Nel tuo silenzio - Sergio Barducci

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Collana diretta da Giacomo Battara

SERGIO BARDUCCI

Nel tuo silenzio

ANGELA E NAZZARENO, LA STORIA VERA

CHE HA LIBERAMENTE ISPIRATO

LA SERIE TV

“BUONGIORNO, MAMMA”

MINERVA
L’amore è composto da un’unica anima che abita due corpi. aristotele

1. UN INSOSPETTABILE CORAGGIO

Nessuno è pronto ad affrontare il momento del distacco dalla persona che hai amato per tutta la vita, neppure quando si è perfettamente consapevoli che questo potrebbe accadere da un momento all’altro; nemmeno quando porti con te, quotidianamente, l’angoscia e il timore di dover fare i conti con l’epilogo della vita, con quell’ultimo orizzonte al quale, prima o poi, nessuno può sottrarsi.

Non lo ero neppure io, anche se con razionalità sapevo che ogni giorno sarebbe potuto essere quello fatale, che le probabilità di risveglio per la mia cara Angela si assottigliavano sempre di più e che, dopo anni di coma profondo, di stato vegetativo permanente, erano diventate solo una mera e patetica speranza.

Può sembrare un paradosso, ma mai ho pensato alla morte come epilogo di una battaglia combattuta per ben ventinove anni. Una lotta contro i mulini a vento forse, ma una lotta per la vita, per l’affermazione della sua esistenza, anche se muta, silente e inerme.

Mai ho realmente pensato che lei potesse lasciarmi definitivamente, fin dal primo tragico momento, dal giorno in cui il suo cuore si è improvvisamente fer-

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mato e ha spento quello sguardo sempre raggiante, dolce e penetrante, facendola precipitare in uno stato di coma profondo.

Avevamo messo al mondo cinque splendide figlie, ancora piccolissime: la più grande aveva nove anni, la più piccola appena quindici mesi.

Ogni santo giorno che Nostro Signore dona alla terra mi svegliavo con un pensiero fisso: la ricerca della felicità in un abisso così profondo come quello in cui eravamo precipitati, fatto di sofferenza, strazio e tormento.

Il filosofo greco Epicuro sosteneva che l’uomo potesse allontanare il male e il dolore perseguendo la felicità, il bene più alto e io lo facevo affrontando un faticoso cammino: il passaggio dalla vita che conosciamo, con tutti i suoi difetti, contraddizioni, sofferenze, gioie ed emozioni, a un nuovo legame fatto di alito, di ricordo, di anima, di spirito; il momento in cui tutto si sposta oltre la materia.

È un dolore che spietatamente si rinnova; un calvario capace di sfibrare chiunque, soprattutto se si prolunga per lungo tempo, ma che ho scoperto portare invece con sé una potenza insospettabile, di avere la capacità di trasmettere una forza che fino a quel momento non pensavo assolutamente di avere.

Parlarsi con la voce dell’anima e non più con quella del corpo significa ricorrere a un linguaggio senza punteggiatura o regole grammaticali, un sistema di espressione che pochi possono comprendere e che può portarti in spazi difficilmente immaginabili, che ti consentono di superare il dolore, di andare oltre,

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quasi di vincerlo, o perlomeno di accantonarlo. A me è capitato così.

Angela e io ci eravamo conosciuti al liceo scientifico di Avezzano; lei, ragazza introversa con un piglio severo che la faceva apparire anche un po’ altezzosa, aveva già la consapevolezza dei suoi valori, dei suoi principi.

Era quel che si dice “una ragazza a modo”.

Quel comportamento, posato e impassibile, l’aveva condannata a un ironico e ingeneroso appellativo: “Everest”, dando il senso di una cima quasi impossibile da scalare e questo teneva lontani, conseguentemente, tutti i possibili corteggiatori, anche quelli più intraprendenti.

Nessuno, prudentemente, si azzardava ad avvicinarla, per evitare il classico “due di picche”.

Era così inaccessibile da diventare oggetto di scommessa fra noi giovani e vitali studenti: chi fosse riuscito a fare breccia in quella invisibile e immaginaria barriera sarebbe diventato una sorta di eroe e avrebbe guadagnato numerosi punti nella graduatoria del rispetto, accedendo di diritto all’olimpo dei più ammirati.

Nessuno si chiedeva quali fossero le ragioni di quella riservatezza, che cosa si nascondesse dietro il velo di una malinconia che i più scambiavano per alterigia.

A quell’età è raro avere la sensibilità necessaria per andare oltre la corteccia di superficie, per scendere nel profondo del pensiero e spingersi sulla strada della comprensione. È la fase della vita in cui è più importante apparire che essere, in cui l’uniformità agli altri

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è prioritaria, in cui la diversità anziché un valore viene considerata un difetto, un’imperfezione.

Spinto da un insospettabile coraggio, sollecitato da quella stupida scommessa che altro non era se non un gioco infantile, mi convinsi che avrei potuto almeno tentare di avvicinarla.

