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Capitolo 1
Volevo vederlo. Dovevo vederlo dalla tribuna di uno stadio. Dovevo capire come accidenti facesse a fare quelle giocate che nelle immagini in bianco e nero della Rai e della Settimana Incom, al cinema prima della proiezione di un film, sembravano “impossibili” e insieme, per lui, così naturali. Dovevo rendermi conto se quello che scrivevano i cronisti sportivi di quel giocatore con il numero 10 sulla schiena non fosse esagerato. “Loro” lo vedevano ogni domenica. Eppure, a leggerli, era come se a ogni partita lo vedessero per la prima volta. Dovevo “sapere”. Perché nell’istituto nell’Asolano (dove mio papà mi aveva spedito a studiare per contenere una esuberanza diventata gaglioffa), con un compagno di classe ci avevamo provato a imitarlo. Ma neppure lui, che era probabilmente il più talentuoso dell’intero istituto, ci riusciva. Non c’era da meravigliarsi non ci riuscissi, io: ero un interno non particolarmente dotato che correva e picchiava. Ma lui era un fenomeno che sul campo del Seminatore faceva cose incredibili anche contro avversari più grossi ed esperti di lui. Eppure neppure lui riusciva a ricamare i dribbling, i tunnel, i gol che faceva quello lì: Enrique Omar Sivori. Da mesi avevo messo in croce mio padre perché mi portasse a Torino, al Comunale, a vedere la Juventus. Mesi
di buona condotta nell’istituto, di promesse di migliorare i miei voti: mesi di attesa. Alla fine la mia costanza fu premiata. Mio papà, piccolo imprenditore edile a Venezia, si serviva da un gioielliere che aveva negozio in Calle della Mandola: la sua vetrina si rifletteva dall’altra parte della calle, nel portone d’ingresso di casa mia. Era un vecchio tifoso della Juventus che in occasione del decimo scudetto della Vecchia Signora, un anno prima, mi aveva fatto dono del distintivo sociale: il piccolo ovale con i colori bianconeri da mettere all’occhiello della giacca. Fu il signor Cesare, garbato gentiluomo veneziano, a prenotare i biglietti per me e mio padre. Che, detto per inciso, non aveva passione per il calcio. Detestava che io giocassi al pallone: mi avrebbe voluto ai remi su una jole della Bucintoro. Ma io avevo imparato ad amare il calcio. Per “colpa” di mio papà, tra l’altro. La mia prima partita l’avevo vista anni prima a Ferrara: un orrendo Spal-Juventus, vinto da quella che sarebbe diventata la mia squadra del cuore, grazie a una rete di Karl Hansen. Brutta partita ma la Juventus aveva un centravanti biondo e tecnico che incantava: si chiamava Giampiero Boniperti. Mio papà mi aveva portato con lui a Rimini, in un viaggio di lavoro. E la società, dalla quale aveva ottenuto un contratto per la manutenzione dei locali della colonia dove i figli dei dipendenti passavano le vacanze estive, in albergo aveva recapitato anche due biglietti omaggio per quel match: Spal-Juventus.
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Ho sovente pensato che avrei potuto diventare interista, milanista, torinista o romanista. Ma quella domenica in campo c’erano maglie bianconere e “quel” centravanti. Sono diventato juventino per caso. E devo dire che, tra molte gioie e qualche dolore, mi è andata bene: tifare Juventus è come ottenere un fido in banca. Ero bambino: del calcio, in quella stagione, neppure conoscevo il regolamento. Ogni tanto giocavo al campiello. In strada impari a controllare la palla in spazi stretti. Impari a tirare in porte improvvisate. Impari a darle, ma soprattutto impari a prenderle. Non avevo ancora commesso gli adolescenziali pasticci che avrebbero preoccupato mio papà fino ad accettare il consiglio di Loris Capovilla, segretario dell’allora patriarca di Venezia, Angelo Roncalli, nonché futuro papa Giovanni XXIII, di mandarmi a studiare all’istituto Filippin. Per imparare la disciplina. Che un coccolato e viziato (da zie e nonna) figlio unico, proprio non c’era verso accettasse. L’azienda di mio papà stava completando alcuni lavori in patriarcato: Venezia, in generale, si stava facendo bella per l’imminente visita italiana del cardinale statunitense Francis Joseph Spellman. Era di luglio, primi giorni. Ed era una domenica: con tre materie da riparare a settembre, entrai in quella che sarebbe, per molti anni a venire, diventata la mia seconda casa. Collegio: era stato come atterrare su Marte. Ma la frequentazione del campiello a Venezia, benché ragazzino,
