PREFAZIONE
Sono sempre stata convinta che nella vita niente capiti per caso e che ogni incontro porti con sé un insegnamento o uno spunto per migliorarsi.
Ho avuto la fortuna di conoscere Alice (per tutte noi era “Pigna”) il primo anno che sono arrivata al FCF Como 2000, a 17 anni, e il primo ricordo che ho di lei è la sua figura che, in lontananza, vedo avvicinarsi a passo sicuro, cadenzato e disinvolto, nonostante il tacco da 20 centimetri che rischiava di spezzarsi sulla strada sterrata e piena di buche che separava il parcheggio dagli spogliatoi. L’immagine che ho di Pigna nella mente è esattamente quella che ho trovato tra le pagine di questo libro: caparbia, sicura in sé, con la voglia di emergere, appassionata e intelligente.
In qualsiasi occasione, dentro e fuori dal campo, Alice era sempre Alice e, sebbene le nostre strade si siano incrociate per un solo anno, non mi sono mai stupita di tutto quello che è riuscita a raggiungere nel calcio e nella vita. Ciò che ho più apprezzato del volume è il racconto non solo delle esperienze più belle, dei successi, dei trofei, de-
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gli incontri inaspettati e dei ricordi più felici, ma la schiettezza nel descrivere i momenti difficili, le frustrazioni, le paure, il pensiero di non farcela e il rifiuto, mettendo a nudo il fatto che “l’avercela fatta” non è stato un risultato immediato ma un processo che ha avuto bisogno di tempo, di perseveranza e di sostegno. «Certi amori non finiscono. Fanno dei giri immensi e poi ritornano.» Credo che questa frase di una canzone di Antonello Venditti riesca a ritrarre perfettamente il rapporto di Alice col calcio. Perché tanti la chiamano fortuna, altri destino, ma sono convinta che se si è nati per qualcosa e si è pronti a lottare coraggiosamente per questo, alla fine si troverà il modo di raggiungere i propri obiettivi, indipendentemente da quanti ostacoli si possano incontrare. Ed è così che il ritorno di un amore cantato diventa più volte metafora di un intreccio continuo che ha visto Alice allontanarsi dal calcio per abbracciare il dono più bello, Eva, per poi ritrovarla pronta a combattere per riprendersi prima il suo posto tra i pali, poi per affermare quel diritto alla maternità che ancora oggi la vede in prima linea. Questo è il libro di Alice. Spero possiate trovare in ogni passaggio, come è successo a me, uno spunto per ritrovare un po’ di voi stessi. Buona lettura.
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Laura Giuliani
VOLEVO SOLO FARE LA CALCIATRICE
1.
Ci preoccupiamo di ciò che un bambino diventerà domani, ma dimentichiamo che è qualcuno oggi.
Stacia Tauscher
Pretendevo che tutti mi chiamassero “Alicio”. Non perché sentissi particolari disfunzionalità rispetto al mio genere. Volevo i capelli tagliati corti, provavo a fare pipì in piedi e declinavo il mio nome tanto grazioso a una forma maschile inesistente, solo perché mamma e papà mi avevano detto che non potevo giocare a calcio, perché il calcio era uno sport “da maschi”. E allora io volevo essere uno di loro, anche a costo di perdere la mia identità. Avevo pianto, strillato, puntato i piedi come solo una bambina cocciuta come me sapeva fare, cercato di far valere le mie ragioni: io amavo il calcio e sognavo di diventare come Alessandro Del Piero; perciò, era necessario che mi iscrivessi a una scuola calcio, per perfezionare la tecnica: volevo imparare a muovermi meglio e volevo farlo subito, ma non se ne parlava. A pallone, le femmine proprio non potevano giocarci.
Mia madre, allora insegnante di nuoto, mi costringeva a giornate intere in piscina. Quell’odore di cloro non è più
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andato via dalle mie mucose olfattive, tant’è che quando ci sono tornata per l’allenamento in gravidanza, gli incubi sono comparsi prepotenti, come se 25 anni fossero stati mesi. È vero, c’era la competizione: il mio maestro mi diceva che dovevo arrivare dell’altra parte della vasca prima di tutti, e io lo facevo. Poi che dovevo recuperare la staffetta per il compagno più lento, e io lo facevo. Poi che dovevo essere più veloce, e io, puntualmente, lo facevo. Ma ogni volta che dovevo entrare da quella porta a spinta diventavo triste, cosa inconsueta per una bambina energica come me, e aspettavo solo di poter tornare a casa, o a scuola, per correre dietro al mio amato pallone in giardino. Mio padre, ex pallavolista, credo sia stato l’unico a montare una rete da pallavolo in giardino anziché una porta da calcio. Per me andava bene lo stesso: utilizzavo il nastro come traversa e i quadretti come obiettivi da centrare. E quando giocavamo insieme… almeno c’era una palla da colpire. Per la verità, lui aveva praticato anche il calcio per qualche anno ma, dopo la rottura del tendine d’Achille in un brutto contrasto, aveva definitivamente dirottato la sua attività sulla pallavolo. Io cercavo in ogni modo di legarmi al loro passato. Come era possibile che non ci fosse un briciolo di passione per il calcio quando per me era un’ossessione? Dopotutto io ero figlia loro, sangue del loro sangue! Ero così assetata di calcio che ogni persona che incontravo era per me fonte di informazione inesauribile: che squadra tifassero e che giocatori preferissero, se per loro fosse rigore il contatto tra Ronaldo e Iuliano e se davvero, secondo loro, la Juventus fosse favorita.
