzando quella che noi chiamiamo “microinfrastruttura” e con questo termine intendiamo un progetto capace di innescare
Cosa dice di voi il vostro nome? LG International Architectural Network Plus, dal
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’96. Allora già sentivamo quell’idea di rete di cui parla anche la vostra ricerca. Mi riferisco a questa nuova mente che nasce dal contatto tra le persone. All’inizio del secolo si doveva viaggiare per vedere le altre architetture, per conoscere le persone: i tempi erano estremamente dilatati. Oggi tutto si è compresso a tal modo che si può pensare ad un progetto e vederlo vincere un concorso una settimana dopo, per mano di un altro progettista. Una volta un architetto pensava determinate cose
Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,45,56, 58,61,62,67,70
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e magari solo dall’altra parte del mondo un altro lavorava allo stesso tipo di linguaggio: oggi la cosa è più diffusa e accelerata. L’idea di rete è sempre stata per noi importante: ci piace avere lo studio a Roma ed allo stesso tempo proiettarci all’esterno, in un clima internazionale. Parlo di Roma e della sua periferia ma i problemi della città contemporanea sono ovunque gli stessi. Il nodo che diversifica le varie situazioni è costituito dai tempi in cui si affrontano i progetti e in quali si propongono le soluzioni; basti pensare che lo sviluppo degli ultimi 5 anni di Pechino è paragonabile allo sviluppo degli ultimi 100 di Roma. Il mio ideale sarebbe avere uno studio che si muove per le città, come è successo allo studio FOA che ha spostato l’ufficio in Giappone per la costruzione del suo primo edificio importante. Penso che sia stato uno dei primi a rendere così itinerante il proprio studio. Il non essere localizzati in una città dovrebbe essere comunque la tendenza degli studi contemporanei.
forse meno codificato.
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più importanti della contemporaneità e non solo dell’architettura. Per esempio, noi e Francois Roche abbiamo linguaggi e un modo di affrontare l’architettura completamente diversi ma abbiamo la coscienza di lavorare sugli stessi temi. Avete nominato Eduardo Arroyo, un altro architetto con cui abbiamo ottimi rapporti avendo lavorato insieme per Hypercatalunia, una ricerca organizzata due anni fa dal gruppo Metapolis. All’interno dello studio, in una scala molto piccola, esiste lo stesso tipo di approccio. Noi siamo due architetti e un ingegnere proprio perché lavoriamo sul progetto di architettura al di là dei diversi livelli di competenze. Per riuscire a trasformare una struttura come la vogliamo noi, avere un ingegnere nello studio è importante perché diventa l’interfaccia con le imprese e dalla sua ricerca nascono nuove cose. Siamo una mente collettiva che sviluppa diverse sensazioni. Vi siete formati come gruppo per un unità di intenti?
LG Hai detto bene, unità di
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intenti. È l’unica cosa che ci accomuna veramente. Veniamo da esperienze diverse, da un diverso modo di fare architettura, è come se in studio avessimo perso il nostro io di architetti. Facciamo grande fatica a fare i progetti IaN+: in questi anni ci siamo sforzati di lavorare in una direzione comune e formare un linguaggio e un modo di lavorare nuovi per noi. Molto spesso nei nostri progetti leggiamo un senso di inconpiutezza che è allo stesso tempo una debolezza e un punto di forza, perché lentamente genera un linguaggio
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A che gioco state giocando?
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professioni in cui si guadagna poco. Di solito l’architetto felice è quello che nasce già ricco: non ha problemi, apre il suo studio, lavora, si diverte e mantiene la sua ricchezza o se la mangia nel corso degli anni. È comunque un gioco che mantiene mentalmente vivi perché vi si deve inseguire continuamente l’idea di creare degli oggetti e di entrare con questi in un dialogo con delle persone che non si conoscono ma che dovranno comunque vivervi. Uno scrittore per quanto può essere bravo fa un lavoro auto-riferito a se stesso in una triade composta da lui, dalla sua opera e dalla gente che la guarda e reagisce. In architettura, tenendo in considerazione che qualcuno vivrà lo spazio, non si può essere così completamente liberi… In questa ottica la nostra architettura tende a non influenzare il sistema di vita ma a farsi influenzare da esso. Ci ritagliamo sempre uno spazio ogni anno per due o tre concorsi teorici solo per riflettere. Ne abbiamo vinto uno sulla casa del futuro ripensando in chiave contemporanea una tipologia che esiste da secoli: la casa tradizionale cinese con il doppio patio così come la casa romana. Abbiamo preso uno stile di vita che sta cambiando e l’abbiamo fatto entrare in interferenza con una tipologia classica e poi osservato come possa cambiare questa tipologia. Altri architetti hanno fatto cose accartocciate, grandi bolle gonfiabili, tentando di influenzare il modo di vita delle persone. Il nostro lavoro all’opposto riflette su come lo stile di vita determina il cambiamento di una forma vecchia e passata.
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Puoi dirci 4 nomi di architetti italiani che hanno inciso nella vostra formazione? LG Massimiliano Fuksas per il suo lavoro e per come lo fa. Ha viaggiato, ha avuto successo all’estero per poi tornare a casa. Per Roma non può che essere un architetto estremamente importante. Un architetto a cui io sono particolarmente legato, poco conosciuto pur avendo costruito tanto, è Luigi Pellegrin. Poi direi Adalberto Libera ed il gruppo di razionalisti che risiedeva a Roma...
E 4 nomi di architetti internazionali? LG Un’italiana scappata da Roma è Lina Bo Bardi,
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trasferitasi in Sudamerica dove ha costruito la sua professionalità. Abbiamo conosciuto il suo lavoro tardi ma è un riferimento importante. Personalmente Peter Eisenman, un architetto per cui ho lavorato e che mi ha insegnato molte cose sul pensare l’architettura e la contemporaneità. Poi Rem Koolhaas per l’approccio, per lo studio e per come affronta i progetti.
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città
LG Fare l’architetto è un gioco. È una delle
Come lavorate in gruppo? Siete una mente collettiva? LG Il discorso della mente collettiva è uno dei temi
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Artisti? 3-5
LG Gordon Matta Clark, quasi senza pensarci,
e Olaffur Eliasson, nostro coetaneo. Lavora nel confine tra arte e architettura, negli ultimi due anni ha prodotto cose estremamente interessanti. Poi tutti i land artist degli anni ’70 che sono usciti dagli studi, sporcandosi le mani con il paesaggio e la città. Ci puoi dire un libro, un disco, un film, un sito che vi piacciono, interessano o vi hanno stimolato?
Come tirate fine mese? LG Questa è una domanda fantastica!
LG Rispondo personalmente.
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Un regista: Almodovar che è riuscito a raccontare la città in un modo come forse solo Fellini ha saputo fare in passato, aggiornando il proprio linguaggio. Uno scrittore italiano che amo molto per il suo lavoro divulgativo è Alessandro Baricco. Specialmente quando lavora al limite tra letteratura e divulgazione. Sarebbe importante ci fosse un Baricco dell’architettura! Cioè un architetto che riuscisse a raccontare l’architettura alla gente comune senza lasciarla descrivere dalle immagini dello star system. Per il libro… Tutte le opere di Bruno Zevi sono importanti proprio per il voler comunicare l’architettura e lo spazio architettonico alla gente comune oltre gli architetti.
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LG Prima l’università: com’è e dov’è. Ogni università,
Hai in mente una colonna sonora per gli IaN+? LG Negli ultimi anni abbiamo sempre avuto un cd
che diventava il tormentone durante i periodi di concorso. Se dovessi fare una selezione musicale sceglierei una top ten degli ultimi vent’anni di musica. Una compilation, non un disco preciso! 4
Vi interessano città, comunicazione e architettura? Perché?
Gordon Matta Clark pag. 60 Olaffur Eliasson pag. 33,67 AllesWirdGut pag. 34-37,54,62
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Ci interessa la città perché è il luogo dell’architettura. Sono convinto che oggi gli architetti cerchino un luogo “azzerato” ed un confronto diretto soltanto col paesaggio e non con i milioni di informazioni e di stimoli che vengono dalle metropoli. Trovo sia estremamente importante la comunicazione anche se ha un po’ appiattito l’architettura degli ultimi anni. Oggi si rincorre la pubblicazione. Luigi Pellegrin ha costruito 150 edifici ed è uscita una sola monografia dopo la morte che raccoglie tutto il suo lavoro. Al contrario noi avevamo un solo progetto in cantiere ma stavamo già pubblicando. La comunicazione è diventata anche un modo di fare ricerca. È un modo di divulgare il lavoro, di avere il feed-back necessario a far ripartire le idee.
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Come usate il computer? Influenza il vostro lavoro?
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LG Abbiamo pubblicato un saggio sull’uso del
anche le più criticate, come le italiane, forma e bene. Però bisogna avere la forza subito dopo di andare all’estero e sacrificarsi. L’altra cosa fondamentale è prima o dopo questa pratica, provare un’esperienza universitaria che sia un workshop o un corso di tre mesi in qualche università straniera per capire le differenze con il proprio paese ed aumentare i propri contatti. E poi fare concorsi. Speravamo dicessi anche fare interviste!
LG Ci interessa l’architettura per giocare.
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“Con molti debiti” è la risposta. Un altro dei grandi segreti dell’architettura è fare debiti. Fare molti debiti e riuscire a tamponare il tutto. Si deve risparmiare su tutto ma non sull’architettura, non sui modelli, non sulle stampe. Per una prospettiva ne stamperemo cinquanta prima di quella definitiva, all’opposto risparmiamo sulla posizione dello studio all’interno della città. Per quanto riguarda i ragazzi che lavorano con noi, i nostri sacrifici sono anche loro. Non possiamo coprire economicamente gran parte delle spese ma ci concediamo totalmente per insegnare una professione e tentare di fare quello che non ha fatto l’università: svelare i trucchi del mestiere. Come deve essere oggi la formazione di un architetto?
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digitale nel mediterraneo. Il libro è uscito per Birkhäuser e rispondeva allo strapotere che avevano gli americani in questo campo. Per loro il computer è una macchina astratta che permette di creare nuove forme. Sono convinto che nell’area mediterranea, l’uso del computer sia diverso, sia un modo di pensare, uno strumento che amplifica certe sensazioni. In realtà il computer non è qui un sistema che influenza direttamente il modo di lavorare.
LG Lavorare alle pubblicazioni mette insieme tutto questo. È un altro modo di studiare, invece di andare all’estero. Io ho fatto un master molto breve negli Stati Uniti ma ho continuato a scrivere per passione. Perché mi piace, lo faccio di nascosto per conto mio. Solo ora sta diventando parte del mio lavoro in IaN+.
Dobbiamo sempre ringraziare gli editori stranieri di questo. LG Bisogna sempre ringraziare gli editori stranieri,
poi Bruno Zevi e la sua L’universale di architettura, che è stata uno strumento fantastico, e qualche piccolo editore italiano. Ora sto cercando di convincere Edilstampa a editare una collana dedicata a giovani studi italiani. Ci sono studi italiani bravi ed interessanti non pubblicati ed
Biennale pag. 22,47,49
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LOVE arch. + urb.
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è giusto che abbiano palcoscenico in Italia non solo editorialmente. Nel nostro caso abbiamo fatto conferenze in tutta Europa mentre a Roma mai. È incredibile no? Siamo qua e le faremmo pure gratis!
It’s really interesting to speak with other offices in this way, to improve your conception of architecture and to find new ways to define architecture.
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Why do you remain in Graz rather than moving to another city?
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città
collaborazione
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MJ That’s a really good question, because we are
Graz, 25/08/2005 - h 15.00
debating that point very strongly now.
Are you doing some marketing analysis? MJ Right. We founded a special company for that.
We took it out of the architectural company.
MJ Yes, 9-15
(www.love-home.com), B.Schönherr H.Kleinhapl M.Jenewein, HansSachsgasse 8/2 - 8010 Graz (A), tel. +43 0316 810106 Do you usually work alone as a studio or do you collaborate with other offices and people, such as artists?
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Mark Jenewein Yes, we cooperate with studios, not that much with architects but with partnerships. We have strong partnerships with engineers and other consultants. For example, we are in a network we helped to set up called the Delta Solutions. That’s a network of twelve companies at the moment. One is an engineering office, one does statics, one consults for hotel groups, and one specialises in light and entertainment technology. So we try to cooperate not with other architects but with companies that bring us some stronger energies. For example, there is a company in Europe which is a specialist for wellness facilities and spas. We think that’s a trend and that in the future there will be really large investment in the wellness industry, for example. So we try to cooperate with people to enter new markets, to have better chances to explore these new markets. And I think it’s not only necessary to cooperate with architects, which is good for your mind and your intellectual basis and is our core interest of course. Making architecture keeps us ticking. But I think, if we talk in business terms, it’s much more important to cooperate with other companies which offer you opportunities on other markets. So that’s quite important for us. Of course we worked with the AWG last year for the Biennale. They were invited and then they invited us. That’s where we know each other from. But that’s something else. That’s a focus on architecture and architectural problems and architectural philosophy.
we separated it, because it’s very tough to communicate that you are an architectural and a marketing company. People don’t believe that. And it’s also got some financial reasons, considerations of responsibilities and so on. So it makes sense to split it off. So the LOVE group – it’s now a group, it’s not only an architectural office anymore – consists of LOVE architecture and urbanism and Brandfield built identity development. So these are the two companies running this space here. I think you have to make it clear to people what you do and why you do it and who is a specialist for what. Because it’s easy to say I’m a marketing specialist. That’s really easy. Anybody can do so, anybody can open a marketing or branding company. I think we deepened our knowledge, though, through education and study, and we felt we should make that clear.
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editoria
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How many staff work in your office? MJ Oh, it changes a lot. But it’s in between 10 and
20, it’s changing all the time.
How is the work going at the moment? MJ Right at the moment it’s a bit slow, but there are
two really interesting projects coming up. I hope they will start this year. Another one, one of our biggest, is a shopping centre in Salzburg. The area is about 30’000 mq, that’s quite a fine project, I think. How do you “sell” your project and how do you speak about your project, in relation with your experience with marketing?
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MJ I think these are completely different things. It’s problematic for young offices to build, generally. Because clients put a lot of money in a project and rarely believe in somebody who has absolutely no experience. And that is of course a really big problem. It’s not only thinking about architecture. People want to know that their money is safe. That’s the main problem when you are young: how you can
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concorsi
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Did you separate it?
LOVE architecture + urbanism
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prove that the client’s money is in the best hands if it is with you. That’s really problematic.
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In Italy, we have a similar problem. If you can’t demonstrate that you have already built something, you can’t participate in a competition.
AWG told us that they are only interested in buildings and not in paper projects.
MJ In Austria, Germany, and everywhere it’s the 4
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same. If you want to be invited for a competition for a museum, you have to have built 3 or 4 museums already. That makes you really pissed off, because you never get the chance to try for these opportunities. So there is no place for experiments and you have to prove that your work is good, and that people can believe in you. That’s the problem for young people. I don’t think that there’s a problem of having or not having a marketing company. I think that’s a secondary question. It’s not the core point.
MJ I think that we are producing so much paper and 12
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Could you speak a little bit about the strategy you developed to deal with this problem?
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and one of our strategies was of course to cooperate with older companies, settled companies, companies people believe in. Because we can bring them new ideas, fresh ideas, we understand young people, we understand young markets and all these things which settled companies do not know. They copy other people and other things, you know; they are good in business but not really good in innovation. And that’s the synergy between us. We bring the innovation and they bring the knowledge. I think that’s quite a good point, even if you have to compromise very often; I think it’s a good way to enter the field of building. If you do not build, you will never build. Do you think architects can really deal in innovation? Do you think there is a relation between architecture and innovation?
MJ First of all, Graz happened. It wasn’t a real
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MJ I think architecture, as I understand it, is one of 13
the most innovative markets ever. But that’s the big problem for people who just want to have a house or an office building or I don’t know, because they always think, “Okay, these guys are dreamers, they are crazy. I do not want to do business with crazy people“. So it’s really tough to prove that innovation and pragmatism can work together. I think that’s the balance you have to show as a company, if you want to build.
decision in the end, but it happened. My partners and I studied here in Graz university, we met each other here in Graz, we have our families here, our private life, our hobbies and all that stuff. One day we decided to run an office together and it was of course in Graz, because we have networks here, friends and so on. For us there was no question of going somewhere else. But right at the moment we’re considering opening a second office. We are doing intense research on where to go. Everything is possible. It’s possible to go just to Vienna, the biggest city in Austria. But it’s also possible to keep the Graz office and make the second one in Miami or Singapore or something like that. But you have to have a job in a way. The advantage of Graz is that it is really cheap. So you can run an office with low costs. Vienna is 30-40% higher. That’s money you have to have, of course. The negative point of course is, that here you are more or less in suburbia and nobody recognizes you. The cultural capital year of 2003 in Graz was really nice for us. Suddenly Graz became known. Before that many people thought Graz was in Switzerland! That’s really strange. I think that’s Europeans don’t learn enough about geography. The same happened with Genova while it was cultural capital in 2004. Can you tell us something about Graz?
People need to see or to live in a new building to understand it. It’s difficult for common people to understand how a project will be from drawings or a presentation. Yes. If you think for example of AWG, they had that phenomenon too. They made crazy pictures of villas and now these projects are realised. And people like them. People
so few houses. I’m not really interested in paper as well, but I think every design you make, every drawing, every competition you take part in, is some kind of research process. Sometimes you are lucky, but most of the time not, even if you talk to clients directly, not through a competition. We made this business plan for our office and analysed how much we invest in which things, and if you call paper work research then it’s about 58% of all the work we do here. The rest is building and it’s our core profession in the end. And every young office works more or less like this. But coming back to the former question, why Graz? Is it a good place to work? How is the city?
MJ We were also victims of these circumstances 2
cannot really imagine a plan or a model or an image. They have to see it, they have to touch it, they have to feel it.
MJ Graz is a university city,
MJ
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so there are lots of students around. Graz has about 250’000 inhabitants, so it’s a really small place. We had some famous architects at the university, Die Grazer Schule. Not anymore, of course, but it’s still there as a brand. And it is a really strong brand, so there are a lot of students here. And we have a really, really high
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density of architectural offices. It’s unbelievable. I think there are more than 300 architectural offices in Graz. That’s more than pharmacies, that’s crazy! The market is really saturated. It’s unbelievable, because the biggest problem with architects is that there are too many. It is so easy to live and have an office. Because you don’t need anything, just a computer and a sleeping room somewhere and you can have an office, that’s all.
around and trying to do a good job. What do you do at the beginning of a project? Do you search for an image or a concept? MJ For some projects we were first invited as a 13
Why did you choose LOVE as the name for your studio? MJ We think “love” is the biggest word in the world.
You don’t have to write songs anymore about it, the market is finished and all that stuff. And it’s a word you remember and I think it’s a statement. But maybe in another way than many people may think. It’s quite ironic, because you are so serious in a way, you do marketing, trend analysis, and so on.
MJ But we drink, too... Seriously, I think “love” as
a name is a really positive word. Sometimes I get a little bit fed up, because now it’s a trend to call everything “love”. But when we started it was not like this. For example at the moment McDonald’s connects “love” with their burgers and Mini Cooper connects “love” with their cars and there is a big TV station in Germany called Pro 7 with the motto “We love to entertain you.“
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MJ We founded it in 1999.
What do you think about the concept of collective mind?
always more or less like this. At times we have been very pragmatic, thinking very carefully about what we do and how to analyse and create better connections in the world and at others we have just let go and tried to be artists. I think these two sides need balance each other.
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do not have a strategy for keeping us enthusiastic. Sometimes you are doing well and thinking, great, it’s really working and the project becomes good and sometimes you think, what shit! 11
building and, as I mentioned, sometimes architecture becomes architecture because the people who do it are architects. That means they are some kind of an artist. But sometimes architecture becomes architecture because buildings have a special task and if you think with the right marketing idea, you can explore new worlds. The more you go forward with this intellectual thinking, the more it becomes one big thing. A building is something general. It’s not a piece of art anymore, it’s a general intelligence. If you look for example to Las Vegas, all these buildings are really clever done, it’s unbelievable, they follow a few rules and it works like a machine. It’s a really important topic to think about the communication process and the marketing process.
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MJ Because it is interesting to think about a task of
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architecture. But there is nothing written in words, like a vision statement or something like that. I already mentioned that architecture keeps us ticking and that’s enough as a philosophy in a way. But it’s not as straight as many others have it. It’s like floating
MJ It’s important knowledge, but the results are not always as exciting as if you use experimentation. Because you are going step by step, proving everything: you have to finish stage one, two, three and four and then in the end there’s a building. That’s so clear and you can communicate very precisely, but it’s sometimes too… all the enthusiasm gets lost in the process. Not every time but often. So I think it’s really important to do experiments and have research to stay enthusiastic.
Are you interested in architecture, city and communication? Why?
MJ Exactly, that is what we do. But of course it’s
MJ The core target is of course to make fantastic
concorsi
MJ Not really. I think the enthusiasm is just there. We 8
I think it’s really interesting to speak with you about this, because you are working in this direction. Not from an artistic point of view, but from a really pragmatic one.
In your way of working as a group, is there a common task which all of your group share?
4
This way, what’s the game are you playing? Is there a ludic component in your work?
MJ I think it’s a core thing to create such a network
of knowledge and intellectual opinions.
collaborazione
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marketing company. For example at the moment we are doing research about the wellness industry for one of the biggest hotel groups in Germany. They have 90 hotels. And they invited us to develop a marketing concept for wellness facilities. They want to establish one big brand of wellness and hotels. So we bumped from that side into the job and now we are starting to become more and more architects. You can start a project from completely different points. Some of them begin with research and intellectual guidelines, others, competitions for example, with experiments, drawings and some pieces of polystyrene and you see what happens. Is marketing a way to get knowledge?
How old is the studio?
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just to see the dead Pope. Maybe we should think about that in our times.
During the project process, what is important to communicate to the client?
Could you suggest us 4 international and 4 national names of architects or artists, in which you are interested?
MJ It’s important to communicate that you can
achieve results, and there are some milestones you have to reach as quickly as possible. One is to get the “okay” and another is to have cost calculations, which should be really well done.