mi aveva indurito la scorza. In collegio un adolescente soffoca. Ma c’era un vantaggio: potevo giocare al calcio anche un paio di volte al giorno. Giocare con e contro ragazzi più “anziani” non mi ha portato all’eccellenza. Ma mi ha fatto migliorare. Allora ero convinto di poter diventare un calciatore professionista. Lo desideravo. La mia passione era aumentata: una passione rotonda grazie a quel tipo con il ciuffo ribelle sulla fronte, il 10. Quale accidenti era il “segreto” delle sue magie? Me lo chiedevo in continuazione. Senza, ovviamente, trovare una spiegazione. Mesi dopo ci riuscii: ottenni che mio padre mi portasse a “vederlo”. Sul treno che da Venezia ci trasportava a Torino magnificai quel giocatore dagli stinchi nudi che entrava in campo senza parastinchi e con i calzettoni arrotolati. Che sbeffeggiava e sfidava gli avversari e che con Charles e Boniperti aveva contribuito a riportare a Torino lo scudetto: il decimo della storia della Juventus. Ne ottenni un pacato: «Stai esagerando» che mi convinse di non avere possibilità di convincerlo a condividere il mio entusiasmo. Torino: stazione di Porta Nuova, taxi, ristorante Del Cambio, pranzo, altro taxi, tribuna centrale al Comunale: ore 15:00. La Juventus non sta ripetendo la stagione del recente scudetto. Tuttavia ospita la Fiorentina che è in lizza per i quartieri alti. Quartieri che a fine stagione saranno occupati con merito dal Milan. Non c’è Charles, infortunato. Sono deluso e la cosa mi sembra un pessimo indizio. È la domenica del 22 marzo 1959.
La Juventus scende in campo con Vavassori, Corradi, Garzena, Emoli, Castano, Colombo, Muccinelli, Boniperti, Nicolè, Sivori, Stivanello. In panchina c’è Teobaldo Depetrini. La Fiorentina risponde con Albertosi al debutto in Serie A. Poi con Robotti, Castelletti, Chiappella, Orzan, Segato, Hamrin, Gratton, Montuori, Lojacono, Carpanesi. Arbitra il signor Gennaro Marchese di Frattamaggiore. Gli spettatori sono 60.000 per un incasso di 40 milioni delle lire del tempo. Poca roba inizialmente. “Lui” sembra disinteressato alla partita. Assente, svogliato. Tra l’altro al minuto 28 la Fiorentina passa in vantaggio su calcio di rigore trasformato da Lojacono: temo il peggio. Ma dieci minuti dopo, in seguito a una mischia in area viola, dal nulla si materializza il demonio argentino e fa 1-1. Durante l’intervallo dico a mio papà: «Vedrai che adesso si scatena». È quello che spero: sono venuto a vederlo. Non ho preso, in istituto, per settimane una punizione. Mi sono morso la lingua in più di una occasione, per evitarle, le punizioni. Sono arrivato puntuale agli allenamenti e alla funzione, non ho preso cattivi voti: non “posso” tornare a Venezia e poi in istituto dopo aver assistito a una sconfitta. Mio padre annuisce senza convinzione. Ma un signore elegante che sembra uscito da un quadro umbertino e che è seduto accanto a lui mi spalleggia, affermando: «Se si mette a giocare, vittoria assicurata». Secondo tempo: “lui” si mette a giocare. Al 18esimo della ripresa fa il 2-1. Il “reperto” umbertino, schizza come una molla e urla: «Rete!» Grido anche io e abbraccio mio
papà. Che non gode quanto godo io, perché il calcio non gli fa né caldo, né freddo, ma che è visibilmente felice per me. La mia gioia dura 11 minuti: pareggia Gratton e sembra finita. Perché la Juve non è in una gran giornata e la Fiorentina è una bella squadra. E poi sembra che il pareggio stia bene a tutti: sembra. Perché a “lui”, viceversa, non sta bene. Del resto a lui, non sta mai bene. Lui è uno che vuole vincere: sempre. All’improvviso si accende. Forse imbestialito per un fallo di troppo. Prende palla a una ventina di metri dalla porta di Albertosi. Ne semina tre come birilli e tira nell’angolo dove il giovane portiere dei toscani non potrebbe arrivare. Ma sulla traiettoria c’è un avversario che respinge di testa. Lui intanto è finito sullo slancio per terra. Si ritrova la sfera su un piede, più disteso di Paolina Borghese. Ma il piede è il