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Chiedevo disperatamente un fratellino, immaginando che sarebbe nato almeno alto un metro e mezzo e con i guantoni alle mani, come Buffon, e che avrei potuto metterlo in porta subito, per perfezionare il mio tiro.
La mia parrucchiera ricorda ancora quando entravo al salone correndo e le dicevo: «Albertina taglia corto! Perché io sono un maschio». Forse ora qualcuno farebbe una segnalazione agli assistenti sociali, o quantomeno proporrebbe un incontro con una psicologa per un percorso sull’identità di genere. Ma 25 anni fa i bambini crescevano senza troppi perché. Dovevano mangiare ed essere sani e forti. Un po’ come si fa oggi con gli animali. I bambini non erano visti come degli individui con dei bisogni psicologici ed emozionali, ma più che altro dei piccoli adulti da plasmare secondo le aspettative dei genitori.
Tute da ginnastica, Power Rangers al posto delle bambole e pallone sempre sottobraccio: non ricordo se scimmiottassi i comportamenti dei maschietti o semplicemente li desiderassi io stessa. Quello che ricordo è che mi sentivo in tutto e per tutto una di loro e non accettavo che qualcuno mi dicesse il contrario. In tutto questo contrasto di emozioni, nella mia incredulità che ancora mi attanaglia quando penso a quegli eventi, c’erano alcune persone che sembravano prendere in simpatia e accogliere questo mio desiderio, questa passione che mi scuoteva e dava senso alle mie giornate. Mio zio Aldo, fan interista e appassionatissimo di calcio, aveva dovuto smettere di giocare a 17 anni a causa di un brutto incidente in motorino. Lui era il mio idolo terreno.
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Con lui potevo essere davvero me stessa, giocare a calcio, cercare di rubargli il pallone che sembrava incollato ai piedi nelle calde e afose estati della profonda Pianura Padana reggiana. Mi aveva regalato un cappellino blu con al centro lo scudetto dell’Inter, sul quale campeggiava il simbolo della squadra: il serpente. Io, che dopo diverse valutazioni, avevo deciso che avrei tifato per la Juventus, per non dargli dispiacere, avevo ritagliato quel vessillo dal cappello e continuavo a portarlo orgogliosamente con il buco sulla fronte. È stato mio zio a comprarmi le mie prime scarpette, le Copa Mundial. Lui mi ha insegnato che quello che contava nella scarpa era la pelle con cui erano realizzate e sempre lui è l’unica persona a cui, dopo aver frugato meticolosamente nei cassetti dei ricordi della mia mente, posso riconoscere la paternità del mio amore per il calcio. Con lui ho potuto sperimentare la mia proverbiale caparbietà: non importava con quanti tunnel mi “umiliava”, la cosa importante era che potessimo giocare ancora due minuti, prima di mangiare. A lui è andato il mio sguardo dopo aver alzato la prima coppa da capitano al torneo scolastico Mantovani. A lui è andato il primo pensiero quando sono entrata nello stadio che avrebbe ospitato la prima gara di Champions League della mia vita, ed è a lui che è andata la mente mentre festeggiavamo la vittoria dello Scudetto e della Supercoppa italiana. La vita l’ha sottoposto a innumerevoli sfide, ma lui non ha mai perso il suo sorriso. So per certo che ha tentato di convincere i miei genitori a permettermi di giocare a calcio, ma senza successo.
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Vivere in periferia mi permetteva di avere più spazi in cui giocare rispetto alla città, ma i bambini fuori dalla scuola erano davvero pochi. Perciò trascorrevo i miei pomeriggi liberi con i miei vicini di casa adulti, che si occupavano di me quando i miei genitori non potevano, ma, soprattutto, facevano “sfogare” la mia, proverbiale e faticosa da gestire, energia. Loro erano indubbiamente gli altri miei sostenitori.