MJ One of course is Rem Koolhaas, no question for
me. He is one of the most important thinkers about architecture of our time. Joost Meuwissen, a Dutch guy, not that international, has an office called One architecture; he’s professor in Vienna right now, he was in Graz in former times, a very intellectual guy, really brilliant. Sejima I really like, I ordered one of her book yesterday, and I like these old guys of course, Schinkel for example, we look in these books more often than often. In Austria I really like Coop Himmelb(l)au at the moment, because I’m fascinated by their biography even if I’m not that impressed by their architecture. Who I really like in Austria is SPLITTERWERK. I like their work. Maybe it’s because they experiment in the same area as we do. So you have somebody to go to battle with. But I think they make really good architecture. They impress me because their work is very consequential.
Do you have meetings with clients? MJ Yes, of course, all the time. It depends on the
stage of the project, but in bigger projects, like the shopping centre, there is a big meeting with 20 people every 10 days. How much do you get from a client in terms of suggestions or ideas?
MJ It depends. If you are lucky, you and the client
become a team, then it’s fantastic, or if you are unlucky and you don’t become a good team, then it’s really hard work. So it depends. Sometimes during the process the leader changes and the whole project changes. There is not a simple thing you can say about this, because it’s always different.
How do you work with the computer?
You have a chief project manager for every project. Do you have several meetings among yourselves? MJ We are a team; we are 4 partners at the moment.
MJ We do not have computer freaks in our office. 3
There is the chief for the project; he is responsible for that project.
What kind of programs do you use? MJ The standard stuff, ArchiCAD, AutoCAD,
This is quite the normal structure.
CorelDraw, Photoshop and all that stuff. I do not really know these things because I’m not really a computer user. Some people are good on the computer but we are not...
MJ Everything else is too expensive. It isn’t possible
to have all capacities in one project, you can’t finance it. And the financial situation is of course tough in every project. Can you tell us a title of a book, a movie, an internet site, a soundtrack which you like to read, listen to or look while you are in office?
MJ That’s different, because I do not watch so many
Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 58,61,62,67,70 Kazuyo Sejima pag. 37,65,70 SPLITTERWERK pag. 77-80 The nextENTERprise pag. 34,35,37,73-87 Cliostraat pag. 60
movies. The last time I was really fascinated was about the death of the Pope. That was something really fascinating. I was really impressed. I think that was the biggest thing that happened last year. What did interest you so much?
MJ It was such an impressive
scenery production. And I think it was really perfectly done, absolutely unbelievable. No movie can do that, I’m sure. And it was honest, and that’s what I liked. Of course it was a marketing show in one respect but on the other hand… I mean 10 million people become pilgrims and go to Rome, from Argentina and everywhere,
It’s just a tool, it’s not an experiment.
What do you think about architecture schools? MJ I think you need an education to know what you 7
do. And I think there are good places to get that knowledge and there are bad places. Right at the moment I have to admit that Graz is a lousy place to study architecture. For example I was in Holland for almost half a year and I really liked that students talk intensely about architecture. At a really high level. In Austria it’s more introverted. How are you finding the economic situation at the moment? Do you earn enough?
MJ We do not have extra jobs, of course it’s
sometimes not easy but it works. Architecture is nothing you can become rich with. For you it isn’t that important because you are branded and specialist. You get money from those you work with.
MJ Yes, but you have to try to find contracts. If you
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work more in a theoretical way it’s much harder.
sono entità individuali, invece a Roma ci sono più gruppi. Per esempio ieri ho incontrato i Cliostraat di Torino e mi raccontavano appunto di come al Nord ci si incontri pochissimo tra studi.
We spoke with the next ENTERprise and because they don’t have that much money from clients they are looking for research subsidies from municipalities.
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Roma, 13/10/2004 - h 18.00
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done, because they have really a lot of money from municipalities for doing research. In Austria you almost get nothing. Right at the moment in Vienna they have a special program that supports artists financially. In Graz there’s no chance to get a dollar from anyone. I think research is really important because, if you think as an architect, it’s not only important to be commercially or financially successful.
AI Da un lato non mi verrebbe da parlarne bene. Paradossalmente perché è una città in cui è molto difficile fare architettura. Anche le amministrazioni più illuminate credo non abbiano ancora raggiunto una capacità di relazionarsi alla città con una attitudine progettuale avanzata. A Roma si fanno pochi concorsi e solo su aree ristrette. Non c’è un vero dibattito sulla città. Da un altro punto di vista è invece una città eterogenea ed imprevedibile. Per fare un esempio, lavorando anche con il gruppo Stalker, abbiamo occupato una palazzina dove con dei rifugiati curdi invitavamo musicisti, architetti ed artisti ad intervenire in questo luogo. Ci sono molte attività diffuse nella città, di produzione culturale autonoma e non istituzionalizzata…
A.Iacovoni K.diTardo, via della fonte di Fauno 2a - 00153 Roma (I), tel. +39 06 5744829 Perché Roma?
Alberto Iacovoni Io sono romano, e per me la risposta è semplice anche se ho lavorato a Parigi per un anno e mezzo. Sono comunque tornato perché mi piace molto la città e perché qui a Roma c’erano delle relazioni sviluppate durante il periodo dell’Università con persone con cui già collaboravo e con cui volevo continuare la collaborazione. Luca la Torre Io non sono di Roma però vi sono arrivato dalle Marche per fare l’Università. A quel tempo ho cominciato a conoscere Roma e a guardarla sotto aspetti diversi. Ancora non mi ha stancato ed anzi continua a produrre quello che per noi è un specie di network, una rete di frequentazioni ma anche di occasioni per sviluppare il proprio pensiero in architettura.
Forse più che “perché Roma” è meglio chiedere “perché rimanere a Roma”? AI Con altri gruppi parlavamo di come Roma sia ora, per gli architetti che vi hanno sede, una città vitale in fermento… Essenzialmente, in altre città d’Italia gli architetti
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Questa inerzia ha a che fare con il passato di Roma? Per un architetto costruire a Roma significa sempre avere un confronto con la storia. LlT L’immagine di Roma è quella che è, anche se, in verità, Roma è una metropoli dove si è costruito tantissimo ed ovunque al di fuori degli influssi della città storica, una metropoli dove si è costruito con disattenzione e con grande banalità. A Roma però bisogna fare attenzione a molte cose che non provengono solo dall’antichità classica o dal Rinascimento. Ci sono state altre meravigliose stagioni di sperimentazione e costruzione: nel secolo scorso, dagli anni ‘50 fino agli anni ’60, grandi parti di Roma sono state costruite sperimentando attentamente sia nell’edilizia ricca che in quella
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LlT Roma ha una grandissima inerzia; come se tutto quello che si muove qui avesse una quantità di massa tale da rendere impossibile deviarne o incanalarne gli spostamenti. Da qui l’impressione che ho ogni volta che l’aspettativa per una nuova amministrazione o per grandi progetti capaci di incidere veramente su quello che la città rappresenta. A Roma non si assiste da tempo a una variazione rispetto al suo avanzare inerziale e caotico. Ciò fa sì che, vivendovi e lavorandovi, c’è anche la possibilità di adagiarsi, di farsi trasportare da questo flusso. AI Anche le università, le università più grandi d’Italia, e le istituzioni culturali che qui hanno sede come la DARC (Direzione Architettura Contemporanea), stanno cambiando molto lentamente. La DARC è lodevole, ma se paragonata ad altre città europee è abbastanza deficitaria.
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Sembra che Roma sia una città che risponde poco agli stimoli.
ma0 (www.ma0.it), M.Ciuffini L.laTorre
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Potreste definire Roma in breve?
MJ For example in Holland they do that really well
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economica. AI Aggiungerei un’ultima cosa: spesso si pensa a Roma con parole tipo “perché nel centro storico non si può mai fare niente”, io non credo sia importante fare qualcosa nel centro storico: è una parte della città che già funziona, al massimo vi si possono fare dei piccoli interventi. Il problema reale è il patrimonio contemporaneo di Roma, sul quale purtroppo non si riesce ad applicare la stessa logica che ha prodotto la città storica, quella serie di aggiustamenti successivi, di modificazioni passo dopo passo che hanno creato Roma e il suo aspetto apparentemente disorganico.
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Ci potete parlare dell’occupazione anche in base ai vostri rapporti con Stalker…
Cosa dice di voi il vostro nome?
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Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 56,61,62,67,70 Stalker pag. 22,57,60,80-83 2A+P pag. 21-24,48,60 m28 pag. 22 IaN+ pag. 23,50-53,60,65
AI Il nostro nome è un po’ un gioco… MAO era il Movimento di Architettura Occupata: nel 1990 c’è stata un’occupazione durata molto tempo, 3-4 mesi, e in questo periodo scappò una pantera nera che vagava per le campagne romane. Allora c’erano due pubblicitari, credo, che ad un certo punto si inventarono lo slogan “la pantera siamo noi” con il logo della pantera che poi donarono al movimento… Alla facoltà di architettura qualcuno si era inventato un fumetto dove un micetto nero faceva mao, appunto… Qualche tempo più tardi stavamo scrivendo un documento di presentazione del nostro lavoro di tesi, un progetto di densificazione per un quartiere di edilizia economica popolare in Roma, ed in quel momento ci capitò tra le mani anche il lavoro di Koolhaas su Amsterdam che più o meno riguardava lo stesso tema. Eravamo così diventati MAO, Metropolitan Architecture Office anziché Office for Metropolitan Architecture. Infine siamo diventati ma0 (emme a con lo zero finale) un po’ perché MAO sembrava poco serio mentre ma0 dal punto di vista professionale sembrava funzionare di più. Poi questa cosa ha coinciso anche con un momento in cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione sui media: insomma m per Media, a per Architecture e zero per Office. Sinceramente non sappiamo più cosa significhi questo nome… I nomi però ce li si attribuisce ad un certo punto e poi ce li si tiene: ormai non possiamo rinunciarvi, gli amici ci chiamano MAO e in campo professionale siamo conosciuti come ma0.
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Come funziona per voi il lavoro di gruppo? LlT La nostra architettura travalica i confini dello 15
studio. È un attitudine che ci piace riproporre di continuo cercando di espandere le possibilità di confronto e di elaborazione. Questo studio è nato da un momento di grandissima condivisione politica, all’interno dell’Università durante l’occupazione, e anche da un’idea di voler riformare l’architettura in generale.
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LlT Nel nucleo di ma0 siamo in 4, noi due, Ketty Di Tardo, che al momento è a Bari per seguire i nostri
AI Questa è stata un’esperienza importante… Dovete immaginare che per 3 mesi abbiamo realmente gestito l’università: abbiamo dovuto mettere in discussione la didattica… Ma è stato anche un laboratorio artistico da cui sono nati legami molto forti. Credo sia stato fondamentale mescolare architettura con etica e politica. L’esempio di Stalker è molto significativo da questo punto di vista: tutto parte nel 1995 con un giro di Roma di 5 giorni attraverso tutte le aree abbandonate. L’università in quel momento non riusciva più a darci degli strumenti per interpretare la città. Stavamo uscendo da una università in cui si spegneva la carica sperimentale architettonica italiana degli anni ’60. Fondamentalmente c’era un apparato educativo che non funzionava più, ma da lì si è generata un’attitudine comune che poi abbiamo diversamente formalizzato. E’ questa l’attitudine che molto spesso ci ha portato alle collaborazioni: l’ultima cosa che abbiamo fatto è stato un workshop su Corviale, coordinato da Stalker con una entità promotrice più ampia che si chiama Osservatorio Nomade al cui interno eravamo anche noi, 2A+P / nicole_fvr, un gruppo che si chiama m28 e altri ragazzi dell’università. Questa idea di mente collettiva a Roma, ma non solo, esiste anche se siamo tutti molto diversi. Per noi è fondamentale per riuscire a collocarsi nel mondo e per avere un proprio approccio critico: in questo senso anche le differenze nelle esperienze - Stalker per esempio non fa architettura progettando ma lo fa lavorando sulle relazioni o sulla percezione dello spazio mentre gli IaN+ invece sono più architetti mostrano la complementarietà di tutti questi punti di vista e veicolano una comprensione della città più vicina alla sua complessità non lineare. LlT Se uno pensa come effettivamente l’approccio sia politico, all’origine, si capisce immediatamente come allargare i confini dello studio sia quasi una necessità: è impossibile supportare da soli un approccio politico alla città o all’architettura.
Cosa dovrebbe cambiare secondo voi nell’Università?
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Quanti siete?
cantieri, e Massimo Ciuffini, che lavora a Perugia dove ha uno studio indipendente di ingegneria. Occasionalmente convergiamo per concorsi o lavori comuni. Si può dire che qui di base a Roma siamo in 3.
AI Io penso che dal punto di vista dello studente l’università si sia sicuramente molto snellita, modernizzata, anche aperta… Un fenomeno fondamentale è Erasmus, che crea incredibili reti di conoscenze internazionali. LlT Erasmus mette anche a confronto i grossi
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carrozzoni universitari italiani e tutta la loro inerzia accademica con strutture estere che questo tipo di inerzia non la vivono. Gli istituti universitari vengono messi in discussione, anche perché gli studenti Erasmus rispondono in maniera diversa rispetto a quelli stanziali. AI Invece il funzionamento del dottorato è un processo lunghissimo all’interno dell’università: richiede di essere benestanti, per i numerosi anni che occupa… È un problema grande che poi si riverbera sulla didattica e sulla qualità dei corsi… LlT Pensando all’università romana, negli ultimi tempi la didattica si è comunque aperta a contributi esterni ed internazionali... A che gioco state giocando? Ci sono componenti ludiche nel vostro lavoro?
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LlT È una domanda pertinente al nostro gruppo… Gioco come struttura di relazione… AI La parola gioco è in questo momento un po’ la nostra ossessione. LlT Alberto ha proprio scritto un libro sul tema. Diciamo pure che il nostro approccio al progetto in generale, anche guardandoci indietro, è legato al concetto di gioco. AI Facciamo un po’ di pubblicità al libro: si chiama Game Zone (Birkhauser 2004, Edilstampa 2006), ed è stato un’occasione per mettere insieme la nostra esperienza con un percorso attraverso l’architettura degli ultimi 40 anni, cercandone le contaminazioni tra architettura e gioco. La domanda “a che gioco giocate?” potrebbe avere, secondo me, due risposte: una potrebbe riguardare il modo in cui si progetta, un’altra il progetto stesso. Parlando della produzione del progetto, è abbastanza chiaro che nel nostro modo di lavorare c’è sicuramente una componente ludica, la volontà di giocare con l’architettura stessa, in qualche modo giocare con quelle che sono le sue certezze. Per quanto riguarda invece il lavoro sull’architettura, occorre una digressione storica. La cultura universitaria in cui siamo cresciuti è una cultura che dopo il funzionalismo e tutte quante le sue derive ha attraversato il momento del ritorno alla storia e del rapporto con la città. Anche quello è stato un fallimento, o almeno l’abbiamo percepito come tale, e da lì siamo partiti come una generazione senza maestri. In seguito lo sviluppo dell’architettura degli ultimi 20 anni, di cui subiamo pienamente le influenze, non è riuscito comunque a dare risposta a certe esigenze di carattere politico, etico. Questo preambolo è per dire che questo interesse per il gioco è fondamentalmente un interesse per tutte quelle architetture che vengono contaminate dalla vita dei suoi abitanti cioè dal gioco nel senso di “play” (il termine inglese è più chiaro perché parla proprio dell’aspetto performativo del gioco. Immaginatevi quindi che l’architettura sia in fondo
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un sistema di regole che disciplinano usi e rapporti tra gli spazi che costituiscono esattamente qualcosa di simile ad un campo di gioco). Noi cerchiamo quindi di vedere l’architettura in questo modo e capire come ogni modificazione dello spazio cambi le regole del gioco, cambi i rapporti tra gli spazi, tra le persone. Pensiamo ad un sistema che in fondo non è uso, non è funzione, non è percezione ma fondamentalmente tutte e tre queste cose insieme. Se si cambia punto di vista e non si parte più da un’architettura che ha un proprio linguaggio stabilito, ma si cerca ogni volta di metterla a nudo e di portarla a delle osservazioni elementari, ci si rende conto improvvisamente di quale sia stato uno dei grandi problemi dell’architettura dell’ultimo secolo: volersi confrontare con una realtà che è impermanente, mutevole. Penso che stiamo giocando ad un gioco un po’ contro l’architettura, perché ne mette in discussione l’essenza: se l’architettura è di per se statica, principio ordinatore, se l’architettura è un sistema molto spesso organizzato dall’alto, noi stiamo cercando invece di lavorare ai limiti di questa sua condizione: non riusciremo mai a fare un’architettura completamente restituita agli abitanti ma nonostante questo il nostro gioco sta nel capire fino a che limite si può spingere la plasticità dell’architettura. LlT Il nostro gioco sta nell’aprire le regole dell’architettura, nello sfumarle, nel cercare di capire di volta in volta in che maniera si possano stabilire dei dispositivi, delle regole per fare un progetto che si possa evolvere ed aggiornare nel tempo, un progetto flessibile, riconfigurabile o almeno con un grado di informalità tale da poter essere interpretato in diverse maniere.
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Dal vostro punto di vista sembra essere mancata quella che si definisce architettura partecipata. AI L’idea di partecipazione l’abbiamo inserita nel 6
progetto per Europan 7: era insita nel progetto stesso, nella sua processualità. LlT Quel progetto si è poi infranto contro l’idea di architettura che aveva invece l’amministrazione. E’ una questione di politica culturale: tu fai un percorso, ma gli altri magari non lo condividono!
Diteci 4 nomi di architetti italiani e 4 stranieri, 4 nomi di artisti che vi interessano o vi hanno insegnato qualcosa. AI Stranieri direi Lacaton & Vassal, bravi perché riescono a fare architettura con elementi banali; sfuggendo a questa cosa terrificante degli architetti che devono trovare giustificazioni assolutamente formali forzando spesso la realtà. LlT Di sicuro sono riusciti ad eliminare parte degli strumenti dell’architettura o comunque degli elementi classici dell’architettura: progettano con pochissimi elementi, cercando per sottrazione di
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semplificare. Se pensiamo a loro incredibile è come, nonostante questa attitudine, rimangano molto legati agli strumenti tradizionali dell’architettura.
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AI Penso sia anche una forma di onestà… Noi parliamo di aprire la disciplina, sappiamo bene però che stiamo sviluppando, l’ho già detto prima, una posizione critica nei confronti dell’architettura, ma critica nel confronto di noi stessi; alla fine ci ricordiamo sempre di essere architetti… LlT Aggiungerei ai nomi Vito Acconci, per gli strumenti con cui allenta i confini dell’architettura: l’informale, il gioco delle forme, l’uso di alcune forme insolite per usi magari canonizzati. AI Per fare un esempio: Acconci doveva fare un muro intorno all’ingresso di un edificio a uffici ed ha fatto quella che in realtà era una treccia che si arrotolava su se stessa impedendo di passare ma creando anche posti dove sedersi, dove sostare e quindi relazionarsi. Bravissimi sono anche gli spagnoli AMID (cero9): hanno fatto poche cose ma belle ed intelligenti. Direi anche NL architects per il loro approccio critico.
Un film… LlT Ci capita spessissimo di parlare di Kubrick!
Un libro invece? AI Direi Significati del confine di Piero Zanini: un
libro molto bello; credo sia un testo che convenga leggere. Un sito?
LlT Uno strumento di aggiornamento è Arch’It (www.architettura.it), per noi dalla quotidiana frequentazione web: è come un luogo di ritrovo…
Qualche italiano?
LlT Michelangelo Pistoletto è stato una scoperta personale recente. Abbiamo avuto la possibilità di lavorarci al fianco ed è stata una piacevole occasione. Curiosissimo e dinamico. AI Aggiungerei Marina Abramovic e Gordon Matta Clark. Un’immagine d’artista che usiamo spessissimo è di GUTAI: un gruppo giapponese che faceva parte di FLUXUS. Uno di loro metteva in successione una serie di tele e le attraversava correndo, le rompeva… È stata per noi un’immagine molto importante per come parlava della capacità di mettere un limite, e poi romperlo, aprirlo o attraversarlo.
IaN+ pag. 23,50-53,58,65 Stalker pag. 22,57,58,80-83 Cliostraat pag. 57 gruppo A12 pag. 45-50 2A+P pag. 21-24,48,58
Ci puoi dire un libro, un disco, un film, un sito che vi piacciono, interessano o vi hanno stimolato?
Gordon Matta Clark pag. 52
Archigram pag. 83
AI Secondo me ci sono tre ragioni. La prima è che
4 artisti…
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Perché vi interessate di comunicazione oltre che di architettura e città?
AI IaN+ sono sicuramente tra i migliori, poi direi Stalker anche se non sono architetti, fanno un lavoro complementare… Guardiamo sempre anche i lavori di Cliostraat, con loro abbiamo un rapporto molto intenso; poi gruppo A12… Ne metterei altri, come i 2A+P, che secondo me hanno grandi talento, curiosità ed elasticità.
AMID (cero 9) pag. 31-34,71,74
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LlT La colonna sonora dello studio la fa lui che è DJ. Molto spesso sentiamo Radionova via internet. AI Ho pubblicato una volta un articolo su Fear of a Black Planet, un disco dei Public
Enemy del 1990. Lo avevo preso come esempio di una composizione fatta non attraverso la costruzione di un linguaggio ma utilizzando frammenti già esistenti. Ci interessava per il rapporto che intratteneva con l’uso dei software di campionatura delle immagini, come Adobe Photoshop. E’ interessante l’idea di lavorare con materiali esistenti, modificandoli, trasformandoli e risemantizzandoli, masterizzandoli e detournandoli, come direbbero i situazionisti…
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comunicare è un modo di pensare: ogni volta che devi comunicare qualcosa a qualcuno devi uscire dalle tue certezze, dalla tua autoreferenzialità. La seconda ragione è che comunicare è la cifra del nostro tempo; anche se qualcuno sostiene che la comunicazione sarebbe il contrario del sapere poiché tende ad assottigliare troppo la complessità del reale. La terza è perché lo spazio della comunicazione è un territorio, internet ne è l’esempio: la comunicazione è qualcosa che cambia le geografie e quindi la percezione, i sistemi di relazione e, volendo, è anche un campo di progettazione. Come usate il Pc? Che importanza gli date?
