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JÓZSEF MINDSZENTY

Pastore fedelissimo nei tempi della persecuzione

József Mindszenty

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29 marzo 1892 – 6 maggio 1975 cardinale, primate d’Ungheria, arcivescovo di Esztergom

Nella Vigna Del Signore

Primo figlio di János Pehm, contadino, e Borbála Kovács, nacque il 29 marzo 1892 e fu battezzato lo stesso giorno con il nome di József (Giuseppe). La personalità più determinante per la vita di József

Pastore buono e sacrificatosi per i suoi fedeli. † Apostolo santo della fede, della preghiera e dell’espiazione. † Modello eccezionale dell’amore per la patria e della resistenza eroica.

† Assertore coerente della verità e della carità in un periodo difficile della storia d’Ungheria. † Uomo forte che seppe perdonare di cuore ai suoi nemici mentre innocente soffriva la prigionia. † Forza spirituale di unione per gli ungheresi sparsi per il mondo.1

Pehm Mindszenty fu sua madre. Prese da lei la statura media, le sembianze del volto, i grandi occhi castani e la maggior parte delle qualità interiori. L’amore, i sacrifici e le preghiere di sua madre prepararono il suo cammino verso la vocazione sacerdotale e anche in seguito lei gli rimase sempre accanto in tutte le vicissitudini della sua vita pastorale. Da bambino le leggende dei santi ungheresi affascinavano la sua immaginazione e anche da sacerdote si riferiva spesso agli episodi edificanti della loro vita.

«Diede un esempio di virtù nobili al mondo cattolico. Portava la corona di spine con la dignità di un pastore santo.» 2

PAPA SAN GIOVANNI PAOLO II

1 La vita del cardinale Mindszenty fu riassunta nella forma di un’invocazione da István Mészáros, storico della Chiesa, per la lapide collocata nell’atrio della basilica primaziale di Esztergom.

2 Lettera di papa Giovanni Paolo II del 6 febbraio 1990 al cardinale László Paskai, citata in István MÉSZÁROS, Ki volt Mindszenty?, p. 153.

Lasciò il suo villaggio natale per la prima volta nel 1903: «Il primo abito da studente, il primo cappello e il primo viaggio verso la grande città che inghiottisce il tesoro più prezioso di un piccolo paese e di una madre: sono cose grandi della vita.» 3 Arrivò nella storica città di Szombathely con il desiderio di studiare. Gli insegnanti, tutti religiosi, della Scuola Media San Norberto dei Premonstratensi erano proprio come il suo parroco li aveva descritti: severi ed affabili.

Le sue materie preferite erano la teologia, la storia e la letteratura. Nel 1909 dovette scrivere un compito su «Gioie e ansie di una madre».

Completò questo scritto più tardi e lo pubblicò nel 1916 sotto il titolo «La madre» .

In quel libro rievocò anche le sue memorie nella scelta della vocazione: «Quelle madri pie andavano di chiesa in chiesa pregando per il futuro dei loro figli. Si emozionavano vedendo la cotta bianca dei seminaristi. Poi venne il momento della scelta della carriera. Erano in gioco la felicità terrena e quella eterna. Le parole materne di sempre: Va’ dove ti chiama il Signore!»4 Sull’orientamento alla vocazione sacerdotale, a parte sua madre, ebbe una grande influenza il vescovo di Transilvania Károly Majláth, co-fondatore dell’associazione sacerdotale e giovanile Regnum Marianum, il quale una volta aveva visitato e confessato gli studenti di Szombathely.

Dopo il primo anno di seminario, il vescovo János Mikes offrì al seminarista di talento una borsa di studio per studiare all’estero. Lui, però, non aspirava a qualificazioni alte, a una carriera ecclesiastica rapida, neanche a un lavoro di ufficio o ad una cattedra. Voleva essere un pastore, un sacerdote secolare, come lo chiamavano allora quelli diocesani. Le cerimonie, tradizionalmente belle, dell’ordinazione sacerdotale di József Mindszenty ebbero luogo il 12 giugno 1915 nella cattedrale di Szombathely. Fu il vescovo János Mikes a ungere le sue mani con l’olio santo e il nuovo sacerdote promise obbedienza al suo vescovo di sempre. Rivestì la casula che simboleggiava il mantello di Cristo e il suo ministero e, sotto la casula, indossò il camice bianco della castità assunta per Lui e la stola dei poteri di sciogliere e di unire, cioè tutti i paramenti sacri che desiderava indossare già da giovane.

