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Capitolo 2
Omar Sivori arriva in Italia il 12 giugno 1957. Sbarca all’aeroporto di Malpensa accompagnato da Carlo Levi, che è il factotum della Juventus per le cose calcistiche a Buenos Aires. L’auto sulla quale salgono e che corre verso Torino si ferma al casello di Novara. Lì, un’altra vettura li attende. Dentro c’è Umberto Agnelli, il presidente della Juventus. «Sono due anni che ti aspettiamo» le prime parole di Umberto a Sivori. Risponde Omar, in uno spagnolo abbastanza comprensibile: «E io sono da cinque anni che aspetto la Juventus». Umberto ha 22 anni, Omar 21. Arrivano al Comunale. Tifosi, giornalisti, dirigenti: Omar indossa una elegante grisaglia, giacca e cravatta. Ha la fama di avere un sinistro micidiale. Ma anche di non usare il destro. Neppure per uscire di casa. C’è Gianni Agnelli al Comunale. Immancabilmente l’Avvocato, dopo alcuni palleggi di rito, lo stuzzica: «Ma il destro caro Sivori, proprio non lo adopera?» Omar capisce al volo che quell’uomo affascinante è uno abituato a “pesare” i suoi interlocutori dalle risposte che danno. È una sfida: e Sivori l’accetta. Si mette a palleggiare: quattro giri di campo toccandola solo con il sinistro, la palla che volteggia. Dalla scarpa, all’aria, alla scarpa. Attratta da una invisibile calamita. Quel sinistro è il violino di Paganini. È l’archetto del Diavolo.
Completato il quarto giro, Omar si ferma davanti all’Avvocato e gli dice: «Le pare che il destro mi serva?» Gianni Agnelli è abituato a confrontarsi con grandi politici e grandi uomini di impresa. La Juventus è il gioiello della famiglia, ma il suo grande amore è la Fiat. Sorride e non commenta. Lo farà molto tempo dopo con una delle sue micidiali battute: «Omar Sivori è un vizio». Deve essere stata per Sivori quella, in fondo, una passeggiata. Racconterà un suo compagno di squadra che un paio di anni dopo, durante una visita di Umberto alla squadra, negli spogliatoi, Sivori fosse attratto dall’orologio che il dottore portava al polso. E che Umberto, avendo saputo dai veterani che Sivori era in grado di palleggiare ripetutamente con un’arancia lo sfidasse: «Se fai dieci palleggi senza farla cadere, ti regalo l’orologio». Racconterà, sempre quel suo compagno di squadra, che Sivori vinse la sfida al cinquantesimo palleggio. Ma solo perché ad arrestarla fu Agnelli. Era dai tempi di Renato Cesarini, la imbattibile Juve del Quinquennio anni Trenta, che a Torino aspettavano uno così. Uno capace di realizzare l’impossibile. Si favoleggia in quei giorni, che a Buenos Aires i tifosi del River Plate gli abbiano fatto edificare un busto in bronzo collocato in una delle piazze della metropoli argentina, dopo un incredibile gol realizzato al termine di un triplo sombrero. Sembra una fantasia. Una di quelle leggende metropolitane che i giornalisti alimentano, ingigantendole, mese dopo mese. Invece è tutto vero.
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È il 25 luglio del 1954: tre anni prima del suo arrivo in Italia. Il numero 10 del River Plate è il “mito” Labruna. Mentre è costretto fuori squadra per una malattia al fegato, il “dies” del River diventa Sivori. Ma Labruna guarisce. Rientra e rivuole la sua maglia. Renato Cesarini, che allena le giovanili e che Omar ha scoperto, assieme all’allenatore della prima squadra José Minella, lo convincono ad accettare la numero 8. Un mancino con la numero 8 è per quei tempi, in Argentina, una bestemmia. Ma non è che cambi molto. Lui non cambia il suo modo di giocare solo perché ha un numero che non gradisce sulla maglia. Mica si mette a fare la mezz’ala. Fa, infatti, quello che gli riesce meglio: il Sivori. Gli avversari sono quelli del Rosario, spazzati via per 4-0. Enrique Omar ne segna due e il secondo è un gol leggendario. Sintetizzo dalle cronache dell’epoca. Si fa dare la palla a centrocampo e punta l’area avversaria. Al limite gli si parano davanti Zof e Vairo che supera, con una giocata da biliardista, facendo passare il pallone sopra le loro teste con due successivi tocchi al volo. La palla vola verso la porta ma è ancora in aria: si butta Botazzi, il portiere, in uscita disperata. Ma Sivori è in una di quelle giornate nelle quali mago Merlino gli fa un baffo: terzo tocco al volo e palla nel sacco. Tre avversari beffati con altrettanti palleggi in sequenza. Un triplo sombrero, sfidando la legge di gravità. Era tutto vero. Era accaduto. Quell’omino dagli avi italiani, duro come i suoi antenati liguri e abruzzesi, con la faccia
da indio, i calzettoni arrotolati alle caviglie, che affrontava gli avversari senza parastinchi, (un modo per dire loro: «Non potete toccarmi, e se per caso ci riuscite non mi fate male») sapeva inventare cose del genere. Le avrebbe fatte anche alla Juventus: alcune, persino più irridenti di quella sfornata contro il Rosario. Roberto Beccantini, firma del giornalismo sportivo, è un vecchio amico. Qualche tempo fa l’Ordine di categoria ci ha premiati con una medaglia per i 50 anni di professionismo. Anche lui ha visto Sivori quando da poco aveva smesso le brache corte. E così lo ricorda.