Lo feci in un giorno di primavera, ispirato da quel raggio di sole che le illuminava il volto mentre percorreva il vialetto che portava al portone d’ingresso della scuola. Mi sembrava che la bocca fosse piegata in un timido sorriso e, senza neppure riflettere su quello che avrei detto, mi incamminai verso di lei.

«Ciao Angela, gran bella giornata, vero?»

Una frase più banale non sarebbe potuta uscire dalla mia bocca! Mi era venuta spontanea, di getto; erano le uniche parole messe in fila da un cervello annebbiato dall’emozione e sorpreso dal mio stesso ardire, della mia insospettabile temerarietà.

Con mia grande sorpresa, invece di mandarmi al diavolo o peggio ancora ignorarmi, lei inarcò leggermente le labbra in un educato sorriso e mi rispose.

«Ciao, hai ragione, è una bella giornata, ma tu come fai a conoscere il mio nome?»

Bella domanda! Cosa avrei potuto rispondere? Che conoscevo il suo nome perché era la ragazza più ammirata del liceo? Che sapevo quasi tutto di lei perché ne ero affascinato, addirittura ammaliato? Che la pensavo continuamente? No, certamente no! Non potevo essere così rozzo e inopportuno, sarebbe stato sconveniente. Non potevo neppure scoprire così spudorata-

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mente e senza dignità i miei veri sentimenti. Dovevo assolutamente trovare una risposta adeguata.

«Ho sentito le tue compagne chiamarti durante la ricreazione.»

«Ah!», commentò. Tirai un sospiro di sollievo, sembrava essersela bevuta e io ero salvo.

«Ti ho già visto da queste parti – aggiunse – ma come ti chiami?»

«Nazzareno – risposi con orgoglio – con due zeta!»

Rise di quella mia inutile precisazione: «Buono a sapersi».

Quel nome era poco diffuso e considerato arcaico rispetto ai più gettonati e nobili Andrea, Alberto, Giorgio e altri ancora più in voga negli anni Cinquanta.

A mamma e papà piaceva, perché era espressione di quella fede religiosa di cui erano portatori, richiamava immediatamente a Gesù, al cristianesimo, a Nazareth, alla Galilea, alla culla del cattolicesimo, anche perché quel nome rispondeva al desiderio espresso da un parente che, non avendo figli, voleva lasciare traccia di sé.

Del resto, noi Marsi portiamo nel nostro corredo genetico i segni della religiosità; nel nostro dialetto gli uomini sono “li cristiane”. Non a caso Ennio Flaiano ha definito la Maiella e il Gran Sasso «le nostre basiliche».

«Bel nome – disse Angela con un incoraggiante sorriso – Nazzareno, con due zeta, si accorda proprio con il mio.»

Ne fui entusiasta. Sono certo di non essere riuscito a nascondere la soddisfazione di quel commento: cer-

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cai di non muovere neppure un muscolo, ma i miei occhi, sicuramente, manifestavano il felice subbuglio che mi stava travolgendo.

Quella semplice constatazione, nella mia immaginazione, apriva non solo un varco ma una vera e propria autostrada. Lei aveva accostato i nostri nomi assegnandogli un significato religioso e io già mi facevo il viaggio di una vita insieme: Nazzareno, rigorosamente con due zeta, e la sua Angela.

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2. L’ESEMPIO

Correvo con la fantasia, ma la mia convinzione, che potessimo avere una vita da percorrere insieme, derivava dall’esperienza che avevo vissuto in casa, nella mia tormentata e straordinaria famiglia.

A legare i miei genitori è stato sempre un affetto profondo, un amore messo a dura prova dalle vicissitudini della vita, ma solido e duraturo.

Si erano sposati molto giovani e poco dopo separati dalla discesa in guerra dell’Italia, da quella chiamata alle armi che mise in crisi tantissime famiglie, in particolare in quelle aree in cui l’attività principale era legata al lavoro dei campi, dove improvvisamente vennero a mancare braccia preziose che, molto probabilmente, non sarebbero tornate mai più e dove la già difficile situazione economica precipitò verticalmente. Classe 1911 lui, il 28 dicembre, e 1914 lei, il 26 maggio.

Luigi, mio padre, aveva ventun anni quando partì per il servizio militare; due anni li trascorse a Trento, un breve periodo a casa, poi la campagna d’Africa, dal 1935 al 1937, e finalmente il matrimonio, il 28 ottobre del 1937.

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Richiamato per la Seconda guerra mondiale fu costretto a lasciare la sua sposa per raggiungere il fronte.

Mamma, che adorava il suo splendido sposo, considerato il più bel ragazzo del paese, si rimboccò le maniche e per mantenersi non disdegnò a adattarsi, così come tante altre donne in quei momenti cupi, a svolgere i lavori più umili e pesanti, fino ad allora riservati agli uomini.

Non si fece scrupolo di andare a faticare nei campi, a occuparsi dell’aratura, della mietitura e, quando se ne presentava l’occasione, anche di andare “a servizio”, a giornata, nelle altre famiglie. Tutto era accettabile, pur di procurarsi le risorse necessarie per tirare avanti; ricompense che non sempre venivano corrisposte in denaro, ma spesso pagate con i prodotti della terra che lei stessa contribuiva a coltivare: ortaggi, farina, uova; raramente qualche gallina o piccoli pezzi di carne.

Il cibo scarseggiava, i generi alimentari concessi dalla carta annonaria non sempre consentivano di arrivare alla fine del mese; in quei tempi di guerra, ogni persona poteva acquistare cinque chili di farina, due chili di pasta, duecento grammi di zucchero, duecentocinquanta grammi di olio. Ma quelle cose andavano pagate e chi non aveva il denaro sufficiente per l’acquisto doveva in qualche modo arrangiarsi.

Clara, carattere un po’ spigoloso e ruvido, era sopravvissuta al terribile terremoto che aveva devastato la Marsica e la piana del Fucino, il 13 gennaio 1915, quando oltre trentamila persone persero la vita. Ad Avezzano, epicentro del sisma, morirono diecimila

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dei tredicimila residenti in città, e duemila furono i feriti; una sola casa restò in piedi. Come raccontò un testimone al “Corriere della Sera” il giorno dopo: «Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso, Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muri».

Lei, che in quei giorni tremendi aveva poco più di sette mesi, si salvò proprio grazie alla tenera età e al fisico minuto: troppo piccola per essere schiacciata dalle macerie, da cui venne estratta indenne; spaventata ma illesa.

In quella tremenda catastrofe, una delle più gravi nella storia dell’intera Italia, perse i propri fratelli e la casa che il padre aveva costruito con i risparmi di un lungo periodo vissuto da emigrante, negli Stati Uniti, dove aveva fatto tanti sacrifici e accettato i lavori più umili per tornare al paese e dare una nuova svolta alla sua vita.

Senza neppure un segnale di preavviso, in pochi secondi quasi tutti gli abitanti persero i loro cari, ogni avere e ogni cosa tangibile. Un dramma inimmaginabile.

Mamma portò sempre con sé i segni indelebili di quella tragedia, delle radici spezzate in quel tragico 13 gennaio, alle 7:53 del mattino.

Crebbe in una misera casa di fortuna, dove si erano trasferiti in sostituzione della splendida palazzina a tre piani in cui era nata, con quello che era rimasto di una famiglia numerosa, diventata improvvisamente povera ma sempre con tanta dignità e forza d’animo, ringraziando Dio per il pane concesso giornalmente.

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Con la stessa energia, anni dopo seppe attraversare il lungo e drammatico periodo di assenza del suo giovane marito. Agli stenti quotidiani si aggiungeva un ulteriore pesante fardello: quello dell’angoscia, dell’apprensione per la sorte del suo Gigi, della incessante preoccupazione che in guerra potesse trovare la morte. Un’attesa sfibrante, che logorava i nervi e condizionava le giornate, che inspiegabilmente divenivano più lunghe.

Un’inquietudine che la tormentò per ben 9 anni, quando finalmente Luigi riuscì a tornare a casa, sfuggito per miracolo alla fucilazione in un campo di prigionia tedesco, a Dachau.

Ne uscì molto provata da quella nuova drammatica esperienza e, nonostante il coraggio, la fede e la capacità di coltivare speranza che aveva dimostrato, divenne ancora più accigliata e spigolosa.

La ricordo sempre angosciata da ansie e paure, letteralmente terrorizzata dal pericolo.

Dal quartiere in cui abitavamo, alla periferia del paese, per arrivare al centro eravamo costretti ad attraversare due passaggi a livello, che regolavano il traffico delle due linee ferroviarie che lambivano

Avezzano: quella che portava a Cassino e Roccasecca, e quella che invece raggiungeva Roma passando da Tagliacozzo.

Per lei quelle due vie di comunicazione erano un vero e proprio incubo.

Ogni volta che uscivamo di casa, per andare a scuola o a giocare dagli amici, erano raccomandazioni a non

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finire: «Non si passa sotto le sbarre!», «Fate attenzione ad attraversare i binari, guardate sempre bene», «Non fate sciocchezze!».

Era sempre in apprensione. Così come era sempre protesa a preoccuparsi di garantire lo stretto necessario per la famiglia: il cibo da mettere in tavola e un fuoco per riscaldarsi; il resto era tutto inutile, un sovrappiù del quale si poteva tranquillamente fare a meno.

Non è stato facile essere figlio di quella donna, che solo una volta cresciuto ho riconosciuto come straordinaria: difficile sopportarla, a volte anche solo ascoltarla, raro un confronto sereno, mai una parola dolce o una carezza. Ma quello era il suo modo di volerci bene. Una volta diventato genitore, mi sono reso conto di cosa rappresentasse e mi sono completamente ritrovato in questa sua forma di affetto, che a modo mio ho negli anni replicato.

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