È presa la decisione di espatriare - Francesca Panozzo (Edizioni Minerva)

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PANOZZO

È presa la decisione di espatriare

Storia di una famiglia ebraica tra persecuzione e dopoguerra

MINERVA
FRANCESCA

www.giustiemiliaromagna.it

Per non dimenticare il bene è un progetto del MEB - Museo Ebraico di Bologna, finanziato sulla base della L.R. n. 3 del 2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento in Emilia-Romagna”.

È PRESA LA DECISIONE DI ESPATRIARE

Storia di una famiglia ebraica tra persecuzione e dopoguerra di Francesca Panozzo

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Coordinamento editoriale: Martina Mugavero

Prima edizione: gennaio 2023

In copertina: Cortina, 1937. La famiglia Sinigaglia - Giorgio, Attilio, Lina ed Elena - in montagna. Collezione famiglia Sinigaglia.

Per le immagini contenute in questo volume, l’Editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare.

© 2023 MEB-Museo Ebraico di Bologna via Valdonica, 1/5 – 40126 Bologna Tel. 051.2911280 info@museoebraicobo.it www.museoebraicobo.it

© 2023 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

ISBN: 9788833245287

A Roberto, ai miei genitori per non aver mai smesso di insistere

Le istituzioni museali hanno da sempre fatto affidamento sulla donazione di oggetti, documenti, materiali, memorie che aiutino a conservare, ricostruire, spiegare e interpretare le esperienze e la vita delle generazioni precedenti, di protagonisti ormai scomparsi, collegati al periodo in cui sono vissuti e a un territorio di appartenenza. Le donazioni sono cioè gesti di grande coscienza e consapevolezza, nonché di generosità, da parte dei donatori, azioni indispensabili e necessarie, che permettono di trasmettere e rinnovare conoscenze, di ricostruire vicende, di riempire dei vuoti.

Ed è proprio da una donazione che nasce questo libro: ci racconta attraverso una lettura attenta dei documenti e delle memorie la storia di una famiglia ebraica bolognese, i Sinigaglia, che riesce a sopravvivere nel drammatico periodo compreso tra il 1938 e gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. I Sinigaglia hanno affidato al Museo Ebraico di Bologna il loro archivio famigliare, e lo hanno fatto certamente per un legame forte e di lunga data con il Museo Ebraico di Bologna, ma anche – e ci piace qui sottolinearlo – come dimostrazione di profonda fiducia verso questa nostra istituzione da sempre attenta e sensibile a un dialogo sulla tradizione e cultura ebraica con la città e con il territorio regionale anche attraverso l’incremento e l’arricchimento del suo patrimonio documentario, della sua accessibilità e valorizzazione.

Mutando una espressione molto frequente nella Bibbia, “Midor Ledor”, di generazione in generazione, si può mettere in rilievo che l’interesse per gli archivi familiari trova la sua ragion d’essere nelle stesse vicende storiche degli ebrei del nostro Paese ed in particolar modo della nostra regione e che la permanenza e la trasmissione di questo patrimonio vitale travalica le singole generazioni e attraversa la storia.

Va ricordato che questo libro nel quale Francesca Panozzo ha ricomposto e ha fatto emergere in modo vivido le vicende della fami-

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PREFAZIONE

glia Sinigaglia, con i loro sentimenti contrastanti, le loro paure, le loro emozioni, nasce da un progetto più ampio, iniziato dal Museo Ebraico di Bologna nel 2017. Si tratta del progetto “Per non dimenticare il bene” con la mappatura completa dei Giusti tra le Nazioni emiliano-romagnoli – attualmente sono già oltre settanta – e la creazione di una banca dati consultabile e aggiornata all’interno della quale è possibile navigare collegando le persone ai luoghi, alle storie e alle reti di solidarietà nelle quali spesso si trovarono a operare, ricostruendo un vero e proprio percorso della memoria. Un ambizioso progetto che è stato reso possibile grazie al finanziamento messo a disposizione dalla Regione Emilia-Romagna con la L.R. n. 3 del 2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento in Emilia-Romagna”. Un progetto del MEB che vuole essere un contributo alla memoria e alla conoscenza.

Mauro Felicori Assessore alla Cultura e al Paesaggio della Regione Emilia-Romagna

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Quella che leggerete in queste pagine è la storia di una famiglia italiana che definiremmo “normale”. Piccola borghesia urbana dedita al commercio, in movimento fra Venezia, Bologna e Mantova, è uno fra i tantissimi esempi di vicende che accompagnano la trasformazione della società di questo Paese fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. È una microstoria che ci consente di ricostruire il processo di nazionalizzazione attraverso la Grande Guerra, i contrasti registrati negli anni di ascesa del fascismo, la pressante richiesta di “normalizzazione”, nel senso di rientrare nelle caratteristiche dettate dalla “norma” imposta dal fascismo negli anni Venti e Trenta. È anche la storia di un furto di Stato, agevolato dalla pignoleria di piccoli funzionari privi di etica e di grandi imprenditori bolognesi che non andavano troppo per il sottile. Sì, perché se in un Paese che si dice “normale” esci da quel che il potere decide debba essere la “norma”, in modo repentino si rischia di perdere tutto e ci si trova a vivere una inaspettata situazione di insicurezza. Si perdono alcuni diritti che si davano per acquisiti e scontati (in effetti la “normalità” genera assuefazione), con la perdita dei diritti la situazione economica si fa instabile e si diviene fragili. E se di mezzo ci si mettono una guerra e una persecuzione diretta con una caccia all’uomo che non lascia molte vie di fuga, allora si diventa in tempi rapidissimi dei fuggiaschi, poi dei profughi, degli immigrati clandestini, e si viene rinchiusi in campi di raccolta attraversando situazioni di assoluta precarietà, perdita di contatti e di conoscenze, vivendo un presente che promette ben poco per il futuro. A ben vedere accade anche oggi, in forme spesso non dissimili.

Questa è anche una storia che – alla fine e per la maggior parte dei membri della famiglia Sinigaglia – finisce bene, tanto da permettere alla brava curatrice del volume Francesca Panozzo di ricostruire l’intera storia attraverso documenti preziosi (lettere e diari privati) e riscontri rinvenuti in diversi archivi. Per molte altre persone coinvolte in vicende analoghe non ci fu alcun lieto fine. Parliamo di gente che si trovò come la famiglia protagonista di questo volume a vivere in maniera diversa gli stessi anni e le stesse dinamiche. Ritorniamo

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allora per un attimo alla riflessione sulla “normalità” e rapportiamola al gruppo sparuto di ebrei (poche decine di migliaia in tutta Italia) che vivevano integrati nel Paese. Essere israeliti a quell’epoca significava – come scrisse Arnaldo Momigliano – essere parte della “formazione della coscienza nazionale italiana” al pari dei piemontesi, dei napoletani e dei siciliani. Con quell’ideale si andava, magari da volontari, in guerra durante il conflitto 1915-18. Con lo stesso spirito il regime fascista inquadrava quella minoranza religiosa (ma non poi tanto) in una struttura organizzativa centralizzata che coordinava le Comunità ebraiche della penisola trasformandole in entità territoriali dipendenti da una Unione con sede a Roma. La normalizzazione degli ebrei andava di pari passo alla loro nazionalizzazione, ma fu un processo effimero, fondato su un equivoco ideologico e sulle sabbie mobili di una politica in continuo movimento. Solo pochi anni dopo l’approvazione della legge del 1930 sulle Comunità ebraiche, il regime cambiò rotta. Sfruttando la mai sopita presenza di un diffuso antisemitismo e in sintonia con analoghe decisioni assunte da regimi fascisti e nazionalisti in Europa (in primis il nazismo tedesco), nell’autunno del 1938 il fascismo (con il beneplacito del re e di tutti gli apparati dello Stato centrali e periferici) pose fine in poche settimane alla “normalità” degli ebrei in Italia. E la fine della storia per oltre ottomila ebrei che vivevano nella Penisola non fu la salvezza, bensì la morte nei campi di sterminio.