Enrique Omar Sivori: molti della mia generazione hanno preso i “voti”, dopo averlo visto dire messa. È stato il mio primo numero dieci. Che la Juve fosse degli Agnelli non me ne poteva fregare di meno. Per me e di quelli della mia covata era di Sivori. Uno così era marcabile ma non omologabile. I suoi gol arrivavano da un ghigno d’artista, da un minuto di seduzione che ne cancellava ottantanove di sbadigli. Omar era un vizioso che ci viziava, renitente all’etichetta e al galateo, con quei tiri sospesi nell’aria e nell’area, parabole corte e provocanti come minigonne. A scuola e all’oratorio, mi piaceva sivoreggiare, un po’ carogna e un po’ chierichetto3 .
Sarebbe limitativo costringere la figura di Omar Sivori dentro al recinto del prato verde. Su di lui sono stati
3 Nicola Calzaretta, I colori della vittoria, Goal Book Edizioni, Pisa 2014
versati fiumi d’inchiostro. Per le sue gesta: dentro e fuori dal campo. Per i suoi capricci, il suo egoismo, la sua anarchia. I suoi contrasti con allenatori e compagni di squadra, Giampiero Boniperti in primis. Per i suoi vizi, il suo cattivo carattere, le sue reazioni in campo contro arbitri, avversari, allenatori rivali, costate innumerevoli giornate di squalifica. Per le notti trascorse a giocare a carte. I ritardi agli allenamenti. La pigrizia nello svolgere la parte atletica. Mario Riva lo invitò un sabato alla Rai al popolarissimo Il Musichiere, prima di un Roma-Juventus chiedendogli di far vedere come calciava. Enzo Battaglia lo convinse a interpretare se stesso in Idoli in controluce. Alberto Sordi lo volle per un cammeo ne Il presidente del Borgorosso Footbal Club. Salvatore Bruno scrisse il romanzo L’allenatore a lui dedicato: Omar Sivori e il suo calcio intenso e struggente. Marino Barreto junior cantava Sivori cha, cha cha, scritta da Giorgio Calabrese. I padri presero a chiamare Omar i propri figli. Come fece il mio amico d’infanzia, Costante, soprannominato a Venezia “El Coco Din Don” per il modo oscillante di camminare. E per il quale Omar Sivori era una religione. O come Tommasino, bancario di Alghero che, folgorato da giovane da El Gran Zurdo (il grande mancino) Omar chiamò, dopo il matrimonio, uno dei suoi ragazzi. Si poteva delirare per chi vinse il “Pallone d’Oro” quando quel premio era difficile da raggiungere. Si poteva stravedere per uno che beffava con il tunnel persino Pelé. Che dichiarava prima di un Derby (puntualmen-
te poi realizzandolo il proposito): «Domenica farò un tunnel a Denis Law». Che era il fuoriclasse di “quel” Torino. E che lo sarebbe stato anche nel Manchester United di Best e Bobby Charlton. Che ti inceneriva con gli occhi se ti azzardavi a dire che il più grande argentino in circolazione, in quella stagione, era, per tutta la critica, Alfredo Di Stéfano. L’ego non gli mancava. Dopo essersi ritirato, una sera ospite de La Domenica Sportiva gli fu chiesto chi fosse stato tra Pelé e Maradona il più grande di tutti i tempi. Se la cavò con diplomazia suddividendo equamente i meriti e le qualità dei due fuoriclasse. Ma con un’espressione del viso che era un programma. Del tipo: “Avreste dovuto inserire anche un terzo nominativo”. Ha ragione Mario Sconcerti quando afferma che la fregatura, per Omar Sivori, fu quella di aver giocato in un’epoca nella quale la televisione si occupava episodicamente del calcio. Mancano agli archivi, le immagini di qualità e i replay delle sue impossibili giocate. Quando lavoravo alla Rai, per un dossier del Tg2 cercai inutilmente un gol da lui realizzato al Comunale di Bologna dopo aver scartato mezza squadra rossoblu, prima di depositare nella porta difesa da Santarelli. Nelle teche Rai, quella partita, c’era. Ma non quel gol. Mi spiegarono che a volte accadeva. Accadeva che l’operatore si perdesse un gol o una fantastica azione, perché avendo magari terminato la pellicola, trafficasse sulla telecamera, per cambiare la bobina proprio nel momento meno opportuno. Mai io c’ero, a quella partita: 26 marzo 1961. Bologna 2 Juventus 4.
