Raffaele Pisu. Mattatori brava gente

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RITRATTI Collana

ANDREA MAIOLI

Raffaele PISU Mattatori brava gente

MINERVA
SOMMARIO Identikit p. 7 La famiglia e altre storie p. 11 Si va in scena p. 20 «Fai la rivista!» p. 29 Piccolo grande schermo p. 47 Facciamo il cinema p. 93 Vita, miracoli (e morte) p. 128 Ringraziamenti p. 157 Indice dei nomi p. 158 Sezione fotografica p. 161

«Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.»

Gialal al-Din Rumi

IDENTIKIT

Guerrino Raffaele Pisu è un uomo che si è sempre assunto le sue irresponsabilità. In pace come in guerra. Più guerra che pace, probabilmente. Uno e centomila: attore nel Dna, ha cercato il successo e quando lo ha raggiunto gli ha voltato le spalle per guardare verso altri orizzonti, meglio se irraggiungibili; ha sempre inseguito l’amore e, trovandolo, vi si è accomodato un po’ per poi fiutare altri territori; ha inventato, creato («Io sono un creativo» è stato uno dei suoi mantra ricorrenti), si è fatto venire delle idee, ha riempito cassetti di progetti, soggetti, spunti, folgorazioni. Nomade per natura e costituzione genetica, dopo aver esplorato un territorio non ha piantato radici e se vi ha costruito le fondamenta di una casa lo ha fatto per poi abbandonarla e rivolgersi verso altri spazi, meglio se ostili e sconosciuti; come un esploratore che inconsciamente sogna di perdere la bussola.

«It is better to travel hopefully than to arrive» dice un proverbio giapponese citato da Robert Louis Stevenson; traducendo a senso «meglio il viaggiare che l’arrivare». Pisu ha compiuto tanti viaggi fisici e mentali e quando ha visto vicina la meta, quel traguardo che le persone comuni sognano come l’approdo di un doveroso riposo, lui ha disalberato, spesso volontariamente,

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ha sollevato l’ancora prima che toccasse il fondo, per permettere alla corrente di trascinarlo via e finalmente dedicarsi a un altro viaggio.

C’è un aforisma di George Bernard Shaw che Raffaele Pisu avrebbe potuto fare suo: «Nella vita esistono due tragedie. La prima è la mancata realizzazione di un intimo desiderio, l’altra è la sua realizzazione». Sopravvissuto alla guerra, sopravvissuto al successo, sopravvissuto alla realizzazione dei suoi sogni, Raffaele Pisu è stato un’icona della Rai per lunghi anni, ha calcato i palcoscenici del teatro di varietà e della commedia arrivando a conquistare lo scettro di capocomico, ha compiuto incursioni nel cinema svelandosi anche straordinario talento drammatico e poi? Se è vero che «ogni realtà annienta il sogno», allora lui una volta conquistata la realtà, in un percorso incoerente di grande coerenza, ha deciso che quella vetta non era sufficiente e che, dietro, se ne nascondeva un’altra ancora più alta e misteriosa. Decisamente da conquistare.

Uno dei registi di varietà «più longevi» della televisione, Vito Molinari nel suo memoir I miei grandi comici (Gremese, 2018) confessa il suo disorientamento, sembra spiazzato laddove nel confronto con altri attori traccia nitidi identikit. Al cospetto di Pisu cerca intuizioni possibili e ammette che il personaggio gli sfugge di mano, evapora da un momento all’altro come un ectoplasma per poi rimaterializzarsi da un’altra parte, su un altro palcoscenico (della vita o del teatro ha poca importanza, il confine è stato abbattuto). Scrive Molinari:

Raffaele Pisu, ovvero un’occasione mancata. Lo dico con affetto, per un caro amico. Mi riesce difficile definire esattamente cosa è Raffaele. Un attore brillante, un caratterista, un primo attore, un antagonista, un promiscuo, un grande comico. Perché è stato tutto questo, e non solo. Nella sua carriera ha interpretato, in varie situazioni, tutti questi ruoli e li ha risolti con bravura. Gli è mancato qualcosa per affermarsi definitivamente come comico, grande a tutti gli effetti. Forse un po’ di determinazione, di con-

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centrazione, di ambizione, di continuità, di “cattiveria”. D’altra parte le vicende della sua vita privata testimoniano di una persona sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, con intraprendenza e fantasia…

Guerrino o Raffaele? Già dal doppio nome («Mio padre mi mise Guerrino in Comune e Raffaele in chiesa. Fu un casino tutta la vita fare i documenti… è stata una battaglia anche questa, una piccola guerra nella grande guerra…») si nasconde la dualità del personaggio, di un neonato Giano Bifronte che, allora involontariamente poi volontariamente, non intende farsi riconoscere preferendo svoltare all’improvviso passando da una strada a un viottolo, accompagnando preferibilmente il cambio di direzione con una risata.

Famiglia di origini sarde, padre maresciallo dei Carabinieri che, con la moglie casalinga, approda a un certo punto a Bologna. Qui nasce il 24 maggio del 1925 Raffaele (questo è il nome che lo consegna alla storia dello spettacolo e questo sarà). Lui consegnerà al figlio Antonio (attore, sceneggiatore, regista) una lunga testimonianza un paio d’anni prima di morire, a 92 anni compiuti. A camera fissa che lo inquadra, nella tavernetta del buen retiro di Imola, dove sta trascorrendo gli ultimi anni della sua vita accanto all’ultima moglie Leda Martellini, avvolto dal frinire delle cicale che fanno la colonna sonora dell’estate, fuma perché il medico gli ha «consigliato di non smettere», e disegna. Intanto parla ed estrae ricordi dal cilindro. E deve esordire naturalmente con uno sberleffo: «Quando son nato? E chi se lo ricorda più…». Poi riparte serio srotolando la pellicola di una vita da film. Dunque Bologna, il 24 maggio del 1925. Flash-back, Pisu bambino. Primo co-protagonista con cui si trova a lavorare: Benito Mussolini. Antefatto: il fratello più grande, Mario Pisu, è già attore, a Roma. Voce radiofonica, sul set nell’epoca dei Telefoni Bianchi (Passaporto rosso, Noi vivi, Lettere al sottotenente, La locandiera tra i titoli anteguerra, nel “post” sarà ricordato soprattutto per i due ruoli con Fellini in Otto e mezzo e soprattutto Giulietta

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degli spiriti). Mario ha seguito la vocazione contro il parere paterno: «Scappò di casa perché mio papà non voleva assolutamente facesse l’attore, perché ai tempi dei tempi per un maresciallo dei carabinieri un figlio attore significava cocaina, donne…». Dunque, prima partecipazione comica sul palcoscenico della vita.

«Andai a trovare mio fratello a Roma, a Cinecittà, avevo 10 anni, venivo da Bologna, dalla provincia… E stavano girando un film, c’era Maria Denis… Cinecittà era deserta in quel momento, c’era solo questa produzione. A un certo momento sentii dalle maestranze che arrivava Mussolini in visita. Io, ragazzino, Balilla, 10 anni, all’idea di poter vedere Mussolini… corro davanti allo stabilimento e lo vedo arrivare con tutti i federali dietro. Arrivato alla mia altezza faccio il saluto romano e lui mi guarda bonariamente. Corro immediatamente verso l’altro teatro di posa dove Mussolini stava andando: di nuovo il saluto romano e Mussolini cominciò a guardarmi un po’ così… vedevo già i gerarchi che parlottavano fra loro. Corro al terzo capannone dove stava arrivando Mussolini. Mi rimisi in posa, salutai e a quel punto si staccò dal corteo uno che poi ho scoperto essere Starace: mi guardò un momento, si avvicinò e mi disse: “A ragazzi’, non rompere i coglioni, vai via eh…”. Sai a Mussolini a un certo punto facevano vedere sempre gli stessi aerei: 50 a Pisa poi andavano a Palermo e avevano trasportato lì gli stessi 50 aerei. Allora, vedere sempre lo stesso ragazzino vestito da Balilla poteva generare il dubbio che ci fosse solo quello…»

Il duetto comico funziona benissimo, i tempi teatrali sono quelli giusti, si tratta solo di capire chi è il protagonista e chi la spalla, ma direi che non ci siano dubbi: il ragazzino vestito da Balilla è il protagonista, Mussolini la spalla. Dopo l’uscita di Starace, dettaglio sulla faccia perplessa del Duce, risate in sottofondo mentre la parola “fine” appare sul primo piano del piccolo Balilla. Del resto è una legge dello spettacolo: mai recitare con un cane o un bambino, finiranno inesorabilmente per rubarti la scena.