La ricostruzione della vicenda della famiglia Sinigaglia è un esempio da manuale di un buon uso della documentazione storica e archivistica. Piccole storie personali sono ricostruite disponendo di dati archivistici certi e vengono connesse alle vicende storiche generali aiutando il lettore e la lettrice a spiegare situazioni che altrimenti potrebbero sembrare oscure. Un buon esempio di scrittura di storia, che parlandoci di fatti lontani ci aiuta a capire meglio il presente.

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PERCHÉ UN LIBRO

La famiglia Sinigaglia è legata da sempre al MEB - Museo Ebraico di Bologna. Elena Sinigaglia, ancora molto giovane ai tempi della vicenda raccontata in questo libro, sposò nel dopoguerra Eugenio Heiman, più volte presidente della Comunità ebraica di Bologna tra il 1953 e il 1965 e fervente promotore del MEB di cui fu presidente dal 1999, anno della nascita del Museo, al 2002.

Il legame è rimasto saldo anche dopo la scomparsa di Eugenio Heiman e di Elena Sinigaglia, e ha dato luogo a diversi lasciti da parte degli eredi di materiale bibliotecario e archivistico che hanno arricchito il patrimonio del Museo.

L’ultimo, graditissimo dono è stato un piccolo ma sostanzioso fondo costituito da lettere e documenti della famiglia prodotti prevalentemente durante il periodo compreso tra il 1938 e gli anni immediatamente successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale.

In questi ultimi anni il MEB aveva già dato spazio al racconto della fuga dei Sinigaglia verso la Svizzera e del ruolo di Clelia Spagnolo, la donna di servizio della famiglia, che con straordinario spirito di dedizione e coraggio si adoperò per preservare il più possibile i beni recuperati dal negozio di via Ugo Bassi, accudì la nonna, rimasta in Italia perché anziana e non ebrea, e, soprattutto, protesse un cuginetto di Elena e Giorgio, troppo piccolo e fragile per spostarsi da un nascondiglio all’altro insieme ai genitori, facendolo passare come suo figlio.

Ma troppi e troppo interessanti erano gli spunti offerti da questa storia per non cogliere l’occasione di ricavare da quell’archivio generosamente donato al Museo una pubblicazione che potesse andare nelle mani di tutti, dai lettori di qualunque età e formazione curiosi di conoscere i fatti di un passato ancora abbastanza recente, ai ricercatori e agli insegnanti, sempre più in difficoltà nel compito di suscitare interesse in un’utenza giovane sollecitata da innumerevoli stimoli di ogni genere.

I Sinigaglia sono una famiglia normale, benestante, di provenienza mantovana e perfettamente inserita nel contesto sociale di Bologna, una città borghese. Hanno un negozio di abbigliamento e biancheria intima ben avviato in pieno centro, frequentato da tante signore per

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bene. I ragazzi vanno a scuola. La nonna materna non è ebrea, segno di avanzante laicismo e di un’osmosi culturale divenuta abbastanza frequente dopo l’emancipazione ebraica di età napoleonica.

Nel 1938 vengono emanati i provvedimenti sulla razza e, attraverso le memorie e i documenti conservati nell’archivio Sinigaglia, possiamo osservare come le disposizioni vanno a interferire con le vite dei singoli e dell’intero nucleo famigliare: l’attività commerciale dev’essere ceduta, il tenore di vita si abbassa, i ragazzi non possono più andare a scuola, Clelia deve essere licenziata, la nonna, registrata nel censimento degli ebrei residenti a Bologna, viene erroneamente classificata come ebrea, e quindi correrà inconsapevolmente un grande rischio rimanendo in Italia dopo la fuga degli altri in Svizzera.

