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LA BICICLETTA

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GIOVANNI

GIOVANNI

Per noi romagnoli la bicicletta è da sempre un mezzo di locomozione privilegiato, praticamente dalla sua invenzione. Certo, non quella immaginata dal grande genio Leonardo da Vinci nel 1490 ma il primo prototipo del 1884, quello realizzato dall’inglese John Starley, universalmente riconosciuto come il primo vero antenato della bicicletta moderna.

Possederne una agli inizi del secolo scorso era un lusso che solo pochi potevano permettersi. Gli italiani le ammirarono estasiati al primo Giro d’Italia del 1909 ma piano piano, magari anche vecchia e malandata, la bicicletta è entrata in tante famiglie romagnole fin dagli anni Trenta.

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Mia nonna Adelina, ad esempio, è in sella alla sua pesante bicicletta nera che ha sfamato cinque figli e contribuito allo striminzito bilancio dei suoi genitori.

Classe 1920, Lina – come tutti la chiamavano – faceva la pescivendola ambulante; “Commerciante ittica” si direbbe oggi.

In sostanza ogni giorno, verso la tarda mattinata o il primo pomeriggio, a seconda del rientro in porto delle barche dei pescatori, lei arrivava sulla banchina e, senza mai mollare la sua preziosa bicicletta appositamente trasformata da fabbro del paese con due ampi portapacchi – uno davanti e uno dietro – si avvicinava ai pescherecci e contrattava con i pescatori ormai esausti dopo una notte passata in mare, a tirare su pesanti reti e governare quelle piccole imbarcazioni con le vele al terzo.

«Dammi tre chili di quelle saraghine, Mario. Quanto me le fai pagare?»

«Almeno mi devi dare cento lire al chilo!»

«Sei matto? Se do cento lire a te, a quanto le dovrei vendere per guadagnarci qualcosa? Non se ne parla neanche; sessanta lire bastano e avanzano.»

«Ma no Lina, dai. Così non ci prendo neanche le spese.»

«Che spese avrai mai? Te vai ancora a vela, mica quelli là che hanno montato il motore!»

«E la mia fatica?»

«La tua? E la mia? Te adesso vai a dormire mentre io dovrò pedalare tutta la giornata, casa per casa fino a Villalta, Sala o Gatteo. Se non riesco a venderle tutte dovrò arrivare anche a Cesena. Tornerò a casa quando sarà buio. Dai, dai, smettila di fare storie e dammi quelle saraghine!»

Non aveva ancora trent’anni Lina ed era piuttosto piacente, con un sorriso brillante che quando lo sfoderava le illuminava il volto e accendeva quei due splendidi occhi verdi. Era la sua arma segreta per convincere anche i “fornitori” più riluttanti.

La contrattazione proseguiva più o meno allo stesso modo con altri pescatori, fino a quando le ceste della sua bicicletta non si riempivano di cefali, sgomberi, qualche triglia e poche sogliole; quelle erano pregiate e pochi avevano i soldi per comprarle.

Terminati i “negoziati”, nonna Lina partiva per il suo solito giro nelle zone di campagna.

Non sempre i suoi clienti avevano denaro contante per pagarla e allora si ricorreva all’antico sistema del baratto: quattro o cinque uova, un pollo, qualche zucchina o pomodoro e altri prodotti del lavoro contadino. Era per questo che la nonna portava sempre con sé una grande borsa di tela, ricavata dai vecchi pantaloni del nonno, che appendeva alla bicicletta. Mentre la cesta si svuotava del pesce venduto, la borsa si riempiva di ortaggi e altri generi alimentari, per poi trovare una collocazione più sicura in una delle ceste ormai vuote. Sui pedali, possiamo dire, mia nonna Lina aveva fondato e gestito la sua “azienda”.

Anche mio padre, o meglio – come si dice da queste parti – mio babbo, aveva una vecchia bicicletta acquistata da un lontano parente di città. Ce la invidiavano i vicini di casa che per questo ci consideravano privilegiati, se non addirittura “ricchi”.

Nel dopoguerra, si sa, le ristrettezze economiche erano la norma e anche una vecchia bicicletta da donna, un po’ scolorita e arrugginita, poteva diventare una sorta di “status symbol”.

Con quella il babbo andava dappertutto: al lavoro, al bar verso sera, a comprare il pane quando poco prima di mezzogiorno tornava dal cantiere.

A volte mi portava con sé.

Per esempio quando andavamo a trovare i parenti di mia mamma, a Ronta, un piccolo borgo con poche case alla periferia di Cesena.

Si partiva alla mattina presto: mio padre ben saldo sulla sella, mia madre elegantemente seduta con le gambe unite a lato sul portapacchi posteriore, con un cuscino del salotto di casa sotto il sedere, per attutire i contraccolpi delle strade dissestate.

Io, invece, sedevo sul “cannone”, che per me era come un trono. In realtà, essendo una bicicletta da donna, non aveva un cannone vero e proprio, ma mio padre – da buon artigiano – ne aveva costruito un surrogato utilizzando un pezzo di legno opportunamente sagomato per incastrarsi con precisione tra i tubi del telaio, diventando così il sedile sul quale mi poggiavo, aggrappandomi alla parte interna del manubrio.

«Tieniti stretto, mi raccomando – mi diceva il babbo sorridendo – che adesso si vola, vedrai.»

E così la famiglia si metteva in viaggio per la visita domenicale ai parenti: 15 chilometri per andare e 15 chilometri per tornare. Il babbo pedalava di buona lena e in poco più di un’ora si arrivava a destinazione.

Al ritorno facevamo prima, perché la leggera pendenza della strada aiutava ad acquistare velocità o, qualche volta, a riposare le gambe del babbo che lasciava andare la bici senza pedalare.

Era inevitabile che la bicicletta mi “entrasse nel sangue” e nel tempo diventasse la mia più grande passione.

Ogni volta che salivo in sella, per un giro turistico con gli amici o una “sgambata” in solitaria, mi tornava alla mente il sorriso del babbo e quella sua solita frase: «Tieniti stretto, che adesso si vola», e incominciavo a pedalare incurante della fatica e delle salite: «Mi tengo stretto babbo, guarda: adesso si vola».

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