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LA FAMIGLIA E ALTRE STORIE

«Mio papà era un maresciallo maggiore dei carabinieri, un uomo tutto d’un pezzo il quale mi insegnò alcune cose molto importanti. Una volta mi diede un appuntamento al quale non arrivai in tempo perché avevo perso l’autobus. Tornato a casa ho corso per mezz’ora intorno al tavolo con lui che mi inseguiva con la cinghia. Mi disse: “Tu non sai cosa ho fatto io per essere puntuale, dunque ricordati questo principio: arriva sempre 5 minuti prima per non fare aspettare gli altri”. E da quel momento io sono arrivato sempre 5 minuti prima, mi andavo a prendere un caffè, aspettavo l’ora dell’appuntamento in Rai ed entravo. La mamma era una donna stupenda, una casalinga che nell’arco della sua vita ha sofferto molto… ha avuto tanti figli, uno è morto, si chiamava Renzino, morì di spagnola durante la Grande Guerra… fu un disastro per mia madre. Ma le sofferenze erano dovute anche ad altro. Mio padre cercava le fidanzate durante il giorno mentre la mamma era a casa. Aveva una tattica: andava ai giardini Margherita di Bologna, si sedeva vicino a una balia e diceva: “Ah sono vedovo, ho una buona pensione…” in modo da agganciarla e poi andava a braccetto con lei per le vie di Bologna. E naturalmente le amiche della mamma lo vedevano e riferivano tutto. E lei soffriva, soffriva…»

Nelle vene dei Pisu lo spettacolo scorreva veloce come il sangue, era un richiamo ancestrale, l’eredità di chissà quale combinazione di Dna. «Come ho cominciato a fare l’attore? Per caso ma l’avevo già dentro di me, lo volevo fare.» Il suo ricordo corre ai 7-8 anni quando al teatro Duse di Bologna il sabato e la domenica andavano in scena le commedie musicali interpretate dai piccoli Balilla. «Avevo una bella voce tenorile. Un grande tenore dell’epoca, Giacomo Lauri Volpi, venne un giorno ad

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assistere a un nostro spettacolo e alla fine mi raggiunse in camerino e disse: “Hai una bella voce, smetti di cantare e mettiti a studiare”.» Pare che alla parola “studio” il piccolo Pisu si sia scansato velocemente.

Che cos’è un attore? A parte i tanti che scegliendo questa professione risparmiano i soldi settimanali dello psicoanalista o nel caso dei migliori dello psichiatra, qualcuno a cui certamente una vita non basta. E che ama inserirsi in panni e personalità altrui per appropriarsi di altre esperienze-esistenze facendole proprie. A parte le commediole dei Balilla, l’arte della trasfigurazione e della ribellione Pisu l’applica durante il tempo di guerra, Seconda guerra mondiale, quando si ritrova calato in una divisa.

«Io sono stato un ribelle, uno che ha sempre lottato, uno che non ammette imposizioni. Il fatto di dover obbligatoriamente presentarmi ai fascisti e ai tedeschi mi dava fastidio e così scappai varie volte. Una volta a Ravenna: eravamo i nuovi volontari, come dicevano loro. Mi vestii da soldato della contraerea tedesca e di notte mi feci da Ravenna a Bologna a piedi. Man mano che mi avvicinavo a casa, vedevo porte e finestre che si chiudevano al mio passaggio perché la gente aveva paura di questo tedesco… Mia madre mi mise a letto perché ovviamente ero distrutto. Improvvisamente suonarono alla porta ed erano due SS e due della milizia sicurezza nazionale fascista che cercavano questo ragazzo fuggito da Ravenna. Mia madre disse che ero a letto, che non potevo presentarmi, che stavo male… Da lì mi portarono a Torino inquadrato sempre come volontario per la Germania. Cosa potevo fare? Scappare ancora una volta. Purtroppo arrivo in treno in una stazione di Bologna chiusa, blindata dai tedeschi e dai fascisti che stavano rastrellando; quelli che prendevano li chiudevano in un carro bestiame e li spedivano in Germania. Sono finito anch’io su un carro...»