È una storia, in ultima analisi, che offre lo spunto per prendere in esame diversi elementi. Innanzitutto la normativa razzista, farraginosa e spesso contraddittoria, che va a incidere su un tessuto sociale in cui la distinzione tra ebrei e non ebrei era sempre meno sentita. In secondo luogo la reazione delle persone di fronte al tema impellente della purezza razziale imposto dal regime fascista: alcune si mostrano solidali, come Clelia, altre, al contrario, restano fedelmente vicine al dettato mussoliniano anche dopo l’8 settembre e tentano di perseguire il proprio vantaggio personale senza farsi troppi scrupoli, come l’amministratore del negozio dei Sinigaglia. In terzo luogo, la capacità di alcune famiglie di costruire la propria salvezza grazie alle loro disponibilità economiche e alle utili relazioni interpersonali sulle quali possono contare, ferma restando l’importanza della pura e semplice fortuna nel volgere a buon fine un’impresa o nel farla precipitare verso la peggiore conclusione possibile. Infine, uno sguardo ai documenti e alle lettere successivi al rientro in patria mostra la difficoltà di tornare in possesso della propria vita e dei propri beni, rimasti impigliati qua e là nelle miserie del dopoguerra e nei passaggi burocratici delle strutture amministrative. Non possono sfuggire inoltre alla nostra sensibilità due questioni disparate ma straordinariamente attuali: i respingimenti attuati dalla Svizzera e il linguaggio di documenti e lettere ufficiali prodotti nell’immediato dopoguerra. Riguardo al primo punto, se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, sarebbe tuttavia superficiale non cogliere le similarità che presenta tra passato e presente: è giusto avviare una riflessione sulle politiche di accoglienza selettiva messe in atto

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dal governo elvetico durante la seconda guerra mondiale e metterle a confronto con certi infelici provvedimenti adottati oggi da alcuni governi europei ed extraeuropei per bloccare i flussi migratori. Per quanto concerne il linguaggio, nell’epoca del politically correct e della spasmodica ricerca della forma grammaticale più adeguata a ricomprendere tutte le possibili diversità, non può che suonare fastidioso il riferimento alla “razza ebraica” che permane anche in atti prodotti dall’amministrazione comunale con l’intento di appoggiare Attilio Sinigaglia nel suo legittimo sforzo di riappropriarsi della sua attività. La vischiosità della parola accompagna la vischiosità delle idee e resiste spesso anche alla più netta frattura, ma d’altro canto la ricostruzione da zero di un paese dilaniato dalla guerra non permette di soffermarsi a riflettere su quello che appare come un mero dettaglio formale. La riflessione può trovare spazio successivamente, ma è necessario che trovi quello spazio, mentre ancora negli anni Settanta i nostri libri scolastici di storia e geografia parlavano di diverse razze umane, segno di grande lentezza nel processo di fondamentale revisione di una mentalità.

La ricerca di Francesca Panozzo – basata sul fondo Sinigaglia del MEB, sui documenti conservati negli Archivi di Stato di Bologna e Mantova e nel Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea – si inserisce nell’ambito di un ampio progetto iniziato dal MEB nel 2017 intorno ai Giusti tra le Nazioni dell’Emilia-Romagna e intitolato “Per non dimenticare il bene”. L’intento del progetto è ricostruire la storia della persecuzione antisemita nel nostro territorio in maniera rigorosa, mettendo tuttavia in evidenza gli episodi di solidarietà che si sono verificati anche negli anni più bui, con l’auspicio che, di fronte a vicende dall’esito fausto, il pubblico sia più invogliato ad accostarsi e a mantenere viva la memoria dei fatti.

Leggendo queste pagine abbiamo l’opportunità di muoverci contemporaneamente su un piano particolare e su uno generale: sul primo tocchiamo con mano la concretezza di fatti avvenuti nel nostro territorio cittadino, sul secondo abbiamo la visuale ampia che ci permette di dare a quei fatti la giusta collocazione, sullo sfondo di una storia tragica che ha coinvolto il mondo intero.