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AI La prima risposta è che il Pc è, banalmente, lo strumento che si usa oggi. Non ne possiamo fare a meno. La seconda è che il computer ha la capacità di abbassare i livelli di conoscenza delle tecniche per poter produrre. Il computer è un amplificatore delle possibilità di esplorazione nella fase progettuale, di pubblicazione ma anche di verifica poi. Allo stesso tempo tende però a rendere la visione più superficiale. Non crediamo nelle capacità elaborative della macchina, non siamo affascinati dall’algoritmo. C’è però una cosa che bisogna dire: nel momento in cui si usa nel progetto la variabile temporale lo strumento con cui la si verifica deve essere dinamico, il video piuttosto che l’animazione.
Rem Koolhaas(OMA) pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 56,58,62,67,70
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È interessante come il computer abbassi il livello di competenze necessarie alla produzione.
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AI Diciamo solo che è uno strumento di comunicazione che elimina codici. Quando ci si presenta ad un cliente con un rendering si ottiene un effetto completamente diverso che con un disegno a mano: il disegno a mano è comunque un codice, quando invece ci si presenta con un rendering, l’oggetto sembra prendere vita propria indipendente dalla progettazione, e i risultati sono abbastanza imprevedibili. La condivisione non è solo questione di strumenti. E’ molto bello che si possa prendere qualcosa di qualcun altro e manipolarlo. Il sampling è proprio questo: dal momento che una cosa è digitalizzata e sta sul computer ne puoi fare di tutto: puoi lavorare con le immagini altrui, puoi fare quello che una volta si faceva con carta, forbice e colla nel fotomontaggio all’ennesima potenza.
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LlT Con il computer riusciamo a fotografare cose che ancora non esistono. AI A volte il rendering è però negativo: rischia di presentare lo stato di avanzamento del progetto che non è ancora, elimina quella vaghezza che c’è nel disegno tradizionale.
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alla prova il nostro approccio, anche se non è necessariamente qualcosa su cui lo studio fa degli investimenti. AI I concorsi sono occasioni di ricerca che permettono di fare cose radicali ed interessanti, e sono di ricerca anche quelli, apparentemente molto realistici, che chiedono di affrontare la concretezza. LlT Quando ci sono concorsi arriviamo a fine mese con grandi debiti di sonno, magari anche debiti economici. Insomma la nostra economia, se dovessimo fare un grafico, sarebbe assolutamente caotica.
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Dato che hai lavorato in Olanda, perché tornare a Milano?
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Andrea Boschetti Milano è stata soprattutto un’occasione. Io lavoravo già qui a Milano da Bernardo Secchi. Io e Alberto ci siamo incontrati qui a Milano durante il concorso per la Concert Hall di Sarajevo, nel ’97 quando lo studio non esisteva ancora.
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Partecipavate con il nome Metrogramma?
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AB Non con quel nome, con i nomi singoli. Metrogramma è un nome che abbiamo dato ad un progetto di concorso. Era il classico motto che ha una sua storia: si riferiva alle grammatiche metropolitane. A noi piaceva questo suono che ricordava un po’ gli Archigram. Inoltre aveva anche un significato etimologico molto preciso. In greco significa misura dello spazio, quindi ha a che fare con la nostra disciplina. Così abbiamo deciso di trasformarlo nella firma dello studio. Non abbiamo messo insieme i nostri due nomi ma abbiamo dato al team di lavoro il peso significativo che merita. Questo è forse l’unico espediente preso dall’esperienza olandese. Il segreto di OMA è lì. Sta nella qualità dei progettisti che ci lavorano, nell’apporto di idee.
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(www.metrogramma.com), A.Boschetti A.Francini, via Cadolini 30 - 20137 Milano (I), tel. +39 02 27209346
Infine, come si tira fine mese? ristrutturazioni, collaboriamo per progetti pubblici con il comune di Bari, che ha imparato a conoscerci dopo vari progetti. Lavoriamo poi con una società di ingegneria di Perugia che si chiama Tecnoser. Uno dei soci dello studio, Massimo Ciuffini, ha avuto inoltre la possibilità di fare su Perugia grandi progetti e quindi ha una sua riconoscibilità e peso professionale. Poi facciamo moltissimi concorsi. Quello che fa lo studio come attività elettiva è ricerca progettuale da convogliare sui concorsi: c’è capitato di vincerne, di essere selezionati, di avere dei riconoscimenti… AI Abbiamo fatto anche allestimenti: due anni fa a Roma una mostra sui videogiochi, recentemente un’altra con la Fondazione Pistoletto… La nostra relazione con il mercato è comunque molto disorganica. Nello studio siamo 4 architetti ma fondamentalmente lavoriamo con ragazzi che vengono per stage, abbiamo solo un ragazzo stipendiato e questo è lo specchio della nostra situazione economica: facendo moltissimi concorsi lavoriamo molto tempo non pagati. Io inoltre insegno in varie scuole e master. LlT Abbiamo lavorato un pò su tutto, abbiamo fatto siti internet, allestimenti piccoli e grandi. Ogni occasione che ci si propone è buona per mettere
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Forse si può dire che il computer permette una riproducibilità tecnica diretta del pensiero?
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C’è qualcosa di Bernardo Secchi?
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AB Si, certo. Secchi è il più grande urbanista europeo o certamente lo è stato.
Molti architetti della vostra generazione hanno avuto un’esperienza in Olanda. Noi abbiamo incontrato gli AWG a Vienna che, quasi tutti, hanno lavorato da NL architects. Poi a Milano Matteo Poli con i suoi 99IC, anche lui da OMA dopo di te…
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AB Il mito olandese è scoppiato
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intorno al ’95 - ’96. Però, se devo pensare a una formazione che mi abbia segnato veramente, non penso all’Olanda, se non per questioni di organizzazione del team di lavoro e la capacità di lavorare in gruppo. Quello che accadeva allora in studi olandesi, succedeva in realtà anche in altri studi europei che però non avevano la stessa risposta nella costruzione. In Olanda c’era una diretta relazione tra la progettazione e la costruzione. Però la metodologia di lavoro, il ritmo, l’approccio all’architettura, si trova e si trovava in Spagna, come in Germania, come in tante altre realtà. Poi c’è stato il rovescio della medaglia: questo trend olandese ha costruito uno stile fastidiosissimo. Io trovo insopportabile il manierismo all’olandese. Noi proveniamo da una cultura profondamente radicata nei segni del luogo, profondamente mediterranea.
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Se doveste parlare brevemente di Milano, come la definireste?
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Rem Koolhaas(OMA) pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 56,58,61,67,70 AllesWirdGut pag. 34-37,53,54 NL architects pag. 35,60,74 99IC pag. 24-27,48 Stefano Boeri pag. 13-14,22,40,82
AB Come il centro più importante in Europa di potenzialità ancora inespresse. Credo che sia la città che possa compiere il cambiamento più grande rispetto a tutte le metropoli europee. Il vero nodo cruciale e delicato è come va gestito questo grande cambiamento.
Se Milano abbiamo fatto fatica a individuare degli studi che appartengano alla vostra generazione, al contrario a Roma una consolidata realtà di collaborazioni ci ha permesso di entrare in contatto coi giovani professionisti...
Ne parlavamo con Stefano Boeri, in occasione del concorso della sede della Regione Lombardia a cui avete partecipato anche voi. Milano è una delle città con il più alto numero di progetti prodotti ma ancora “inespressi”. AB Milano ha un’incapacità di mettere a sistema le proprie energie interne. Negli anni ’70-’80 tutta questa cultura o non cultura di mettere a sistema le cose aveva costruito un’immagine, diciamo così, divertente di questa città. Era la città creativa e non si capiva bene in che modo operasse questa creatività. C’erano la moda e il design. Discipline dove questa “disorganizzazione”, questa non sistematicità riusciva comunque a produrre delle energie e prodotti. In architettura però, se non c’è sistema, se non c’è un obiettivo verso cui tendere,
se non c’è un progetto, è difficile che questa energia emerga. Credo tuttavia che a Milano si stia sostituendo un gruppo dirigente e che questo possa contribuire alla trasformazione del luogo comune di questa non-sistematicità. Sicuramente il nostro studio vuole essere, in questo momento, centrale in questa città. Ma anche Stefano Boeri lo è, Cino Zucchi o i 5+1. Ci sono alcuni studi che credo possano, se non si ostacoleranno a vicenda, dare il segno di un cambiamento. Ora a Milano c’è un periodo di transizione in cui le grandi holding immobiliari, le amministrazioni, decidono di non concedere ai soliti noti, parlo dei grandi vecchi, la responsabilità della risistemazione ma rimangono affascinati dagli stranieri, da quello che è successo nelle altre città europee. Non credo, sia necessaria (mi riferisco ad una certa intervista a Gregotti, Purini, ecc., di poco fa) una difesa estrema del territorio culturale italiano dell’architettura: un architetto francese e un architetto italiano devono essere considerati degli architetti europei! Il primo entusiasmo di privati e pubblici di riversare verso l’esterno le possibilità di una trasformazione, tornerà lentamente a riequilibrarsi verso architetti che operano qui e quelli che stanno fuori. Sicuramente chi conosce il territorio ha una capacità di incidere nella trasformazione molto più importante. Metrogramma è pronto! Faccio un esempio. Un rapporto con la sopraintendenza, per noi è normale in quasi tutti i progetti, per uno straniero è una barriera invalicabile. O si conosce una certa cultura burocratica o non si sa come abbattere “il mostro”. Prevedo un periodo di transizione e nei prossimi anni tornerà ad essere centrale il ruolo degli architetti italiani. Questo non escludendo gli architetti stranieri.
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AB Osservare gli studi di architettura dal punto di vista della generazione è un po’ un luogo comune. Noi siamo stati tra i primi di questa ondata italiana formatasi negli anni ’90. I primi a costituirci come studio operativo. Una cosa è farsi i concorsi fra amici, fare i gruppi, una cosa è avere 20 dipendenti, un’amministrazione ed essere considerati dei professionisti da qualsiasi committente. Come dicevo prima contano gli studi di “peso”, capaci di diventare traino culturale per gli altri.
Siete associati?
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AB Sì, noi siamo una società. Il nostro studio non è nato ieri. Operiamo dal ’97.
Andrea Branzi pag. 14,74
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Abbiamo aperto tre cantieri da quasi 100 mila metri cubi. Il nostro primo edificio costruito è stato ultimato prima che noi avessimo costituito la società. Noi siamo in una prospettiva trasversale rispetto alle generazioni. Si fa rete anche con Andrea Branzi, che non è proprio giovane! Ci sono discorsi aperti con persone di cui abbiamo una grandissima stima seppur non coetanei. Con Stefano Boeri, che è una persona molto importante nel dibattito, o con vecchi professori come Cesare Macchi Cassia e con Carlo Olmo ma anche scambi con studi più giovani Come quelli di Nicola Russi che è stato nostro capo progetto per un po’ di tempo, o Tom Hindrykx (low architecture), altro nostro collaboratore. In Italia per essere architetto devi avere la capacità imprenditoriale di generarti il lavoro, di generarti la commissione. Io penso spesso alla gavetta fatta in Italia… Se i Metrogramma decidessero che, perché non ci si trova più bene, perché le occasioni politiche per fare delle cose veramente importanti mancassero, di trasferirsi a Parigi, o a Barcellona, o a Londra, sono sicuro che avrebbero molta più facilità non solo di lavoro ma anche di comunicazione. Sono sicuro che il discorso italiano sull’architettura vivrà nei prossimi anni una nuova stagione fertile e produttiva, diciamo anche di grandezza rispetto al fenomeno europeo. Per un italiano sicuramente avere a che fare con un’amministrazione svizzera, francese, spagnola perfino cinese, è molto più facile. A noi sembra un gioco da ragazzi ormai. In Italia, se si vuole costruire una cultura dei cambiamenti, delle nuove grandi trasformazioni, è necessario che la politica e le istituzioni, pensino che è anche attraverso il progetto di architettura, di urbanistica, che si costruisce un cambiamento vero di vita e status.
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nuovo scenario per Milano. Con le nostre ricerche scaviamo nel territorio urbano e cerchiamo di far si che uno scenario proposto diventi materiale stimolante per amministrazioni e privati. Ciò non vuol dire disegnare un piano regolatore come si faceva qualche anno fa ma costruire un laboratorio di politiche di indirizzo molto concrete e poi farle diventare opportunità di discussione politica e operativa. Allargando lo sguardo all’Italia e all’Europa penso che il sistema economico limiti moltissimo la capacità di visione nel futuro perché il mercato richiede dei prodotti commerciali. Oggi si deve operare istantaneamente e questo produce solo una grande effervescenza di realizzazioni immobiliari che non costruiscono un valore di città. L’ultima grande trasformazione urbana fatta in Italia è la Bicocca di Gregotti. Tutti lo devono riconoscere. Può essere criticato o no dal punto di vista architettonico, cosa non irrilevante, ma è l’ultima grande trasformazione fatta a Milano ed in Italia negli ultimi vent’anni. Manca la volontà politica di rischiare!
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AB Inventarsi un progetto in grado di aprire la discussione. Quello che abbiamo fatto con l’esperienza di Bolzano, che a noi è sembrato un normale lavoro di carattere meta-progettuale poi rivelatosi qualcosa di più. Bisogna confrontarsi con chi c’è e chi ti chiama. Su Milano ad esempio noi abbiamo svolto un lavoro nato come consulenza ad ATM (Azienda Trasporti Milanese); si trattava di ridisegnare la mappa territoriale dei trasporti pubblici milanesi attraverso un video. Il lavoro è stato preso con tutta la serietà con cui di solito lavoriamo. E’ divenuta un’ ipotesi metaprogettuale di visione del territorio milanese; una riflessione sulle sua forma potenziale. Quando viene presentata un’immagine che sa dialogare con il suo territorio i cittadini sono contenti, sorpresi del fatto che il territorio sia strutturato in una forma più complessa. Riscoprono una realtà, un’immagine di Milano che si è completamente persa.
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Qualsiasi occasione vi capiti diventa una possibilità di riflessione che permette di vendersi e di trasmettere a vari livelli un messaggio architettonico…
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AB E un’occasione di lavoro e di guadagno. A Bolzano abbiamo svolto un lavoro nato da una richiesta dell’assessore all’urbanistica, una persona molto colta. Lui aveva chiesto ad altri quindici studi di fargli una proposta per uno studio sulla densità possibile della città. Noi abbiamo vinto, cioè preso il lavoro perché per noi era un gioco divertente e astratto mentre tutti gli chiedevano un’area dove
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Qual è la vostra reazione strategica a questa situazione?
Esiste un problema di comunicazione dell’architettura? AB Un problema di comunicazione e anche di cultura. Trovandomi con un altro famoso architetto italiano a un tavolo di discussione di una grande associazione di costruttori, ho potuto constatare come nella pianificazione della città, la componente architettonica e urbanistica riguardante la forma della città abbia una posizione secondaria rispetto alle strategie economiche e politiche. Non siamo stati praticamente interpellati. Questa è la cultura in cui si vive oggi in Italia. La città invece si trasforma anche per forma. Milano ad esempio non si è ancora accorta che se vuole trasformarsi deve avere coraggio di rischiare un progetto per il futuro. La prima domanda da farsi è: “che cos’è Milano oggi”. È un territorio urbano molto esteso e complesso del quale è necessario comprendere quella che è la nuova configurazione geomorfologica. Finché non si arriva a questo tipo di comprensione non è possibile immaginare un
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verificare questa ricerca sulla densità mancando l’obiettivo poiché non si trattava di un piano attuativo. Anche con la CNA (Confederazione Nazionale Artigiani) è nata un’occasione di lavoro partendo da una ricerca a basso costo sul condominio produttivo - problema che è comune a tutto il territorio italiano e a tutte le aree produttive – che ci ha portato a ricevere incarichi per tre condomini produttivi. Le occasioni vanno dunque anche inventate, ma si creano perché uno poi deve capire il momento per raccogliere, perché uno studio di architettura vive di entrate. Tutte le ricerche, per essere tali, hanno bisogno di finanziamenti.
relazione a questi studi esterni con cui dialogate. AB Il nostro lavoro progettuale inizia con delle domande. Ci facciamo per giorni e giorni domande, cercando di snodare il problema che ci viene posto o di crearlo quando non c’è. Le domande servono a sviscerare il problema, a renderlo quasi una pasta materica da plasmare. Questo è il modo per poi destabilizzare una possibile risposta banale. E’ la nostra specificità: noi non esisteremmo se non fossimo uno studio di nicchia, se non lavorassimo in quegli interstizi dove c’è da sperimentare. In due parole: conoscenza e idea.
Tornando al lavoro in gruppo, come lo strutturate all’interno dello studio e nel rapporto con gli esterni?
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AB All’interno dello studio ci dividiamo in gruppi di tre, quattro, cinque persone. C’è un capo progetto, poi io e Alberto che seguiamo tutti i lavori. A volte uno segue più un progetto dell’altro, ma in realtà ogni scelta dello studio appartiene a uno sguardo comune tra me e lui. Abbiamo comunque collaborazioni con specialisti esterni che ci seguono dalle questioni impiantistiche e strutturali alle questioni economiche, dalle questioni tecniche come computi e capitolati ai progetti di dettaglio, sino agli avvocati…
Avvocati?
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AB Commercialisti e avvocati. Per contratti e questioni fiscali. Spesso si discutono dei dati di inizio per un concorso o per un incarico dove serve un consulto per sapere come impostare i rapporti con la committenza.
Avete un’organizzazione manageriale?
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FOA pag. 51 Kazuyo Sejima pag. 37,56,60 Le Corbusier pag. 12,23,77,92 IaN+ pag. 23,50-53,58,60
Blade runner pag. 40 Apocalipse now pag. 26
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AB Sì. Non è interna ma è collegata a noi. Due anni fa abbiamo deciso di fare una cosa che per noi era uno spreco di soldi: prendere una segretaria. Devo dire che rappresenta un cambio di serietà totale. L’amministrazione è più complessa, si possono fare anche delle operazioni più complicate e tu puoi lavorare. Questo per la questione professionale interna. In generale possiamo dire che c’è un gruppo allargato che fa capo a Metrogramma e che ovviamente ha investito su Metrogramma. Milano Progetti per gli impianti, Del Mese per le strutture… Poi ci sono i contatti con gli altri studi di architettura. Cosa che progettisti di altre generazioni non fanno. Rapporti che ci hanno dato una grande ricchezza e ci hanno fatto crescere. Penso a collaborazioni con i 5+1, con Alfonso Femia in particolare. O con degli studi di interni, lo studio Peia e Lissoni.
Come comincia il progetto per voi? Soprattutto in
Questo è un processo in cui partecipa anche il committente? Mi sembra, da come ne parlate, sia un modo per illustrare il funzionamento del processo architettonico anche a chi non lo conosce… AB In molti ci dicono che i committenti sembrano 2
far parte del gruppo di progetto. Ma per noi è la cosa più normale. Discutiamo con i committenti esattamente come potremmo discutere con te o con un altro tuo collega, parlando un linguaggio disciplinare. Non si può pensare che siano tutti stupidi. C’è troppa altezzosità da parte di alcuni che pensano agli architetti come dei geni infallibili. Però molte volte gli strumenti classici dell’architettura sono incomprensibili, mentre voi cercate di rendere partecipe il committente…
AB Certo. Peraltro così facendo ti poni di fronte al committente con un’autorevolezza molto più alta. Se lo coinvolgi nel discorso si rende conto di quanto tu possa dare risposte che lui non sa dare. È il gioco, devi confrontarti. Abbiamo sempre dialogato bene e siamo diventati amici di tutti i committenti. Non mi ricordo un committente ostile, anche perché li si sceglie. La maggior parte dei nostri colleghi hanno rapporti con i propri committenti attraverso lettere. Per me non esiste, io prendo il telefono.
Vi ritenete una mente collettiva? AB All’interno del team c’è il giusto confronto. Siamo tutti differenti, però le riflessioni riescono sempre ad essere costruttive. L’apporto che tutti noi portiamo all’interno della discussione diventa una forma di arricchimento. Ogni progetto è guidato e direzionato ma io so cogliere determinati suggerimenti o critiche da Andrea e dallo studio come viceversa.
Vi interessate di città e perché? Di comunicazione e perché? Di architettura e perché? AB Perché progettare la città è il sogno megalomane
Google pag. 26,45,49, 74,77,83
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degli architetti e perché viviamo in un territorio di città. Perché la comunicazione è la forma di energia che muove le idee. L’architettura forse è quella che ci interessa di meno. L’architettura ci interessa per quanto riguarda la sua lirica, la sua capacità di stabilire una forma di linguaggio tra quello che ci sta dentro e l’esito finito. Tradurrei la parola architettura con linguaggio, forma di espressione. L’architettura è brutale o meglio il processo costruttivo lo è. Bisognerebbe andare molto a fondo nella parola architettura.
artista. Lo definirei come l’ultimo dei grandi poeti naviganti. Purtroppo si è tirato dietro e ha costruito una scuola che non può neanche essere paragonata a lui, fatta solo di stilemi e linguaggi. Sicuramente l’ultimo genio italiano. Non ho dubbi che Aldo Rossi sia ancora un punto di riferimento. Come artisti puri vengono in mente Burri, Fontana, Moretti, Melotti. Josef Beuys è anche interessante, per il processo che in qualche modo si trova spesso anche nelle cose che facciamo noi. Inoltre mi piace molto il lavoro che stanno facendo i Nijrich+Nijrich. Abbiamo un rapporto di stima anche con FOA. Anche se i loro progetti, guardati un po’ banalmente, traducono un’ipotesi linguistica dietro hanno una continua tensione e ricerca. Tra gli architetti dello star-system io ho un’ammirazione per Sejima. Secondo me è l’architetto più bravo e completo al mondo e mi fa molto piacere sia una donna. Non tradirò mai il nostro amore viscerale per Le Corbusier. E Mies. Mentre il nostro riferimento italiano rimane Giò Ponti: un maestro che seguiamo quasi con un dialogo virtuale. Per quanto riguarda i giovani studi italiani non c’è dubbio che 5+1 e IaN+ sono due riferimenti di dialogo. Mettiamo insieme Beuys, Aldo Rossi e Giò Ponti: ne facciamo un libro solo? Con le lavagne di Beuys, l’architettura diamante di Ponti e qualche disegno scheletrico di Rossi… AB Non sarebbe male. Una bellissima idea.
