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LA SEMIPRIGIONIA E L’ESILIO

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JÓZSEF MINDSZENTY

JÓZSEF MINDSZENTY

Il cardinale pensava che il suo soggiorno presso l’ambasciata degli Stati Uniti sarebbe stato temporaneo. Era sicuro che il mondo civilizzato non avrebbe abbandonato l’Ungheria. I suoi appunti quotidiani («Napi jegyzetek» ) riflettono fedelmente la sua attività, i pensieri e i sogni del periodo all’ambasciata. Non perse la sua prontezza d’ingegno né il suo interesse per le notizie della Chiesa e del mondo neanche nella semiprigionia. Cominciò a scrivere le sue memorie per attrarre l’attenzione dei paesi sulla nazione soggiogata e sulla persecuzione della Chiesa ungherese. Imparò l’inglese e diventò, di fatto, il pastore degli impiegati dell’ambasciata. Celebrava la messa, confessava e amministrava i sacramenti.

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L’ambasciata degli Stati Uniti in Ungheria era l’unica legazione diplomatica nel mondo ad avere un cardinale come cappellano. Per non disturbare il lavoro dell’ambasciata, durante il giorno, Mindszenty stava nella parte dell’edificio destinata a lui. La sera faceva una breve passeggiata accompagnato da qualche funzionario americano. A quell’ora già poteva parlare con loro, ma mai con gli impiegati ungheresi. Il suo tavolo e altare erano sempre decorati con i fiori ricevuti dai funzionari o dalle loro famiglie. Non guardava la televisione e soltanto raramente e per motivi importanti chiedeva la proiezione di qualche film. Oltre a scrivere, preparava le omelie domenicali, curava un’ampia corrispondenza e riceveva, quando possibile, degli ospiti. La cerchia delle visite era strettamente limitata. Sua madre e il suo confessore potevano andare a trovarlo ogni tre mesi.

Il 12 giugno 1965 celebrò il cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, per cui l’arcivescovo di Vienna portò – al cardinale che festeggiava da solo – un regalo di papa Paolo VI, un calice d’oro.

Lo sfondo triste del soggiorno di József Mindszenty all’ambasciata era il fatto che ogni potere interessato cercasse una soluzione al «caso Mindszenty» secondo i propri interessi. Per un periodo la sua liberazione era stata ostacolata in tutti i modi, poi sollecitata.

Erano pienamente consapevoli del fatto che lui non volesse lasciare l’Ungheria per motivi affettivi e anche per dare forza ai sacerdoti e al suo gregge. Pensò anche di uscire dell’ambasciata e consegnarsi alle autorità comuniste, ma venne dissuaso. Alla fine il problema fu risolto quando il cardinale scrisse una lettera al presidente statunitense chiedendo di poter rimanere all’ambasciata. Il presidente gli diede una risposta breve e rapida: «Che si rassegni al Suo destino!» 26

Partì per Roma il 28 settembre 1971. Prima di salire sulla macchina del nunzio di Vienna, benedisse la sua patria. Avendo attraversato la frontiera rivolse un ultimo sguardo al paese chiuso dietro la cortina di ferro e lo benedisse di nuovo. Da Vienna si recò a Roma in aereo. Nella Città del Vaticano il papa Paolo VI lo accolse con grande affetto e gli preparò un alloggio temporaneo nell’appartamento papale della Torre di san Giovanni. Il giorno dopo il cardinale visitò la tomba del papa Pio XII: «S’inginocchiò davanti alla tomba del “suo papa” e rimase lì a lungo, immerso nella preghiera. Fu un momento solenne: il nuovo incontro spirituale del cardinale esiliato con il papa scomparso.» 27

Nella messa d’apertura del sinodo dei vescovi Paolo VI gli diede il benvenuto con le seguenti parole: «È fra noi, giunto in questi giorni a Roma, dopo tanti anni di forzata assenza, il venerato fratello nostro, il cardinale József Mindszenty, arcivescovo di Esztergom, in Ungheria, nostro gradito ospite, che oggi celebrerà la Messa insieme a noi, quale glorioso testimone dell’unione millenaria della Chiesa magiara con la Sede apostolica, quale simbolo del vincolo spirituale che sempre tutti ci stringe intorno ai fratelli ai quali viene impedito di avere rapporti normali con gli altri fratelli e con noi, e quale esempio di intrepida fermezza nella fede e di infaticabile devozione alla Chiesa, prima con generosa operosità, poi con vigile amore, con la preghiera e con la prolungata sofferenza. Benediciamo il Signore e diamo all’esule ed insigne Pastore, il nostro comune, riverente e cordiale benvenuto, in nomine Domini.»

