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1. UN INSOSPETTABILE CORAGGIO

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2. L’ESEMPIO

2. L’ESEMPIO

Nessuno è pronto ad affrontare il momento del distacco dalla persona che hai amato per tutta la vita, neppure quando si è perfettamente consapevoli che questo potrebbe accadere da un momento all’altro; nemmeno quando porti con te, quotidianamente, l’angoscia e il timore di dover fare i conti con l’epilogo della vita, con quell’ultimo orizzonte al quale, prima o poi, nessuno può sottrarsi.

Non lo ero neppure io, anche se con razionalità sapevo che ogni giorno sarebbe potuto essere quello fatale, che le probabilità di risveglio per la mia cara Angela si assottigliavano sempre di più e che, dopo anni di coma profondo, di stato vegetativo permanente, erano diventate solo una mera e patetica speranza.

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Può sembrare un paradosso, ma mai ho pensato alla morte come epilogo di una battaglia combattuta per ben ventinove anni. Una lotta contro i mulini a vento forse, ma una lotta per la vita, per l’affermazione della sua esistenza, anche se muta, silente e inerme.

Mai ho realmente pensato che lei potesse lasciarmi definitivamente, fin dal primo tragico momento, dal giorno in cui il suo cuore si è improvvisamente fer- mato e ha spento quello sguardo sempre raggiante, dolce e penetrante, facendola precipitare in uno stato di coma profondo.

Avevamo messo al mondo cinque splendide figlie, ancora piccolissime: la più grande aveva nove anni, la più piccola appena quindici mesi.

Ogni santo giorno che Nostro Signore dona alla terra mi svegliavo con un pensiero fisso: la ricerca della felicità in un abisso così profondo come quello in cui eravamo precipitati, fatto di sofferenza, strazio e tormento.

Il filosofo greco Epicuro sosteneva che l’uomo potesse allontanare il male e il dolore perseguendo la felicità, il bene più alto e io lo facevo affrontando un faticoso cammino: il passaggio dalla vita che conosciamo, con tutti i suoi difetti, contraddizioni, sofferenze, gioie ed emozioni, a un nuovo legame fatto di alito, di ricordo, di anima, di spirito; il momento in cui tutto si sposta oltre la materia.

È un dolore che spietatamente si rinnova; un calvario capace di sfibrare chiunque, soprattutto se si prolunga per lungo tempo, ma che ho scoperto portare invece con sé una potenza insospettabile, di avere la capacità di trasmettere una forza che fino a quel momento non pensavo assolutamente di avere.

Parlarsi con la voce dell’anima e non più con quella del corpo significa ricorrere a un linguaggio senza punteggiatura o regole grammaticali, un sistema di espressione che pochi possono comprendere e che può portarti in spazi difficilmente immaginabili, che ti consentono di superare il dolore, di andare oltre, quasi di vincerlo, o perlomeno di accantonarlo. A me è capitato così.

Angela e io ci eravamo conosciuti al liceo scientifico di Avezzano; lei, ragazza introversa con un piglio severo che la faceva apparire anche un po’ altezzosa, aveva già la consapevolezza dei suoi valori, dei suoi principi.

Era quel che si dice “una ragazza a modo”.

Quel comportamento, posato e impassibile, l’aveva condannata a un ironico e ingeneroso appellativo: “Everest”, dando il senso di una cima quasi impossibile da scalare e questo teneva lontani, conseguentemente, tutti i possibili corteggiatori, anche quelli più intraprendenti.

Nessuno, prudentemente, si azzardava ad avvicinarla, per evitare il classico “due di picche”.

Era così inaccessibile da diventare oggetto di scommessa fra noi giovani e vitali studenti: chi fosse riuscito a fare breccia in quella invisibile e immaginaria barriera sarebbe diventato una sorta di eroe e avrebbe guadagnato numerosi punti nella graduatoria del rispetto, accedendo di diritto all’olimpo dei più ammirati.