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AB Non ho dubbi: Blade runner. ma anche
Apocalipse Now.
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AB Moby: Hotel.
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AB Semplicemente un motore di ricerca: Google.
È il più votato da tutti gli intervistati. 5
AB Allora noi diciamo Google Earth. Lo usiamo 10
Come il computer influenza il vostro lavoro?
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quando non abbiamo le mappe. È un giochino. Comunque non siamo maniaci dei siti internet. Penso che il motore di ricerca sia l’unica cosa utile dei siti internet. Internet come struttura. Io uso molto anche Messenger. 7
formazione
AB Si usa il computer come strumento. Per raccontare quello che uno ha in mente. Anche se noi partiamo spesso dai modelli.
Istruzione e architettura: ci sono dei sistemi educativi in cui credete?
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AB L’università è una specie di grande balena inamovibile. L’università italiana è tutto il bene e tutto il male. Non si può mai sputare nel piatto dove si mangia. Sicuramente crediamo in una formazione più operativa, più legata al progetto. A insegnare composizione, nelle università italiane ci devono essere dei progettisti. È fondamentale. La passione la può trasmettere solo uno che fa il mestiere. È inoltre necessaria più interazione tra i corsi e fra i docenti. A Firenze sono ermetici. La facoltà è fatta di tante individualità che non dialogano mai. Devo dire che Torino ha un corso dove io coordinavo un laboratorio in cui il progetto si costruiva intorno a progettazione insieme a urbanistica, storia, scienza delle costruzioni, tecnologia, rappresentazione e geografia urbana. Tutti i docenti come consulenti del progetto. Nonostante tutto, le facoltà italiane detengono un livello di formazione alto. Trovo ci sia comunque un’ignoranza diffusa preoccupante.
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Alla fine non mi resta che chiedervi come si tira fine mese? AB Semplicemente avendo lavori.
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Film?
Diteci quattro nomi di architetti italiani e stranieri, 4 nomi di artisti che vi interessano o che vi hanno insegnato qualcosa… AB Ho un grande amore per Aldo Rossi come
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AB Un libro: L’architettura della città!
AB Sì. È una cosa che abbiamo fatto fin da subito.
Adesso stiamo editando la nostra monografia con una casa editrice non italiana, una scelta di campo. È un libro teorico che torna a parlare di città, secondo la tradizione italiana. Si confronterà con quello che è stato pubblicato in questi anni sul tema. Credo che solo attraverso la possibilità di far passare un messaggio semplice, elementare dell’architettura, si possa di nuovo far evolvere il dibattito oltre i suoi limiti, oltre l’ambito disciplinare.
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Un film, un libro, un disco, un sito…
Producete e comunicate anche attraverso libri?
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Metrogramma
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What does this name say? EA I established my office 18 years ago in Amsterdam
Madrid, 15/02/2005 - h 16.00
and at that time I felt sort of culturally exiled, afterwards I moved to Paris and then to some other parts of the world. I thought NO.MAD was not only a name to define my personal attitude towards life but also a precise message of what we wanted to do in architecture. A way of designing and thinking that could be used nearly everywhere. A kind of mnemonic thinking producing ideas that do not belong to places but to strategies to be placed anywhere.
NO.MAD
Can you easily change city or maybe open other offices somewhere else for your practice?
(www.nomad.as), E.Arroyo, calle del Pez 27 - 28004 Madrid (E), tel. +34 09 15327034
EA I think we might have offices somewhere else
Why do you work in this city? What do you think about Madrid and architecture in Madrid?
in the future or we might even move the main one out of Spain if the contemporary scene gets worse. Who knows? And why worrying?
Eduardo Arroyo I could be working anywhere because
the work and projects we are developing now range across many countries. I came to Madrid 10 years ago because I was invited to be a professor at the ETSAM.
Are you working alone? Or with others, like a team? EA I am the coordinator of the office and the founder. We are between five and thirteen collaborators maximum to be able to talk and discuss. We have some project leaders but that doesn’t mean that we run a pyramidal structure. I have always been very lucky with most of the people that have worked, and still do, in the office.
Where are you from? EA I was born in Bilbao but I spent 10 years working
outside Spain: Holland, China, South America and anywhere they wanted me. I thought being a professor was a good opportunity to refresh the Spanish architecture which was blocked after Franco’s time. Madrid seemed to me at the time a good place to start my Spanish office. And the city itself is just wonderful.
What do you think about your job? Is architecture something like a game or just work? EA To me being an architect is a way of being in the
Do you like it? 8
EA I think it is a strange of prostitute, it accepts
everybody that can pay. It’s one of the few cities in the world where you can become part of it without having any complaints. You have to be Parisian to be in Paris and you have to be Swiss to be in Switzerland.
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Do you think this is a trait of Madrid or is it a trait typical of contemporary cities?
Are you interested in cities? Why and how?
EA No, I think this can not be applied to its spanish
Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 56,58,61,62,70
counterpart, Barcelona, where either you are tourist or you are Catalan. Madrid has always been a very encouraging city in which right after arriving you find spaces and opportunities to develop. What’s your name as a practice?
world and architecture is a serious way of positioning people in time and space. But at the same time I believe there is a place for joy and it has to compel people to be astonished, to discover hidden senses they have forgotten. These is what we are mainly searching in our work, not just the surprise caused by special effects but the translation of what we see into architecture in such a way that everybody can participate. It’s the feeling of the world in front of us that we want to make visible.
EA I spent the last seven years very interested 1
in how to build the new city, how to build urban complexity out of conditions not related to finances or infrastructures. Nowadays, I feel a bit tired of urban scale and its dirtiness, the dark interests, economic or political, related to segregation, and I think architects have lost control in all these synergies.
Olaffur Eliasson pag. 33,52
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NO.MAD
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Madrid 28004
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That is why I feel better involved in buildings that can change the city with their presence behaving as viruses inoculated into the city so it might be transformed.
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with light, sound and kaleidoscopic elements. There is also James Turrell, who worked with light and the limits of vision and perception. I also like Andreas Gursky with his powerful photographs but it seems like he needs the big size to express himself and that I dislike, preferring an art that is able to be transmitted with powerful smallness.
work, one is that taking risks on the creative process leads to a lot of extra problems but helps finding unpredictable spaces, and the other is that we can live with chance and necessity together at the same level of importance. We establish a way of working not based on predefined formal or esthetical conditions but by means of contemporary thinking not belonging to the world of architecture and its conventional paradigms. In this way, architecture becomes richer and more complex answering the questions in a precise way. Let’s stop being only architects. Society needs complex people, complex builders and designers and I have the feeling that if we do not change architectural mechanisms we are just going to build a longer 20th century.
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EA The internet site is our site, www.nomad.as. The
book could be Chance and Necessity by Jacques Monod, Nobel Prize for biochemistry in the late 20th century. One of my favourite movies is Stranger than Paradise by Jim Jarmusch. And the music, anything played in the office which surprises me, though my favourite singer is Screamin’ Jay Hawkins. How important is the computer for your practice? EA I think some of our projects
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many times and I always answer the same: evolution! Human and architectural evolution are linear but there are some non linear behaviours called “genetic jumps” in which nature takes a decisions where evolution breaks and something new is born out of apparently nothing. If we look back to the history of architecture there are some points of this kind, Adolf Loos and his “raumplan” could be a quick example. These are the kind of risks I like to talk about, they die and disappear or they change our ways of thinking and creating. It looks easy for talented architects to continue the flow of the 20th century with new forms and new shapes computergenerated, but in terms of living space is hard to find somebody not reproducing conventionality.
working with algorithms and complex calculations could not have been carried out without a computer or it would have taken a lot of time to complete the work. Computers are helpful when you are dealing with complexity, however I’m against the use of computer as an idiot shape-maker. For us, the computer has become a powerful tool to solve and find answers to the complex geometries that appear in front of us when we work with unpredictable ways.
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Are these just algorithmic forms? EA Yes and no, because they are produced by
ideas not from numeric expressions or recognised formulas! The computer has the task of translating those complex ideas into complex shapes. Anyhow, I still like the direct feeling of a marker sliding on tracing paper. Do you live only on architecture or do you need to do other things?
Could you name four foreign architects that you like and that gave you something? 7
EA Everywhere, everybody is a foreigner. Among
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EA I’ve been teaching for many years but I have finally quitted. I don’t trust universities anymore. They have become a mechanism for controlling and directing architecture towards political or personal interests being extremely conservative. Basically, the office is maintained by our architectural works and we have some patents, furniture, lamps that we develop in our projects and that we commercialize so they can become part of everyday use.
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computer
The name of a movie, a CD, a book and an internet site.
EA I have this kind of discussed
people that interest me there is Xaveer de Geyter who I think has done a lot of interesting work during the last 20 years. There is Rem Koolhaas with whom I worked, he is a genetic jump producer. And there are some small-sized offices founded by people that have worked in NO.MAD who are already very good architects and we will hear about them soon.
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EA I like very much Olaffur Eliasson and his work
EA There are two ideas to understand from our
Don’t you think that people and society have to understand what you are trying to do? Maybe architecture needs a close connection with its recent past?
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And then four names of artists that you like and that gave you something.
What do you think about communication in architecture? Is it important? What does communication mean for you?
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schizofrenia
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Parigi, 13/10/2005 - h 21.00
Périphériques (www.peripheriquesarchitectes.com), D.Trottin E.Marin-Trottin S.Jumeau, rue Montcalm 8 - 75001 Parigi (F), tel. +33 01 44920501
Why do you work in Paris? Could you tell us something about Paris? David Trottin It’s a good question because Paris is
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not really the most exciting town in the world but I am French and I was born close to Paris and that’s why I work in Paris. In fact it is really interesting to work in France because we have already a tradition of contemporary architecture. It is possible to achieve good architecture not so much for private owners as for public entities – for private owners only at the scale of a house or a small building but for a public patron it is possible to do something quite interesting. Paris is not for me the best city in the world for new architecture although the quality of living and of past architecture is very high: if you live in New York everything is done, in Paris everything is already done. We have a lot of architects interested in the city. They want to make things better, more interesting, more exciting. It’s very difficult to do that in the historical Paris but in the suburbs it’s possible to do many things. They’re easy to transform with a real quality of construction: I think it’s a good place to work. In my experience of foreign architecture if you are an architect in Tokyo, it’s very difficult to build something in the Greater Tokyo. If you want to build something, you have to go to the south or the north of Japan, two hours by plane, every time you visit the construction site. In France it’s very easy to work close to your office and perhaps it’s stupid to say but it’s not so bad for an architect to work close to his office. In architecture it’s not normal to build a house a thousand kilometres from your home. It’s a problem of the quality of architecture and the place where you can work. Can you tell us the name of your studio and something about your practice?
DT The name of the studio is Périphériques and
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it’s not just a name, it’s an idea about architecture, about life and about Paris in a certain way. A periphery is something around something. There is the inside and the outside. We have the feeling that this kind of “shape” could be interesting: inside is architecture and outside all the practice of architecture; inside is Paris and outside the interesting suburb. I like the attitude that the periphery is the place where you are in connection around something else, open to influxes. The practice of Périphériques is organized around two teams of architects. We like the fact of being separate, two offices. When you work together, after a while you don’t know yourself anymore. We like the possibility of working alone or together. Some projects are done separately but it’s interesting to work together on more important projects where it’s possible to play with separating the parts of architecture like the different spaces of the project. We like to invent new ways of organization around architecture: the attitude toward creation is one of the most important things for us. There are two steps in architecture: you have the content and the way to get this content. I think it’s easier for two people to develop an idea for content but if you like only the content, it’s difficult to play with that. But the way to arrive at it, to create architecture, the rules of the game are more interesting because they can be analyzed and decided before the question. In the ‘60 in France we had some writers who decided to play on the fact of writing a book. Georges Perec decided for example to write a book without the letter (e). I love that because whether the book is good or bad, to arrive at the idea of a book without the letter (e) is interesting. Perhaps it’s a gimmick to make architecture play with these kinds of rules but I think it’s interesting to experiment and to see what you arrive at through this game. Afterwards you have the program, the context, the whole story of architecture. At Périphériques before each project we have a reflection. And afterward the project appears. You’re telling us about this creation or game: how does it work? How does it work when something exist already like the context? DT It’s possible to do everything in a project. There
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is no one solution. We are not in the middle of the eighties when architects had to find a way of making architecture and afterwards all their projects had to be the same. After three or four or five buildings it’s boring to do this kind of architecture. For us the attitude of a game around architecture is a way to be always new, to reflect on what has happened in your life and what has happened in ways of building. It’s a way to
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Peripheriques
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be light in architecture. Architecture is very heavy; it’s very serious to make a building. You make a drawing, you make a model and then you work for three years. It’s a technical risk because you could have problems with construction, or with insurance. When a musician decides to make a disc, he uses his guitar, some drums, the computer, and afterwards it’s finished. Maybe the disk will make money or maybe it won’t, but the risk is not very great in the end. Architecture can be very dangerous. I like to say it’s very dangerous, very serious, and then find a way to be light.
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Maybe this is a problem of communicating the practice of architecture, its own identity: what do you think about it? DT If you take the big firm SOM in the USA, you
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have some projects by the original associates and some by their associates. The production of SOM is completely different, depending on the associate. I like this spirit. I don’t like architect-gods, who say “I’m the best, everything else is bullshit.” I think the most important things for architects is that they try to work together. For example, we met several artists for our Jussieu project in Paris because we had to have a contribution from artists, paid by the state. It’s very easy for artists to work together. If you take five stars of French contemporary art of the same generation, they will have no problem working together for an exhibition in New York or Tokyo. If you take five architects will be not the same. Except us. We collaborate with teams of architects and we are known for this, for our collaborations.
DT We are in the practice of competitions. It is necessary to have competitions, but it’s not a tragedy if you lose. Even if you have friends in architecture in the middle of your career, it’s a battlefield, it’s not peaceful. I don’t like this spirit: I want to be more open.
DT We have a collection of separate ways of
Does your group have a particular way of working?
collective work was a failure in fact. If you work as a group, the problem is always the leader, even in the case of a music group or an artistic group. At the beginning of Périphériques we talked about that and we decided that we are different, but we want to be a collective of several personalities. It’s also a question of respect. It works only if you respect the other partners.
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with Périphériques, we do a competition in the first week in the office. We form two teams that work on the project and after one week we compare; we make a sort of jury and we talk very freely about the project, just to check things. Sometimes we choose one idea, sometimes we choose the other. Sometimes the two are bad and we make a new project.
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DT I like the term platform. The seventies spirit of
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How many are you? DT We are three associates:
Périphériques has a sort of low profile, two teams of four or five persons. We have two offices, and a third one on the Jussieu construction site in Paris. You want to be very sure of what’s happening on
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Is it like a platform?
we produce plans, we make files...
DT Yes, when we do a project
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thinking. I don’t like the collective mind. I prefer a collection of interests and approaches.
DT We work traditionally, we work on computers,
Do you have brainstorming sessions?
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The next question is, do you consider yourselves a collective mind?
Why does exist that condition?
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We also work a lot with fine analysis of the context of the project. In France if you are asked for 52 rooms of 33 square meters, you must have exactly that at the end. At the same time we work a lot with models. We like to work at the beginning more with a diagram than with precast form. We don’t want to know the final form of the project so we work on the organization of the space before the shape of the space. We choose the shape very late, and the scheme of the shape very late too. For example, this was our process for designing a music box. You have the principle part of the program, you have a series of studios, you have a series of offices, some spaces around the box, and a sort of music café. And the spirit of the organization of the project, they ask to have the music café on the first floor open to the plaza. So we are working on this solution, but it’s difficult, because with a large music box, it’s necessary to have parking on the first floor. If you put the café and the large music box on the first floor, you have a very long building, with a very low height. However, in this place there is a very interesting view because you are on the hill which looks over Tours. So we worked and we made a lot of shapes about the organization of the space, and we decided at the end not to put all the spaces on the first floor, but to make steps because that way the music café will be placed at the top of the building, looking over the whole city. So we create a process. We have a reflection on the site, then we have a reflection on the orientation of the space. We play a little bit with the form to give the most interesting shape. And then we arrive at the final expression of the building.
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the building site!
Could you name 4 architects that you like, and 4 artists you like?
DT Yes. I think the best architecture happens when 12
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the architects are close to the construction site. We have the overseas experience of Japan. We have built a sort of folie in a park in Japan. With the Japanese we had a very precise design. We made several trips, we made exchanges by internet. They built the drawing exactly. Just in this case it was possible to work far from the project, but a lot of countries are not like that. During construction things get changed by the construction guy. I think it’s possible to work far from the construction site, but this way an architect needs a lot of respect. And it’s not easy to find. What is your involvement with the site and the population when you do a public project?
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DT You could design a fantastic object without a link
to the context. When you design a car, you don’t worry about the place where you will put your car. But in a project of architecture, you must take account of the site, of the view, a lot of things. I think it’s interesting to make a new-fashioned building with this kind of oldfashioned idea. I’m not so interested by buildings built for Amsterdam, Tokyo, or New York all in the same spirit. But for example the Herzog & de Meuron Prada shop in Tokyo is a very contextual project. They are taking account of the context even if it is far for them. Contextual architecture in the eighties was very interesting, discrete. I like very much the Peter Cook project for Graz. Although strange it’s a fantastic project because the scale is very good, the link with the old construction is almost perfect. I say this only after I saw it in person. It transformed right way the city.
Could you please tell us about your favourite movie, soundtrack, book, and website? DT For the music, I say Death in Vegas. For a book,
Les aventures du petit nicolas. For the website, ours.
What game are you taking part in? How is a game-playing attitude part of your work? Dominique Gonzalez-Foerster pag. 12,74 Herzog & de Meuron pag. 30,37,77 Rem Koolhaas pag. 13,14,27,30, 35,37,45,51, 56,58,61,62,67 Kazuyo Sejima pag. 37,56,65
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Are you interested in architecture? Are you interested in cities? Are you interested in communication?
Toyo Ito pag. 22 Didier Fiuza Faustino pag. 87 Jacob & Mc Farlane pag. 30
How do you use the computer?
DT For me it’s necessary to be serious and
professional at the same time as being open to things more like a game. I’m interested in all kinds of things that are not architecture. I have the peripheral attitude. For musicians it’s more interesting to study folk music than high music. If you are only interested in the history of architecture, the attitude of Greek architects, you’ll just make copies. It’s more interesting to create your own work. For example I like anonymous seventies architecture and I put these kinds of things in my architecture: I want to transform this low architecture into high architecture.
I think there is no architecture, city, communication. They are the same. If you are doing architecture you are doing all. It’s the same project!
DT
DT I think Rem Koolhaas transformed architecture at the end of the last century. Then there are some very interesting guys in Japan or Switzerland. Sejima, Toyo Ito, Herzog & de Meuron. But they are famous because before them you have Rem Koolhaas. In France you have Jean Nouvel. He changed the way of appreciating architecture: I think he opened many minds to architecture, not only in France. He transformed the way of understanding the city. Before him architects were interested in the good city, the beautiful city full of life and dreams. Nouvel declared the city is not like that, it is strange, pollution, dirt, bad things, and that’s the reason the city is good. It may seem pessimistic, but I like this realistic way of imagining the city. We don’t build utopias, we build dirty reality. We must do something that is beautiful and dirty. We don’t want to make something especially good, we want to make something very right. We are working on the idea of the monster: the city could be a monster and architecture is often a monster that creeps in the city. I think now you have only artists who are playing with the history of art. Beuys, Picasso, and Marcel Duchamp were the last three real artists. Since then art has become a thing of fashion.
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DT We like to do models but now it’s easier to do 3D with the computer: you can make very complex forms on the computer. It’s a tool, a fantastic tool. The realistic aspect of the computer is what’s interesting. You can work with transparency, colour, gradients, reflection. It’s very easy to have a very precise image. For us it’s very interesting. You could define an effect of radiance and then you could create it. This kind of thing is not possible with a model. With the computer you can try silver, copper, blue.
What do you think of architecture in the universities? DT I taught several years: now I’m teaching at the 7
École d’architecture de Versailles. In France it’s a little particular. We don’t have a famous school of architecture like ETH with its normalized way to learn architecture. If you are interested in architecture, you could find an interesting office afterward. In Spain
AMID (cero9) pag. 31-34,60,74
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Philippe Rahm ar.
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Paris 75002
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too, you don’t have a big school of architecture but you have very good architects. You could learn the basics of architecture at school and then learn in a good office. I think it’s different in each countries. For example when you see young students from Portugal in school, they are great; in France it’s more difficult to find bright architects in school, but after you could have brilliant architects. The reality of architecture in France is that it’s easy to find good commissions. If you have ideas, you can express them.
After my work began to be more international with some exhibitions and now, for example, I have begun to work in France, in Poland, in Austria and also in England… I think now I have something like an international practice, surely not close to any local situation.
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It seems you have a lot of work! PR At the moment I have some work but not a lot. I think it is important to choose good work and good clients because if not, you have to do too many compromises. You have also to wait and seek opportunities to live because is not so easy to earn your money. I think it’s quite difficult to get a project: for example now I’m still waiting for one, for which I spoke with a client three years ago.
How do you reach the end of the month, in economical terms? DT It’s not so difficult. If you don’t follow the
mainstream of architecture, you always have more risk. We are all right living normally and doing what we want to do.
computer
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Do you have a network of friends here in Paris? PR Yes, but I have a lot of enemies also!
Parigi, 11/10/2005 - h 16.30
You are really the first one to speak about enemies!
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Philippe Rahm architects
(www.philipperahm.com), P.Rahm, rue Chabanais 12 - 75002 Parigi (F), tel. +33 01 49269155 Why have you decided to work in Paris?
Philippe Rahm I’m here because at the moment I
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have more work in Paris; before I had an office in Lausanne, which I still keep open, but I have no particular relationship with the local situation. I began with Jean Gilles Décosterd: we did some open competitions for villages near Lausanne, where we had our office. We won two of them and one was quite big: it consisted of two buildings and the design of all the public areas in the centre of a small village called Saint-Sulpice. We worked two years on this project but finally a popular jury stopped it because the village didn’t like the project. This happened in 1996. After that we worked on other competitions but we didn’t find any other special conditions. It is quite difficult, I think, to stay in the place where you grew up: I attended university in Lausanne and there I had to deal a lot with and take care of too many people; in that condition it is not so easy to try to do what you want and what you believe.