sinistro. Quel piede magico che regala sogni. Misteriosamente, da terra la arpiona, la doma, la calcia. La impatta come un virtuoso della stecca, spedendola in porta in mezzo a gambe nemiche, nella rete dove Albertosi può solo raccoglierla. È il minuto 41 del secondo tempo: Juventus 3-Fiorentina 2. Stavolta schizzo anche io come una molla. E urlo con quanto fiato ho in gola: «Goool!» È una gioia incredibile, una emozione indescrivibile. Migliaia di persone che non si conoscono che si abbracciano. Li guardo e mi sento parte di quella famiglia. E per la prima volta intuisco cosa significhi “tifare”. Non l’ho visto, finalmente, solo giocare. Gli ho visto fare tre reti. E ho assistito a uno dei 100 gol più belli della sto-
ria del calcio. Un gol che finirà, negli anni a venire, nelle compilation del web. Lo avevo visto. E ora sapevo: fare le cose che faceva lui era impossibile. Quelle cose non si potevano imparare: lui era unico. Omar Sivori, detto “el cabezón”: il numero 10 più 10 della storia della Juventus. Il più estroso del celebre trio argentino (con Angelillo e Maschio) degli “angeli con la faccia sporca”. Ci sono stati tanti incredibili numeri 10 nella storia del calcio, da Pelé a Maradona a Messi. Ce ne sono stati tanti di meravigliosi in quella della Juventus: John Hansen, Platini, Baggio, Del Piero, Zidane (che casualmente portava un altro numero), Tevez, Pogba, Dybala. Nessuno ha mai fatto sul campo le giocate di Omar Sivori. Perché neppure i più bravi avevano l’arroganza e la sfrontatezza di “pensarle”. Oddio: dire “pensarle” francamente è eccessivo. A lui, che definiva i suoi gol «passaggi in fondo alla rete», quelle giocate venivano facili. Omar Sivori era un illusionista capace di far piovere monete dal naso degli avversari. Per divertire e, soprattutto, divertirsi. Un torero che, con muleta e spada, ogni domenica prima irrideva e alla fine matava, tra gli «olé» del pubblico, il toro: i mediani e i terzini avversari che avevano la sventura di affrontarlo… Dopo quel Juventus-Fiorentina mi fu chiaro che non avrei mai potuto fare su un campo di calcio le “giocate” di Omar Sivori. Non le potevo fare io, dotato di un modesto talento. Ma neppure quelli molto più bravi di me, tra quanti conoscevo, avrebbero potuto.
Nel corso degli anni, lavorando per qualche stagione come giornalista sportivo avrei constatato che neppure quelli che giocavano in serie A, “potevano”. Ogni tanto emergeva un calciatore che sembrava avere “qualche cosa” di Sivori. Rammento Vieri, il papà di Bobo Vieri che arrivò alla Juventus dalla Sampdoria in cambio di Romeo Benetti. Fece un gol da urlo a San Siro contro il Milan. Aveva una tecnica fuori dal comune, usava preferibilmente il destro, aveva movenze alla Sivori. Ma non era Sivori, non diventò mai Sivori. Poi un anno la Juventus mise sotto contratto Titti Savoldi, fratellino del bomber Beppe. Anche lui in allenamento sbalordiva i cronisti che seguivano la Juventus. Anche lui fu accostato con esagerazione a Sivori: “Titti” aveva grande tecnica. Ma la cosa finiva lì. Non riuscì mai a emergere, né alla Juventus, né più genericamente, a grande livello, nel calcio italiano. La verità è che l’unico – pur differente per velocità e interpretazione del gioco – accostabile a Sivori è stato Diego Armando Maradona. Talmente forte da vincere, con una nazionale argentina non particolarmente dotata, un campionato del mondo quasi da solo. Maradona fu l’evoluzione di Sivori, in un calcio diverso da quello di Sivori. Maradona è reputato, da moltissimi, il più grande: era più veloce di Sivori. Era meno “gigione” di Sivori. Badava sempre al sodo. Ma soprattutto Diego non era “carogna” sul campo quanto lo era viceversa Omar. Diego era pura gioia, quanto Omar era pura marajuoleria. Diego, magari, poteva