Caterina Quareni MEB - Museo Ebraico di Bologna

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Nel 2022 gli eredi di Attilio Sinigaglia e Lina Levi hanno deciso di donare una parte di documenti riguardanti la storia della famiglia all’archivio del Museo Ebraico di Bologna.

Si tratta di documenti di diversa origine, raccolti nel tempo da Giorgio Sinigaglia con l’aiuto del figlio Massimo, della nipote Franca e del marito di lei Marco Fiorentino.

Una prima parte è costituita da copie di documenti conservati all’Archivio di Stato di Bologna nel fondo Ufficio Asportazione Beni Ebraici (A.B.E.): si tratta dei fascicoli nominativi intestati ad Attilio Sinigaglia creati, a partire dal 1938, da Questura e Prefettura.

Vi è poi tutta una serie di documenti originali di tipo personale come, ad esempio, le pagelle e i diplomi scolastici di Giorgio Sinigaglia, il figlio più piccolo di Attilio, o i Libretto per rifugiato dei vari componenti della famiglia.

Un altro blocco di documenti in copia proviene dall’Archivio Federale Svizzero e riguarda l’ingresso e la permanenza della famiglia in territorio elvetico tra il novembre 1943 e il maggio 1945.

Il cuore di questo fondo è però rappresentato da oltre 300 lettere che i membri della famiglia si scambiano, con qualche eccezione, durante la permanenza in Svizzera. Dopo l’ingresso clandestino, una volta ricevuto il permesso di asilo, Attilio e Lina vengono, infatti, separati dai loro figli Elena e Giorgio. Salvo qualche permesso di visita e rarissime telefonate, i loro contatti in quei diciotto mesi sono quasi esclusivamente di tipo epistolare.

Vi sono poi lettere scambiate con altri componenti della famiglia –in particolare con Adelia, sorella di Attilio, e suo marito Amedeo anche loro riparati in Svizzera con i figli o con la madre di Lina, Elena Guaraglia nascosta in provincia di Modena, affidata alle cure della donna di servizio Clelia Spagnolo –; o con altre persone che condivisero con i Sinigaglia la fuga in Svizzera, come ad esempio la famiglia di Cesare Formiggini, o ne agevolarono la permanenza nel Paese, come i Botta.

L’idea dell’archivio nasce già nell’aprile 1944 quando Giorgio, in una lettera indirizzata ai genitori, chiede di conservare tutte le comunicazioni che si scambiano. Naturalmente non tutte le lettere si sono

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INTRODUZIONE

conservate e spesso gli scambi non sono completi; inoltre alcune sono state stracciate in tarda età da Elena, convinta che ai figli non interessassero, e per questo oggi risultano di difficile lettura nonostante la paziente ricomposizione del genero Marco Fiorentino.

Nel complesso l’epistolario è una testimonianza preziosa per ricostruire uno spaccato della vita dei rifugiati all’interno dei campi, amministrati da militari o civili, allestiti dagli svizzeri per le migliaia di persone – non solo ebree e non solo italiane – che lì cercarono riparo dalla barbarie nazista. Nelle loro lettere si parla infatti dei problemi della quotidianità; di paure, per sé stessi e per i parenti rimasti in Italia di cui si riesce a ricevere solo notizie forzatamente incomplete e frammentarie e quasi mai dirette; delle difficoltà di adattamento e convivenza, ma anche di speranze e di futuro.

Per raccontare la storia della famiglia Sinigaglia sono stati poi consultati altri archivi tra i quali la Camera di Commercio di Bologna, Mantova e Venezia, gli uffici Anagrafe delle stesse città, gli archivi di Stato di Bologna e Mantova, l’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano (CDEC), l’archivio della Comunità ebraica di Mantova e utilizzate altre fonti quali un’intervista fatta da chi scrive a Giorgio Sinigaglia nel 2003 e diversi colloqui avuti con Massimo Sinigaglia e Franca Heiman rispettivamente figli di Giorgio ed Elena.

La storia dei Sinigaglia non solo appartiene alla storia del Novecento, ma contiene in sé le storie di tante famiglie ebraiche che negli anni Trenta videro la propria vita sconvolta per la sola colpa di essere nati ebrei, per questo ci è sembrato importante raccontarla.