4 La madre, pp. 272-273. (numero di pagina dell’edizione ungherese)

Su indicazione del suo vescovo, dopo la sua prima messa cominciò il ministero sacerdotale a Felsőpaty (oggi Rábapaty) e, dopo un anno e mezzo di lavoro da cappellano, il vescovo lo nominò insegnante di religione presso il liceo statale di Zalaegerszeg. Aveva soltanto venticinque anni. La sua nomina fu accompagnata da un breve ammonimento da parte del suo vescovo: «Non lavorare troppo!» In quei tempi il liceo (di otto anni) aveva più di trecento studenti, tutti maschi, di cui più di duecento frequentavano le sue lezioni di religione. Uno dei suoi colleghi fu Boldizsár Marton, insegnante di ungherese e latino, che poi divenne famoso come frate carmelitano e morì in fama di santità. Due legami sacramentali resero ancora più stretta l’amicizia tra i due. Nel 1930 padre Marcell gli chiese di fargli da assistente nella sua prima messa, e anni più tardi, durante la semiprigionia di Mindszenty presso l’ambasciata americana, il sacerdote carmelitano fu il suo confessore. Le conseguenze della Prima guerra mondiale si facevano notare ovunque, perciò il giovane insegnante di religione assunse sempre più compiti nella vita della comunità. Accettò la nomina al consiglio di amministrazione dell’unione di credito e divenne membro del consiglio municipale in quanto rappresentante del vescovo di Szombathely. Organizzò e diresse la Congregazione Mariana degli adulti e pubblicò un settimanale proprio sotto il titolo Zalamegyei Újság (Giornale della provincia di Zala). Svolse un ruolo attivo nel Partito popolare cattolico. Il 9 febbraio 1919 la polizia del regime rivoluzionario di Mihály Károlyi lo arrestò senza motivo: in cambio della sua liberazione gli venne chiesto di appoggiare il regime di Károlyi e lasciare Zalaegerszeg definitivamente. Lui non accettò. Rimase agli arresti domiciliari fino al 21 marzo, giorno della proclamazione della prima dittatura del proletariato in Ungheria. Allora fu trasportato in prigione come detenuto civile e da lì in tribunale.

A metà maggio padre Mindszenty fu portato in giudizio davanti al direttorio di Zalaegerszeg, ma siccome non c’era nessun capo d’accusa, fu liberato a condizioni severe: gli proibirono di accedere al liceo statale, predicare e mantenere i contatti con «elementi sospetti», cioè ostili allo Stato. Ma quando tornò al posto nel quale aveva servito da sacerdote prima del suo arresto, fu espulso dalla circoscrizione come «incorreggibile», e fece ritorno al suo villaggio natale, Csehimindszent.

Dopo la caduta della dittatura del proletariato il vescovo di Szombathely acconsentì con grande gioia alla richiesta dei fedeli di Zalaegerszeg nominando il giovane insegnante di religione parroco della città di Zalaegerszeg, nell’autunno del 1919. Tale scelta fece scalpore. In quell’epoca era poco frequente che un sacerdote di ventisette anni occupasse una carica così importante. Il nuovo parroco considerava suo compito principale e più importante il ministero pastorale. Per quanto riguarda la fede e la morale fu fedele alla dottrina cattolica tradizionale, nella cura pastorale invece si mostrò ben disposto a impiegare i metodi più moderni.

A causa della peculiare situazione ungherese si vide costretto a entrare nella vita pubblica, nella quale appoggiava il gruppo conservativo cristiano che sollecitava le riforme. La parrocchia di József Mindszenty comprendeva la città di Zalaegerszeg e quattro paesi confinanti, per un totale di circa quindicimila cattolici. Il parroco conosceva quasi tutti i suoi parrocchiani per nome ed era consapevole anche della loro situazione. Attraverso gli «apostoli domestici» apprese presto dei problemi della gente e cercò di prestare aiuto a tutti. Quando non poteva recarvisi di persona, inviava uno dei suoi cappellani. Già nei primi anni del suo incarico impiegò nuovi insegnanti di religione e cappellani ospedalieri. Fece costruire un convento per i frati francescani nel quartiere operaio della città. Ebbe cura speciale dei malati e dei moribondi. Ottenne che, nel territorio della sua parrocchia, nessun malato morisse senza aver ricevuto i sacramenti. L’ammirevole lavoro pastorale e la creazione di un nuovo centro culturale diedero un nuovo slancio anche all’attività delle associazioni devozionali e culturali e dei movimenti religiosi. L’intensità con cui gli intellettuali praticavano la fede era eccellente rispetto a quella del resto del Paese, frutto degli esercizi spirituali e delle settimane teologiche organizzati da lui con frequenza. I fedeli si rivolgevano a lui con fiducia piena perché la parrocchia era sempre aperta per loro. Organizzò l’assistenza regolare ai poveri in tutta la provincia. Ogni mercoledì riceveva i meno abbienti e spesso era così generoso con loro che la cucina della parrocchia non poteva fornire tutto ciò che lui voleva dare alla gente oppure, d’inverno, regalava vestiti e scarpe, cose delle quali avrebbe avuto lui stesso bisogno. Fece costruire una casa per anziani meno abbienti. Ogni anno finanziava gli studi di circa trentacinque studenti, fece anche in modo che alcune famiglie dessero da mangiare ad altri studenti. Soleva dire: «Il superfluo dei ricchi è l’eredità dei poveri.»5

Padre Mindszenty dedicava particolare attenzione al lavoro dei suoi fedeli e, quand’era possibile, aiutava ad aumentare i guadagni delle famiglie numerose. Era in contatto continuo con la corporazione artigiana e con l’associazione degli agricoltori e appoggiava i movimenti cooperativi volontari. Il suo lavoro si caratterizzava per il disinteresse e il distacco dai beni materiali; usava tutto ciò che aveva per il bene dei fedeli. Fu questo il motivo principale del rispetto che la gente nutriva per lui e ciò che rese il suo lavoro pastorale credibile. Il parroco vegliava sulla vita dei suoi fedeli e si sentiva responsabile nel provvedere in tutti i modi possibili alla loro felicità terrena e a quella eterna. Non considerava la religiosità come qualcosa di limitato alla vita privata, ma come un valore sociale che determina la vita pubblica. La sua attività di parroco e poi di primate, svolta con piena dedizione, è comprensibile soltanto alla luce di questa sua attitudine. Nel 1924 il vescovo lo nominò abate titolare, come riconoscimento del suo lavoro. Il parroco-abate si concesse raramente periodi di riposo, e anche in quel caso, se non li passava nel suo villaggio natale, si dedicava alle ricerche in archivio, scriveva, insomma lavorava. Prima dei cinquant’anni fece soltanto un viaggio più lungo all’estero: un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Lourdes, nel 1924. In quell’occasione visitò la regina Zita, vedova del beato Carlo IV d’Ungheria. A Zalaegerszeg assunse una parte attiva nell’istituzione del Museo di Göcsej e fece costruire un convento grandissimo per l’ordine delle suore insegnanti di Notre-Dame. L’istituto magistrale e l’annessa residenza, gestiti da loro, funzionarono fino alla statalizzazione; poi, dopo il crollo del comunismo, l’istituto adottò il nome del fondatore, József Mindszenty. Conoscendo i suoi interessi personali, i suoi amici, storici di professione, gli chiesero di studiare la vita del vescovo di Veszprém di una volta, Márton Padányi Bíró. Il suo lavoro monografico venne pubblicato nel 1934, dopo più di dieci anni di ricerca. I lettori scoprirono molte similitudini tra l’autore e il personaggio storico e correvano voci che un giorno József Mindszenty ne sarebbe divenuto successore. Nell’agosto del 1942 ritenne importante cambiare il proprio nome di origine tedesca per un nome più ungherese6. «Il cambiamento di nome mi causò grandi tormenti. L’avevo portato per cinquant’anni con onore,

6 Pehm

penso io. Se la gente mi conosceva, mi conosceva con questo nome. Il nuovo nome è pensato piuttosto per la mia tomba. Nel migliore dei casi il Signore mi concederà ancora dieci anni di lavoro. Questo è già il tramonto per la penna, per la parola e per la lotta. Ce l’ho fatta. In Germania è in corso una propaganda terribile per dimostrare in base ai nomi che l’Ungheria è abitata da gente tedesca. In base al suo nome, un alto funzionario è stato chiamato a aderire alla Volksbund (associazione nazionale dei tedeschi in Ungheria). Questa decisione mi angustiò a lungo. Ma siccome pensavo che assecondasse gli interessi dell’Ungheria, dovevo farlo.»7

Un altro suo gesto simbolico fu farsi vedere regolarmente a passeggio sottobraccio con il rabbino, che abitava vicino alla parrocchia, nel periodo in cui le persecuzioni contro gli ebrei si inasprirono.

Il nome di József Mindszenty divenne un paradigma di valore nella provincia, conosciuto anche in tutto il Paese. «Non ho mai conosciuto nessun sacerdote né laico che abbia preso la sua vocazione e gli obblighi derivanti da essa altrettanto sul serio e li abbia soddisfatti fino all’ultimo momento della sua vita come József Mindszenty»8 , disse di lui un suo stretto collaboratore.

7 Lettera privata di József Mindszenty, del 10 settembre 1942, citata in István MÉSZÁROS, Mindszenty-leveleskönyv (di seguito: Leveleskönyv), p. 12.

8 Commento di un collega, citato in József KÖZI HORVÁTH, op.cit., p. 122.

«SIA PATERNUS!»

La sua attività pastorale ebbe un impatto diretto non soltanto sulla città di Zalaegerszeg, ma su tutta la diocesi. Nel 1927 condusse uno studio approfondito sulle possibili soluzioni dei problemi ecclesiastici e educativi della diocesi: propose di rinnovare la struttura ecclesiastica tradizionale attraverso la creazione di cappellanie moderne, le cosiddette «curazie». Il progetto ebbe tanto successo che il vescovo lo incaricò di implementarlo. Conoscendo il suo lavoro eccezionale non fu grande sorpresa quando il 5 marzo 1944 il papa Pio XII lo nominò vescovo di Veszprém. Con la nomina ricevette anche un consiglio che gli sarebbe servito per tutta la vita: «Sia paternus!», che fosse più paterno, più comprensivo con il suo gregge. Fu ordinato vescovo il 25 marzo 1944 a Esztergom.

József Mindszenty nutriva particolare venerazione verso la Madonna, chiamata dagli ungheresi Boldogasszony (Beata Signora), e i santi ungheresi. Per il proprio stemma episcopale scelse un’immagine di Santa Margherita d’Ungheria che aveva dedicato la sua vita all’espiazione. I suoi modelli da parroco erano stati San Giovanni Maria Vianney e Sant’Ignazio di Loyola, mentre da vescovo voleva seguire l’esempio di Sant’Ambrogio e di San Gerardo Sagredo. Nutriva gratitudine per papa Innocenzo XI, liberatore dell’Ungheria dal dominio turco, e per papa Leone

XIII il papa della giustizia sociale. Provava un affetto particolare per il papa Pio XII, che in cambio dimostrò sempre benevolenza paterna nei suoi confronti.

Nella primavera del 1944 fece dei viaggi pastorali lunghi nelle provincie di Somogy, Zala e poi Veszprém. A metà del 1945 visitò la provincia di Somogy e altre aree devastate dalla guerra, in totale ottantotto parrocchie. Nonostante la guerra e la lunga prigionia sotto le Croci frecciate, rivolse ai suoi fedeli otto lettere pastorali nel 1944 e nove nel 1945. Nell’aprile del 1944 incaricò due delegati episcopali della cura pastorale dei profughi. Promosse il movimento apostolico dei malati e li incoraggiò a offrire le loro sofferenze a Dio per attenuare la devastazione causata dalla guerra. Dopo aver valutato le necessità della popolazione della sua diocesi, decise di lottizzare 4000 ettari di terreno sui totale di 6300 ettari della diocesi ad uso dei piccoli coltivatori e di utilizzarne il ricavato per istituire nuove parrocchie e scuole secondo le esigenze dei fedeli. Il governo, con il pretesto della guerra, impedì di implementare il progetto. Vedendo la distruzione del Paese, József Mindszenty decise di stendere un memorandum audace, di portata storica, che presentò al rappresentante del governo delle Croci frecciate al servizio della Germania nazista, a Buda, a nome dei vescovi dell’Ungheria occidentale, firmato da quasi tutti: «Coscienti della loro responsabilità, i sottoscritti vescovi dell’Ungheria occidentale si rivolgono a Lei, e attraverso Lei, a coloro che detengono ora il potere, supplicandovi di non trasformare l’Ungheria occidentale ancora intatta in un campo di battaglia sulla via della ritirata. In caso contrario l’ultimo brandello della nostra patria ungherese e nello stesso tempo l’ultima speranza di una futura ricostruzione andrebbero perduti.»9

Come conseguenza del suo atteggiamento a favore degli ebrei e del memorandum, il 27 novembre 1944 le Croci frecciate arrestarono, con false accuse, il vescovo di Veszprém insieme ai seminaristi e ai professori che cercavano di difenderlo. A causa del fronte che si avvicinava, il 23 dicembre il folto gruppo di sacerdoti fu trasportato nella prigione di Sopronkőhida. Per evitare che i seminaristi soffrissero di depressione, il vescovo propose che imparassero e interpretassero un oratorio per Natale. I seminaristi e gli altri prigionieri lo ammiravano per la forza di spirito e la serenità con cui sopportava le condizioni disumane. Dopo l’occupazione tedesca, l’Ungheria conobbe l’occupazione sovietica fin dalla primavera del 1945 e, con l’appoggio dell’esercito russo, venne costituito un governo provvisorio dei comunisti tornati da Mosca. Il lunedì di Pasqua si svolsero i funerali del cardinale primate d’Ungheria, Jusztinián Serédi. All’alba dello stesso giorno morì il «difensore delle donne», il vescovo martire di Győr, beato Vilmos Apor. Lo stesso giorno József Mindszenty fu liberato. Durante il suo breve episcopato a Veszprém istituì trentaquattro nuove parrocchie, otto scuole cattoliche e tre collegi di istruzione secondaria. Il 20 agosto 1945, festa di Santo Stefano d’Ungheria, consacrò la sua diocesi al Cuore immacolato di Maria.

PRIMATE D’UNGHERIA

Quando, durante la Seconda guerra mondiale, divenne chiaro che l’Europa centrale sarebbe finita sotto la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica, papa Pio XII, pensando ai 70 milioni di fedeli cattolici di quei paesi, cercò di nominare vescovi che avevano resistito all’occupazione tedesca e al nazionalsocialismo. La loro persona garantiva che sarebbero rimasti fedeli alla Chiesa anche durante la dittatura e la persecuzione comuniste della Chiesa e che avrebbero difeso fermamente la comunità dei fedeli. Questi aspetti portarono alla nomina dell’arcivescovo di Praga Josef Beran, del primate polacco Stefan Wyszyński e del principe primate József Mindszenty. Pio XII firmò la bolla pontificia della nomina il 2 ottobre. József Mindszenty prese possesso della sua cattedra il 7 ottobre nella basilica di Esztergom. Le parole più memorabili del suo discorso sono: «Cerchiamo di essere ora un popolo orante. Se impareremo di nuovo a pregare, ritroveremo in noi una fonte inesauribile di energia e di fede. Continuiamo imperterriti a professare la nostra speranza. Con l’aiuto di Dio Padre e della Madre Maria sarò volentieri la coscienza del popolo. Roma e la Patria, ecco le due stelle e le due mete che indicano anche a me la direzione da percorrere.»10

Il popolo accolse il nuovo primate con grandi aspettative. Il 79° arcivescovo di Esztergom fu accolto dalla conferenza episcopale come primate, nel pieno senso storico del termine, e lui esercitò i diritti e i doveri derivanti dal suo ufficio, cioè la responsabilità pastorale per tutto il Paese con piena consapevolezza. A quell’epoca circa la metà della popolazione, cioè 6 milioni di persone, era cattolica e praticante. Anche da cardinale, Mindszenty si dedicava al servizio della loro vita spirituale; anche da principe primate rimase soprattutto un pastore. Mantenne un contatto continuo con i sacerdoti di tutto il Paese e partecipò regolarmente alle loro riunioni. Colse tutte le occasioni per visitare i fedeli e predicar loro il Vangelo. Visitò numerosi villaggi reconditi che nessun vescovo aveva mai visitato. Promosse una vita di fede più profonda, avviò il movimento di preghiera e di espiazione. La sua vita stessa era il miglior esempio di espiazione. Nel palazzo primaziale conduceva una vita quasi monastica: si dedicava soltanto alla preghiera e al lavoro. Siccome gli bastavano quattro o cinque ore di sonno, lavorava anche di notte. Il suo cibo era estremamente semplice e spesso distribuiva ciò che si trovava nella dispensa del palazzo primaziale tra i meno abbienti della zona. Oltre le mortificazioni prescritte, il primate ne assunse di personali, come i digiuni volontari, lavorare in una stanza senza riscaldamento d’inverno e dormire sul pavimento. Non soltanto era privo di qualsiasi passione, ma viveva anche il distacco completo dall’esteriorità. A casa indossava sempre una veste talare usata. Nell’ufficio del palazzo si lavorava dalle otto del mattino fino all’una e poi dalle tre fino alle cinque del pomeriggio. Il cardinale si interessava di tutto e voleva sapere di tutto. Aveva ideali alti: mirava sempre a ciò che era vero e buono. «Era sempre disposto a ricevere chiunque, anche senza preavviso, ed accettò molti inviti a presentarsi in pubblico per mantenere un contatto diretto con tutti gli strati della società. Nei tre anni durante i quali poté esercitare liberamente la sua carica di arcivescovo percorse quasi tutto il Paese. Lo ascoltavano grandissime folle. Alcune delle esternazioni del suo coraggio franco si diffondevano di bocca in bocca.»11

In quanto cardinale d’Ungheria uno dei suoi compiti principali era mitigare le sofferenze della popolazione colpita dalla guerra. Durante la sua prima visita a Roma informò papa Pio XII della situazione di miseria degli ungheresi. Esortò anche gli abitanti d’Ungheria: «Non bastano gli aiuti stranieri, dobbiamo sforzarci, e chi ha due mantelli deve darne uno a colui che non ha niente, chi ha una fetta di pane deve darne la metà a colui che è privo di tutto.»12 Chiese alla popolazione rurale di mandare cibo agli abitanti affamati della capitale e di accogliere e nutrire dei bambini per qualche tempo.

József Mindszenty difendeva sempre i perseguitati. Nell’ottobre del 1945, a nome della conferenza episcopale, chiese alla Commissione alleata di controllo di lasciar tornare a casa i prigionieri di guerra ungheresi. Sollecitò i sacerdoti a garantire assistenza pastorale speciale agli internati e a prestare aiuto alle famiglie dei perseguitati. Soleva dire: «Lottiamo per la democrazia, ma senza perdere di vista l’uomo stesso!» Il cardinale fu quasi l’unica persona a protestare contro le misure che colpirono gli abitanti di lingua tedesca in Ungheria. Avvertì le autorità che sarebbe stato meglio non commettere, in Ungheria, ingiustizie che potessero portare a ingiustizie contro gli ungheresi di oltre confine. Il governo – che sotto l’influenza sovietica perseguiva obiettivi comunisti – conduceva una campagna premeditata e pianificata contro la libertà religiosa, l’autorità della Chiesa e il suo ruolo nella vita pubblica già a partire dal 1945. Le associazioni cattoliche furono tutte soppresse fino al 1946. Non vennero concessi permessi per pubblicare giornali religiosi. Molti sacerdoti e laici furono deportati, incarcerati o internati senza motivi, con l’unico scopo di intimidire le loro comunità. L’obiettivo era chiaro: colpire i pastori per disperdere le pecore del loro gregge. Il primate affermò in varie dichiarazioni che la Chiesa cattolica ungherese accettava la democrazia, riconosceva la repubblica e non aspirava al ritorno del vecchio regime, ma «a poter lavorare liberamente in tutti gli ambiti, a sviluppare le sue istituzioni e a garantire i diritti umani a tutti i suoi fedeli». 13 Quando si vide costretto a criticare il deterioramento progressivo delle condizioni sociali e il terrore scatenato dalla polizia politica, fu accusato dai comunisti di coinvolgimento nella politica. Il primate respinse le accuse citando le parole del suo predecessore Péter Pázmány: «Nessuno può proibirmi di esprimere liberamente la mia opinione sugli affari pubblici del Paese. Sono obbligato a vegliare sui diritti e sulla libertà dell’Ungheria.»14 Date le circostanze papa Pio XII si rivolse a lui in ungherese con le seguenti parole profetiche quando, nel 1946, mise il galero sul suo capo: «Evviva l’Ungheria! Tra i trentadue (nuovi cardinali) tu sarai il primo a dover accettare il martirio della porpora.»

11 Béla ISPÁNKI, A halálra keresett bíboros in István MÉSZÁROS, Ki volt Mindszenty?, pp. 61-62.

12 16 novembre 1945, nella riunione del Comitato centrale delle parrocchie di Budapest, in Margit BEKE, Egyházam és hazám I., p. 42.

Fedelt E Resistenza

Un corpo speciale della polizia politica si occupava della lotta contro «la persona di Mindszenty e dell’attività del circolo reazionario formatosi intorno a lui». Fu circondato da spie e un fascicolo contenente le relazioni su di lui venne aperto già nel 1945. Le sue lettere venivano aperte all’ufficio postale e tutte le sue telefonate intercettate. Chi si recava in visita da lui veniva fotografato e il suo nome appuntato su una lista. Anche un’impiegata dell’ufficio arcivescovile fu costretta a riferire delle visite e qualcun’altro delle riunioni della conferenza episcopale. Per respingere l’accusa di coinvolgimento nella politica, per tutta la sua vita il primate Mindszenty espresse la posizione secondo cui «la Chiesa può sempre e dappertutto esercitare il suo diritto di pronunciare un giudizio anche sui fenomeni politici quando sono in gioco le libertà personali e la salvezza delle anime».15

Nel 1947 partecipò al congresso mariano organizzato a Ottawa in Canada, dove gli si aprì un mondo completamente diverso. Ciò lo portò a proclamare l’anno mariano dal 15 agosto 1947 all’8 dicembre 1948. Nella sua attività di primate, già prima dell’anno di preghiera, un ruolo preminente spettava all’espiazione: compensare il peccato con la preghiera e i sacrifici ed impedire che la gente perdesse la speranza e si rassegnasse alla dittatura che perseguitava la Chiesa. Le sue iniziative furono di stimolo alla fede e rafforzarono la coscienza cristiana in tutto il Paese, al punto che i comunisti definirono «controrivoluzione» l’anno di preghiera e ostacolarono o impedirono alcuni eventi con le forze di polizia. Al cardinale non piacevano né l’ostilità né il compromesso. Molte volte gli venne rivolta la domanda del perché non avesse cercato un accordo con il partito comunista. Ecco la risposta realista del cardinale: «Nelle circostanze date ciò era vano e impossibile, come in altri paesi del blocco comunista, perché la minoranza ideologica, volendo conseguire il potere, non cercava l’accordo ma la sottomissione e la distruzione della Chiesa.»16 Nella primavera del 1948 lo stato di polizia consolidato tramite brogli elettorali mise in agenda la nazionalizzazione delle scuole religiose e la campagna denigratoria, diretta dallo Stato, contro la Chiesa toccava tutti gli ambiti possibili. Il partito comunista considerava che i tempi erano maturi per distruggere i resti dell’indipendenza e del prestigio della Chiesa cattolica e il bersaglio principale era il cardinale confessore.

«In Ungheria tutte le persone dotate di buon senso sapevano che si stava preparando un processo contro il cardinale Mindszenty. A metà ottobre il Ministero degli Interni diede ordine ai prefetti delle province di mandare telegrammi di protesta al primo ministro a nome degli abitanti delle province. Protestare contro la politica “reazionaria” del cardinale Mindszenty. Pretenderne la rimozione o la condanna.»17 Il primate non voleva che dei fedeli perdessero il lavoro a causa sua, perciò dispose che i cattolici firmassero i documenti di protesta, in quanto non nella posizione di agire liberamente. I politici principali parlavano contro di lui ogni settimana. «Non potevano sopportare che Mindszenty venisse da una famiglia semplice, di contadini, che tutti i ceti della società ungherese gli volessero bene e che non avesse difetti morali con cui incastrarlo. Li infastidivano i meriti del cardinale nella resistenza all’occupazione nazista, la sua prigionia a Sopronkőhida, la sua tenacia e il modo in cui difendeva i perseguitati. La maggior parte dei politici comunisti non aveva nessun merito nella resistenza se non si considera tale la fuga verso l’Unione Sovietica.»18

I dirigenti del partito comunista avevano già compilato l’atto d’accusa: «È finita la politica di tolleranza che trattava con più indulgenza le spie, i traditori, i contrabbandieri di valuta, i promotori del ritorno degli Asburgo, i fascisti e gli amici del vecchio regime tutti i vestiti da sacerdoti e cardinali! Se la Chiesa non farà qualcosa con Mindszenty nelle prossime settimane, lo faremo noi!»19

Il cardinale sapeva che una dura persecuzione stava per avere inizio. Non si sottrasse alla sua sorte rifugiandosi all’estero, sebbene avesse potuto farlo, era spiritualmente preparato a tutto ciò che lo aspettava. Nel suo ultimo messaggio ai sacerdoti scrisse: «In qualsiasi momento e in qualsiasi luogo può capitarci solo quello che il Signore comanda o permette. Neppure un capello cade dal nostro capo a Sua insaputa. Il mondo può sottrarci molte cose, ma non può privarci della fede in Gesù Cristo. Dobbiamo resistere! “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di loro sarà il regno dei cieli.” Tutti, pastore e gregge, preghiamo gli uni per gli altri incessantemente. Che la speranza della vita eterna promessa dal Signore risplenda dinanzi ai nostri occhi.»20

18 Béla ISPÁNKI, op.cit., p. 63.

19 Mátyás Rákosi, segretario generale del Partito comunista ungherese, citato in István MÉSZÁROS, Pannonia Sacra , p. 186.

20 26 dicembre 1948, in Margit BEKE, Egyházam és hazám III., pp. 165-166.

Nel 1948 il cardinale invitò sua madre a festeggiare il Natale con lui. Pensava di renderle più facile la separazione dal figlio. Il giorno dopo Natale, festa di Santo Stefano martire, uscì per fare la sua ultima passeggiata nel giardino del palazzo primaziale di Esztergom. Durante la passeggiata lo accompagnò il suo cane di guardia, un pastore tedesco. Di ritorno nel palazzo, il cane accompagnò il suo padrone al piano di sopra e, alzandosi sulle zampe posteriori, si accucciò davanti a lui come a prenderne commiato. Quella notte arrivò la macchina nera della polizia segreta, temuta da tutti, e cominciarono le sofferenze del cardinale József Mindszenty.

I seminaristi di Esztergom accolsero la notizia dell’arresto con amarezza e decisero di cominciare un’adorazione perpetua per la liberazione del loro arcivescovo-primate. Perseverarono alternandosi nell’adorazione per due settimane, ma siccome la tanto attesa liberazione non ebbe luogo, i superiori del seminario chiesero loro di accettare ciò che non si poteva cambiare e porre termine all’estenuante veglia di preghiera. I partecipanti seppero soltanto dopo vari decenni che József Mindszenty aveva resistito per miracolo alle torture di due settimane nella cosiddetta «Casa del terrore» al n°60 di via Andrássy. Durante l’udienza del processo farsa sia il pubblico ministero sia il difensore cercarono di dimostrare, uno con più insistenza dell’altro, che non c’era stata alcuna pressione da parte della polizia e che la difesa si sarebbe svolta liberamente. Nonostante l’obbligo non venne rilevata nemmeno un’attenuante durante il processo. Non ebbe luogo alcuna interrogazione di testimoni né comunicazione di fatti. La «difesa» menzionò soltanto una circostanza attenuante: le confessioni ovviamente forzate o falsificate. La sentenza fu l’ergastolo, perché giustiziarlo avrebbe potuto «renderlo un martire» e, questo, i comunisti non lo volevano. Intanto si svolgevano manifestazioni in tutto il mondo in favore della liberazione del cardinale Mindszenty e dell’Ungheria. A Roma trecentomila persone manifestarono in piazza san Pietro. La Santa Sede scomunicò tutti coloro che avevano preso parte alla diffamazione del cardinale. L’assemblea generale delle Nazioni Unite dichiarò che l’arresto e la condanna ingiusta del cardinale erano una violazione del diritto internazionale.

Béla Ispánki, uno degli accusati del processo farsa, riassunse così le conclusioni del processo: «Nei primi tre secoli della storia della Chiesa l’Impero romano considerava i cristiani cospiratori e nemici dello Stato.

Condusse campagne di persecuzione di intensità variabile per eliminarli. Ma ora chiedo: dov’è finito l’Impero romano? Dove sono i profeti che erano così sicuri della distruzione della Chiesa? Perciò io non vedo alcun motivo di preoccupazione per il destino della Chiesa universale. Per quanto riguarda il nostro destino, questo è soltanto un breve episodio nella vita del Cristianesimo. Noi crediamo che il destino della Chiesa sia diretto da un potere superiore. I suoi piani includono anche il processo Mindszenty. Anche se è solo una piccola tessera di un mosaico. Il nostro ruolo è semplicemente quello di dare testimonianza in favore di certe verità senza le quali non si può vivere una vita degna di esser chiamata umana, anche se questo esige il sacrificio più costoso.» 21

Il sacrificio del cardinale Mindszenty non fu vano. Come promesso nel suo discorso di insediamento, rafforzò nel suo popolo la fede, l’amore per la patria, la fedeltà alla Chiesa e la coscienza di essere ungheresi. La violenza usata dal partito comunista non lasciò spazio alla manifestazione pubblica di tali valori, ma la maggior parte delle famiglie rimase fedele. Il cardinale trascorse la buona parte della sua prigionia a Budapest, nel carcere di via Conti. A causa del trattamento disumano si ammalò gravemente, perse quasi quaranta chili e rischiò di morire. I dirigenti del partito comunista avrebbero gioito della sua eventuale morte naturale e questo lo dedusse anche il primate dal loro modo di trattarlo. A causa delle sue cattive condizioni di salute, nel 1955 fu trasportato a Püspökszentlászló e da lì a Felsőpetény dove rimase agli arresti domiciliari. Intanto lo Stato monopartitico prese il controllo della Chiesa cattolica ungherese, neanche la conferenza episcopale poté mantenere la sua indipendenza. Nella primavera del 1956 i comunisti gli promisero la grazia a condizioni severe: avrebbe potuto rientrare nel suo ufficio farsa e celebrare la messa in occasione del centenario della consacrazione della basilica di Esztergom se avesse acconsentito a collaborare con il partito comunista. Tra «la morte in prigione e la liberazione a prezzo di un cattivo compromesso» 22 , lui scelse la prima.

La Liberazione

Il 23 ottobre 1956 anche il cardinale apprese le notizie della manifestazione dei giovani di Budapest, ma non ricevette ulteriori notizie fino a una settimana più tardi. Nella prima lettera circolare episcopale pubblicata senza censura dopo molti anni, il vescovo di Pécs, Ferenc Virág, pretese la cessazione delle violazioni della persecuzione religiosa e anche che «il cardinale József Mindszenty, imprigionato innocentemente, fosse liberato, completamente riabilitato e potesse riprendere la sua cattedra di arcivescovo dopo otto anni di sofferenze»23. La delegazione di Felsőpetény fece visita al cardinale il 30 ottobre e le guardie armate non glielo impedirono. Successivamente arrivò la pattuglia della caserma di cavalleria del Rétság per scortare il primate liberato a Budapest il giorno successivo. Strada facendo, gli abitanti dei villaggi e delle città lo accolsero con scampanate e fiori. Una moltitudine aspettava il suo arrivo davanti al palazzo primaziale di Buda. Tutti volevano vederlo ed ascoltarlo, arrivavano senza sosta diverse delegazioni. Avrebbe avuto quattro giorni di libertà fino all’alba di domenica 4 novembre. Parlò con le delegazioni ecclesiastiche della situazione della Chiesa cattolica ungherese, chiese aiuto per l’Ungheria ai rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, informò i media ungheresi e stranieri della situazione del Paese ed attraverso di essi lanciò vari appelli chiedendo aiuto. Non chiese soltanto donazioni ma, prima di tutto, preghiere per il popolo ungherese che, come disse, stava per affrontare dure battaglie. Alle otto di sera del 3 novembre indirizzò alla nazione un discorso radiofonico da uno studio provvisorio sistemato all’interno dell’edificio del Parlamento, invece che dalla sede della Radio ungherese, teatro degli scontri.

«Questa è stata una lotta per la libertà, unica al mondo, con le giovani generazioni in testa al nostro popolo, scoppiata perché la nazione voleva decidere liberamente come vivere. Voleva decidere liberamente del suo destino, della gestione dello Stato e del commercio dei prodotti del suo lavoro. Occorrono nuove elezioni senza brogli, con la partecipazione di tutti i partiti. Le elezioni devono svolgersi sotto il controllo internazionale. Io sono e rimango fuori e – in linea con la mia carica – al di sopra dei partiti. In quanto primate esorto tutti gli ungheresi, dopo le giornate della bellissima unità di ottobre, a non soccombere ai conflitti di partito e alle discordie. Ora questo Paese ha bisogno di molte cose ma certamente ha bisogno del numero più basso possibile di partiti e capi di partito. L’attività politica stessa è di importanza secondaria: la sopravvivenza della nazione e il pane quotidiano sono i nostri interessi principali.» Più tardi l’ultima frase fu cancellata dalla registrazione del discorso trasmesso in diretta: «Noi che siamo attenti e desideriamo promuovere il bene di tutto il popolo, abbiamo fiducia nella Provvidenza e non invano.» 24

All’alba del 4 novembre giunse la notizia dell’offensiva dell’esercito sovietico contro la capitale e il vice primo ministro, Zoltán Tildy, convocò il cardinale al Parlamento per discutere la nuova situazione con i membri del governo nazionale. Quando il primate giunse al Parlamento non c’era più nessun ministro, perciò la riunione fu cancellata e verso le sette lui decise di tornare al palazzo primaziale, a Buda. All’entrata, però, non vide la

24 Il testo completo del discorso radiofonico è citato in Gergely KOVÁCS, Isten Embere – sua macchina. Allora gli si avvicinò il tenente colonnello Kálmán Nagy e gli disse:

«Eminenza, i carri armati sovietici sono schierati davanti al Parlamento pronti ad attaccare. Se scoppia il conflitto, la Sua vita sarà in pericolo, e la patria ha bisogno di Sua Eminenza. Per favore, venga con me in un posto più sicuro!»

«Ma dove?» – chiese il cardinale. «All’ambasciata americana», mi venne in mente ispirato dalla Provvidenza» –ricordò più tardi il tenente colonnello. Il segretario del cardinale appoggiò la proposta e dopo pochi minuti di riflessione l’accettò anche il primate.

Nella sua enciclica, pubblicata il 5 novembre, cioè dopo la repressione della lotta per la libertà, Pio XII scrisse: «Il sangue e le sofferenze del popolo ungherese gridano al Signore!» Numerosi vescovi fecero dichiarazioni simili in tutto il mondo, dall’America fino a Manila nelle Filippine. Il cardinale-arcivescovo Montini, che più tardi sarebbe divenuto papa Paolo VI, portava la croce dell’Ungheria soggiogata in processione per le strade di Milano, alla luce delle fiaccole, esprimendo così la solidarietà del popolo italiano. Del cardinale Mindszenty «si disse durante la rivoluzione che il grande prelato era diventato santo nella prigione. Nella solitudine forzata la sua vita non era altro che preghiera. Voleva costruire un nuovo paese per la gloria di Dio, ma Dio gli aveva chiesto ancora di più e lo aveva condotto al Calvario. Non è il tempo della creazione, questo è il miracolo della passione che si rinnova adesso negli amici di Gesù.» 25

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