Il 23 ottobre il cardinale József Mindszenty pensò che fosse giunto il momento di trasferirsi nella sua residenza definitiva, il Collegio Pázmáneum a Vienna, proprietà degli arcivescovi di Esztergom. Lì radunò attorno a sé alcuni collaboratori e studiò le relazioni sulla situazione ecclesiastica e culturale delle comunità cattoliche ungheresi sparse nel mondo. Ricevette moltissime lettere e visite personali che accelerarono l’acquisizione delle informazioni. Tenne conto dei suoi fratelli sacerdoti in esilio e seguì con attenzione il lavoro di ognuno di loro. Voleva istituire un seminario ungherese presso il Pázmáneum. I sacerdoti incarcerati in Ungheria e dimenticati da tutti vennero liberati grazie al suo lavoro diplomatico.

Il suo orario assomigliava molto a quello che seguiva prima a Esztergom. Dopo l’adorazione immancabile che seguiva il pranzo si ritirava nel suo studio: «La meditazione, cioè la contemplazione dei misteri di Dio in completo silenzio, era una necessità quotidiana per lui e forse l’unico riposo durante il giorno. Era il silenzio caratteristico dell’uomo che ama Dio, il silenzio dell’anima. Il cardinale Mindszenty sapeva escludere dallo scorrere della sua vita il clamore del mondo. Il silenzio paziente, sia esteriore che interiore, che dominava la sua vita quotidiana ci fa capire perché e come avesse potuto sopportare la solitudine della prigione e l’isolamento greve presso l’ambasciata americana. Era quasi tangibile il modo in cui portava il giogo di Dio senza ostentazione, in modo sereno e naturale, e tutto ciò confortava l’uomo.» 28 La conversazione durante i pasti si svolgeva in un clima sereno. Alle tre in punto usciva a fare una passeggiata di mezz’ora per motivi di salute accompagnato dal suo segretario. Dopo tale passeggiata a volte andava in città a trovare qualche sacerdote malato o in ospedale. Nel pomeriggio lavorava alle sue memorie e ai suoi discorsi e continuava dopo cena fino a notte alta.

Nel 1972 i suoi fratelli sacerdoti festeggiarono il suo ottantesimo compleanno in un ambiente familiare. Il papa e quasi tutti i cardinali si congratularono con lui per lettera. Giunsero tra le prime felicitazioni i telegrammi dei due cardinali polacchi, il primate Stefan Wyszyński e l’arcivescovo di Cracovia Karol

Wojtyla, che più tardi sarebbe divenuto papa Giovanni Paolo II.

L’APOSTOLO DEGLI UNGHERESI IN ESILIO

Vedendo che la Santa Sede non poteva nominare vescovi ausiliari per la cura pastorale degli ungheresi fuori d’Ungheria, József Mindszenty decise di andare a trovare e rafforzare personalmente le comunità ungheresi sparse nel mondo. Accolse con grande gioia le disposizioni del Concilio Vaticano II sulla possibilità di celebrare la messa in ungherese perché vide in essa un’opportunità di coltivare la madrelingua e di sviluppare una vita di fede più profonda. Nel corso dei suoi viaggi pastorali visitò diversi paesi, celebrò la messa in più di cinquanta città e partecipò agli eventi organizzati in occasione delle sue visite. «I viaggi, le funzioni ecclesiastiche, le conferenze stampa, gli incontri con le delegazioni, le famiglie o i privati e le discussioni sui problemi pastorali e nazionali non mi costavano troppa fatica perché, dopo l’isolamento forzato di ventitré anni, l’attività intensa derivante dalla mia vocazione e i rapporti missionari con la gente e il mondo mi riempivano di gioia.» 29