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VENEZIA, MANTOVA, BOLOGNA STORIA DI UNA FAMIGLIA DI ITALIANI EBREI

Lasciandosi le due torri alle spalle, camminando lungo i portici di sinistra, all’attuale civico 8/F di via Ugo Bassi, nel pieno centro di Bologna, si incontra un negozio di biancheria per signore.

Due vetrine incorniciano l’entrata; dal vano della porta si intravede un bancone di legno chiaro, tendente al fulvo e, dietro questo, scansie piene di scatole accuratamente impilate. Sebbene siano passati diversi decenni e sia stato più volte rinnovato, il negozio non si discosta molto da quello che, proprio lì, Felice Attilio Sinigaglia aveva aperto non appena arrivato in città nel 1937. Una foto dell’album di famiglia mostra le stesse scansie piene di scatole accuratamente impilate alle spalle di un bancone di legno. Elena Sinigaglia, figlia di Attilio, sorride incerta alla macchina fotografica, le mani sul banco ingombro di biancheria per signore; alla sua destra un’altra ragazza sorride, è quasi certamente una commessa, ma di lei non è rimasto il nome.

Attilio Sinigaglia era un commerciante, come suo padre. Era nato nel 1894 a Venezia. La città era entrata a far parte del Regno d’Italia nel 1866 e solo allora gli ebrei, minoranza alla quale anche Attilio apparteneva, avevano potuto godere di una piena emancipazione, dopo l’abbattimento dei cancelli del più antico fra i ghetti costituiti in Italia e un primo assaggio di libertà tra fine Settecento e inizio Ottocento.

Bologna, 1945. Elena Sinigaglia, a destra nella foto, nel negozio del nonno in via Ugo Bassi. Collezione famiglia Sinigaglia.

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Proprio nell’anno di nascita di Attilio, suo padre Leoncino Gino aveva lasciato Cannaregio e aperto un negozio in uno dei luoghi più belli e importanti della città: il ponte di Rialto. Una cartolina di inizio Novecento immortala le “popolane veneziane”, avvolte in lunghi scialli scuri, a passeggio sul ponte; alle loro spalle, sullo sfondo, un’insegna ben leggibile: “Gino Sinigaglia”. Le serrande sono abbassate e non permettono di vedere la merce esposta in vetrina, ma i documenti conservati alla Camera di commercio di Venezia1 raccontano di un negozio di “lingerie e biancheria per bambini”.

Venezia, primi del Novecento. Il negozio di Gino Sinigaglia sul ponte di Rialto. Particolare. Collezione famiglia Sinigaglia.

Nel giro di pochi anni l’attività si era consolidata e aveva, anzi, prosperato e nel dicembre del 1912 Gino aveva aperto un secondo negozio, questa volta in sestiere Castello, in campo San Filippo e Giacomo2. Anche per questa “aggiunta di esercizio” la tipologia della ditta risulta essere sempre la stessa: “lingerie, specialità bambini”.

1 Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Venezia, Fascicoli Registro Ditte, f. 3648-Sinigaglia Gino.

2 “Lingerie Sinigaglia”, il negozio di campo San Filippo e Giacomo, ha chiuso nel 2001. Dopo Leoncino l’attività fu portata avanti dal figlio Giacomo e poi dai nipoti Fiamma e Gilberto. Per quasi un secolo ha venduto calze, collant, cappellini, sciarpe e, soprattutto, scialli veneziani. Nel retrobottega di quello stesso negozio, racconta Fiamma Sinigaglia alla giornalista Giulietta Raccanelli in un articolo del 2001 di cui la famiglia conserva il trafiletto, «siamo vissuti in cinque per tre anni, dal ’42 al ’45. Mia sorella Giuliana, io, mio fratello e i miei genitori. Siamo ebrei dalla parte di papà. Per sfuggire alle persecuzioni ci siamo nascosti qui, senza acqua, senza bagno. Siamo sopravvissuti grazie all’aiuto della gente del campo. La cosa incredibile era che il negozio è sempre stato aperto e ricordo persino clienti tedeschi (il comando della Gestapo era qui vicino). Ecco, mia sorella che aveva 9 mesi dormiva in questo cassetto».

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1915-1918. La pagina dell’album di famiglia con le fotografie della Prima guerra mondiale. Collezione famiglia Sinigaglia.

Il 10 giugno 1914, a vent’anni ancora da compiere, Attilio venne arruolato dal Regio Esercito come militare di leva di II categoria. Secondo il foglio di congedo, venne chiamato, e si presentò al Comando di Venezia, cinque mesi più tardi, il 10 novembre quando l’Europa era già entrata nella Grande guerra. Dopo aver prestato giuramento di fedeltà, servì il Paese nel 4° Genio Battaglione Lagunari per essere poi trasferito, all’inizio settembre 1918, all’8° Reggimento Genio Lagunari. Una pagina dell’album di famiglia mostra Attilio in divisa, prima da solo poi con i commilitoni in paesaggi innevati, lo sguardo fiero. La didascalia recita semplicemente: «1915-18». «Per la sua attività, l’intelligenza e la buona volontà dimostrata nel servizio e per la sua costante serietà [di addetto alla contabilità della compagnia]»3 il comandante del 4° Reggimento Genio, 23ª

3 Archivio famiglia Sinigaglia, Lettera del comandante del 4° Reggimento Genio, 23ª Compagnia Lagunari, 30 giugno 1918.

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Compagnia Lagunari, nel gennaio 1918, aveva raccomandato Attilio per la promozione da caporal maggiore a sergente. Il 15 agosto 1919 fu effettivamente congedato con il grado di sergente. Una nota riporta: «Durante il tempo passato sotto le armi ha servito con fedeltà e onore»4.

Alla fine della guerra Attilio, che dopo le scuole elementari aveva fatto le scuole tecniche, tornò a Venezia, ad aiutare il padre nella conduzione delle attività commerciali con suo fratello minore Giacomo. Proprio a quest’ultimo Gino lasciò il negozio di Castello all’inizio di gennaio del 1928, e questi diversificò la categoria commerciale di vendita in “biancheria e affini”.

Attilio, nel frattempo, aveva lasciato la laguna e si era trasferito a Mantova in cerca di indipendenza, e non solo economica, dai genitori, nonostante fosse legatissimo al padre. Tra il 1920 e il 1923 fece diversi sopralluoghi in città. Durante uno di questi conobbe Alma Lina Levi, che di lì a poco sarebbe divenuta sua moglie.

Lina raccontava ai nipoti di come Attilio l’avesse vista la prima volta dall’albergo in cui alloggiava attraverso una finestra che si affacciava proprio su casa Levi e di come lui avesse cominciato a inviarle dei biglietti.

Lina era la primogenita di Giulio Ugo Levi ed Elena Guaraglia. Era nata a Milano il 24 aprile del 1903, ma risiedeva nella città natia del padre dalla fine degli anni Dieci. È possibile che l’incontro fosse avvenuto in sinagoga o forse in ambito lavorativo. Giulio stesso, infatti, era un commerciante, rappresentante della ditta di tessuti e maglieria “Cantoni e Pugliesi”. Aveva avuto per diverso tempo un negozio a Milano, ma poi aveva deciso di tornare a Mantova.

Una foto datata 1923 ritrae Attilio e Lina nel giorno del loro fidanzamento, seduti su un prato, attorniati dalla famiglia Sinigaglia: Leoncino con la moglie Alba e i fratelli di Attilio, Giacomo, Ester, Gemma e Adelia.

Un’altra li racconta subito dopo la celebrazione delle nozze: abito scuro e papillon per lui, in bianco, velo e bouquet lei.

4 Archivio famiglia Sinigaglia, Foglio di congedo illimitato di Attilio Sinigaglia, 15 agosto 1919.

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