Nessuno si chiedeva quali fossero le ragioni di quella riservatezza, che cosa si nascondesse dietro il velo di una malinconia che i più scambiavano per alterigia.

A quell’età è raro avere la sensibilità necessaria per andare oltre la corteccia di superficie, per scendere nel profondo del pensiero e spingersi sulla strada della comprensione. È la fase della vita in cui è più importante apparire che essere, in cui l’uniformità agli altri è prioritaria, in cui la diversità anziché un valore viene considerata un difetto, un’imperfezione.

Spinto da un insospettabile coraggio, sollecitato da quella stupida scommessa che altro non era se non un gioco infantile, mi convinsi che avrei potuto almeno tentare di avvicinarla.

Lo feci in un giorno di primavera, ispirato da quel raggio di sole che le illuminava il volto mentre percorreva il vialetto che portava al portone d’ingresso della scuola. Mi sembrava che la bocca fosse piegata in un timido sorriso e, senza neppure riflettere su quello che avrei detto, mi incamminai verso di lei.

«Ciao Angela, gran bella giornata, vero?»

Una frase più banale non sarebbe potuta uscire dalla mia bocca! Mi era venuta spontanea, di getto; erano le uniche parole messe in fila da un cervello annebbiato dall’emozione e sorpreso dal mio stesso ardire, della mia insospettabile temerarietà.

Con mia grande sorpresa, invece di mandarmi al diavolo o peggio ancora ignorarmi, lei inarcò leggermente le labbra in un educato sorriso e mi rispose.

«Ciao, hai ragione, è una bella giornata, ma tu come fai a conoscere il mio nome?»

Bella domanda! Cosa avrei potuto rispondere? Che conoscevo il suo nome perché era la ragazza più ammirata del liceo? Che sapevo quasi tutto di lei perché ne ero affascinato, addirittura ammaliato? Che la pensavo continuamente? No, certamente no! Non potevo essere così rozzo e inopportuno, sarebbe stato sconveniente. Non potevo neppure scoprire così spudorata- mente e senza dignità i miei veri sentimenti. Dovevo assolutamente trovare una risposta adeguata.

«Ho sentito le tue compagne chiamarti durante la ricreazione.»

«Ah!», commentò. Tirai un sospiro di sollievo, sembrava essersela bevuta e io ero salvo.

«Ti ho già visto da queste parti – aggiunse – ma come ti chiami?»

«Nazzareno – risposi con orgoglio – con due zeta!»

Rise di quella mia inutile precisazione: «Buono a sapersi».

Quel nome era poco diffuso e considerato arcaico rispetto ai più gettonati e nobili Andrea, Alberto, Giorgio e altri ancora più in voga negli anni Cinquanta.

A mamma e papà piaceva, perché era espressione di quella fede religiosa di cui erano portatori, richiamava immediatamente a Gesù, al cristianesimo, a Nazareth, alla Galilea, alla culla del cattolicesimo, anche perché quel nome rispondeva al desiderio espresso da un parente che, non avendo figli, voleva lasciare traccia di sé.

Del resto, noi Marsi portiamo nel nostro corredo genetico i segni della religiosità; nel nostro dialetto gli uomini sono “li cristiane”. Non a caso Ennio Flaiano ha definito la Maiella e il Gran Sasso «le nostre basiliche».

«Bel nome – disse Angela con un incoraggiante sorriso – Nazzareno, con due zeta, si accorda proprio con il mio.»

Ne fui entusiasta. Sono certo di non essere riuscito a nascondere la soddisfazione di quel commento: cer- cai di non muovere neppure un muscolo, ma i miei occhi, sicuramente, manifestavano il felice subbuglio che mi stava travolgendo.

Quella semplice constatazione, nella mia immaginazione, apriva non solo un varco ma una vera e propria autostrada. Lei aveva accostato i nostri nomi assegnandogli un significato religioso e io già mi facevo il viaggio di una vita insieme: Nazzareno, rigorosamente con due zeta, e la sua Angela.

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