Due gol di Vinicio per i felsinei. Uno di Mora su rigore e tre di Sivori per la Juventus. C’ero, assieme ai miei amici Francesco, figlio di un avvocato veneziano, e Pino, figlio dell’allora questore di Venezia. Eravamo sempre assieme: ci univa la passione per la Vecchia Signora e per quello lì. Che per noi era “il piede sinistro di Dio”. Quel gol è la cosa più simile da me vista a quello marcato da Diego Maradona ai Mondiali contro l’Inghilterra con la maglia dell’Argentina. Lo ricordo, anche perché un secondo dopo aver assistito al prodigio, quel pubblico dal palato fine, si alzò in ogni settore dello stadio per applaudirlo. Gridandogli «mostro»: strisciando tra la esse e la ti come usa da quelle parti. Sivori rappresentava la porzione anarchica che alberga in ognuno di noi. Refrattaria agli schemi e all’autorità. Sivori sapeva realizzare l’impossibile, che ogni ragazzo che sgambetta al campetto sogna di poter fare. E che i tifosi (di ogni fede) immaginano possa, quando la squadra del cuore è sotto nel punteggio, accadere. Sivori era un supereroe in grado di scansare gli avversari come birilli. Come Alberto Tomba danzando tra i paletti di uno slalom speciale. A volte era Superman. Altre l’infallibile Tex Willer. Uno simile alla sposa di Quentin Tarantino. L’incredibile Uma Thurman avvolta in lattice giallo (Beatrix The Bride, detta Black Mamba), in grado di affettarne, con la katana e l’acciaio del maestro Hattori Hanzo, un centinaio in una volta sola. Omar Sivori era alto un 1,63 e pesava 59 chili. Ma aveva il baricentro basso, gambe fortissime: portargli via la palla
quando la difendeva era impossibile. Gianni Brera lo sfotteva (mutuando i “culi d’Orta” di Ernesto Ragazzoni) per i calzettoni alla “cacaiola”. Per quei suoi numeri da “foca ammaestrata” che lo irritavano. «Quanto ti illudi Omar – scriveva Gioanbrerafucarlo – di essere Cè Cesarini che passava le notti al night e poi scendeva in campo coprendolo splendidamente da mezz’ala.» Gianni Brera lo avrebbe voluto interno, Sivori. A sfruttare quel suo magico sinistro per la squadra, per il collettivo, piuttosto che per se stesso. Ma Sivori era un’altra roba. Realizzatore? Anche. Solista? Limitativo. Virtuoso del pallone? Non rende l’idea. Sivori era una squadra intera, in uno solo, anzi in un solo piede. Poteva estraniarsi per un’ora e più dalla partita come se la cosa non lo riguardasse. Poteva limitarsi a sbeffeggiare con un tunnel o una irriverente veronica il giocatore più forte e illustre della squadra avversaria, per mandare il consueto messaggio: il più forte sono io. Defilandosi poi in modo irritante dal contesto del gioco. Salvo accendersi come un neon per un fallo di troppo, per un torto a suo avviso non sanzionato dall’arbitro, per una parola a sproposito di un avversario. O magari perché la folla lo stava coprendo di contumelie. Allora El Cabezón si trasformava in Lucifero, capace di ogni diavoleria. Uno, come ama rammentare Marcello Lippi, che non si faceva picchiare. Anzi: «Era più facile accadesse il contrario». Era vero. Era così. Spiegava con qualche malizia Giampiero Boniperti: «Il brasiliano se può ti dribbla e passa la palla in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno