Capitolo 1
V
olevo vederlo. Dovevo vederlo dalla tribuna di uno stadio. Dovevo capire come accidenti facesse a fare quelle giocate che nelle immagini in bianco e nero della Rai e della Settimana Incom, al cinema prima della proiezione di un film, sembravano “impossibili” e insieme, per lui, così naturali. Dovevo rendermi conto se quello che scrivevano i cronisti sportivi di quel giocatore con il numero 10 sulla schiena non fosse esagerato. “Loro” lo vedevano ogni domenica. Eppure, a leggerli, era come se a ogni partita lo vedessero per la prima volta. Dovevo “sapere”. Perché nell’istituto nell’Asolano (dove mio papà mi aveva spedito a studiare per contenere una esuberanza diventata gaglioffa), con un compagno di classe ci avevamo provato a imitarlo. Ma neppure lui, che era probabilmente il più talentuoso dell’intero istituto, ci riusciva. Non c’era da meravigliarsi non ci riuscissi, io: ero un interno non particolarmente dotato che correva e picchiava. Ma lui era un fenomeno che sul campo del Seminatore faceva cose incredibili anche contro avversari più grossi ed esperti di lui. Eppure neppure lui riusciva a ricamare i dribbling, i tunnel, i gol che faceva quello lì: Enrique Omar Sivori. Da mesi avevo messo in croce mio padre perché mi portasse a Torino, al Comunale, a vedere la Juventus. Mesi
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