PR I also have an international network of friendships. This year I’ve begun to teach at the AA (Architectural Association) school in London, and so I have friends in London, in Mendrisio, in Paris… I think it is more a question of time: I spoke a lot with certain people in different moments of my life. For example at the moment I have two collaborations with artists. One is with Dominique Gonzalez Foerster: she is a french artist and in fact we are together in a competition for the FRAC (Fonds Regional d’Art Contemporain) Centre in Orleans; I’ve also a project in Paris for the new cafeteria of the Ecole de Beaux Arts: it’s a kind of pavilion inside one courtyard of the school and I’ve worked on it with the French artist Jean-Luc Vilmouth. Also among architects I know Didier Fiuza Faustino or Jacob & MacFarlane, we met sometime in Paris. However I’ve more contact with artists, with people like Saadane Afif, who now has an exhibition at the Palais de Tokyo and that wants to do a project together.
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Why, in your opinion, do you have more relationships with artists than with architects?
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PR I have many relationships 2 7
with architects, but only with international ones: for example in my classes in Mendrisio I have invited for a lecture AMID (cero9) from Spain and in the next academic year I would like to invite FAT from London. However it is not so easy to speak with architects whose work I haven’t liked. What do you think about Paris?
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PR I was in London and I’ve a good feeling about it: it was really an international city with a lot of people and ideas. Things happen more in London than in Paris, but at the same time I like Paris even if there’s the feeling that nothing happens and there are not so many new projects for the old city or for the periphery. I think it could however change.
What I’ve done is to look for two approaches. The first one was about the question of the air: how to heat the air… When the air is warmer, it is lighter and stays up and so we decided to organize the house in three different levels of temperature. For example in the SIA (Società svizzera Ingenieri e Architetti) norms, which are the Swiss norms for buildings that take into account a sustainable development, a bedroom have to be at 16 °C. Then toilets have to be heated at 15 °C, bedrooms at 18 °C, living rooms at 20 °C and bathrooms at 22 °C. It is a question of economy. If you heat the bedroom all the winter at 22 °C, you will loose a lot of energy and money because you could heat it only at 16°C. So I tried to take these room-temperature elements and to create buildings just putting one above the other. Normally in a house you study the form and only when you have fixed it, you put the radiator inside; in this project instead, radiators create the house! This way the relationships between life, air and temperature become material, tangible. Another idea for this planning project, placed in a forest, was to use a fire heating system: we burn trees taken from all around, and then we use ashes and compostage to create an ecosystem between trees and houses. It amazingly works: we’ve calculated everything precisely! The second approach comes from water: because of the lake we have decided to create a concrete relationship with it while using the chemical qualities of the water. In fact we use a diagram of Mollier, designed from dryness to wetness, to draw the project. The typology comes not from the house program because I want to rediscover it from the question of the humidity: the first room is like a swimming pool-living room, a living pool, the second is like the kitchen and the bathroom, because those rooms are more wet, and finally the driest one could be the bedroom or a sauna. Also when you work with Minergie, another swiss norm for advanced sustainability in buildings, you have to be aware of the questions of temperature, of air movement inside the house, of humidity levels. In my work I’m trying to take these elements and to reverse the project starting from them, to create new ways for architecture.
What’s your name as a practice? PR Our name as a practice is Philippe Rahm
architects with an ‘s’ at the end. I started with Jean Gilles Decosterd and the name was Decosterd & Rahm, associes. When we split I decided that the office would be mine and I would have to take my name and the responsibility for the projects with it. If you take another name it can be, sometimes, easier to speak, because you will use the pronoun “us” and you can in a way hide yourself. I have to be conscientious of my name but I’m not alone in the office: Jerome Jacqmin, for example, worked for long time with me and he still does so regularly; also Irene D’Agostino or Cyrille Berger… All the people do something in the office: it is a collective work and the “s” indicates that. How many are you? PR At the moment we are three but last summer we were ten, included other employees and interns. The number of people occasionally changes a lot.
How do you work?
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PR I’ve already a kind of history of the works… I tried to follow a certain research route because I’ve some ideas about architecture: everything began ten years ago and I think all the projects are part of a whole. I’ve tried a lot of ways: in one project there are, for example, three interesting themes, of which I will choose one and, if it proves itself, I will do two or three more projects with it. Or I take another theme and I try to understand and develop the world that has just been generated from.
When a project starts what do you deal with?
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Could you explain it, while speaking about some of your projects?
Normally architects say that architecture comes from the territory, on the other hand, you said that your way of working is quite abstract but in the end your architecture is really rooted in the territory, it becomes a part of the ecosystem, “embedded” also in the human beings. Is it a sort of “functional architecture”?
PR I’ve just finished a kind of urban planning for a natural area in France with a big lake. There I’ve tried to reinvent the idea of the relationship with nature, not a visual but much more a chemical one.
PR There is a famous book, about modernity and Japan, written by Junichiro Tanizaki at the beginning of the 20th century and called In Praise of Shadows. He says that “modernity” is European and surely not
PR When it starts, I’ve no relationship with the context because I’m trying to reverse some common technical approach. I think I’ve a kind of abstract approach!
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Matthew Barney pag. 33
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Asiatic. When modernity came to Japan, for example with white bathrooms, those were not Japanese attitudes. In that book he tried to understand and to show what kind of modernity Japan could imagine by itself; the book is very interesting because it shows how the modern and functional organization of the spaces are really “prefab” ideas, like the kitchen of Frankfurt. I think we have to try to reinvent typologies through environmental parameter, and in the same time we’ll invent new ways to use space: if we organize a museum from more UV to less UV it could be really interesting because to live it will literally mean to travel through UV radiations. This attitude will become the reality of the space, the reality of the program. We don’t have to be slaves to the technique but we have in a way to reinvent architecture from its basic questions because, I think, it could give new statements for the body inside space and inside time… Japanese project drawings show how their regulations are different from ours: for example insulation is usually much thinner than in Europe… I think that’s a really different way to think about the whole problem of living, notwithstanding they have “lost” their own modernity.
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PR In Japan the question of the temperature of the spaces is very different compared to Europe. In Europe you always heat the space at 21 °C and make it homogeneous. In Japan instead you could be in a space, a bedroom for example, and it could be really cold, maybe 5 °C during the winter, but when you go inside your bed it is heated! You get the right temperature directly on your body. And the same thing happens in the toilet where the sanitary fittings were heated in such a way that your naked body parts are heated directly from the fittings while everywhere else you have still clothes on. There is a composition of presence of clothes and heated parts. It’s a more complex relationship with the space because if you take an IR photo the space could become really manifold with cold areas and heated spots. It is interesting for me, sometimes very cool, to clearly understand the qualities of the space. And this is a very traditional system in Japan.
Is interesting that we’ve spoken about Japan and Europe because many artists have attempted to create cabinets that could move from east to west or from west to east. Your architecture, so rooted in the environmental reality, seems to be the only thing that could really satisfy that desire. From this point of view your artistic ancestors would seem to be people like Joseph Beuys, Atelier Van Lieshout or Matthew Barney.
Do you agree? 1
PR Yes, but in the same way I don’t have a special
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interest for art notwithstanding I have had a lot art exhibitions around the world. Maybe that is because in architecture I don’t find a lot of interest in the traditional act of seeing and also sometimes I see works of artists that are closer for me to architecture than works of architecture themself. Do you understand what I mean? Sometime a artwork is closer to architecture than a building. For fifteen years I’ve had a great interest in Arte Povera and Robert Morris’ Antiform, because that spoke about materiality in the sense of its real physicality, a real architectural physicality. What kind of “game” are you taking part in? Is “to play” a way of working for you? Modernity maybe consists in looking for not the best technique but the best way of living we could finally achieve…
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PR I’m not looking for the best way of living, it interests me but, better, I’m looking for different ways of it. This way, fun is also a kind of provocation on the limits of architecture. In that lake house project the question of humidity leads to a room full of water! It looks crazy! Maybe stupid but, at the same time, there is a kind of rationality of thinking. I really like to be astonished by the results of a process because at the beginning I don’t aim for particular results. There’s also another project called Dark Day (it wants to be the opposite of the most famous cities White Night). There is the process of globalization in which we lose more and more the night: shops are staying open all night and also there is this presence of urban lamps. In the 19th century in Paris the municipality began to put lights on the streets. This was a kind of astronomic revolution, because finally the city could create the day during the night. When you read literature, like Jules Verne, illumination seems like science fiction and, finally, now the city is in a condition of perpetual day. In our project we decided to install lamps that could create not the day but the night morphing electromagnetic wave: during the day electromagnetic rays come to you with energy, during the night the black sky appears, the universe is cold and we lose the radiation to it. In this project there is the aim to transform lamps, usually mini suns, into mini black vaults, mini night producers. To reinvent the night: speaking about evolution this is paradoxical because it accepts our present contradictions and takes it even further. There’s something funny in it!
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Are you interested in the city?
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In communication? In architecture? PR I’m interested in architecture. To be interested in the city, I think is a question of particular project and I never find the opportunity to work on the question of the city but I really would like to work on all kinds of programs and understand how to make crosses between them. I’m not really interested in communication: I like to speak sometimes, because it is a need, but I have no real interest in media.
Could you tell us four architects and four artists in which you are interested?
An internet site? PR Google!
What do you think about computers? PR Also for the website question I want to tell 10
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PR AMID (cero9), FAT, NL architects and Andrea
Branzi.
What do you think about architecture schools?
Artists? PR Dominique Gonzalez-Foerster, Fabrice Hyber,
PR The first time I taught I was invited to the Ecole 7
Saadane Afif and Gilles Jobin the choreographer.
Could you tell us a CD, a book, a film and a website that are important for you.
Dominique Gonzalez-Foerster pag. 12,71 AMIID (cero9) pag. 31-34,60,71 NL architects pag. 35,60,62 Andrea Branzi pag. 14,63
PR I had this idea of “catastrophic process” to offer the question of the time. I think we need a kind of doubt or unpredictable element: we do not know what will happen in a project. Usually when you do a project you want to have the certitude of finding the best project. But I think it is not really possible and so it could be interesting to introduce some catastrophic event that perpetually changes conditions and programs so the project will be not an abstract thought about one situation but will change with time during the process…
How do you reach the end of the month, economically?
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Music… PR I’m working with the swiss choreographer Gilles Jobin and we are currently looking for a composer… Then Jean-Luc Herve. He is a French composer and I am interested in it because he comes from the spectral music of Gerard Grisey. They work directly with wavelengths of sounds like a concrete material.
Superieure Nationale des Beaux-Arts in Paris; at the same time I was invited to teach at Lausanne university. I’m happy about because I think it is like a laboratory… How has architecture to be taught in your opinion?
PR A French film, L’annee derniere a Marienbad: it is
a fantastic film by Alain Robbe-Grillet and Alain Resnais about time and space. I have a big interest in Robbe-Grillet, the French writer, from two articles Roland Barthes wrote about. At the beginning he produced objective literature. Objectivity was not in concepts but much more in forms, in the surface of writing. He says when you write something you could use just the present tense or the past tense, with “I am” or “I was”. He also said that cinema has no past tense too because the act of seeing images is always in the present. Finally in L’annee derniere a Marienbad all the time tenses are joined together in the same place. This fantastic film is like a labyrinth of time with the main idea that all is in the present and nothing happens before or after the film projection. It interests me a lot because the parallel idea in architecture is the idea of working with materiality: what the image at the present is for cinema, is, in architecture, to work with humidity, with climate…
the name of our website i-weather.org: it was a website we made in 1999 and it was a project for a kind of electronic climate for the internet users. At the beginning there was the idea that even in the computer and in the virtuality there is a sort of materiality. In fact the computer screen is like a window and it has like an electromagnetic relationship with our body.
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PR In fact these years are very fine for me: I have some projects and I teach. But sometime it is not so easy. I opened with Jean Gilles Décosterd and at the beginning we worked two years in an other office, then we left. Also we won some scholarships, for example in Rome at the Villa Medici where I spent six months in 2000. It was helpful for me because it gave me, for a while, a place to live and to think without caring about money, like what happen in the art world. However If you have no money you can begin to do competitions, or accept commissions, but you know what the jury or the clients will decide. For example in Switzerland sometimes we know what kind of project you have to do to win a competition, and often if you want to live you have to do what they want and give up your real aim.
Google pag. 26,45,49, 65,77,83
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Wien 1060
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goes further, there is one responsible partner and one responsible employee. PS However the big design decisions and philosophical decisions, before and during the project, are always made by the whole team. It’s a real team.
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What about collaborations even before the realization? PS Although we’re open to collaborations we haven’t 2
G.Erhartt P.Sapp, MariaHilferstrasse 51 - 1060 Vienna (A), tel. +43 01 5487711
Gerd Erhartt Because we are Austrians. Because we studied here at the Technical University and because our first jobs and our most important jobs after university were here in Vienna.
Can you describe Vienna in a few words?
Why did you decide to join and form the studio?
Peter Sapp Maybe it’s easier for me because I wasn’t
PS It was not necessary. We had really no cognition,
Why do you work in Vienna?
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nothing.
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decided to make a partnership just for fun.
At the beginning did you have this practice and another day job, or did you just start this?
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GE No, we started this, and from the beginning it
GE Querkraft means lateral thinking. It’s our manner 9
Has that always been your name? PS In the first half-year we had our own names, but
it’s too complicated so we have been forced to choose: the hardest project we ever did was to find a name. Looking for a name doesn’t come from the heart: it’s necessary, because you can’t always repeat your long complete names on the telephone.
was a decision to have a partnership and to have all four partners work in this office. We also made a contract between the four of us that it is not allowed to take other jobs. PS We are a real incorporated company. Our first thought was to make a platform to allow us to work together but then, after three days of discussion, we decided we would make a real team. A really strong team, so we made a construction for this company with contracts, heuristics, and everything.
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Is there a common architectural or philosophical idea that you share? PS Our focus is life. We don’t make sculptures, we
How does your group work together? How many people are in your studio? GE We are three partners and now about fifteen 12
make a stage for people to act on. We believe in the layer of life that comes to architecture. When some architects look at their building and see people hanging their laundry out or putting moose antlers on the wall, they say, “Oh, no, he’s destroying my wonderful architecture!”; we think this behaviour is wrong, this is against life. It’s very hard and it’s very stupid to work against life. The process of building and the finished building
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GE In the beginning we were four partners and we
A question about the name of your studio: why Querkraft?
employees. We begin each project as a team, partners and employees together. When the project
concorsi
PS It’s not really a democratic
process. It’s more a dialogue where one idea comes up and everyone discusses it. In the end everyone involved should be convinced by the idea. When one person does not agree the idea, we know we need to think about it some more.
of doing the projects: every time go one step behind, look at the question, see if it’s the right question and think a little bit outside the borders.
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Is your way of working sort of the collective mind concept?
Querkraft (www.querkraft.at), J.Dunkl
born here: it’s difficult to talk about the town where you were born. Historically one could say that Vienna is the enlarged head of Austria, because it’s too big for this little country and most people from the other parts of Austria come to Vienna to study. Native Viennese don’t really exist; Vienna is a mixture of people and it’s a very lively place.
computer
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had so many up to now. We’ve had collaborations with graphic artists and several collaborations with landscape designers, but it’s not that in every project there’s a collaboration…
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are very important: it’s very interesting to prove our ideas.
have to think about them all together. It’s reality that communication, cities, and architecture work together in one world.
At the beginning of a project, do you look for a winning image?
So, do you communicate with architecture? Don’t you have any communications projects that are not architecture?
GE The image must be the result of the concept. We
don’t begin with the image.
PS We did one competition
recently, where we get a concept very quickly and we were convinced that this concept was good, but we found it very difficult to generate a good shape.
PS When you make a company building, 70% of
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However we know that sometimes for a competition you have to go for an image even before a concept. So, do you get to that image or do you want not to get there if it’s not a need? GE It’s a problem of the production of competitions. 4
The jury decides on the image, so it’s very necessary to create it. An image is not only a surface, because in there’s an emotion and the emotion counts too. Not just the structure and the function. We are all emotional so it’s very important for the architecture to create a specific emotion in a specific place. If you don’t win a competition, do you decide to use the same concept again to see if it can work later?
GE It is possible to use one idea for another project,
but every project is a new project and we start from zero, because there are different circumstances: architecture is not like car design. PS Every commission needs a new concept. Then the concept shapes the building.
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How do you sell your project? Do you educate your clients?
How do you work on urban strategies?
PS Mostly it’s a very intense process, especially if
Le Corbusier pag. 12,23,65,92 Stanley Kubrick pag. 60 Google pag. 26,45,49, 65,74,83 Herzog & de Meuron pag. 30,37,70
it’s a private commission for a single-family house and the client sees the project as his future. He’ll spend the money one time in his life and he wants to create his field of living. So people mostly have very clear visions (or very unclear visions) and our part is to find out if these visions are the right visions not for us but for him. So this is a process and it’s very hard. But good clients are willing to undergo this process because at the end they get something that they cannot imagine. Working with a professional client is a process where you have to convince people to go forward in a particular way: professional clients are often not very open-minded. You need to think whether it’s possible from the financial point of view. Architecture, city, urbanism, and communication: are you interested in them?
GE It’s never possible to split things because you
the concept has to do with communication. It’s very important to companies that you optimize the communication process. However our very first project, which was quite public, was a competition we won for an art project in front of the Vienna museums’ courtyard. They wanted to put temporary signs on the facade to show that a museum was being built. So we took away the trees and bushes and created a big piazza to give the museum the possibility to get in contact with the town. This was an art project that might be communicative, but it also has something to do with architecture. In that project we saw an architectural problem. There was a historical building that acted like a belt around the new Museums Quartier. Because of the historic protections laws, it wasn’t possible to blow up a part of the historical building, so the problem comes to be architectural, urbanistic, and communicative. We decided that if we could not make an architectural intervention, we should open a dialogue in the interior square. The museum activities go out beyond the historical parts. GE I think it’s important that architects have a general feeling for problems. We have to bring all questions together in one project. This way it’s natural that we look at communications or urban strategies or cities.
GE Yes, we had some commissions from the town.
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For us the problem is that we know these projects will last for fifty years and we like to be part of a developing process. With an urban project there may be nothing for the next ten years, or ever. It’s very hard for us to make something that will be “in storage” for a long time.
You said that you first got together for fun. Is it still fun? Is it still sort of a game? Or is it serious? PS Maybe it’s like rugby: it’s a game, but it’s a hard 8
game.
GE For us having fun in the office is one of the most
important things. We are convinced that without love in your work you can’t have a good result. If you want to have results you can follow two strategies. One is a good atmosphere and the other is force. Can you give us the title of one book, one film, one music album, and one internet site that are
Delugan Meissl AA pag. 34,37,38-41
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important for you?
He might not really be dead, you mean!
PS For me the “architectural Bible” would be the
GE I think from our generation there are really many
Oeuvre Complete of Le Corbusier. GE For me Wassermusik by T. C. Boyle: a very funny book about an explorer who goes to West Africa to explore the Niger River. PS Film: Starcraft by Stanley Kubrick. GE For me One Flew Over the Cuckoo’s Nest. PS Music: I think the best complete album is the White Album by the Beatles. GE And the website: the one I use most is Google.
How are computers a part of your work? PS It creates architecture like a pen. GE But architecture is created in your brain, not in a 3
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tool like a computer or a pen. We do not work very much with computers. PS We work more with talking. We sit here with the team and discuss ideas very intensely. Maybe there’s more talking than drawing!
GE For me university is a kind of laboratory for every student to find his way, because this is the possibility in a university, to understand your own mind. Real life you learn after your studies. It’s not so important to concentrate on knowledge, to draw exactly, to get the right plan: it’s more that you have to learn to think about problems, to find strategies.
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Graz, 25/08/2005 - h 17.00
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SPLITTERWERK (www.
splitterwerk.at), Mandellstrasse 33 - 8010 Graz (A), tel. +43 0316 810598 Do you collaborate with other studios sometimes? Or do you just know these other studios and the way they work?
Can you name four international practices, four Austrian practices, four artists that are important for you, that share the same way of working or thinking as you, or that just interest you. PS Herzog & de Meuron very often have a similar
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ricerca
SPLITTERWERK Yes we do, for example when we do a project with foreign architects and there are other people involved. Normally the others are not from architecture, just artists or filmmakers or photographers… It becomes a multidisciplinary workshop! Of course we always have connections with the people, sometime we have exhibitions, then
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do research, such as materials. It’s amazing what is possible and there is very quick development of new materials. Also in urbanism it’s very necessary to understand problems in huge cities, Mexico City or Shanghai or all over the world. I read in the newspaper about a city in Switzerland, Flims, where an architect named Caminada collaborated with a professor of economics. I think this is a very interesting project to see how to create a realistic future for a very small village.
way of thinking. They are really interesting. Among the dead ones Le Corbusier is the Elvis Presley of architecture.
collaborazione
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hard, but we, partners, are all people who don’t need a luxury life, so we didn’t have real problems. We always had very little money and now it’s much better. PS But [tracing a wave with his hand] it’s like... the Alps.
GE I think there are many fields in which you can
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but one of Delugan - Meissl. They are now at the starting point of an international career. PS One very artist interesting artist for me is James Turrell, who works with light. Michelangelo is a really good example because is a “generalist” and a very strong artist. GE Yesterday I read about Gerhard Richter, today one of the most expensive artists. But he’s too concrete for me. I can give you one more name: Roland Gruber. He is a real networker. He organized an exhibition about young Austrian architecture. It travelled around Europe and, in every town it went, two young architects of that town were added, so he developed a network of architecture all over Europe.
città
GE The first years were quite
Where do you think it is possible to held research in architecture?
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How do you get to the end of the month, in economical terms?
What do you think about architecture at the university?
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there are some cooperative ventures… However it depends on the project, and it should not be too much because it’s not possible to think about too many different things! Why did you open your studio in Graz and not maybe in Vienna? SPL It was not a real decision. All the people in this studio studied in Graz, in fact we were students when we opened the studio.
When did you set up the office?