Questa è una versione della cattura, ma arte e vita si fondono e la sceneggiatura può subire più revisioni. Ecco un’altra versione che contempla Raffaele Pisu chiedere al fratello Mario «una mano» per scappare dal focolare domestico e intraprendere l’av-

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ventura di attore a Roma. Mario declina l’invito e gli consiglia di «starsene buono buono a Bologna e di non fare fesserie»: «Così a 18 anni mi venni a trovare senza arte né parte. Per passare le giornate mi misi a fare il “vitellone” sotto i portici e a occupare il mio tempo dando la caccia alle ragazze…». Ed è lì, secondo il ricordo consegnato a un memoriale scritto per “Gente” nel 1992, che sotto i portici del Pavaglione rapito dalle gambe di una ragazza, sente una lama di freddo affondare nello stomaco: è la punta del mitra di un repubblichino che gli intima di seguirlo al Comando. «Non hai visto il bando della chiamata alle armi?

La patria ha bisogno di te!» Come si dice in Amici miei: «Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione». Siccome il repubblichino col mitra è un ragazzo della sua stessa età, Pisu lo convince: «È mezzogiorno, mia madre mi aspetta a pranzo», promettendo di presentarsi al Comando a stomaco pieno. Ovviamente già dalla sera stessa, è di nuovo sotto i portici a caccia di ragazze finché, nei giorni successivi, incappa in un rastrellamento nei pressi della stazione. Ed ecco che le due versioni convergono. Torniamo al carro.

«Siamo stati fermi 2 giorni e 2 notti, unico sostentamento un pezzettino di pane nero e un pezzettino di salame dello stesso colore. Mangio ’sta cosa e ovviamente mi sento male, siamo partiti e la prima notte comincio ad avere una diarrea pazzesca… non sapevo come fare, sai 40 persone stipate in un carro bestiame, al buio. Cercai una gavetta che avevo con me, ma purtroppo in parte la feci in faccia a quello sdraiato vicino, che si mise a strillare e agitandosi diede un colpo alla gavetta che volò via con tutto quello che c’era dentro. I tedeschi hanno dovuto fermare il convoglio perché c’era un vagone che tremava tutto ed era tutto sporco…»

È sottile il confine fra commedia e tragedia e il nostro cinema le regole d’ingaggio le conosce bene; nel momento in cui Pisu definisce la sua deportazione in Germania come «un viaggio di merda» ha già orientato l’ago della bussola scegliendo di

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seppellire l’incubo con una risata. Cosa che farà più o meno per tutta la durata della sua lunga vita. Come farà anche nel periodo della prigionia in quella che più tardi si divertirà a definire con compiaciuto cinismo «una vacanza a spese di Hitler».

Cosa succede a Bologna mentre Pisu viaggiava verso la Germania? Le prime bombe alleate cadono sulla città il 16 luglio 1943 e da quel momento sarà uno stillicidio. Il 17 settembre del 1943 si pubblicano le disposizioni della Repubblica Sociale Italiana: «Tutti gli uffici e gli stabilimenti debbono essere aperti e in funzione; divieto di riunione e discorsi, pena la morte; non più di quattro persone possono farsi trovare insieme; l’oscuramento continua». Il 25 settembre la città subisce il bombardamento più distruttivo. Tre ondate, dalle 10:56 alle 11:20, si parlerà di duemila morti, ma la cifra è sicuramente in difetto. Cancellati palazzi, strade, chiese. Si spengono definitivamente le luci di cinema e teatri come il Verdi, l’Apollo, l’Arena del Sole.

E intanto il treno dei deportati va. Destinazione Wilhelmshaven nella bassa Sassonia, una delle basi, a sentire il ricordo di Pisu, da cui partivano le V1 e le V2. Forse una delle basi, fortunatamente per lui non la famigerata Dora-Mittelbau sotterranea dove i prigionieri italiani assemblavano i razzi creati da Von Braun e dove morirono in tanti, dentro quel labirinto di tunnel in cui nemmeno poteva circolare l’aria. Raffaele Pisu, con i 14 compagni italiani usciti vivi dal carro, si ritrova prigioniero, solo, lontano da casa, nemmeno sa dove, impossibilitato a dare notizie di sé ai genitori. L’istinto di sopravvivenza unito alla capacità fantasiosa da Pulcinella affamato lo inducono all’improvvisazione.

«Arrivato al campo di concentramento vedo russi, ungheresi, romeni e alcuni italiani dell’8 settembre. Ed erano tutti alla fame. Mi impressionai quando vidi questi “cadaveri” e capii che se non cominciavo a rubare qualcosa da mangiare a casa sarei tornato difficilmente. La mia fortuna… una notte ci svegliarono alle 3 e con due veneti e alcuni russi ci portarono a scaricare delle casse di birra a una ventina di chilometri di distanza dal campo, ovviamente sempre controllati dai tedeschi. In questo posto vidi in un angolo un tavolo

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con sopra dei bollini. Anche in Italia c’erano i bollini; servivano per prendere il pane, c’era il bollino dello zucchero, della farina e anche del sapone o delle sigarette; se allora non avevi quei tagliandini non mangiavi. Non sapevo esattamente cosa fossero ma dissi a uno dei veneti, tale Cibin: “Buttati dalle scale, buttati dalle scale…”. E lui si buttò con la cassa che trasportava… un frastuono, calci nel sedere ma mentre succedeva questo casino presi una manciata di bollini, me li misi in tasca e continuai a scaricare. Tornato nella baracca, al lume della candela, vidi che ogni bollino valeva 50 pacchetti di sigarette: i soldati tedeschi avevano diritto a tre sigarette al giorno, niente per un fumatore. Ci portavano nella foresta a segare e spaccare legna e c’era questo sergente di guardia, un fetente, ma fumatore. Carico di fantasia cercai di circuirlo e misi in atto il “contropiede”. “Ho un amico italiano, volontario, e ha le sigarette, se vuoi…” Mi prese subito, mi portò in disparte: “Tu potere avere sigarette?”. “Sì, ma ho dei bollini degli ufficiali, solo tu potresti prendere le sigarette al circolo ufficiali.” “E come si fa?” mi dice il fetente e io prendo tempo perché non sapevo se potermi fidare: “Mah, quando lo rivedrò…”. Da quel giorno, il tedesco mi chiedeva ossessivamente se avessi le sigarette finché mi decisi e tentai: “Ecco, questo è il bollino. Ha detto che se gli porti 20 pacchetti gli altri li tieni tu. Ne ha ancora, ma te li porta solo se va bene questa volta”. Non fanno in tempo a passare cinque minuti che il tedesco arriva con un giornale accartocciato e dentro 20 pacchetti di sigarette. A quel punto cominciai il commercio dentro il campo di prigionia.»

Il mercato nero è una regola di sopravvivenza nei campi di concentramento, ma se si viene scoperti si rischiano punizioni drastiche. Dal diario del soldato Guido Peroni, di Senigallia, al lavoro coatto a Vienna nel 1944 (I militari italiani nei lager nazisti, Mario Avagliano e Marco Palmieri, il Mulino, 2020): «C’è chi ha pane e cerca sigarette, chi ha marchi e cerca pane, chi ha patate, rape, cipolle e via di seguito. Ogni camerata è un negozio!». E il soldato Enzo Colantoni: «Si barattano orologi, maglie e indumenti vari per pane e tabacco; margarina, zucchero, pane per moduli-lettere e moduli-pacchi. Industria del prigioniero».

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L’industria del prigioniero vede Raffaele Pisu schierato in prima linea.

«Iniziai a prendere un pacchetto di sigarette e dissi al sergente di guardia: “Guarda che oggi io non lavoro”, gli davo il pacchetto e me ne tornavo alla baracca. E anche gli altri miei compagni commerciavano così: chi prendeva un pezzo di burro, chi un pezzo di pane. Eravamo diventati i “ricchi” del campo. Finché un giorno arriva il capitano delle Ss e fa riunire i prigionieri nel cortile: russi, francesi, italiani… pioveva a dirotto, lui al coperto e noi sotto l’acqua. Ci fa stare tutti lì e poi sbraita: “I francesi via!” e se ne torna al coperto. Altra mezz’ora sotto la pioggia e: “Via i russi!”. Rimanemmo noi 14 italiani bagnati fradici, al freddo. Aspettò che smettesse di piovere, uscì con calma dal suo riparo e cominciò a passeggiarci davanti e parlare in italiano perché aveva combattuto nel nostro Paese: “Io stare in Italia, ah schon. Venedig, molto schon”. E poi di colpo: “Chi è che avere cominciato con mercato nero? Solo italiani possono aver cominciato col mercato nero. Se cominciare nuovamente voi kaputt” e ci lasciò finalmente tornare nella baracca. Per un mese non si mosse paglia, tutti zitti e buoni, poi un giorno arriva il famoso sergente della foresta da cui tutto era cominciato e mi fa segno di seguirlo (mi chiamava Marco, perché era più facile da pronunciare di Raffaele o Guerrino): “Il capitano essere senza sigarette, può avere un pacchetto?”. E così ricominciò il mercato nero.»

La guerra? «Finì nel silenzio. In un campo dove i tedeschi per ordine di Doenitz rimasero di guardia con l’ordine però di non sparare un colpo, silenziosi, rassegnati alla sconfitta e noi prendemmo possesso del campo. Finché non entrarono i polacchi: “Per voi la guerra è finita, siete liberi”.» Erano passati una dozzina di mesi da quando Pisu era stato caricato su quel carro alla stazione di Bologna e ora iniziava un altro viaggio, non meno rischioso, per cercare di tornare a casa. Un viaggio a bordo di un camioncino, barattato come sempre a colpi di tabacco e sigarette. Un viaggio che comincia con un rimpianto: non aver potuto salutare una giovane ragazza tedesca, Ingrid, che di là dai reticolati

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lanciava bigliettini d’amore al soldato Pisu Raffaele. Un viaggio attraverso città popolate da truppe di topi che si nutrivano di cadaveri («da allora io non posso più vedere i topi»), con una tappa forzata in Austria, vicino a Innsbruck, dove il camioncino carico di italiani venne fermato dagli americani. «Avevo una pistola che avevo rubato al campo, una Luger, e mi ero raccomandato con gli altri di non dirlo assolutamente. Quando gli americani ci fermarono chiesero subito se avevamo delle armi e, tutti in coro, indicandomi: “Sì, lui! Comunque, ci misero in questo campo di smistamento per una dozzina di giorni e anche lì patimmo la fame. Per fortuna beneficiammo dell’assistenza della Croce Rossa che ci gratificò con un pacco-dono a persona. Quando aprii il mio, vi trovai dentro un reggiseno opulento, un paio di calze nere da donna con le relative giarrettiere, due magliette da tennis di un colore giallo-uovo.» Ma quella sosta mise Pisu di fronte a una realtà che non avrebbe mai potuto immaginare. «C’era una baracca della Croce Rossa e lì, attraverso una finestra, vidi uno scheletro che cercava di attirare la mia attenzione picchiettando sul vetro della finestra. Mi avvicinai e mi disse che era un ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. Nessuno di noi sapeva niente di Auschwitz o Belsen o Mauthausen… che ne sapevamo? Niente. “Sai io vengo da un campo dove ho messo in un forno crematorio mio padre, mia madre e i miei figli.” Era addetto con altri a gettare i cadaveri nei forni…»

«Tutto il popolo di Bologna ha tributato alle truppe liberatrici una calorosissima accoglienza: ieri e oggi migliaia di cittadini di tutti i ceti sociali hanno gremito le vie cittadine, dove i soldati alleati venivano fatti segno a ininterrotte manifestazioni di esultanza e di simpatia che hanno raggiunto un’intensità ed una generalità mai conosciuta in altre città dell’Italia liberata» (dal giornale della sezione per l’informazione e la propaganda, Pwb, della V Armata). La guerra per Bologna finisce nella notte tra il 20 e 21 aprile 1945 quando il generale Ferdinand Maria von Senger und Etterlin rinuncia a una difesa disperata e alla distruzione dei punti chiave della città. I tedeschi e i fascisti scappano libera-

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mente uscendo da Porta Mazzini, ma l’ordine di insurrezione ai combattenti partigiani non è arrivato: la sera del 20 aprile viene catturato e ucciso Sante Vincenzi, il capo partigiano cui spettava dare l’ordine di insurrezione. È l’alba del 21 aprile quando entrano a Bologna i liberatori, i primi alle 6 sono i soldati del Secondo Corpo polacco dell’VIII Armata, due ore più tardi arrivano gli americani.