Persone anziane con figli grandi, o persone che non hanno potuto avere figli, sono certamente le più adatte a comprendere quanto sia importante e da tutelare la luce negli occhi dei bambini, quella che si accende quando hanno sogni talmente grandi da farci sorridere. Ricordo distintamente di quando Carla mi ha regalato la mia prima maglia ufficiale di Alessandro Del Piero. Era il giorno del mio ottavo compleanno. Aspettavo con ansia quel regalo perché ero certa non mi avrebbe delusa. Quando ho aperto il pacchetto, sulla scatola di carta il volto di una ragazza apparentemente felice sembrava attendere una mia reazione entusiasta, mentre dentro morivo. Tutti sapevano che io odiavo le cose da femmina: un pigiama rosa con i fiorellini mi sembrava davvero troppo. Poi la carta velina si è leggermente spostata e ho intravisto qualcosa di lucido e di bianconero, e la felicità è esplosa. Ora potevo davvero essere come i miei amichetti, ricoperti dai genitori di gadget di ogni tipo, augurandogli un futuro da calciatori. Vivevo il calcio in maniera talmente viscerale che ave-
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vo pianto una notte intera per la sconfitta nella finale di Champions contro il Real Madrid 1-0, gol di Mijatović. Quando, il mattino dopo, andando a scuola con la mia bicicletta metallizzata fiammante avevo visto, impresso su un segnale stradale, la frase: «Grazie Mijatović», avevo pensato di non proseguire. Ma i miei genitori mi avrebbero scoperto e mi avrebbero proibito di vedere Holly e Benji e di giocare in giardino; perciò, mi ero rintanata in un mutismo radicale, che per me equivaleva a un vero sconforto, che aveva spaventato non poco le maestre. Proprio in quegli anni, quasi come un segno divino volto a indicarmi la strada, la Reggiana Calcio edificava il nuovo stadio, che avrebbe ospitato la Serie A appena conquistata, proprio davanti casa mia. Ogni mattina potevo scorgere dalla finestra le gru operose che muovevano i blocchi di cemento che avrebbero costituito la struttura, e immaginavo che un giorno, anche se le bambine non potevano giocare a calcio, forse io, travestita da ragazzo, avrei potuto varcare quel cancello. D’altronde, in Holly e Benji, il mio cartone animato preferito (manco a dirlo), calciatori con una gamba rotta potevano allenarsi su una spiaggia e correre giorno e notte, i gemelli Derrik (quelli della catapulta) potevano saltare per aria e calciare contemporaneamente il pallone nella medesima direzione, e i portieri darsi la spinta per fare una parata saltando dal palo opposto. Perché io non potevo sognare di essere un calciatore? A quei tempi non vi erano riferimenti per le bambine, non c’era la possibilità di trovare notizie sul calcio femminile.
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Ricordo di aver conservato per anni un ritaglio microscopico di “Sport Week” che ritraeva la bomber Chiara Gazzoli, che quella stagione aveva portato lo Scudetto al suo Foroni Verona con 54 gol, intenta in un colpo di tacco al volo. Quindi, da qualche parte in giro per il Paese, le femmine giocavano a calcio e lo facevano come i maschi, con gol in acrobazia, colpi pregiati, magliette con i numeri e scudetti cuciti sul petto. Non dovevo mollare. Proprio il quinto anno, infatti, la mia scuola elementare era stata invitata a un torneo di calcio a 5 fra gli istituti, e aveva deciso di partecipare orgogliosamente con entrambe le squadre: quella maschile e quella femminile. Nonostante numericamente svantaggiata, la squadra femminile aveva superato i gironi brillantemente. Avevano pesato nella conta dei valori i lunghi intervalli del tempo pieno passati a correre dietro a un pallone, maschi e femmine, grandi e piccini insieme, che il pallone non fa distinzioni. E le bambine che ero riuscita a portarmi dietro in questa mia passione sfrenata: Ambra, Alessia, Nicol, Laura. Alcune di loro non avevano più praticato quello sport, altre erano state, come me, dirottate sulla pallavolo. Ma nessuna di loro si era sentita “sbagliata” nel correre dietro a un pallone. E così avevamo sommerso di gol gli avversari, con le maestre che dalle panchine ci incitavano, fino a giungere alla finale: la scuola più piccola della città contro la più grande. Cinque sezioni contro una. Davide contro Golia. Ormai tutti mi tenevano d’occhio. Le maestre delle altre scuole urlavano di falciarmi, le mie di non passare la pal-
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la alle compagne ma di involarmi sola verso la porta. Il palazzetto che ospitava la finale era un palcoscenico “da grandi”, eppure io mi sentivo a casa. Attendevo solo di vedere mio zio Aldo sbucare sulle tribune per potermi concentrare sull’obiettivo. Alzare quella coppa. Non ricordo il risultato esatto, ricordo solo che dilagammo e che, negli ultimi minuti, mi permisi il lusso di scartare tutta la difesa avversaria e passare la palla a porta vuota a una mia compagna che non aveva ancora segnato.