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SPL 1988. We started our studio while we were studying. For this reason we needed to be in Graz. Ten years later, in 1998, we thought of leaving Graz to go to Vienna because, after the eighties when it became important, the “Graz school” had divided Graz. However we decided we could not move! And this was really a decision to remain in Graz, about seven or eight years ago, because we found out that when there would be a group exhibition in Vienna, we would always be a part of it just because we were the only address coming from Graz. Now I think there are three, maybe four addresses in Graz and we are the oldest one, this way we had a really perfect position in Austria. We have a small office in Delft, it’s important for us and we are always thinking of it… I think being in such a small city is only possible when, and it helps you to think bigger, you are in Austria, which has eight million inhabitants and Vienna has almost one and a half. It could be that you forget that Vienna is not as big as you think compared to other big European cities.
How many are you in the studio? SPL There is always a really
slow changing in the partners of the studio: we are not the same people of 1988. Some people are here from the beginning, others came back after five or six years away; you can see there is a special climate here, different from other offices. For the last four years we have been six partners and from six to ten employees: we are a small office and this is important because when you are small you have easier possibilities to manage work and sometimes say “no” to the customer! Can I ask you how you work together, how is your work as a group?
SPL We really tried many systems because we
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have been together for a long time. What is really important is that we started as an office which was not doing architecture. We started as an office for advertisement: we were not only architects, but also engineers, artists, photographers, sociologists, car engineers too...
Now there are five architects, one artist and a scenery maker. Nevertheless the beginning of a project is different every time and it depends on the problems we know we’ll have: if we’ll have big engineering problems, we start of course with an engineer, we don’t just start to draw and then go to the engineer and say “Oh, boy, can you help us?” Also with the landscape designer: if there is something which refers to landscape design we start working with a landscape designer at the very beginning. Every time it is a different way of working. Just think that people have different speeds working; you’ll have to combine many different possibilities to permit them to work together. Some people work very well in short workshops, some people have to think on their own for three or four days, some other people are not so good in the beginning but are better to revise, to discuss design features… It’s something like a floating wave, and it finally depends on which people are working with us: years ago we started to have something like a concept on how to co-design, and the longer we worked together the less the concept became clear; the most important thing is to give everybody who is working in this process his own possibilities to work best, and then these possibilities should be combined. This way you’ll get the right layout for a design process. Who does organize everything? Do you make group decisions for everything? SPL Sometime it’s a full plan office, sometimes we get
the plan of others, and it’s something like how to get an end-result. However we have to make decisions during the process and when we do, we make them together, and it couldn’t be that some people will do something different; perhaps it could be a wrong decision, but we decide about wrongness together later and then, maybe, we’ll start together again. We have some “decision points” we go through together, not only the project leader but all six partners and of course the people who are working on that project. Everybody has the same right to say “this is ok,” or “this should go in this direction or not”: it’s not democracy but it’s a real way of anarchism! It’s an anarchism of the weakest and if one of the people who are doing this project says that’s not possible to do, and he does not have an answer on how it is possible, he has the right to say what he thinks. It sounds like it is not possible to solve problems in this way but we have been working together and solving problems in this way for fifteen years! So it is possible! We always talk about this: when one of the people who are working on this project says “It’s not good” to anything maybe there are hundred thousand people outside who would think the same. It’s something like a microcosmos! However to solve problems or to find design solutions must never be a compromise: we are not looking for a compromise
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of six or eight people who are working on a project but for a situation where everybody can say: “Yes! Now it’s better than what I had before!” This is also a real problem of the time passing by but after a lot of time we know each other so fine we could imagine what she or he would say about it, and pass through everything faster than one can imagine. Do you consider your group as a collective mind? SPL This is interesting because
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we never thought about ourselves as a group, we have always had problems when people have said at the beginning of our work, “It’s from the group SPLITTERWERK”. A group is something which is not really open-minded, a group is something like an addition of people, and that’s a big problem of all groups: when somebody leaves the group and someone else comes in, then the group has to change… Every time you would have to reinvent yourself. I don’t think the Rolling Stones are a group now, I think they started not being a group in the late ’60s. The Beatles were a group but the Rolling Stones now are just an “image”. Our group is something like the Factory of Andy Warhol: we always say that we are a brand or a label, not a group, and that’s also very important because for a label it is possible to change in a very soft way without losing energy. Lacoste or Ferrari can change, of course they have to change to remain successful!
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SPL You must think that we were really very young when we invented the name, and we didn’t consider what I said before of course. We were ten peoples and we won a competition, an advertising one against a big advertising agency in Austria. The theme was to propose a SIAE, a corporate identity, for a venture in Graz and after the competition we had to work everything out! The director of our academy said that it was not possible for him to write ten people’s names one after the other: we had to have a single name and our only way at this time was, on one hand the “the work”, and on the other hand “the people.” In English SPLITTERWERK sounds like splitter work, but “werk” in german has two meanings: it means project on one hand and factory on the other.
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Is there a ludic component of the work?
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you start a project, a particular state of mind.
What are you doing in this moment? SPL It’s not really easy to give you an answer.
Everything is changing and to give you a serious
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architecture has changed really in so many ways from design to communication to the possibilities of realization because of the computers. At the beginning we thought about the possibility to change, to make architecture with the new media. I know that we were the first office in the world which had its own website. We were invited to make an exhibition by the Austrian Institute of Architecture and we decided to make an exhibition not with something physical but with “electricity”. In these times, 1986, only the really big museums, like the Guggenheim for example and some others, were on the net, there wasn’t a web of people who made architecture, nobody helped us to bring our design into the web, there were not all the programs of today… we had to handily program all the website! Four or five years after this exhibition we did a theoretical work on the changing of the world by new digital media. On the occasion of this work we tried to say that it’s important not to make the same mistakes as after the industrial revolution because the media revolution is something like that revolution. After that research period we tried to design not with a pencil but with computer programs but now for us it comes back to being just like a pencil. But we needed ten years.
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How do you reach the end of the month, in economical terms? SPL At the beginning we took measures on existing
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SPL In these years of course
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SPL I think there is always a kind of freedom when
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How do you work with the computer?
How are name and identity linked in your brand enterprise?
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answer on what we are doing now is not possible. I think it could be possible in ten years, but perhaps I could give you something like an historical glimpse. What we are sure is that at the beginning we always tried to turn problems around. We thought that people may look at questions in different ways yet they always look at how a question is put on the table, and we want to look under the table! We were happy when people banged their heads and said “Oh SPLITTERWERK, they are crazy”. This was the beginning of course and we always thought “It’s not really important to win a competition” because we had good luck with the first big one we did. “We couldn’t lose anymore!” we thought then. In competitions we always wanted not to win but to have the coolest mention! We had a professor from Germany who teaches urban design, and he always taught like the whole world is Venice and it is impossible to change anything. And we decided in our urban design course project to destroy about 1/5 of the town, Graz, and make a “tabula rasa”, and we proposed making woods there not from one day to the next but in 150 years because we thought that it would be a good and real possibility to realise such a vision. Unexpectedly we got the maximum mark.
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Do you need to be a little schizophrenic to be productive? SPL Yes, it is better to be something like that! But it’s not really being schizophrenic, it’s more like washing dishes. We don’t earn money washing dishes, we earn it making buildings or graphics: it’s just work!
Is that a way to be really honest with yourself and with the customer? SPL Of course we are. Our customers always
know when they get a project of the Brand SPLITTERWERK or a project of the Brand F-Bau. If they get a project of SPLITTERWERK, the idea, the design and the realisation is in the highest quality we can imagine and it should be of relevance for the architectural discourse. If it’s a project of F-Bau it’s just a very good service in realizing buildings. Brands United makes honestness possible to the customers and to us in a way its not obtainable for traditional offices of star-architects.
Mendrisio, 19/01/2005 - h 13.00
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buildings because we didn’t like to make, to design things we did not agree with. We discussed our work in this part of architecture and we could not feel guilty: it was hard work but we earned a lot of money. Then we discovered that there were only two possibilities: first, to be like some visionary painter in architecture and to wait a really long time to have the possibility to realise just what we wanted – if you have really good luck then it would function but most of the time it would not – second, because for our group the first option was too little, to decide not to wait and to realise some kind of architecture. If you want to realise architecture you only want to realise good architecture but for that you have to know really many things not just in design process. We are building up many projects and there is always a problem when you have a lack, not just an economic lack but also a knowledge problem: in fact if you build a project every three or five years then the time between is too long and you cannot get the right education in the latest building process. So we have invented a way to build more than one kind of project and we organized something like a holding called Brands United with different brands. We have two brands involved in architecture, SPLITTERWERK and F-bau, others to make advertisements and graphic design, others also to make art happenings. Expressly F-bau makes architecture in the way of the building process management: it’s really important for us because we can get projects and work in an easy way without thinking like artists in architecture but improving our knowledge of the building process. F-bau must be very fast in a way everybody should be happy with, and we learn continually how to build a project. On the other hand we do not make any compromise with customers when we work as SPLITTERWERK because that brand has its own particular aim. One day we had to make a project for a family house and we understood that the family would never have a SPLITTERWERK house: they were not able to pay it, they were not able to understand it. So we made our drawings as a F-bau solution and in four hours we got the project! It was not a bad project, but we made it in 4 hours because that was the real customer desire: they were happy with it and we were happy too because we earned in a really fine and easy way.
Stalker
(www.stalkerlab.it), via Vito Artale 12 - 00136 Roma (I), tel. +39 06 39740729 Perché questo vostro nome? Stalker Stalker è il nome di un collettivo aperto e a 13
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geometria variabile. Il gruppo di ricerca esisteva già in modo informale e si è nominato Stalker in occasione dell’azione Stalker, attraverso i territori attuali, del 1995. Stalker è un esplicito riferimento al film di Tarkovski: un’esplorazione degli spazi “altri” da quelli della quotidianità, i “territori attuali” (così li abbiamo nominati), per restituire un’immagine inedita della città di Roma, per riuscire a intravedere attraverso gli spazi vuoti, rimossi, dimenticati o abbandonati e in via di trasformazione, i mutamenti in atto, consapevoli e inconsapevoli, di questo territorio. Il film di Tarkovski esprime come pochi altri l’incredibile relazione che intercorre tra l’uomo, la sua identità, le sue aspirazioni, l’esperienza dello spazio ed il territorio. Narra della “Zona”, che è uno spazio dove sono atterrati dei meteoriti e per questo è stata militarizzata e vietata al pubblico. Si pensa che i meteoriti abbiano generato un’instabilità della materia che da luogo a fenomeni di mutamento spazio-temporale capaci di inghiottire cose e persone. Lo stalker, “il porcospino”, nel film è la guida, personaggio che con fare mistico si assume la responsabilità di guidare illegalmente le persone in questo spazio affrontando questa pericolosa esplorazione per raggiungere “la stanza”, luogo creduto magico e capace di realizzare i desideri di chi riesce a raggiungerlo. Mentre stavamo lavorando alla nostra esplorazione dei vuoti urbani di Roma, ci siamo innamorati di
Hans Ulrich Obrist pag. 11-17,26,27
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Roma 00136
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questo film, e abbiamo deciso di usare questo nome, prima per il progetto che stavamo facendo e poi per il nostro collettivo. La parola “stalker” è anche un verbo del vocabolario inglese che indica l’attitudine del felino che insegue la preda. Quindi è un po’ la circostanza dell’inseguire, dell’indagare. Infine, negli Stati Uniti ha assunto recentemente il significato, come termine legale, di “molestatore” o “maniaco”. E questa cosa ci è sembrata divertente! Anche perché quando siamo stati negli USA. la prima volta che ci siamo trovati a presentarci a degli sconosciuti è stato molto divertente vedere le loro facce sconcertate. Siamo felici di aver scelto questo nome, ci è piaciuto ed è durato nel tempo.
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STL L’esperienza di Stalker nasce a Roma. Eravamo all’inizio tutti italiani, ma i suoi sviluppi sono stati più spesso altrove e questo ci ha dato modo di costruire tanti contatti nel corso del tempo, tante collaborazioni a livello internazionale, perché la nostra ricerca scientifica è un tipo di riflessione trasversale che attraversa discipline e aree di riflessione diverse. Però Roma ci ha dato molto: questo tipo di ispirazione non a caso nasce in una città come questa, che ha un territorio comunale tra i più grandi d’Europa, un’orografia del terreno mossa e articolata che la rende particolarmente interessante per chi come noi indaga la complessità del territorio. Roma è sicuramente un esempio eclatante della varietà delle circostanze che tu puoi incontrare facendo una passeggiata.
STL Roma - Amor! Unica definizione!
Definizione situazionista! Vi considerate una mente collettiva?
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su questa tematica. Cioè la nostra aggregazione spontanea, come “modo”, già all’università si basava su una dimensione orizzontale dell’accumulazione e dell’ideazione. L’esperienza “gruppale”, l’esperienza totale e quindi anche la deriva come strumenti per agire… Per qualsiasi cosa, tutti insieme, si prendeva e si andava a fare un giro. E’ stato bellissimo e molto utile questo fatto di deambulare, camminare e decidere insieme. La nostra non è un’esperienza profit, perché quello che genera è la possibilità di fare altre esperienze. Una persona che fa uno stage da noi e fa un’esperienza del genere poi decide di farne un’altra, sa che magari ha garantito un biglietto aereo, un contatto per un alloggio, eccetera, ma soprattutto sa che sta dentro un progetto. Però le nostre potenzialità economiche sono tutte rivolte a investire i proventi in ulteriori progetti. Quindi è un‘attività no-profit che continua a fare ricerca con
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che molti giovani oggi abbiano necessità di una fede nella propria fortuna, nella propria opportunità, nel valorizzare la propria esperienza come una cosa utile agli altri, al mondo. E’ stata questa per noi l’esperienza iniziale: il desiderio di fare delle cose a partire dal presupposto di divertirci. Il nostro lavoro nel tempo è diventato una cosa anche molto impegnativa, ma abbiamo sempre mantenuto
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STL Il motore è assolutamente esistenziale. Credo
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Riguardo al vostro rapporto con il situazionismo, con la deriva, con la cibernetica: a che gioco state giocando?
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La deriva e l’intervista sono sicuramente un momento di interazione. Un’interazione non progettata. Quindi la potenzialità messa in campo e la disponibilità a cogliere l’occasionalità di quella circostanza. Si va sul posto, si va a guardare, si va a cogliere ogni occasione per fare una riflessione. Occasioni anche divergenti, marginali, laterali. Il pensiero laterale guarda in maniera non convergente in quello che stai facendo e coglie quello che si vede con la coda dell’occhio, come cerchiamo di proporre in molti nostri video. Il nostro lavoro parte da un’evidente fede nel pensiero sistemico, cioè che qualsiasi gesto esprima la dimensione del tutto, qualsiasi parzialità comprenda il tutto. Quindi guardare il margine significa guardare al problema generale. Indicare, osservare, partecipare alla vita del margine è parlare della metropoli contemporanea, senza escludere niente. Quindi raccontare le atrocità della vita di un giovane minorenne curdo che attraversa il territorio in maniera mirabolante, significa raccontarne anche la storia mia o vostra, insomma di essere vivi, in questo momento storico.
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Se doveste definirla in due parole?
STL Il nostro gruppo ha iniziato a lavorare proprio
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Abbiamo intervistato Hans Obrist sulla sua strana attitudine verso l’intervista, che spesso non fa in studio o in una zona riservata, ma a pranzo o magari in taxi. Gli abbiamo detto che ci sembrava molto una sorta di situazionismo urbano, una deriva per la città. Ma lui ci ha detto che, piuttosto che una deriva, preferirebbe sentire parlare di una passeggiata. Sappiamo che anche voi in qualche maniera fate delle interviste o è un vostro strumento di indagine. Per voi la deriva e l’intervista che cosa hanno a che fare l’una con l’altra?
Gli Stalker hanno una città di provenienza?
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la propria disponibilità. Quindi anche lo sforzo di essere presenti, per esempio venire nelle facoltà, parlare della nostra ricerca, è questo: da una parte avere la possibilità di veicolare la ricerca in termini teorici e di scambiarci idee, nello stesso tempo innescare processi di ricerca del territorio, in cui altri giovani iniziano una ricerca simile o intervengono ad aumentare le nostre potenzialità di elaborazione. Utilizzando l’immaginario, che è una necessità dei più giovani di inseguire lo propria identità cercando, guardando, vedendo nelle cose.
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questo spirito di apertura verso l’altro, di guardare sempre l’altro o una realtà altra come una risorsa. Così abbiamo trovato le risorse per trasformare delle idee in realtà, in opportunità, in occasioni di nuove esperienze.
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Volevo chiedervi qualcosa del rapporto tra l’architettura come una condizione data, in cui l’architetto deve semplicemente costruire, e l’architettura come una condizione in cui l’architetto va a ricercare il luogo dove costruire. Visto che lavorate spesso con le università e le istituzioni, volevo chiedervi anche se, secondo voi, c’è un modo per istituzionalizzare questo modo di ricerca su tre diversi fronti: architettura, città e comunicazione.
Cercate di risemantizzare i luoghi della città ed in questo senso risemantizzate anche la figura dell’architetto, la sua stessa figura professionale.
STL L’osservazione di Stalker è
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Stefano Boeri pag. 13-14,22, 40,62,63 Google pag. 26,45,49, 65,74,77 Superstudio pag. 22-23 Archigram pag. 61
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concentrata nel risemantizzare i luoghi. Quindi non esiste di per sé, è un processo di conoscenza che riguarda lo sguardo con cui guardiamo al mondo. Lo sguardo di Stalker è lo sguardo di un soggetto che fa ricerca sapendo che a seconda della “lente” usata per vedere si colgono cose differenti. È vero che questo processo è fuori dalla dimensione tecnica, del ruolo tecnico della realizzazione di un progetto. Quindi si trasferisce il concetto di architettura da un ambito ristretto di tecnici competenti, in grado di giudicare la fattibilità economica e tecnica di un determinato manufatto, alla competenza di qualsiasi persona che invece ha tutta la competenza esperienziale dello spazio, la competenza dell’ abitare in quanto essere umano e fruitore. Quindi Stalker riconosce sullo stesso piano la competenza del fruitore e la competenza del progettista, come due componenti utili e indispensabili per realizzare una trasformazione urbana. Il contributo di Stalker riguarda dunque la cultura architettonica. Siamo una struttura di ricerca e non abbiamo firmato manufatti architettonici. Inoltre non siamo tutti architetti: Davide per esempio è uno psicologo, io sono architetto e in questa struttura di ricerca portiamo contributi differenti. Inoltre molti di noi hanno anche altre attività lavorative. Ad esempio negli ultimi quattro anni ho collaborato al coordinamento della progettazione della nuova stazione ad alta velocità Roma Tiburtina, un lavoro completamente diverso da quello che è la direzione artistica o il coordinamento di un progetto di Stalker. Stalker non è mai stato però un momento critico fine a sé stesso, quanto piuttosto il tentativo di offrire uno scenario che aprisse un dibattito per nuove prospettive. Ribaltare continuamente la rappresentazione di una cosa per offrirne sempre nuove visioni: una ricchezza maggiore nella percezione è sicuramente l’occasione per un dibattito più allargato, per una comprensione maggiore, per una condivisione maggiore della trasformazione del territorio. La sfida della complessità nello scenario urbano contemporaneo deve riuscire a cogliere qualcosa di
più delle proiezioni numeriche che abbiamo in mano oggi. È questa la condizione e la definizione dei “territori attuali”: tutto ciò che sta già avvenendo e di cui non siamo in grado di dare rappresentazione. La processualità che proponiamo in progettazione è uno sforzo, magari non esaustivo, che invita a una nuova epoca caratterizzata da una progettazione complessa, nella quale si guardi a tutto come a una risorsa, cioè cercando nuove risorse o nuove circostanze non ancora considerate. Stalker in questo senso ha partecipato e partecipa a processi di progettazione cercando di offrire uno spettro più ampio di aree da indagare.
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STL Credo che l’architetto oggi si debba far carico di conoscenze infinite, in quanto nel tempo la sua figura risulta sempre più quella di progettista del processo di trasformazione dello spazio e del territorio. Significa la capacità di gestire e coordinare di volta in volta una quantità incredibile di competenze. Quindi diventa una bizzarra alchimia quella dell’architetto che ha a disposizione una quantità incredibile di specialisti e nel frattempo media le circostanze politiche della realizzabilità dei progetti. Il metodo di Stalker è utile nel momento in cui coglie la possibilità di mettere a frutto le risorse potenziali di tante componenti diverse secondo una strategia che è appunto quella tipica dell’osservazione collettiva, del coinvolgimento nella progettazione, del coinvolgimento ludico, nel temporaneo, della cittadinanza. La possibilità di lavorare assieme, con metodo condiviso, con partecipazione, permette di unire delle competenze e delle esperienze per arrivare a intravedere dei territori del sapere più ampi.
Boeri ha definito l’architetto “detective dello spazio” che cerca collegamenti tra i vari ambiti scientifici, umanistici. Voi come vi ponete di fronte a questo aspetto?
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STL Il nostro è un atteggiamento che tende a valorizzare l’uomo nel suo ambiente, alle prese con un mondo particolarmente condizionato dalle logiche del mercato. Un atteggiamento diverso potrebbe dare luogo a nuove logiche di mercato. Piuttosto, anche il mercato è rigido nelle sue strategie, cioè tende a riprodurre esattamente le stesse logiche e di fatto spesso fallisce. Quindi anche le strategie con cui vengono previsti gli investimenti si stanno orientando verso modalità altre di sperimentazione. Il sapere è il sapere, la modalità di realizzare, di costruire questo sapere è il luogo del dibattito. Stalker propone una procedura aperta e non per modelli schematici.
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Un libro suggerito da Stalker? Romolo Verso un’ecologia della mente di Gregory
Bateson. Davide Dreambody di Arnold Mindell. E siamo veramente ai confini della realtà… Un disco, colonna sonora? R Prodigy, The fat of the lamb D Peppino D’Agostino, celeberrimo chitarrista
italiano residente negli Stati Uniti.
Un film? R Ovviamente Stalker! D Waking Life di Richard Linklater, del 2001, molto
bello: filosofia esistenzialista per interviste, animato con giochi di colori, reinvenzioni dei visi, delle situazioni, dei personaggi.