Raffaele Pisu non poteva che fare il suo ingresso teatralmente per strappare la risata ai bolognesi sfiniti dalla guerra: «Per poco non feci stramazzare mia madre che si vide arrivare davanti un “travestito” al posto del figlio che le avevano rubato i tedeschi». Lo immaginiamo con indosso la maglietta da tennis di un colore giallo-uovo, ma si spera senza le calze nere da donna con relative giarrettiere, come da pacco-dono della Croce Rossa. Ecco una versione più realistica del ritorno a casa.

«Fu soprattutto scioccante per mia mamma, perché lei non sapeva se ero vivo o morto… ero semplicemente sparito. Quel giorno in stazione, quando mi presero, la gente buttava dei bigliettini dalle feritoie del vagone per dire di avvisare le famiglie; a mia madre non era mai arrivato niente e Bibi (perché mi chiamava così) era svanito nel nulla. Arrivato nei pressi di casa, in piazza Aldrovandi, incontrai un amico e gli dissi: “Per favore, vai a dire a mia mamma che sono tornato”. Lui andò in casa e disse:

“C’è Bibi”. E lei: “Oddio, è senza una gamba!” e svenne. Chissà perché aveva pensato che fossi tornato senza una gamba… La nostra casa si trovava in una stradina del centro, via Cantarana che oggi ha cambiato nome in via Quadri. Era piccolina, ritrovai la mia cameretta e trovai anche un certo Fisher con la moglie, ai quali mia madre per sopravvivere aveva affittato una camera: un ebreo piovuto a Bologna da Trieste. Questo Fisher campava alla grande, perché aveva ottenuto l’appalto delle forniture alimentari alle truppe inglesi di stanza a Bologna. Mi offrì di entrare al suo servizio e accettai. “Qui rubano tutti. Tu devi essere il mio occhio che vigila sulle persone che lavorano per me.” Il primo incarico che mi affidò fu quello di fare da accompagnatore a dodici

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camion che andavano a prendere un carico di patate a Firenze. Il capo della carovana era anche lui un ebreo, di nome Mosè. Un tipo simpatico. Dopo una decina di chilometri il convoglio si ferma e vedo dallo specchietto retrovisore Mosè che scende e guida l’operazione di succhiare benzina dai serbatoi: riempirono una dozzina di taniche che consegnarono a un compare che li aspettava, in una casa di contadini lì vicino. Quando tornò indietro, da “borsanerista” onesto mi consegnò la mia parte: tre biglietti di “amlire” da mille. E io penso: “A Fisher non hanno rubato niente, han preso la benzina dell’esercito alleato”. Andiamo avanti. Fatti altri 30 chilometri vedo che i camion voltano tutti in una stradina sterrata in campagna e si fermano in un casolare. Il solito Mosè: “Ci dai una mano? Dobbiamo caricare della roba”. E mi ritrovai a caricare sacchi di farina bianca che durante la guerra valevano come oro. Arrivati alle porte di Firenze scaricammo la farina. Guadagno per me: altri sette biglietti da “amlire” da mille. Dentro di me dissi: “Per ora Fisher non è stato toccato”. Ma non era finita per niente. Quando a sera inoltrata rientrammo a Bologna con il carico di patate, il capoposto della caserma inglese si mette a contare i camion, arrivato all’ultimo mi dà la bolletta da firmare e mi accorgo che un camion manca all’appello: “Questo lo vai a vendere tu a chi ti pare e poi facciamo metà per uno”. Penso: “Se va avanti così fra una ventina di giorni sono miliardario”. Solo che era mezzanotte… telefono a un amico mio, un certo Zanarini che aveva un negozio in centro e gli dico: “Guarda che ho un camion di patate e non so dove metterlo”. “Aspetta che chiamo il mio contadino e lo mettiamo lì da lui.” Zanarini mi anticipò la metà dei soldi che dovevo all’inglese, che avrebbe poi sperperato tra alcol e donnine in caserma. Però il signor Fisher aveva la sua ricevuta di 12 camion di patate. E i conti tornavano.»

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