sfornare una mano de dios per uccellare in modo gaglioffo al mondiale gli inglesi, salvo poi farsi “perdonare” per la ribalderia con un’azione e una rete diventate leggenda del calcio. Omar sovente esibiva i “tacchetti de dios” e proprio non ci teneva a farsi “perdonare”: le sue prodezze, (gol, dribbling e tunnel) erano diavolerie che restavano incise nella carne degli avversari e dei tifosi delle società rivali della Juventus, come ferite non suturabili. Diego fu amato da ogni tifoseria. Omar solo da quelle della Juventus e del Napoli: tutte le altre lo detestarono. Diego suscitava solo ammirazione. Omar suscitava ammirazione mista a risentimento. Diego era felice di essere amato da tutti. Omar era interessato solo all’amore dei tifosi bianconeri. Quanto a tutti gli altri, voleva soprattutto essere temuto. Disse una volta: «Se vuoi essere rispettato, devi essere temuto». La grandezza di un giocatore difficilmente può essere misurata. Ci sono millanta sfaccettature nella “grandezza” di un campione. Certo, a contare sono anche i risultati, i trofei, i palmares. Ma qualcuno può oggettivamente dire, a livello individuale, che Maradona fu davvero più “grande” di Pelé o di Di Stéfano? I risultati dicono che probabilmente lo fu. Aver portato lo scudetto in una realtà, affascinante e complicata come quella di Napoli, ha ingigantito e reso “immortali” la figura di Diego Armando Maradona e le sue gesta. Rendendolo imparagonabile (nella stagione in cui la Juventus ha scoperto il suo “piccolo Sivori” in Paolo Dybala), persino ai grandi fenomeni dell’ultimo ventennio, Cristiano Ronaldo e Messi. Vincere
nel Real Madrid o nel Barcellona si presenta meno complicato che vincere a Napoli. Ma tutto è relativo. Tutto risente della individuale percezione. Personalmente reputo, ad esempio, Bruno Conti uno dei giocatori più incredibili mai visti su un campo di calcio. Campione del mondo con l’Italia al Mondiale di Spagna, difficilmente trovi Bruno Conti nella classifica dei primi cinquanta “più grandi” di ogni epoca. Ci trovi magari Baggio, Totti, Del Piero, Platini e Falcao, Zidane e Mattheus, Rivera, Puskás, Van Basten, Schiaffino, Meazza, Orsi, giustamente Ronaldo il Fenomeno. In quell’Italia guidata da Bearzot tutti rammentano i gol di Pablito Rossi, l’urlo da quadro di Munch di Tardelli, dopo la sua rete in finale, ma pochi rammentano cosa in quel mondiale riuscì a fare, di pazzesco, Bruno Conti. Che raccontano le cronache, avrebbe potuto avere un futuro negli States anche come giocatore di baseball. Anni fa durante una intervista chiesi allo scrittore Nick Horby quale fosse a suo parere il miglior giocatore del mondo. Con mio grande stupore disse: «Liam Brady». Ma non avrei dovuto stupirmi: Horby, tifosissimo dei Gunners, era innamorato di quell’irlandese, impeccabile gentiluomo che siglò a Catanzaro un rigore-scudetto per la Juventus, nonostante sapesse che, a giorni, sarebbe stato congedato e la sua maglia sarebbe passata sulle spalle di Michel Platini. Brady era il “genio della lampada” dell’Arsenal. Bravissimo ma certamente non superiore a George Best. Forse neppure a Bobby Charlton, Denis Law o a Steven Gerrard. Ma per Horby il migliore era (e sarebbe
rimasto) Liam: l’archistar capace di trovare linee di passaggio impensabili. E di “cesellare” calcio in una Lega, la Premier dove la forza ha (quasi) sempre avuto il sopravvento sulla tecnica. Un’altra volta chiesi a un collega di Belgrado quale fosse stata a suo parere la migliore mezz’ala europea degli ultimi vent’anni. Senza esitazioni mi rispose: «Dragoslav Šekularac». Uno “blindato” (a lungo), nella Jugoslavia di quella stagione dal regime di Tito e del quale, peraltro, rammentavo di aver letto meraviglie proprio nella settimana della mia trasferta a Torino, per Juventus-Fiorentina. Il cronista del settimanale diretto da Gianni Reif lo descriveva come un funambolo capace di azioni mirabolanti. Confesso che allora interpretai quell’articolo come una esagerazione da redazione. Nessuno conosceva quel Šekularac, nessuno aveva mai visto, in Italia, “Šeki”. Ma nel 1998 durante una trasferta di lavoro per la Rai a Parigi, scovo, in una libreria poco distante dalla Senna, un titolo che mi intriga: La vie est un ballon rond delle Edition de Fallois, scritto da Vladimir Dimitrijević. Vladimir è un ex promettente centrocampista, fuggito negli anni Cinquanta dalla Jugoslavia. Approdato in Svizzera dove avrebbe fondato, a Losanna, la prestigiosa casa editrice L’Age d’Homme. Vladimir, nel suo delizioso libretto, scrive di Šekularac le stesse cose che io avevo percepito, fin dal primo impatto, di Sivori.