Un sito? R Google, nella parte che ti trova un sito a caso. D Oppure un sito di una rivista canadese che si
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fonti di reddito rispecchiano le nostre competenze. Sono progettista d’architettura, design, seguo progetti partecipati e comunicati, realizzo video e documentari di arte e architettura, sono fotografo e intanto sto completando un dottorato di ricerca all’Università di Architettura di Pescara, sull’uso temporaneo/alternativo dello spazio pubblico come strumentazione progettuale; sono professore a contratto alla Facoltà di Architettura Ludovico Quaroni de La Sapienza di Roma. D Io sono psicoterapeuta e lavoro con le persone e i gruppi, in studio e presso altre strutture; sono docente a Milano e Roma per le specializzazioni post-laurea in psicoterapia, e quest’anno coordino un progetto socio-educativo di comunicazione e sensibilizzazione per il Comune di Roma. Nel campo della video-arte ho sviluppato una ricerca poi confluita in tacc, il centro per la cultura e l’arte transpersonale che ho fondato nel 2000, e nella collaborazione con Stalker. Recentemente il nostro collettivo sta lavorando anche definendo con maggiore specificità che nel passato le competenze e gli ambiti di ricerca, che sono organizzati come reti e assumono differenti dominazioni. Come ad esempio Spacexperience, che vede convergere in un unico ambito di ricerca territorio, arte e scienza; è una rete di artisti, architetti, videomakers, ricercatori di diverse discipline provenienti dall’Italia e dall’estero, che condividono l’interesse per “l’esperienza dello spazio” come vertice di osservazione della contemporaneità. Nel proprio archivio, questo raccoglie la documentazione delle principali esperienze effettuate sin dall’inizio delle
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STL Possiamo citare architetti che condividiamo, ma è difficile coprire tutta una gamma solo con quattro nomi. Comunque proviamo, menzionando gli architetti radicali, i gruppi. Penso a Superstudio, gli Archigram, Constant. Più contemporanei Lacaton & Vassal, con cui abbiamo scambi. Robert Smithson è un’artista, ma per noi è un padre. Come dire, la dimensione artistica della nostra ricerca sicuramente è legata indissolubilmente alla figura di Smithson.
Qualche italiano? STL Questo è veramente doloroso! Perché a questo punto non puoi elencare tutti gli amici e diventa veramente doloroso.
Però, per delle nostre ulteriori interviste, da chi assolutamente ci portereste? STL Da AnArchitektur di Berlino, che incontreremo a fine mese a Ginevra e con i quali speriamo di collaborare in un progetto a Berlino. È un gruppo che lavora, come dice esplicitamente il nome, sulla non-architettura. Loro si chiamano antiarchitettura, qualcosa diverso dall’architettura. Però crediamo che sia un gruppo che sta facendo esperienze sullo spazio e sulla sua percezione, esplorando con grande coraggio e con grande energia tante modalità, possibilità di viverlo.
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(www. thenextenterprise.at), E.J.Fuchs MT.Harnoncourt, ausstellungsstrasse 5/13 - 1020 Vienna (A), tel. +43 01 7296388
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Why did you chose to work in Vienna and not to move somewhere else? 15
Marie Therese Harnoncourt I worked in New York for a
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Quattro nomi di architetti.
Vienna, 24/08/2005 - h 12.00
R Facciamo cose completamente diverse. Le nostre
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attività, a cominciare dal percorso di Stalker nei primi anni novanta.
chiama Yunkus, una rivista digitale di architettura del paesaggio. Domanda fondamentale: come campate?
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year as did my partner Ernst Fuchs; he was there as well as in South America. But we studied in Vienna and at that time we began to design together. We were already a studio with more people than just us two.
What is the name of your studio and what does it mean? MTH The nextENTERprise didn’t come out of the intention to create a name. It was that Ernst Fuchs and I both have names that are already well-known and connected with music and painting, because there is a Fuchs who is a famous painter and an Harnoncourt who is a conductor. On the other hand we didn’t want to use the double name HarnoncourtFuchs. So, after The PoorBoys Enterprise, we said we’re making the nextENTERprise because enterprise was for us just a way to get in something new. But it doesn’t have a big philosophy. It’s just a name.
When did you start working together?
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MTH I joined this group in 1994. Ernst was one of the founders of a former group called the The PoorBoys Enterprise born in 1992 when they were all still studying. They had a place to work and to think; it was a very open studio dedicated more about thinking architecture and trying to find new ways for it rather than waiting for a competition or some client. So there was already a studio structure in a way. After finishing our studies we went abroad but there was still this group as a sort of informal team. Artists were also involved. We worked on interventions in the city like the Chairs Project.
You are a group of partners. Does the group dynamic work or not? MTH Hopefully. Sure!
What do you think about Vienna?
How do you organize your office?
MTH Vienna is a small city. It has changed a
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lot: it was very introverted, but it has started to become a more international city, thanks to cultural contributions on the one hand and universities on the other; architecture school especially has attracted a lot of international profiles with professors like Zaha Hadid and, of course, Wolf Prix. However Vienna is the biggest and the only international city in Austria. But still it’s a small city in comparison to London or Paris: it’s different if you have a city of nine million people or one of not even two million!
MTH Our way to think about design is that you don’t have just an idea and work it out. It’s always a gathering of elements that come together. We like that things are lying about and that people are working in our office. We have never had people outside doing parcels of work as happen in other studios. We want people to work with us, to have the possibility to jump into this studio and to decide how much to get into it or not.
How many employees are in your practice? MTH At the moment we are four.
Would you say that Vienna is a slow city? MTH What do you mean by slow?
Is there a common idea or a common task in your work which all of you share?
A quiet city, something like that. MTH Vienna was the city of
coffee house culture with people that liked sitting and meeting. It has a lot to do with the austrian word “musse” (leisure), taking your time. To do nothing is not really the right definition, because in fact you are thinking, looking. This way I think “musse” has a creative potential. It’s like the ‘otium’ classical concept. MTH I think there has to be time in which things grow. It’s not about being lazy; it’s just about letting things develop. And I think sometimes this is not possible. So in Vienna there was always these places where a lot of people were just really waiting and other were using this kind of atmosphere to create great things. Therefore it has this very strange humus. it’s true, Vienna is slower.
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MTH There was always a very strong longing to find our own definition of architecture: “Why this architecture and what’s the quality of it? What do you want from it?” We have to invent a new vocabulary, because vocabulary means having so much imagination in oneself. If you speak about a house, a door or a sleeping room, we are all used to this kind of spaces. But if you think of a Brainsail room (one of our former projects), for example, you know suddenly new elements start to enter in. It’s a special imagination; we wanted to have “other” spaces, “other” functions, “other” ways for people to use architecture. We always believed that a structure has the possibility to activate itself (activity has something to do with identity). We had a big reaction to the 80’s, when there were so many dead houses in those big housing projects. They didn’t have a feeling inside or in-between that anyone would like. What was wrong is that people should be not
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just valued as consumers but as living beings. And we thought that life is something active. If people have the possibility to live actively then everything becomes vivid. Therefore we think it’s important to make architecture and structures for users, not consumers. This sounds as if you are always working on only one project, one big project, and every singular, particular project is just a part of it.
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What was your first project?
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Could your process stop or not? are just a stage of this process, because we think that our structure should be a condition which will be activated by its users. So it will never end, maybe. Should an architect sometimes forget everything
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MTH We are interested in starting by inventing a new process. It’s always a question what kinds of factors are relevant when you start to collect and to condense them. We are interested in collecting different things. From size information, from plans, from programs, from other projects we are looking at, we put together all and then we like to have a site model around us just to get everything into dimensions.
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MTH Whether urban planning or a house, our emphasis is always on getting these bases of awareness upon the process. What was important for us, for example in these first projects of intervening in the city or the Chairs project, was dealing with ideas we found before. In this scenery, measurements concern more about this awareness and the tools you defined to make structure, program, identity, and all the elements important in an urban context as in a house project. For example, we did a concept for housing, it was called Motel. The project concept had a lot to do with the distinction of the private, the public, the in-between and how these informal spaces can be used by people, by the community. Then we took the same concept in an urban design, the Kardiagiegründe. We had the same intention, that between the houses you started trying to find a definition in a bigger scale for special, somehow characteristic places. We will enrich this spaces in between until they become a vivid space that is used and not just consumed. The scale shifts, you have to think about new tools and new things, but the intention was very similar. In the end the project is always about the relationship that exists between
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Are you interested in city, architecture and communication? Why?
you work in a process, you have to work without knowing what’s coming out. Otherwise, if you know precisely where you’re going to at the beginning, it’s not a process. So we started with something, like the Chairs project, and I didn’t know what will come out and how. And it has a lot to do with the content.
MTH For us building projects
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At the beginning of every project, how do you start?
Are you setting up a collective mind? MTH I mean the process in itself is just that. If
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MTH We never thought of forgetting anything of
MTH It’s great that you say that. Nobody has said it like that before, but it’s really true because our projects are always so connected, even from the very beginning.
MTH There was a different group before, so it’s difficult to say what the first project was. However it was an active situation: we were still students when we said we wanted to do something. Even if it was a competition, you just got used to this teamwork situation. We experienced how to put ideas together. There was a definition of this natural field where we found the possibility to collect all of our ideas: sometimes an idea was a word, sometimes it defined a structure or a street… All these ideas together shaped a collection of different elements, a collection of things we collect for others to use and see, and this was our basis to think about a city or a house. Everything is in these thoughts. I think there were a lot of different fragments of those ideas, which we all have taken very seriously somehow. Now, we have the possibility to do this with projects, even with social housing or an installation you are invited to do. And before we invented it or did it in the city by ourselves. But you’re right. It’s like one big project.
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he has done before? what we had done before. We were always thinking of forgetting what we got to know before or what we learned before and not having anymore our own ideas. There’s a writer on cybernetics, Heinz von Förster, who talks about learning processes: he says our kind of learning is always a harder kind of learning rather than asking and receiving an answer. In reality each question has a thousand possibilities of answers. We need to train ourselves to find the way trough all these possibilities of answers, because none of the school systems wants to have this huge range of possibilities where truth becomes really difficult to be managed. We tried to work with these large panorama of possibilities, also in inventing, finding out and defining qualities or programs. It was really a longing and it’s not about forgetting what we have all learned in this way, we used it all.
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the structure and the people, and the way they deal each other. And communication in architecture?
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MTH Architecture implies, I think, communication. We are really trying to use space to allow architecture to communicate. We think in our time there’s a kind of loss of spatial articulation. It’s a cultural loss, because spaces influence the thinking and feeling of people a lot. At the moment in our work we are using last technical possibilities to make buildings interact or interface with users through form, through their own spaces. And we did more trying to involve people: there is a project we did with a blow-up fountain. It also had a lot to do with the body and with interaction. That project is called Audio lounge: it was an infrastructure for an exhibition we were invited to. Each team invited did a part of it and we were asked to do a particular infrastructure for ten interviews. We had just a very informal talk, after then Ernst and I brainstormed in an internet chat, and we decided that we didn’t want to have a headphone situation but something that makes you thirsty and an audio that swallows you up. After having collected the recordings, we started to deal more with computer programs that let you form things. We decided to take a sphere, because it doesn’t have an up and down like an acoustic area, and we want to make some kind of deformation upon it through a CAM program: “deformation” itself is a tool which you have usually in such that kind of program, everyone can use it. The real problem is not the way we manipulate forms but the concept behind: every decision might make it something stronger or not. We are interested in this kind of new vocabulary of form, because we think that form can mean or communicate a lot. Therefore we used this 3D editing tool, because there was this very clear sphere, and with this kind of deformation we create some holes which swallowed you up. At the end we built a model. We always, even with the computer, end up working with a model after. We went on with this project and it turned out nicely, because it became an acoustic sphere that, when you come closer, you could really get into its world, leaving the visual space for the audio space somehow, which is in you and with you when you put your head in the hole generated by the sphere deformations. And it also interacts with the different spaces around, because of sound reflections. We didn’t know that, but we found out that the reflections in the space make you hear only murmurs; just in a certain corner you can clearly hear one interview.
How do you use the computer? MTH On the one hand, it’s a tool which you have
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just to drawn two-dimensional plans, and on the other hand it offers three-dimensional possibilities.
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However it was not easy to feed and control projects with information. In this not 100% control situation, we like the accidents that take place in between these not so sharp things. It’s something interesting, which might show you where it’s better to go. We also use the computer now, for example for our swimming pool project in Kaltern. This project is all in 3D on computers: it’s the basic model for the developer concrete construction, for the engineers structures. This way computer also starts to become an important communication tool. Do you use it to deal with other professions?
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MTH There are some companies which cannot deal with 3D yet, but others can and so we’re finding out that dealing with geometries like this will become more and more important. The most important thing is a precise 3D model, of course, and it’s not about making renderings and stuff like this: it’s really about the mathematics, because if you make 2D plans they are never right. Because they are just one moment of a structure which maybe is changing in each centimetre of section.
Could you tell us a title of a book, a movie, a soundtrack or a music album, an internet site which are important for your group? Ernst Fuchs Many things! Sure, it’s difficult. About
the music, I like all kind of music. I need it for my brain, for my inspiration.
Perhaps there is a soundtrack that is important for your office as a group? EF Do you know the Kings of Lawn? I think they’re from Great Britain. They make really good pop music.
And what about a movie? EF The best movie is Ten Marks. It is a beautiful movie about our language and I like it very much. It’s not so important what you say, more important is what you see and what you feel. I think that’s the special issue in this movie.
And the title of a book? Not only books about architecture. EF I think Daniel Süskind’s Das Parfum. I like it very
much and also Wahlverwandschaft by Goethe. It’s very similar to the movie Ten Mark. An internet site?
EF I think the nextENTERprise site.
Could you tell us four names of Austrian architects and also four names of international architects,
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who are you interested in? 9
MTH For Austria you could say Günther Domenig, but he is an old guy already. He’s however very interesting. In Paris we have a good friend, Didier Faustino. We think he is good. But Johannes Stiefer for example, he is from Austria and has a small office in Vienna, is also a very interesting architect.
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have more possibilities, but of course the way we are working and trying to invest in projects we need a friendly bank manager!
Maybe also some artists? MTH I think all artists are interesting. We are
interested in artists that really trust in their own work. Of course you can have international people very well known but we are also interested in our local good friends, like Edgar Muhneschläger or Michael Kinze. I think they are really good thinkers and do good work. But of course I mention Franz Westwer, he’s an Austrian internationally known, or Rebecca Horn, you know. What do you think about architecture school?
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EF I think in Vienna the Universität für Angewandte Kunst is really a good place to study architecture now. I think it is the best in Austria now.
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Where do you think it’s possible to do research in architecture, in a university or in an office?
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EF I think you need both. It’s important to study at the university and similarly but it’s important also to have experience in an office. MTH The research question is a big question of money in our university. Research in architectural tools is not so developed yet, but they are starting these programs. In Switzerland for example, I think, they have better conditions than other schools. In America they developed architecture generation computer programs. They do also research which is not only connected with economic value but also just with intellectual value. To do this in an office on your own is not easy but however we try to do it with each project. Frank O. Gehry is a big example because if he has the possibility to get money for his own research projects then he does it. He’s also investing in computer aided design, new façades and stuff like this. If a project is big enough you easily get the possibility to find companies that want to invest in this kind of research. In Austria there is the possibility, just small amounts, to get some public money for research works. You can now get money from the European Union. But you need one year just to get all the papers, so it’s difficult.
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Can you live with what you earn from architecture or it is not enough? MTH The bank makes it possible. We are teaching, we get also subsidies and things like this… We
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Mario Botta, cappella di santa Maria degli angeli, monte Tamaro (CH)
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epilogo Lugano, 20 settembre 2006
Che lavoro fa Mario Botta? controintervista ad un maturo professionista
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Può parlarci brevemente del suo primo progetto?
Mario Botta
Dobbiamo risalire a 50 anni fa! Ho 63 anni ed il primo progetto l’ho fatto a 15!
Il primo disegno in assoluto era un progetto estemporaneo per una piccola cappella che avevo immaginato da bambino nel mio paese. Il primo edificio che ho invece costruito, quindi un progetto impegnativo, è stata la casa parrocchiale di Genestrerio (CH): la vecchia casa era stata demolita per l’allargamento della sede stradale, bisognava quindi ricostruirla sul fronte opposto della chiesa. Il mandato era stato dato all’architetto Tita Carloni che per ragioni di tempo era impossibilitato ad occuparsene, così decise di farlo affidare a me che ero apprendista presso il suo studio. Ero un ragazzo di 18 anni ed al tempo mi impegnai con tutto l’entusiasmo che potete immaginare. Devo dire che l’emozione più forte la provai quando vidi lo scavo dell’edificio nel terreno e mi resi conto come un terreno naturale venga violato dalla costruzione che, in quanto elemento artificiale, priva il territorio naturale di sole e acqua… AsMA
L’infanzia e il gioco sono l’ultimo orizzonte al quale attingere per progettare?
Mario Botta Io credo che l’infanzia, la gioventù in generale, sia un periodo decisivo per l’uomo, nel senso
che vi si possiede l’intera speranza della vita. Nell’infanzia il mondo dei sogni, delle prospettive, delle attese, fa si che almeno per una volta si abbia la consapevolezza di poter possedere il mondo intero. AsMA
Quali eventi recenti la hanno più colpito?
Mario Botta
L’undici settembre 2001, con le Twin Towers che crollano. La consapevolezza che quello
che fino a qualche momento prima poteva essere recepito come simbolo di potenza e di benessere fosse crollato come un fuoco d’artificio, è stata per me immagine della fragilità della nostra cultura, in generale della fragilità dell’uomo. AsMA
Come si è riflesso questo sul suo immaginario architettonico?
Mario Botta
Dopo un grande evento ognuno di noi è sollecitato a tirare le proprie conclusioni.
Nel nostro immaginario ognuno ritrova sé stesso, le proprie predisposizioni e le proprie attituidini. E’ questo un aspetto particolare della nostra professione che, mi sembra, corrisponde ad una riflessione globale, nel senso che si vorrebbe poter influenzare con il proprio lavoro lo sviluppo del mondo intero… Come architetti siamo chiamati a costruire lo spazio dell’uomo, anche se in realtà quello che riusciamo a fare è pochissimo e sempre legato ad una storia autobiografica, influenzata
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dai propri sentimenti, dalla propria storia, dalla propria cultura, dalla propria formazione. E’ necessario poter valutare la potenzialità di un lavoro con la misura delle poche cose che riusciamo ad esprimere come testimonianza del proprio tempo. AsMA
Può indicarci un libro, un disco e un film che la hanno colpita?
Mario Botta
Un libro… Direi le riflessioni di Garcia Marquez attorno alla “Cronaca di una morte
annunciata”, riflessioni in cui il personaggio e la trama sono sempre visti attraverso un’immagine. Vi è in Garcia Marquez la capacità di raccontare lo stato dello spirito dell’uomo, trasfigurandolo nella mente di chi legge attraverso la descrizione e la qualità degli spazi che lo connotano. Garcia Marquez è capace di farti vedere un paesaggio anche senza descriverlo, solo attraverso un personaggio. Un disco... Non sono un uomo di musica… Dovrei risalire a cose recenti o esperienze invece del grande passato poiché non ho una musica particolare che mi abbia impressionato al di là del piacere dell’ascolto. Un film… Ci sono film, mi rendo conto in questo momento, molto simili all’esperienza che ho citato di Garcia Marquez. Una stupenda fiaba del ventesimo secolo, che mi ha molto impressionato, è stata “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini; lì l’ideologia, attraverso la metafora di un merlo parlante, pone i problemi del nostro tempo... AsMA
Ci racconta brevemente la sua formazione?
Mario Botta
Sono nato in un piccolo paese di nome Genestrerio (CH), ho fatto le elementari, tutte le
cinque classi con un unico maestro, poi sono andato alle scuole medie di Mendrisio. Dopo 4 anni sono uscito dalla scuola. L’ho sempre frequentata malvolentieri. Sono entrato con entusiasmo nella professione come apprendista per 3 anni nello studio luganese di Tita Carloni e lì ho capito come l’architettura, oltre al mio mestiere, potesse essere al contempo la mia passione. Qui, intorno a questo lavoro, ho scommesso la mia vita. Poi tutto è stato più facile. Ho avuto la maturità artistica da privatista a Milano, poi sono andato allo IUAV di Venezia per guadagnarmi una laurea… Tutto però era già stato chiarito con quella mia scelta adolescenziale. AsMA
Cosa le ha insegnato la post-occupancy dei suoi tanti progetti costruiti?
Mario Botta Le idee della vita sono più forti delle idee degli architetti: l’architetto ha un suo immaginario
dove colloca il comportamento dell’uomo, e quindi del cliente, ma poi l’architettura, come un dono che l’architetto offre, può cominciare a parlare di cose diverse. All’interno del mio mestiere trovo soddisfazione soprattutto nel fare le cose e poi, quando sono fatte, distanziarmene poiché mi sembra di capire che appartengono più alla storia del mio tempo che a me stesso.
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epilogo
AsMA
Il fatto che i suoi edifici abbiano acquisito una “cifra riconoscibile” dal grande pubblico ha
influenzato la sua progettazione? Mario Botta
Questo è un altro fatto curioso. Dall’interno della pratica non ci si accorge di avere quella
che voi chiamate “cifra riconoscibile”. Io credo che questo esista in ogni forma espressiva: quando Picasso disegna ha un suo unico modo di configurare un segno, sia che disegni le “Mademoiselles d’Avignon” sia che faccia “Guernica”. Questa “cifra” appartiene all’operatore come uno strumento espressivo, uno strumento con il quale si può affermare una cosa come pure il suo contrario. Questo strumento non è mai la finalità ma sempre un mezzo sincero per esprimere ciò che ci è congeniale. Anche quando ci si mette in testa di tradire il proprio linguaggio, il proprio approccio linguistico, ci si accorge ben presto come questo non sia possibile. Alla fine si trova pace, si trova serenità ed equilibrio all’interno della propria scrittura, all’interno del proprio registro, quasi fosse un ritmo biologico. AsMA
Come è avvenuta la collaborazione con altri artisti o con altri architetti?
Mario Botta Ho avuto modo di lavorare con parecchi artisti; con Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Walter
de Maria, Niki de Saint Phalle e altri ancora. In quelle occasioni è stato bello constatare come ci sia stato un rispetto tacito entro il quale ognuno ha fatto il proprio lavoro e successivamente ci si è confrontati. Quasi sempre c’è sinergia, senza una costruzione collettiva ma piuttosto con un vero e proprio incontro complementare. Forse con gli architetti tutto questo è più difficile perché la collaborazione genera immediatamente qualche discussione, il che può essere per un certo aspetto utile, stimolante e proficuo, perché il confronto sulle idee evidenzia determinati aspetti della complessità, ma può essere anche doloroso poiché le risposte alla complessità quasi sempre passano attraverso un filtro soggettivo. AsMA
Lei, che è tra i primi architetti star, come gestisce la comunicazione dell’architettura?
Mario Botta
Questo è per me è un vero mistero. Ritengo che la vera comunicazione sia fatta attraverso
la forza del lavoro. Ogni spiegazione è irrilevante, complementare o sussidiaria alla lettura del fatto architettonico. In verità con le parole si può aggiungere pochissimo al messaggio, giusto qualcosa di un pensiero. Quello che mi sorprende è come la comunicazione diventi poliedrica, persino con osservazioni elogiative del progetto cui l’architetto non aveva nemmeno pensato. AsMA
Come si comunica la ricerca, il processo dell’architettura?
Mario Botta
Innanzitutto in architettura più che la ricerca è quello che si trova ad essere interessante:
la ricerca è uno strumento con l’obbiettivo finale della sintesi che fa di un determinato tema un’immagine propria del tempo storico nel quale si agisce. Picasso diceva “Io non cerco, trovo”. Penso sia così per tutti i creativi. Anche se ci nutriamo di un linguaggio disciplinare, di una ricerca, di un processo, noi siamo
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chiamati sempre ad una sintesi finale che possa diventare espressione del tempo. Fare una casa oggi è diverso dal farla ieri o vent’anni fa, non perchè si sia modificato molto il modo di vivere ma perchè il nostro modo di interpretare la casa è cambiato. Così anche fare una chiesa oggi è molto diverso rispetto agli anni prima di Picasso. L’immaginario dell’uomo, il suo senso estetico, il bisogno di preghiera, il silenzio è stato stravolto dalle avanguardie artistiche del XX secolo. La ricerca dell’architetto è una ricerca complessa, lunga e silenziosa che spesso non appare mai. Le Corbusier parlava di una “recerche patiente” legata al mestiere ed alla professione. Al di fuori la gente non pensa e non recepisce che l’immagine finale. Qualche volta la gente pensa persino si possa copiare l’architettura senza comprendere come l’architettura non produca oggetti, bensì condizioni contestuali con le quali il territorio interagisce continuamente. Ogni volta esiste architettura, esiste un unicum. Anche uno stesso volume ha un significato diverso se spostato in un altro contesto: non è più lo stesso perchè riceve una luce diversa, perchè ha un orientamento diverso, perchè ha un clima diverso... AsMA
Nei grandi studi esistono progetti di serie A o di serie B?
Mario Botta Probabilmente esistono nei grandi studi. Nei piccoli studi come il nostro, siamo 25 persone,
ogni progetto diventa importante, anche se questo può sembrare paradossale. Affrontiamo lo stesso impegno per il piccolo oggetto di design come per il grande palazzo o il quartiere della città: tutte le commesse diventano un’occasione per esprimere al meglio la propria idea di spazio, la propria “weltanschaung”. AsMA
Ci può indicare 5 architetture recenti che la hanno colpita?
Mario Botta
Non conosco molto le architetture recentissime. Devo dire che dell’architettura
contemporanea mi interessano molto le esperienze già consolidate: le architetture di Louis Khan, quelle di Tadao Ando… Mi interessa là dove c’è una sedimentazione di storia e memoria molto di più che non le realizzazioni attuali. Guardo pochissimo le riviste e ogni volta cerco di affrontare i temi come se fosse sempre la prima. AsMA
Come gestisce la professione?
Mario Botta Ogni progetto è diverso anche perché oggi, di un progetto appena iniziato, non si può dire
se durerà sei mesi o sei anni. Il tempo del processo di produzione architettonica non è l’architetto a determinarlo, piuttosto la società, il cliente, la normativa, la forma di finanziamento. Le procedure per cui si resta in balia di un processo che non si può più controllare, ma in cui si è chiamati ad intervenire, rappresentano oggi il vero spazio progettuale. AsMA
Nella storia dello studio ci sono stati cambiamenti epocali?
Mario Botta
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Probabilmente ci sono stati e, forse, non me ne sono reso conto. Si è passati dal disegno
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epilogo
con squadra e matita, che erano lo strumento principe, a lavorare con i computer. I mutamenti sono stati lenti e per così dire apparentemente legati alla sola sfera “strumentale”. Questi cambiamenti hanno generato un’accelerazione esponenziale del processo produttivo. Una volta c’era molto più tempo di riflessione per ogni singolo progetto. Questo tempo si è via via ridotto: oggi si è chiamati a rispondere in tempi stretti. Anche per questo probabilmente l’architettura contemporanea si presenta fragile, cartellonistica, piena di slogan racchiusi in una costruzione effimera in cui si legge la mancanza di sedimentazione del percorso progettuale. AsMA
Quanti progetti ha fatto finora?
Mario Botta
In archivio ci sono tubi con cui noi cataloghiamo il materiale cartaceo; credo questi siano
circa 550-560 a tutt’oggi e sono progetti che vanno dall’oggetto di design al quartiere, da progetti che impegnano poche giornate ad altri che hanno coinvolto il lavoro di oltre un decennio. AsMA
Qual è il suo progetto preferito e quello che spera a tutt’oggi di fare?
Mario Botta
Il progetto preferito non c’è, nel senso che non si può chiedere ad un padre quale sia il
suo figlio preferito. Anche il figlio che nasce con qualche limite può essere il figlio preferito... Onestamente non sono in grado di dire quale sia il mio progetto preferito anche se ci sono progetti che interpretano meglio un percorso od una speranza progettuale più fortemente che altri. Per esempio, se penso alla chiesa di Mogno, pur avendo questa una dimensione limitata, vi ritrovo ancora oggi una forza e un coinvolgimento affettivo per il quale la guardo sempre con interesse, come fosse un sismografo che parla delle trasformazioni del nostro tempo. AsMA
E l’irrealizzato?
Mario Botta
Poi ci sono i progetti bloccati, ce ne sono tanti ed è difficile parlarne perchè presto si
dimenticano. Mi torna alla mente un progetto come un castello per il sanatorio di Agra, progetto che si è arrestato probabilmente perché non in sintonia con il suo tempo… Per attuare un progetto devono concorrere molte condizioni convergenti. AsMA
Come valuta la pratica dei concorsi di architettura?
Mario Botta
La pratica dei concorsi di per se è uno strumento di confronto positivo; non ne posso
parlar male perchè tutta la vita ne ho fatti: nell’arco di 50 anni, 18 mie costruzioni sono il risultato di questi concorsi. Adesso però mi sembra che questo sia diventato uno strumento, fin troppo disinvolto, di disimpegno, anche per la committenza. Questa si mette il cuore in pace con un concorso che non sempre riesce a fornire il risultato migliore. Nonostante ciò, a tutt’oggi restano uno strumento di ricerca e crescita interessante.
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AsMA
Cosa si aspetta da noi studenti, generazionalmente?
Mario Botta
Voi studenti siete i vincenti, anagraficamente, perchè avete la vita intera di fronte a voi.
Il problema semmai è far sì che questo nostro lavoro riusciate anche a testimoniarlo, a trasformarlo in realtà. Louis Kahn diceva che l’architettura non esiste, ciò che esiste è solo l’opera di architettura. L’opera di architettura è l’incontro tra il mondo ideale, il mondo fantastico, il mondo teorico dell’architetto e la realtà geografica, culturale, sociale, politica di una collettività; quello che più mi interessa di questo lavoro è questo incontro. Mi interessa anche un piccolo progetto che però riesce a entrare nella realtà, a incidere nella storia e nel suo diretto sviluppo sociale. Mi aspetto da voi studenti che riusciate a incidere nel mondo reale, oggi questo è molto più difficile di quando io ero un giovane architetto. L’augurio che vi formulo è che sappiate resistere alle lusinghe dei nuovi mandati offerti dai grandi general contractor in cui la progettazione è unicamente una parte del business e quindi unicamente strumentale all’equilibrio economico, senza la speranza di un utopia possibile.
Mario Botta Dopo un periodo d’apprendistato presso lo studio degli architetti Carloni e Camenisch a Lugano, frequenta il liceo artistico di Milano e prosegue i suoi studi all’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia, dove si laurea nel 1969 con i relatori Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol. Durante il periodo trascorso a Venezia, ha occasione di incontrare e lavorare per Le Corbusier e Louis I. Kahn. Con l’inizio della sua attività professionale nel 1970 a Lugano, le sue prime costruzioni sono caratterizzate da un’intensa ricerca progettuale che si verifica in numerose realizzazioni in tutto il mondo: dalle prime case unifamiliari in Ticino, a musei, alle chiese. Da allora è stato invitato in diverse scuole d’architettura in Europa, in Asia, negli Stati Uniti e in America Latina arrivando ad essere nominato professore invitato presso il Politecnico di Losanna e presso l’Università di Yale. Dal 1982 al 1987 è Membro della Commissione Federale Svizzera delle Belle Arti. Il suo lavoro è stato premiato con importanti riconoscimenti internazionali (tra i quali il Merit Award for Excellence in Design by the AIA per il Museo d’Arte Moderna a San Francisco). Numerose sono le mostre dedicate alla sua ricerca. Nel corso degli ultimi anni si è impegnato come ideatore e fondatore nella realizzazione della nuova Accademia di architettura di Mendrisio; Professore ordinario dal 1996, ha svolto l’incarico di direttore per l’anno accademico 2002/03.
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postfazione dovunque, ogni giorno (anno 2007)
autoritratti
due cartoline da ogni singolo studio per rappresentare se ed il proprio lavoro
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pag. 21-24 _
2A+P architettura = Round Blur, Torino (ITA)
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images in pagg.96-97 are courtesy of 2A+P architettura
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pag. 24-27 _
99IC = Nuove forme di espressione
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images in pagg.98-99 are courtesy of 99IC
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pag. 27-31 _
Agence Manuelle Gautrand = Administrative city, St. Etienne (FRA)
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images in pagg.100-101 are courtesy of Agence Manuelle Gautrand
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photo by P. Martinez
pag. 31-34 _
AMID (cero9) = Nueva Columbia
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images in pagg.102-103 are courtesy of AMID (cero9)
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pag. 34-37 _
AllesWirdGut = Kindergarten, St. Anton (AUT)
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images in pagg.104-105 are courtesy of AllesWirdGut
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photo by H. Hurnaus
pag. 38-41 _
Delugan Meissl Associated Architects = Film museum, Amsterdam (NL)
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images in pagg.106-107 are courtesy of Delugan Meissl Associated Architects
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photo by StudioOrizzonte
pag. 41-45 _
Exposure Architects = Zig Zag factory, Bangkok (THAI)
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images in pagg.108-109 are courtesy of Exposure architects
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gruppo A12 = LAB temporary pavillon, Kröller Müller Museum Otterlo (NL)
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images in pagg.110-111 are courtesy of gruppo A12
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IaN+ = laboratori, UniversitĂ Tor Vergata Roma (ITA)
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images in pagg.112-113 are courtesy of IaN+
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LOVE architecture + urbanism = Shopping Center Alpenstrasse, Salzburg (AUT)
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images in pagg.114-115 are courtesy of LOVE architecture + urbanism
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ma0 = Playscape, Europan 7 Drancy (FRA)
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images in pagg.116-117 are courtesy of ma0
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Metrogramma = Palazzo della Regione Lombardia, Milano (ITA)
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images in pagg.118-119 are courtesy of Metrogramma
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pag. 66-67 _
NO.MAD = Guarderia, Sondika (ESP)
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images in pagg.120-121 are courtesy of NO.MAD
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Peripheriques = University Building, University Jussieu Paris (FRA)
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images in pagg.122-123 are courtesy of Peripheriques
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photo by P. Fantys
pag. 71-74 _
Philippe Rahm architects = Mollier houses, Vassiviere (FRA)
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images in pagg.124-125 are courtesy of Philippe Rahm architects
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Querkraft = House DRA, Wien (AUT)
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images in pagg.126-127 are courtesy of Querkraft
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SPLITTERWERK = Green tree frog, St. Josef, Styria (AUT)
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ground floor
upper floor = three platforms
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section images in pagg.128-129 are courtesy of SPLITTERWERK
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pag. 80-83 _
Stalker = Planisfero Roma
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images in pagg.131-132 are courtesy of Stalker
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photo by F. Wachter
pag. 83-87 _
the nextENTERprise = Outdoorpool, Kaltern/Caldaro (ITA)
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images in pagg.133-134 are courtesy of the nextENTERprise
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I’ve heard about... is a urban structure made quite literally of contingent secretions. Its architecture is based on the principles of random growth and permanent incompletion. It develops by successive scenarios, without planning and without the autority of a preestablished plan. Its physical composition renders the community’s political structure visible. I’ve heard about... is a R&Sie(n) & Benoit Durandin project www.new-territories.com
images in pag.134 are courtesy of Francois Roche
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postfazione everywhere, everyday (year 2050)
I’ve heard about... 2050 news from 50 years of concrete urban growth
n’importe qui, annee 2050
R&Sie(n), annee 2050
Voilà, déjà 20 ans que R&Sie(n) ne produit plus. Que c’est il passé?
C’est inutile, j’en ai mare, je laisse tomber? Je vais crever.
C’est inutile! De toute façon c’est inutile, personne n’a repris le flambeau de cette structure urbaine, de ma structure urbaine… pas d’héritier? I’ve heard about c’est devenu est un chancre nécrosé… vous en avez fait un tas immonde. Personne n’est allé plus loin et personne ne veut y aller! Ca fait combien d’années, déjà, 50 ans, oui 50 ans déjà? Il suffirait de m’écouter, encore, cet enregistrement existe, il existe encore, je m’entends vivre ce que cela aurait pu être, de ce que cela aurait pu devenir, s’il n’y avait eu cette masse de crétin aliéné auquel, vous, vous là, oui vous juste là devant moi, auquel vous êtes identifié avec complaisance, s’il n’y avait eu les bonimenteurs politiques pour vous servir de paravent, de cache sexe, d’alibi à votre propre immobilisme… et quête de servitude… Que vous vous débattiez pathologiquement, pour échapper de vos ritournelles quotidiennes esclavagisées, cela semble vous constituer… mais quand c’est là devant vous, accessible, quand, il n’y a plus qu’à la saisir, cette liberté… elle vous effraie, vous pétrifie… vous en déniez l’existence… cela vous terrorise de vous assumer sans tuteur… l’animal apeuré, se réfugie dans le fond crasseux de sa geôle de sous humain, de sous prolétariat… dans ces petites affaires privés, conventions préalables, et la petitesse des organisations sociales sous contrôle… …de la misère en milieu humain, de la misère en milieu humain, tragique, c’est tragique… je ne suis pas votre pantin, saleté de Pinocchio avec lequel vous avez joué et simulé la bio-democratie, l’auto-determination… cela vous n’en vouliez pas, personne n’en voulait… R&Sie(n), annee 2050
…vous l’avez laisser périr, le Viab, désarticulé, démembré, guignolesque. Son
autodafé signait par la même la votre et la mienne. Fin, générique de fin, le rideau se baisse, monsieur le petit bourgeois, cher Janning contemporain. La Frankenstanisation du robot, golem docile, allait prendre possession de la structure et de votre vie, de votre petite vie… vous avez jouer avec ces peurs d’enfants pour vous en refuser la nature politique… trop grand pour vous… C’était trop grand pour vous …le Viab était l’outil d’une structure sociale en train de se faire, d’une structure sociale qui générait en temps réel une morphologie urbaine… il était plus facile d’en diaboliser la nature pour en refuser les conséquences…celles qui vous aurait obliger a négocier plutôt qu’à obéir, celle qui vous permettait d’assumer la biostructure comme un organisme négociable, palpitant a chaque instant, plutôt qu’une planification féodale… inféodés à des procédures autocratiques, à des scénarios planifiés aux mécanismes prévisibles…
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On se doutait déjà il y a 25 ans que les modes opératoires “sous contrôle” qui conditionnaient la production des structures urbaines ne soit plus à même de rendre compte des complexités d’une société ou la multitude citoyenne se substituait peu à peu à l’autorité républicaine, centralisée. On ne pouvait se satisfaire du déficit de démocratie dans la fabrication de la ville, ni de l’abus d’un outillage datant d’une période ou la raison de quelques uns présidait à la destinée du plus grand nombre… L’espace libéral avait été construit en termes de contrôle social, la ville contemporaine en révélait les stigmates… cela nous n’en voulions plus, souvenez vous… en 2005, il avait fallu inventer d’autres procédures, d’autres scénarios… une ville et un contrat territorial sans délégation de pouvoir… en réseau… une intelligence collective transactionnelle… I’ve heard about avait été conçu pour cela, comme une structure réactive aux contingences humaines, comme une suite de possibles, adaptatifs, imprévisible, incertain mais ou la croissance était directement consubstantielle aux espèces qu’elles abritaient… I’ve heard about c’était écrire la ville à d’algorithmes ouverts, d’open source qui restaient perméables au temps réel, au temps relationnels… à l’empathie collective… c’était imaginer qu’une intelligence pouvait naître du fumier et de la barbarie du XXeme siècle. n’importe qui, annee 2050
R&Sie(n), annee 2050
Qu’en avez vous fait?
Aller voir l’expérience I’ve heard about sur www.new-territories.com… tout y
est… une belle invention… oui une belle invention que celle de ne plus exploiter la nature comme référence, comme alibi, mais de la laisser se développer au travers de son scénario de croissance, d’adaptabilité, de variabilité… Vous l’avez trop bien compris… ce risque morphogénétique vous libérait, mais aussi vous engageait… individuellement… collectivement… vous extraire de la pathologie de victimisation qui vous constitue. Cette liberté avait un prix, celui de vous assumer, dé-romantisé, dé-esclavagisé… Mais cela vous n’en vouliez pas, trop grand pour vous, c’était trop grand pour vous… La servitude vous étouffent et paradoxalement vous rassurent. Ce n’est qu’au fond de celle-ci qu’il vous prend à rêver… de vous en extraire… sans jamais oser l’entreprendre… I’ve heard about, c’est la partie visible, le spectre de vos propres dénégations…rendez moi ce service, oui... …Rendez moi ce service, au moins, brûlez tout, ne garder aucun souvenir attendri de ce que vous avez denier vivre. Brûler les traces de votre lâcheté, et ne m’utiliser plus, pas même comme souvenir. Mon seul testament c’est de brûler tout… Je ne veux rien laisser au monde, à ce monde. n’importe qui, annee 2050
Vous êtes sur le chemin des enfers…
R&Sie(n); Francois Roche, Stephanie Lavaux, Jean Navarro This architectural practice is currently working on a contemporary art museum in Bangkok, an art centre in Korea’s DMZ, a hotel in Belo Horizonte, a bridge in Cieszyn, a public housing project in Valencia and a private residence in Nimes. Francois Roche has lectured at many universities, including Harvard, Columbia and UCLA. He was a visiting professor at the Bartlett school in London, TU in Wien, ESARQ in Barcelona and Penn University in Philadelphia. The R&Sie(n) agency has been invited to the Venice Architecture Biennale on five occasions, but declined the invitation to show in French pavillion during the 2002 edition for political reasons. R&Sie(n) parallel organization New Territories is dedicated to the developement and popularization of research projects.
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MeEtArch…, come il lavoro di molti giovani architetti, si è nutrito di molti viaggi lowcost, dell’utilizzo massiccio della tecnologia multimediale di grande consumo, dell’utilizzo di raggruppamenti creativi temporanei, della creazione di una rete di contatti operativi, di progetti comunicativi ad hoc e di una costante ridefinizione dei propri obiettivi…
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extras Parigi, 13 ottobre 2005
AsMA @ Palais de Tokyo
immagini da una “campagna� di interviste con Teo Valli, Alessandro Martinelli, Sebastiano Manservisi, Pietro Melloni e Marco Finzi
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MeEtArch… è stato affiancato durante il suo sviluppo dal progetto comunicativo Processing MeEtArch… concretizzatosi nella definizione di alcuni canali comunicativi e nell’organizzazione di una serie di incontri-conversazione attorno ai temi della ricerca, incontri qui riassunti: Xchi Xchè Domus? con Stefano Boeri, Matteo Poli, Matteo Vegetti intorno alla rivista d’architettura DOMUS MeEtMetrogramma! con Andrea Boschetti e Alberto Francini di Metrogramma MeEtElastico! con Stefano Pujatti di ELASTICO A night with Parkett con Bice Curiger, Matteo Vegetti intorno alla rivista d’arte Parkett just for a day MeEtArch… giornata di studi con Josep Acebillo, Bruno Pedretti e Filippo Forzato MeEtArchea! con Marco Casamonti di Archea L’architettura possibile giornata di studi con Mario Botta, Oliviero Godi, Sergio Pozzi, Francesco Messina, Simona de Giuli e Roberto Borghi MeEtArch… è stato poi presentato alla conferenza-forum Risorse di Rete presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre ed è parte dell’omonima mostra itinerante presso gli atenei italiani di architettura.
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extras Mendrisio, 7 novembre 2005
AsMA @ Accademia di Architettura
immagini da una “conversazione-happening” con AsMA, Stefano Boeri, Matteo Vegetti, Matteo Poli e DOMUS
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Hans/Ulrich/Obrist
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2A+P architettura 99IC Agence Manuelle Gautrand AMID (cero9) Alles Wird Gut Delugan Meissl Associated Architects Exposure architects gruppo A12 IaN+ LOVE architecture + urbanism ma0 Metrogramma NO.MAD Peripheriques Philippe Rahm architects Querkraft SPLITTERWERK Stalker the nextENTERpise Mario/Botta R&Sie(n)
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AssociazioneMendrisioArchitettura www.as-ma.net
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Paris Roma Milano Paris Madrid Wien Wien Bergamo Milano Roma Graz Roma Milano Madrid Paris Paris Wien Graz Roma Wien
Villa Argentina, Largo Bernasconi, 2 CH 6850 Mendrisio asma.meetarch@gmail.com
Simply Architects_LATEST-2007_2.143 143
Lugano Paris
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Questo volume è stato stampato per conto di AsMA – AssociazioneMendrisioArchitettura da Reggiani SpA, Varese
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