Eravamo rientrate a scuola come delle eroine, per una settimana tutte dispensate dai compiti: improvvisamente sembrava a tutti molto giusto che le femmine giocassero a pallone. D’altronde avevamo portato l’onore cittadino in una piccola scuola di periferia. Dal canto mio, sapevo di non aver compiuto una grande impresa: il gioco era molto più lento rispetto a quando giocavo con i bambini, e gli avversari, esclusa sporadicamente qualche bambina già iscritta alla scuola calcio, molto scadenti. Però mi ero portata a casa il mio completino giallo-nero, con il numero 10 sulle spalle, proprio come Alex Del Piero; la medaglia e la targhetta di capocannoniere del torneo. Ma, soprattutto, avevo scoperto cosa significassero una squadra e una competizione a tutti gli effetti. Non mento se vi dico che ricordo ancora distintamente l’entusiasmo che, in quei giorni, mi faceva volare. E sulle ali di quell’entusiasmo, complice la presenza a scuola dell’allenatore della squadra del quartiere che aveva confermato la possibilità che io giocassi con i maschiet-
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ti, mi ero ripresentata dai miei genitori nella speranza che mi facessero almeno provare qualche allenamento. Forse credevano che l’ambiente ostile mi avrebbe fatto dissuadere, o forse non ne potevano più delle mie insistenze, ma alla fine cedettero e io potei giocare gli ultimi due mesi della stagione calcistica nell’Atletico Santa Croce, insieme ai miei amichetti. Non era presente uno spogliatoio per le femmine, perciò avevo imparato a cambiarmi in un angolo prima dell’ingresso vero e proprio, indossando la maglietta per l’allenamento sopra la mia, estraendola poi da sotto, come in un gioco di magia. Gli avversari ridevano di me e quando venivano sconfitti la frase che più frequentemente sentivo era: «Come abbiamo fatto a perdere contro una femmina?». Niente di tutto questo affievoliva la mia passione, che anzi cresceva ogni giorno di più, ripagata dai progressi che vedevo sul campo, ora che avevo a disposizione un allenatore che mi indicava come colpire la palla o mi suggeriva come muovermi. Ora che era chiaro a tutti che il mio amore non era “un fuoco di paglia”, aspettavo solo di poter perfezionare l’iscrizione dopo l’estate, in modo da poter finalmente avere anche io tutto il kit per l’allenamento. Ma i miei genitori non erano di questa idea. E anche le mie capacità, per la verità, mi hanno remato contro. Nel frattempo, infatti, continuavo a giocare con profitto a pallavolo, sport che mi permetteva, innanzitutto, di allenare coordinazione, resistenza e muscoli ma, soprattutto, di evitare la piscina, il mio grande incubo. Il settembre successivo, fui selezionata dal Giovolley tra le migliori 20 atlete della provincia della mia annata per
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far parte di una “super squadra” che avrebbe partecipato al campionato regionale, il team si sarebbe allenato ogni giorno e avrebbe avuto a disposizione le migliori strutture e i migliori allenatori. Così vidi finire definitivamente il mio sogno di giocare a calcio. L’iscrizione alla scuola calcio non sarebbe mai stata sottoscritta. Non ero infelice, il gruppo di ragazze di cui facevo parte era speciale, la competizione era al massimo e avevo la possibilità di imparare ogni giorno, sedando la mia fame di ambizione. Quando potevo, recuperavo il pallone con i piedi (proprio in quel tempo il regolamento aveva iniziato a consentirlo) e avevo persino convinto l’allenatore a utilizzare il calcetto come forma di riscaldamento per la squadra, un buon pretesto per far correre le ragazzine che pensavano che nella pallavolo non fosse necessario. Ma pensare di poter fare la calciatrice era un’altra cosa. Terminate le scuole elementari, erano finite anche le partite con gli amici. Il calcio restava confinato al tifo e al mio cuore. Come un bimbo che sogna di fare l’astronauta e poi scopre che non può. Non mi sento di colpevolizzare troppo i miei genitori. Mi hanno fatto crescere felice e mi hanno dato tutto quello di cui necessitavo: amore e educazione non sono mai mancati. Ho potuto studiare nella migliore università del Paese e mi hanno sempre indicato la strada corretta da percorrere, stimolandomi a dare sempre il mio meglio. Alla fine, 25 anni dopo, posso dire: «Grazie mamma e papà, perché impedendomi di fare quello che desideravo, mi avete involontariamente insegnato che c’è qualcosa di più forte del destino che sembra scritto per noi. La nostra volontà».
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