Era un giocatore fantastico, sempre a litigare con gli arbitri e ad accusare i difensori che lo malmenavano […] per lui il pubblico interrompeva la partita gridando il suo nome […] e quello era il segnale che il torero scintillante di lustrini, un ruolo per cui era tagliato su misura, doveva ridicolizzare il cieco impeto del toro a undici teste che aveva di fronte1 .
Non credevo a quello che stavo leggendo, rammentando che ragazzino, bevendomi l’articolo del magazine di Reif avevo pensato: “Ma guarda, cosa riescono a inventarsi: anche un Pelé jugoslavo”. Invece Vladimir, quel fenomeno di Šeki lo aveva visto. Anzi, come racconta, lo aveva affrontato nel cortile della sua scuola.
Era di tre o quattro anni più giovane di noi. Nonostante l’età non esitò a gettarsi nel bel mezzo della partita che stavamo giocando. Ed ecco che sotto ai nostri occhi accade un miracolo: ci sfida, ci provoca, gioca come un
gattino che stuzzica la palla, evidentemente felice. E noi, attoniti e stupefatti, scoprimmo colui che sarebbe diventato il grande Dragoslav Šekularac2 .
Avrei scoperto tutto questo con il trascorrere degli anni. L’esperienza mi avrebbe portato lontano, consigliandomi
1 Vladimir Dinitrijević, La vita è un pallone rotondo, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2000. 2 Ivi.
prudenza nei giudizi. Sempre tuttavia “sedotto” da quanto avevo visto e vissuto da ragazzo. Non scordi mai il primo amore. E se a volte ti trovi a pensare, dopo infiniti inverni che adesso “lei” è probabilmente nonna, con la faccia piena di rughe, la rammenti, comunque bellissima: la tua prima emozione del cuore. La sensazione di onnipotenza che dava Omar Sivori è indescrivibile a chi non l’abbia visto dal vivo nelle sue giornate di grazia. Ti attraversava l’idea che i compagni a lui si affidassero come a un messia. Omar era il verbo. Era un cammino di fede da percorrere. Sottostando (magari a malincuore) anche alle sue bizze e ai suoi eccessi. L’ho capito con il tempo. Omar Sivori “fornicava” con la palla. Ci flirtava, la vellicava, la possedeva. La palla era “sua”. Un’amante che non voleva condividere con i compagni: figuriamoci con gli avversari. L’amore di Omar per la palla era esigente e passionale. Della palla, Omar, era gelosissimo. Per amore della palla sfidava l’impenetrabilità dei corpi “passando” in dribbling, non si sa come, tra gli avversari che lo braccavano. Arrivando con quel suo fatato piede sinistro dal nulla su ogni cross. Su ogni azione “sporca” in mezzo all’area avversaria. Irridendo i portieri con traiettorie inimmaginabili. Fare un’azione “alla Sivori” era come pensare di poter “limonare” con Kim Novak, sogno erotico, in quella stagione, di noi sbarbini: la sensuale bionda hollywoodiana di Picnic che i compagni più grandi, nell’istituto nel quale studiavo, erano soliti definire «prime seghe».
Un’azione alla Sivori era un irrealizzabile sogno. Per quante volte in allenamento tu ci potessi provare, non ci riuscivi. Perché lui sembrava avere la colla su quel suo chirurgico sinistro. Ma non era colla: era talento. Era immenso Omar: come solo i grandi artisti sanno essere. Allora non riuscivo compiutamente a capire. Diventato adulto dopo aver letto L’incubo con aria condizionata di Henry Miller ho compreso. «Un artista è, in primo luogo, uno che ha una smisurata fiducia in se stesso.» Non credo di aver mai letto niente di più aderente, un vero vestito su misura, che descrivesse la personalità di Omar Sivori.