Il suo obiettivo pastorale era di rafforzare i suoi fedeli nella fede cristiana e nella coscienza di essere ungheresi, spingerli a conservare la madrelingua e la cultura ungheresi, a rimanere strettamente uniti, a sentirsi responsabili gli uni per gli altri ed a prendersi cura degli altri in quanto fratelli. Il cardinale fu accolto con gioia anche dalle comunità non ungheresi. Nel maggio del 1974 visitò gli ungheresi in America e il Congresso degli Stati Uniti dedicò quattro giorni alla sua persona e alla sua missione. I membri del Congresso lodarono il suo lavoro devoto negli ambiti della libertà umana, della dignità umana e del diritto dei popoli all’autodeterminazione e paragonarono il cardinale ungherese ai grandi eroi americani della libertà. Una manifestazione della stima profonda di cui godeva il primate fu quanto venne scritto di lui nella rivista degli emigranti russi: «Oggi non c’è nessuna persona colta che non conosca il nome del cardinale Mindszenty. Quest’uomo è un simbolo, una leggenda, incarna la storia. Ai nostri occhi il cardinale Mindszenty è il prescelto del popolo ungherese.»30 Quest’uomo di più di ottant’anni percorse quasi centomila chilometri in macchina, treno e aereo per andare a trovare e rafforzare i suoi fedeli ungheresi. Smentì tutti i pregiudizi su di lui: non rimase nascosto in un convento, ma non si vantò neanche delle sofferenze passate né cercò le luci della ribalta. Nel febbraio del 1974 papa Paolo VI si vide costretto a prendere una delle decisioni più dolorose del suo pontificato quando dichiarò vacante la sede arcivescovile di Esztergom. In Ungheria la propaganda comunista festeggiò il «licenziamento» di József Mindszenty, mentre il mondo libero contemplava gli eventi con perplessità. Il Santo Padre si vide costretto a scegliere il minore dei due mali, perciò il decreto pontificio non parla di «rimozione» ma di «rendere vacante la sede arcivescovile», utilizzando una formula piú delicata. Il cardinale Mindszenty accettò la decisione del papa e smise di usare i titoli ungheresi che aveva prima. La decisione governativa di Paolo VI divenne la croce gloriosa della tribolazione comune di loro due.

Il segretario del cardinale immortalò nelle sue memorie il fatto che «nel mattino dell’annuncio della sua rimozione l’unica cosa che il cardinale Mindszenty disse, con la laconicità tipica degli ungheresi, fu: “Povero papa, quanti guai deve sopportare a causa mia!” L’ho sentito personalmente e porgo la mia gratitudine a Dio per averlo sentito.»31

Non si può scrivere la storia della Chiesa del secolo XX senza un libro: le Memorie del cardinale Mindszenty, pubblicato nel 1974. Questo libro di cinquecento pagine è frutto di un lavoro intenso. Nel libro l’autore non accusa nessuno, ma scrive semplicemente la realtà vissuta per risvegliare l’opinione pubblica del mondo ed avvertirla della natura antireligiosa ed antiumana del comunismo e delle sofferenze del popolo ungherese. Il libro non è soltanto immensamente interessante, ma è anche pieno di una sincera speranza e una fiducia profonda e vissuta in Dio.

Il periodo del lavoro pastorale del cardinale Mindszenty svolto nell’esilio fu provvidenziale. Nella crisi temporanea seguita al Concilio Vaticano II la sua obbedienza al papa, la sua attitudine pastorale e la sua mera presenza avevano un effetto conciliatore sui diversi gruppi in conflitto a causa della carità «con cui accettava e promuoveva l’avvicinamento di tutti gli ungheresi, siano calvinisti, luterani, unitari, ebrei o altro. Il suo comportamento in questo ambito dimostra quanto comprendesse le esigenze dell’epoca e dello spirito di quell’epoca. Naturalmente in tale comportamento, aperto alle altre confessioni, seguiva la voce del cuore, del suo cuore ungherese.» 32

«Sia più paterno!» Con queste parole ricevette la chiamata alla santità trent’anni prima. I trent’anni del suo ministero da vescovo costituirono l’implementazione di tale programma spirituale. Nella sua ultima lettera pastorale scrisse: «Sin da quando ho dovuto lasciare il mio Paese percorro il mondo cercando gli ungheresi sparsi ovunque. Perché queste visite?

Per infondere, cari fratelli ungheresi esuli, fede e speranza nelle vostre anime quando sono già disperate. Siamo uniti nella dispersione perché siamo non soltanto ”guardie” ma anche fratelli gli uni degli altri.» 33

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