Andrea Bosco
ANDREA BOSCO
OMAR SIVORI L’ANGELO CON LA
FACCIA SPORCA Prefazione di Italo Cucci Postfazione di Gino Stacchini
Omar era una magia: un dio. Luis Del Sol
OMAR SIVORI
Andrea Bosco, veneziano d’origine, dal 1971 vive e lavora a Milano. Laureato a Padova in Lettere Moderne ha intrapreso la carriera di giornalista dopo gli studi liceali. Inizialmente come cronista sportivo, successivamente come specialista culturale. Ha collaborato nel corso degli anni per varie testate, tra le quali “Il Gazzettino”, il “Guerin Sportivo” (direttore Gianni Brera), “La Notte” (direttore Nino Nutrizio), “Il Corriere d’Informazione” (diretto da Palumbo), “Tuttosport” (con Jacobelli) e il “Corriere della Sera” (diretto da De Bortoli). Ha lavorato alla “Gazzetta dello Sport” (con Gualtiero Zanetti) per la Divisione Libri e per i Periodici della Rizzoli (con Paolo Mosca). Per cinque anni è stato a “Il Giornale” (con Indro Montanelli). È stato per vent’anni, fino al raggiungimento della pensione, alla Rai di Milano come conduttore del Tg regionale e caporedattore del settore Cultura, Moda e Spettacoli. Oggi scrive per il sito “Tmw” del quale è anche opinionista radiofonico. Per quattro anni ha tenuto un corso alla Cattolica di Milano sul Linguaggio della Comunicazione. Per la Provincia di Milano ha curato le mostre Kit Carson e dintorni e (con Elena Scantamburlo) Buena Vista. Sempre per la Provincia di Milano ha realizzato il documentario Sergio Bonelli, l’avventura del fumetto. Per il Piccolo Teatro di Milano ha firmato il docufilm La compagnia alla prima, dietro le quinte dell’allestimento dell’opera di Edward Bond per la regia di Luca Ronconi. Ha scritto Duri i banchi. Storia di una società benefica, la raccolta di poesie Fiori di Henry, Brera e Rivera, Una voce in campo (dedicato a Nicolò Carosio) con il quale ha vinto il premio De Martino – Amore per lo Sport, il libro fotografico Benvenuti a Milano negli anni Novanta, Pocahontas e le altre (con Pierluigi Ronchetti), I cavalieri del West (con Domenico Rizzi). Nel 2010 ha realizzato lo spettacolo Scoprendo Salinger, portato in scena al teatro di Verdura di Milano e il cui testo è stato successivamente pubblicato. Nel 2016 ha dato alle stampe La partita di Omega e altri racconti. ISBN 978-8833242729
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Omar Sivori è stato uno dei più grandi giocatori della storia del calcio. Un funambolo dal dribbling letale. Segnava gol spettacolari, ma il suo pezzo forte di Sivori era il tunnel. La palla fatta passare attraverso le gambe degli avversari. Il tunnel di Sivori era una “tassa” che tutti, persino Alfredo Di Stefano e Pelè, pagarono. Allievo di Renato Cesarini che lo segnalò alla Juventus, Sivori fu Maradona prima di Maradona. Argentino con origini italiane, proveniente dal River Plate, giocò in Italia con la maglia della Juventus vincendo scudetti, coppe Italia, un titolo di capocannoniere, il prestigioso Pallone d’Oro. Ceduto da Gianni Agnelli al Napoli fece sognare i tifosi partenopei. Indossò anche la maglia azzurra della Nazionale, dopo aver incantato con quella dell’Argentina assieme a Maschio e Angellillo, i tre “angeli con la faccia sporca”. Emotivo ma coraggioso, fumantino con arbitri e avversari, fu sanzionato con numerose giornate di squalifica. Anarchico e “pigro” come giocatore. Rigoroso e severo come allenatore della nazionale argentina. Mise mise a frutto i guadagni creando in Argentina due aziende. Una la chiamò Napoli, la seconda Juventus. Società nella quale contribuì alla leggenda (con Boniperti e Charles) della Vecchia Signora del calcio italiano. Legato da vera amicizia con Umberto Agnelli, il presidente che lo volle a Torino, la vita di Sivori fu segnata da grandi gioie e grandi dolori. Il più devastante, la prematura morte di uno dei figli. Oggi la sua maglia con il numero 10 esposta al Museum della Juventus è oggetto di pellegrinaggi. Enrique Omar Sivori che Gianni Agnelli definiva “un vizio”, fu emblema di un calcio spettacolare. Quello che divertiva la gente. E rendeva possibile, l’impossibile.
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i.i
A mia moglie Isotta e a mia figlia Sara che assecondando una mia immarcescibile passione, nel 2011 mi hanno regalato una “stella” allo Stadium tra le 50 leggende che hanno fatto la storia della Juventus. C’è anche il mio nome, il mio cognome e il mio pseudonimo (inventato da Aldo Giordani) tra quelli incisi a fianco di quello di Enrique Omar Sivori: Andrea Bosco Wood
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ANDREA BOSCO
OMAR SIVORI L’ANGELO CON LA
FACCIA SPORCA Prefazione di Italo Cucci Postfazione di Gino Stacchini
MINERVA
Indice
Prefazione di Italo Cucci
p. 7
Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17
p. 9 p. 23 p. 32 p. 38 p. 51 p. 67 p. 74 p. 79 p. 87 p. 94 p. 108 p. 124 p. 131 p. 135 p. 140 p. 145 p. 151
Dicono di lui‌
p. 153
Postfazione di Gino Stacchini
p. 161
Galleria immagini
p. 167
PREFAZIONE Di Italo Cucci
A
ndrea e io ci siamo persi, negli ultimi anni, dopo aver speso in tivù anche un po’ d’intelligenza oltre le solite chiacchiere. Ma fra antichi viaggiatori rimangono fatali connessioni temporali, come rimembranze che affiorano nelle stagioni più avare di frutti. Premetto che la pandemia e il “tutti in casa” hanno favorito il pensare più che il fare, la riflessione più dell’esibizione, e anch’io non ho potuto fare a meno di rimpiangere i Ritratti del coraggio opponendoli ai miti del Calciobusiness. Non faccio nomi ma sono convinto che i ragazzi d’oggi faticheranno a ricordare, fra venti/trent’anni, i pedatori d’oggi, quasi tutti esotici (cerco parole politicamente corrette) mentre Andrea e io c’imbattiamo, sul Viale del Tramonto, in compagni di strada leggendari, eterni, prima vissuti da ammiratori, poi da cronisti, infine da narratori. Quanti ce ne saranno? Voglio essere generoso: una magnifica dozzina. Fra questi, quell’eterno ragazzo cui chiesi, un giorno, chi fosse il più grande, fra Maradona e Pelé, e mi rispose: «Escludendo me, Diego. E tu?». Per evitare dibattiti risposi: «Di Stefano». E lui per la prima volta tacque. Lui era Omar Sivori, il pilastro della bellezza e allegria del calcio. Già, molti dimenticano che il calcio deve divertire. E quando Omar pazziava e il mister s’adombrava il già
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saggio Boniperti diceva: «Lasciatelo vivere, è il suo calcio, il più bello». N’era convinto Umberto Agnelli da quando Renato Cesarini gli aveva suggerito di portare quel ciuffo ribelle, quelle caviglie sottili, quei piedi animati in Zona Juve. Poi passarono gli anni e un ginnasiarca senza fantasia volle allontanarlo e ci riuscì. Anche per colpa mia. No, non faccio il fenomeno, racconto un fatto. Omar era stato semplicemente sospeso dopo l’ennesimo rifiuto di obbedire a Heriberto Herrera, detto anche HH2 o Accacchino (da Brera). Mentre Agnelli meditava il da farsi, Sivori sparì. Io lavoravo a “Stadio” e un amico di Sanremo, Sergio Sricchia narratore di boxe, mi avvertì che Omar era lì, nella casa estiva di Liedholm. Ci arrivai in poche ore, mi piazzai sulla porta e quando l’esule apparve mi presentai. Capì che stavo sullo scoop e mi fece felice: una lunga feroce intervista che aiutò la Juve a decidere. Lo mandarono via. Napule Napulè, la città che Pino Daniele avrebbe didascalizzato magnificamente: «Napule è mille culure / Napule è mille paure / Napule è a voce de’ criature / Che saglie chianu chianu / E tu sai ca’ non si sulo...». Poi solo rimase, dopo alterne sfortune, e tornò in Argentina. Non avevo sensi di colpa ma un giorno in Rai mi chiesero un personaggio per una trasmissione domenicale sponsorizzata dalla IP – c’erano soldi, insomma – e io dissi Sivori. «Ce lo trovi?» Un collega di Baires mi diede un numero, risposero da una casa di campagna, il rifugio di Omar nella Pampa. E arrivò lui: «Que pasa?». Poche parole. E i soldi. «Arrivo.» E arrivò. Un’altra vita.
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Capitolo 1
V
olevo vederlo. Dovevo vederlo dalla tribuna di uno stadio. Dovevo capire come accidenti facesse a fare quelle giocate che nelle immagini in bianco e nero della Rai e della Settimana Incom, al cinema prima della proiezione di un film, sembravano “impossibili” e insieme, per lui, così naturali. Dovevo rendermi conto se quello che scrivevano i cronisti sportivi di quel giocatore con il numero 10 sulla schiena non fosse esagerato. “Loro” lo vedevano ogni domenica. Eppure, a leggerli, era come se a ogni partita lo vedessero per la prima volta. Dovevo “sapere”. Perché nell’istituto nell’Asolano (dove mio papà mi aveva spedito a studiare per contenere una esuberanza diventata gaglioffa), con un compagno di classe ci avevamo provato a imitarlo. Ma neppure lui, che era probabilmente il più talentuoso dell’intero istituto, ci riusciva. Non c’era da meravigliarsi non ci riuscissi, io: ero un interno non particolarmente dotato che correva e picchiava. Ma lui era un fenomeno che sul campo del Seminatore faceva cose incredibili anche contro avversari più grossi ed esperti di lui. Eppure neppure lui riusciva a ricamare i dribbling, i tunnel, i gol che faceva quello lì: Enrique Omar Sivori. Da mesi avevo messo in croce mio padre perché mi portasse a Torino, al Comunale, a vedere la Juventus. Mesi
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di buona condotta nell’istituto, di promesse di migliorare i miei voti: mesi di attesa. Alla fine la mia costanza fu premiata. Mio papà, piccolo imprenditore edile a Venezia, si serviva da un gioielliere che aveva negozio in Calle della Mandola: la sua vetrina si rifletteva dall’altra parte della calle, nel portone d’ingresso di casa mia. Era un vecchio tifoso della Juventus che in occasione del decimo scudetto della Vecchia Signora, un anno prima, mi aveva fatto dono del distintivo sociale: il piccolo ovale con i colori bianconeri da mettere all’occhiello della giacca. Fu il signor Cesare, garbato gentiluomo veneziano, a prenotare i biglietti per me e mio padre. Che, detto per inciso, non aveva passione per il calcio. Detestava che io giocassi al pallone: mi avrebbe voluto ai remi su una jole della Bucintoro. Ma io avevo imparato ad amare il calcio. Per “colpa” di mio papà, tra l’altro. La mia prima partita l’avevo vista anni prima a Ferrara: un orrendo Spal-Juventus, vinto da quella che sarebbe diventata la mia squadra del cuore, grazie a una rete di Karl Hansen. Brutta partita ma la Juventus aveva un centravanti biondo e tecnico che incantava: si chiamava Giampiero Boniperti. Mio papà mi aveva portato con lui a Rimini, in un viaggio di lavoro. E la società, dalla quale aveva ottenuto un contratto per la manutenzione dei locali della colonia dove i figli dei dipendenti passavano le vacanze estive, in albergo aveva recapitato anche due biglietti omaggio per quel match: Spal-Juventus.
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Ho sovente pensato che avrei potuto diventare interista, milanista, torinista o romanista. Ma quella domenica in campo c’erano maglie bianconere e “quel” centravanti. Sono diventato juventino per caso. E devo dire che, tra molte gioie e qualche dolore, mi è andata bene: tifare Juventus è come ottenere un fido in banca. Ero bambino: del calcio, in quella stagione, neppure conoscevo il regolamento. Ogni tanto giocavo al campiello. In strada impari a controllare la palla in spazi stretti. Impari a tirare in porte improvvisate. Impari a darle, ma soprattutto impari a prenderle. Non avevo ancora commesso gli adolescenziali pasticci che avrebbero preoccupato mio papà fino ad accettare il consiglio di Loris Capovilla, segretario dell’allora patriarca di Venezia, Angelo Roncalli, nonché futuro papa Giovanni XXIII, di mandarmi a studiare all’istituto Filippin. Per imparare la disciplina. Che un coccolato e viziato (da zie e nonna) figlio unico, proprio non c’era verso accettasse. L’azienda di mio papà stava completando alcuni lavori in patriarcato: Venezia, in generale, si stava facendo bella per l’imminente visita italiana del cardinale statunitense Francis Joseph Spellman. Era di luglio, primi giorni. Ed era una domenica: con tre materie da riparare a settembre, entrai in quella che sarebbe, per molti anni a venire, diventata la mia seconda casa. Collegio: era stato come atterrare su Marte. Ma la frequentazione del campiello a Venezia, benché ragazzino,
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mi aveva indurito la scorza. In collegio un adolescente soffoca. Ma c’era un vantaggio: potevo giocare al calcio anche un paio di volte al giorno. Giocare con e contro ragazzi più “anziani” non mi ha portato all’eccellenza. Ma mi ha fatto migliorare. Allora ero convinto di poter diventare un calciatore professionista. Lo desideravo. La mia passione era aumentata: una passione rotonda grazie a quel tipo con il ciuffo ribelle sulla fronte, il 10. Quale accidenti era il “segreto” delle sue magie? Me lo chiedevo in continuazione. Senza, ovviamente, trovare una spiegazione. Mesi dopo ci riuscii: ottenni che mio padre mi portasse a “vederlo”. Sul treno che da Venezia ci trasportava a Torino magnificai quel giocatore dagli stinchi nudi che entrava in campo senza parastinchi e con i calzettoni arrotolati. Che sbeffeggiava e sfidava gli avversari e che con Charles e Boniperti aveva contribuito a riportare a Torino lo scudetto: il decimo della storia della Juventus. Ne ottenni un pacato: «Stai esagerando» che mi convinse di non avere possibilità di convincerlo a condividere il mio entusiasmo. Torino: stazione di Porta Nuova, taxi, ristorante Del Cambio, pranzo, altro taxi, tribuna centrale al Comunale: ore 15:00. La Juventus non sta ripetendo la stagione del recente scudetto. Tuttavia ospita la Fiorentina che è in lizza per i quartieri alti. Quartieri che a fine stagione saranno occupati con merito dal Milan. Non c’è Charles, infortunato. Sono deluso e la cosa mi sembra un pessimo indizio. È la domenica del 22 marzo 1959.
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La Juventus scende in campo con Vavassori, Corradi, Garzena, Emoli, Castano, Colombo, Muccinelli, Boniperti, Nicolè, Sivori, Stivanello. In panchina c’è Teobaldo Depetrini. La Fiorentina risponde con Albertosi al debutto in Serie A. Poi con Robotti, Castelletti, Chiappella, Orzan, Segato, Hamrin, Gratton, Montuori, Lojacono, Carpanesi. Arbitra il signor Gennaro Marchese di Frattamaggiore. Gli spettatori sono 60.000 per un incasso di 40 milioni delle lire del tempo. Poca roba inizialmente. “Lui” sembra disinteressato alla partita. Assente, svogliato. Tra l’altro al minuto 28 la Fiorentina passa in vantaggio su calcio di rigore trasformato da Lojacono: temo il peggio. Ma dieci minuti dopo, in seguito a una mischia in area viola, dal nulla si materializza il demonio argentino e fa 1-1. Durante l’intervallo dico a mio papà: «Vedrai che adesso si scatena». È quello che spero: sono venuto a vederlo. Non ho preso, in istituto, per settimane una punizione. Mi sono morso la lingua in più di una occasione, per evitarle, le punizioni. Sono arrivato puntuale agli allenamenti e alla funzione, non ho preso cattivi voti: non “posso” tornare a Venezia e poi in istituto dopo aver assistito a una sconfitta. Mio padre annuisce senza convinzione. Ma un signore elegante che sembra uscito da un quadro umbertino e che è seduto accanto a lui mi spalleggia, affermando: «Se si mette a giocare, vittoria assicurata». Secondo tempo: “lui” si mette a giocare. Al 18esimo della ripresa fa il 2-1. Il “reperto” umbertino, schizza come una molla e urla: «Rete!» Grido anche io e abbraccio mio
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papà. Che non gode quanto godo io, perché il calcio non gli fa né caldo, né freddo, ma che è visibilmente felice per me. La mia gioia dura 11 minuti: pareggia Gratton e sembra finita. Perché la Juve non è in una gran giornata e la Fiorentina è una bella squadra. E poi sembra che il pareggio stia bene a tutti: sembra. Perché a “lui”, viceversa, non sta bene. Del resto a lui, non sta mai bene. Lui è uno che vuole vincere: sempre. All’improvviso si accende. Forse imbestialito per un fallo di troppo. Prende palla a una ventina di metri dalla porta di Albertosi. Ne semina tre come birilli e tira nell’angolo dove il giovane portiere dei toscani non potrebbe arrivare. Ma sulla traiettoria c’è un avversario che respinge di testa. Lui intanto è finito sullo slancio per terra. Si ritrova la sfera su un piede, più disteso di Paolina Borghese. Ma il piede è il sinistro. Quel piede magico che regala sogni. Misteriosamente, da terra la arpiona, la doma, la calcia. La impatta come un virtuoso della stecca, spedendola in porta in mezzo a gambe nemiche, nella rete dove Albertosi può solo raccoglierla. È il minuto 41 del secondo tempo: Juventus 3-Fiorentina 2. Stavolta schizzo anche io come una molla. E urlo con quanto fiato ho in gola: «Goool!» È una gioia incredibile, una emozione indescrivibile. Migliaia di persone che non si conoscono che si abbracciano. Li guardo e mi sento parte di quella famiglia. E per la prima volta intuisco cosa significhi “tifare”. Non l’ho visto, finalmente, solo giocare. Gli ho visto fare tre reti. E ho assistito a uno dei 100 gol più belli della sto-
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ria del calcio. Un gol che finirà, negli anni a venire, nelle compilation del web. Lo avevo visto. E ora sapevo: fare le cose che faceva lui era impossibile. Quelle cose non si potevano imparare: lui era unico. Omar Sivori, detto “el cabezón”: il numero 10 più 10 della storia della Juventus. Il più estroso del celebre trio argentino (con Angelillo e Maschio) degli “angeli con la faccia sporca”. Ci sono stati tanti incredibili numeri 10 nella storia del calcio, da Pelé a Maradona a Messi. Ce ne sono stati tanti di meravigliosi in quella della Juventus: John Hansen, Platini, Baggio, Del Piero, Zidane (che casualmente portava un altro numero), Tevez, Pogba, Dybala. Nessuno ha mai fatto sul campo le giocate di Omar Sivori. Perché neppure i più bravi avevano l’arroganza e la sfrontatezza di “pensarle”. Oddio: dire “pensarle” francamente è eccessivo. A lui, che definiva i suoi gol «passaggi in fondo alla rete», quelle giocate venivano facili. Omar Sivori era un illusionista capace di far piovere monete dal naso degli avversari. Per divertire e, soprattutto, divertirsi. Un torero che, con muleta e spada, ogni domenica prima irrideva e alla fine matava, tra gli «olé» del pubblico, il toro: i mediani e i terzini avversari che avevano la sventura di affrontarlo… Dopo quel Juventus-Fiorentina mi fu chiaro che non avrei mai potuto fare su un campo di calcio le “giocate” di Omar Sivori. Non le potevo fare io, dotato di un modesto talento. Ma neppure quelli molto più bravi di me, tra quanti conoscevo, avrebbero potuto.
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Nel corso degli anni, lavorando per qualche stagione come giornalista sportivo avrei constatato che neppure quelli che giocavano in serie A, “potevano”. Ogni tanto emergeva un calciatore che sembrava avere “qualche cosa” di Sivori. Rammento Vieri, il papà di Bobo Vieri che arrivò alla Juventus dalla Sampdoria in cambio di Romeo Benetti. Fece un gol da urlo a San Siro contro il Milan. Aveva una tecnica fuori dal comune, usava preferibilmente il destro, aveva movenze alla Sivori. Ma non era Sivori, non diventò mai Sivori. Poi un anno la Juventus mise sotto contratto Titti Savoldi, fratellino del bomber Beppe. Anche lui in allenamento sbalordiva i cronisti che seguivano la Juventus. Anche lui fu accostato con esagerazione a Sivori: “Titti” aveva grande tecnica. Ma la cosa finiva lì. Non riuscì mai a emergere, né alla Juventus, né più genericamente, a grande livello, nel calcio italiano. La verità è che l’unico – pur differente per velocità e interpretazione del gioco – accostabile a Sivori è stato Diego Armando Maradona. Talmente forte da vincere, con una nazionale argentina non particolarmente dotata, un campionato del mondo quasi da solo. Maradona fu l’evoluzione di Sivori, in un calcio diverso da quello di Sivori. Maradona è reputato, da moltissimi, il più grande: era più veloce di Sivori. Era meno “gigione” di Sivori. Badava sempre al sodo. Ma soprattutto Diego non era “carogna” sul campo quanto lo era viceversa Omar. Diego era pura gioia, quanto Omar era pura marajuoleria. Diego, magari, poteva
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sfornare una mano de dios per uccellare in modo gaglioffo al mondiale gli inglesi, salvo poi farsi “perdonare” per la ribalderia con un’azione e una rete diventate leggenda del calcio. Omar sovente esibiva i “tacchetti de dios” e proprio non ci teneva a farsi “perdonare”: le sue prodezze, (gol, dribbling e tunnel) erano diavolerie che restavano incise nella carne degli avversari e dei tifosi delle società rivali della Juventus, come ferite non suturabili. Diego fu amato da ogni tifoseria. Omar solo da quelle della Juventus e del Napoli: tutte le altre lo detestarono. Diego suscitava solo ammirazione. Omar suscitava ammirazione mista a risentimento. Diego era felice di essere amato da tutti. Omar era interessato solo all’amore dei tifosi bianconeri. Quanto a tutti gli altri, voleva soprattutto essere temuto. Disse una volta: «Se vuoi essere rispettato, devi essere temuto». La grandezza di un giocatore difficilmente può essere misurata. Ci sono millanta sfaccettature nella “grandezza” di un campione. Certo, a contare sono anche i risultati, i trofei, i palmares. Ma qualcuno può oggettivamente dire, a livello individuale, che Maradona fu davvero più “grande” di Pelé o di Di Stéfano? I risultati dicono che probabilmente lo fu. Aver portato lo scudetto in una realtà, affascinante e complicata come quella di Napoli, ha ingigantito e reso “immortali” la figura di Diego Armando Maradona e le sue gesta. Rendendolo imparagonabile (nella stagione in cui la Juventus ha scoperto il suo “piccolo Sivori” in Paolo Dybala), persino ai grandi fenomeni dell’ultimo ventennio, Cristiano Ronaldo e Messi. Vincere
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nel Real Madrid o nel Barcellona si presenta meno complicato che vincere a Napoli. Ma tutto è relativo. Tutto risente della individuale percezione. Personalmente reputo, ad esempio, Bruno Conti uno dei giocatori più incredibili mai visti su un campo di calcio. Campione del mondo con l’Italia al Mondiale di Spagna, difficilmente trovi Bruno Conti nella classifica dei primi cinquanta “più grandi” di ogni epoca. Ci trovi magari Baggio, Totti, Del Piero, Platini e Falcao, Zidane e Mattheus, Rivera, Puskás, Van Basten, Schiaffino, Meazza, Orsi, giustamente Ronaldo il Fenomeno. In quell’Italia guidata da Bearzot tutti rammentano i gol di Pablito Rossi, l’urlo da quadro di Munch di Tardelli, dopo la sua rete in finale, ma pochi rammentano cosa in quel mondiale riuscì a fare, di pazzesco, Bruno Conti. Che raccontano le cronache, avrebbe potuto avere un futuro negli States anche come giocatore di baseball. Anni fa durante una intervista chiesi allo scrittore Nick Horby quale fosse a suo parere il miglior giocatore del mondo. Con mio grande stupore disse: «Liam Brady». Ma non avrei dovuto stupirmi: Horby, tifosissimo dei Gunners, era innamorato di quell’irlandese, impeccabile gentiluomo che siglò a Catanzaro un rigore-scudetto per la Juventus, nonostante sapesse che, a giorni, sarebbe stato congedato e la sua maglia sarebbe passata sulle spalle di Michel Platini. Brady era il “genio della lampada” dell’Arsenal. Bravissimo ma certamente non superiore a George Best. Forse neppure a Bobby Charlton, Denis Law o a Steven Gerrard. Ma per Horby il migliore era (e sarebbe
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rimasto) Liam: l’archistar capace di trovare linee di passaggio impensabili. E di “cesellare” calcio in una Lega, la Premier dove la forza ha (quasi) sempre avuto il sopravvento sulla tecnica. Un’altra volta chiesi a un collega di Belgrado quale fosse stata a suo parere la migliore mezz’ala europea degli ultimi vent’anni. Senza esitazioni mi rispose: «Dragoslav Šekularac». Uno “blindato” (a lungo), nella Jugoslavia di quella stagione dal regime di Tito e del quale, peraltro, rammentavo di aver letto meraviglie proprio nella settimana della mia trasferta a Torino, per Juventus-Fiorentina. Il cronista del settimanale diretto da Gianni Reif lo descriveva come un funambolo capace di azioni mirabolanti. Confesso che allora interpretai quell’articolo come una esagerazione da redazione. Nessuno conosceva quel Šekularac, nessuno aveva mai visto, in Italia, “Šeki”. Ma nel 1998 durante una trasferta di lavoro per la Rai a Parigi, scovo, in una libreria poco distante dalla Senna, un titolo che mi intriga: La vie est un ballon rond delle Edition de Fallois, scritto da Vladimir Dimitrijević. Vladimir è un ex promettente centrocampista, fuggito negli anni Cinquanta dalla Jugoslavia. Approdato in Svizzera dove avrebbe fondato, a Losanna, la prestigiosa casa editrice L’Age d’Homme. Vladimir, nel suo delizioso libretto, scrive di Šekularac le stesse cose che io avevo percepito, fin dal primo impatto, di Sivori.
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Era un giocatore fantastico, sempre a litigare con gli arbitri e ad accusare i difensori che lo malmenavano […] per lui il pubblico interrompeva la partita gridando il suo nome […] e quello era il segnale che il torero scintillante di lustrini, un ruolo per cui era tagliato su misura, doveva ridicolizzare il cieco impeto del toro a undici teste che aveva di fronte1.
Non credevo a quello che stavo leggendo, rammentando che ragazzino, bevendomi l’articolo del magazine di Reif avevo pensato: “Ma guarda, cosa riescono a inventarsi: anche un Pelé jugoslavo”. Invece Vladimir, quel fenomeno di Šeki lo aveva visto. Anzi, come racconta, lo aveva affrontato nel cortile della sua scuola. Era di tre o quattro anni più giovane di noi. Nonostante l’età non esitò a gettarsi nel bel mezzo della partita che stavamo giocando. Ed ecco che sotto ai nostri occhi accade un miracolo: ci sfida, ci provoca, gioca come un gattino che stuzzica la palla, evidentemente felice. E noi, attoniti e stupefatti, scoprimmo colui che sarebbe diventato il grande Dragoslav Šekularac2.
Avrei scoperto tutto questo con il trascorrere degli anni. L’esperienza mi avrebbe portato lontano, consigliandomi Vladimir Dinitrijević, La vita è un pallone rotondo, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2000. 1
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prudenza nei giudizi. Sempre tuttavia “sedotto” da quanto avevo visto e vissuto da ragazzo. Non scordi mai il primo amore. E se a volte ti trovi a pensare, dopo infiniti inverni che adesso “lei” è probabilmente nonna, con la faccia piena di rughe, la rammenti, comunque bellissima: la tua prima emozione del cuore. La sensazione di onnipotenza che dava Omar Sivori è indescrivibile a chi non l’abbia visto dal vivo nelle sue giornate di grazia. Ti attraversava l’idea che i compagni a lui si affidassero come a un messia. Omar era il verbo. Era un cammino di fede da percorrere. Sottostando (magari a malincuore) anche alle sue bizze e ai suoi eccessi. L’ho capito con il tempo. Omar Sivori “fornicava” con la palla. Ci flirtava, la vellicava, la possedeva. La palla era “sua”. Un’amante che non voleva condividere con i compagni: figuriamoci con gli avversari. L’amore di Omar per la palla era esigente e passionale. Della palla, Omar, era gelosissimo. Per amore della palla sfidava l’impenetrabilità dei corpi “passando” in dribbling, non si sa come, tra gli avversari che lo braccavano. Arrivando con quel suo fatato piede sinistro dal nulla su ogni cross. Su ogni azione “sporca” in mezzo all’area avversaria. Irridendo i portieri con traiettorie inimmaginabili. Fare un’azione “alla Sivori” era come pensare di poter “limonare” con Kim Novak, sogno erotico, in quella stagione, di noi sbarbini: la sensuale bionda hollywoodiana di Picnic che i compagni più grandi, nell’istituto nel quale studiavo, erano soliti definire «prime seghe».
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Un’azione alla Sivori era un irrealizzabile sogno. Per quante volte in allenamento tu ci potessi provare, non ci riuscivi. Perché lui sembrava avere la colla su quel suo chirurgico sinistro. Ma non era colla: era talento. Era immenso Omar: come solo i grandi artisti sanno essere. Allora non riuscivo compiutamente a capire. Diventato adulto dopo aver letto L’incubo con aria condizionata di Henry Miller ho compreso. «Un artista è, in primo luogo, uno che ha una smisurata fiducia in se stesso.» Non credo di aver mai letto niente di più aderente, un vero vestito su misura, che descrivesse la personalità di Omar Sivori.
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Capitolo 2
O
mar Sivori arriva in Italia il 12 giugno 1957. Sbarca all’aeroporto di Malpensa accompagnato da Carlo Levi, che è il factotum della Juventus per le cose calcistiche a Buenos Aires. L’auto sulla quale salgono e che corre verso Torino si ferma al casello di Novara. Lì, un’altra vettura li attende. Dentro c’è Umberto Agnelli, il presidente della Juventus. «Sono due anni che ti aspettiamo» le prime parole di Umberto a Sivori. Risponde Omar, in uno spagnolo abbastanza comprensibile: «E io sono da cinque anni che aspetto la Juventus». Umberto ha 22 anni, Omar 21. Arrivano al Comunale. Tifosi, giornalisti, dirigenti: Omar indossa una elegante grisaglia, giacca e cravatta. Ha la fama di avere un sinistro micidiale. Ma anche di non usare il destro. Neppure per uscire di casa. C’è Gianni Agnelli al Comunale. Immancabilmente l’Avvocato, dopo alcuni palleggi di rito, lo stuzzica: «Ma il destro caro Sivori, proprio non lo adopera?» Omar capisce al volo che quell’uomo affascinante è uno abituato a “pesare” i suoi interlocutori dalle risposte che danno. È una sfida: e Sivori l’accetta. Si mette a palleggiare: quattro giri di campo toccandola solo con il sinistro, la palla che volteggia. Dalla scarpa, all’aria, alla scarpa. Attratta da una invisibile calamita. Quel sinistro è il violino di Paganini. È l’archetto del Diavolo.
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Completato il quarto giro, Omar si ferma davanti all’Avvocato e gli dice: «Le pare che il destro mi serva?» Gianni Agnelli è abituato a confrontarsi con grandi politici e grandi uomini di impresa. La Juventus è il gioiello della famiglia, ma il suo grande amore è la Fiat. Sorride e non commenta. Lo farà molto tempo dopo con una delle sue micidiali battute: «Omar Sivori è un vizio». Deve essere stata per Sivori quella, in fondo, una passeggiata. Racconterà un suo compagno di squadra che un paio di anni dopo, durante una visita di Umberto alla squadra, negli spogliatoi, Sivori fosse attratto dall’orologio che il dottore portava al polso. E che Umberto, avendo saputo dai veterani che Sivori era in grado di palleggiare ripetutamente con un’arancia lo sfidasse: «Se fai dieci palleggi senza farla cadere, ti regalo l’orologio». Racconterà, sempre quel suo compagno di squadra, che Sivori vinse la sfida al cinquantesimo palleggio. Ma solo perché ad arrestarla fu Agnelli. Era dai tempi di Renato Cesarini, la imbattibile Juve del Quinquennio anni Trenta, che a Torino aspettavano uno così. Uno capace di realizzare l’impossibile. Si favoleggia in quei giorni, che a Buenos Aires i tifosi del River Plate gli abbiano fatto edificare un busto in bronzo collocato in una delle piazze della metropoli argentina, dopo un incredibile gol realizzato al termine di un triplo sombrero. Sembra una fantasia. Una di quelle leggende metropolitane che i giornalisti alimentano, ingigantendole, mese dopo mese. Invece è tutto vero.
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È il 25 luglio del 1954: tre anni prima del suo arrivo in Italia. Il numero 10 del River Plate è il “mito” Labruna. Mentre è costretto fuori squadra per una malattia al fegato, il “dies” del River diventa Sivori. Ma Labruna guarisce. Rientra e rivuole la sua maglia. Renato Cesarini, che allena le giovanili e che Omar ha scoperto, assieme all’allenatore della prima squadra José Minella, lo convincono ad accettare la numero 8. Un mancino con la numero 8 è per quei tempi, in Argentina, una bestemmia. Ma non è che cambi molto. Lui non cambia il suo modo di giocare solo perché ha un numero che non gradisce sulla maglia. Mica si mette a fare la mezz’ala. Fa, infatti, quello che gli riesce meglio: il Sivori. Gli avversari sono quelli del Rosario, spazzati via per 4-0. Enrique Omar ne segna due e il secondo è un gol leggendario. Sintetizzo dalle cronache dell’epoca. Si fa dare la palla a centrocampo e punta l’area avversaria. Al limite gli si parano davanti Zof e Vairo che supera, con una giocata da biliardista, facendo passare il pallone sopra le loro teste con due successivi tocchi al volo. La palla vola verso la porta ma è ancora in aria: si butta Botazzi, il portiere, in uscita disperata. Ma Sivori è in una di quelle giornate nelle quali mago Merlino gli fa un baffo: terzo tocco al volo e palla nel sacco. Tre avversari beffati con altrettanti palleggi in sequenza. Un triplo sombrero, sfidando la legge di gravità. Era tutto vero. Era accaduto. Quell’omino dagli avi italiani, duro come i suoi antenati liguri e abruzzesi, con la faccia
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da indio, i calzettoni arrotolati alle caviglie, che affrontava gli avversari senza parastinchi, (un modo per dire loro: «Non potete toccarmi, e se per caso ci riuscite non mi fate male») sapeva inventare cose del genere. Le avrebbe fatte anche alla Juventus: alcune, persino più irridenti di quella sfornata contro il Rosario. Roberto Beccantini, firma del giornalismo sportivo, è un vecchio amico. Qualche tempo fa l’Ordine di categoria ci ha premiati con una medaglia per i 50 anni di professionismo. Anche lui ha visto Sivori quando da poco aveva smesso le brache corte. E così lo ricorda. Enrique Omar Sivori: molti della mia generazione hanno preso i “voti”, dopo averlo visto dire messa. È stato il mio primo numero dieci. Che la Juve fosse degli Agnelli non me ne poteva fregare di meno. Per me e di quelli della mia covata era di Sivori. Uno così era marcabile ma non omologabile. I suoi gol arrivavano da un ghigno d’artista, da un minuto di seduzione che ne cancellava ottantanove di sbadigli. Omar era un vizioso che ci viziava, renitente all’etichetta e al galateo, con quei tiri sospesi nell’aria e nell’area, parabole corte e provocanti come minigonne. A scuola e all’oratorio, mi piaceva sivoreggiare, un po’ carogna e un po’ chierichetto3.
Sarebbe limitativo costringere la figura di Omar Sivori dentro al recinto del prato verde. Su di lui sono stati 3 Nicola Calzaretta, I colori della vittoria, Goal Book Edizioni, Pisa 2014
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versati fiumi d’inchiostro. Per le sue gesta: dentro e fuori dal campo. Per i suoi capricci, il suo egoismo, la sua anarchia. I suoi contrasti con allenatori e compagni di squadra, Giampiero Boniperti in primis. Per i suoi vizi, il suo cattivo carattere, le sue reazioni in campo contro arbitri, avversari, allenatori rivali, costate innumerevoli giornate di squalifica. Per le notti trascorse a giocare a carte. I ritardi agli allenamenti. La pigrizia nello svolgere la parte atletica. Mario Riva lo invitò un sabato alla Rai al popolarissimo Il Musichiere, prima di un Roma-Juventus chiedendogli di far vedere come calciava. Enzo Battaglia lo convinse a interpretare se stesso in Idoli in controluce. Alberto Sordi lo volle per un cammeo ne Il presidente del Borgorosso Footbal Club. Salvatore Bruno scrisse il romanzo L’allenatore a lui dedicato: Omar Sivori e il suo calcio intenso e struggente. Marino Barreto junior cantava Sivori cha, cha cha, scritta da Giorgio Calabrese. I padri presero a chiamare Omar i propri figli. Come fece il mio amico d’infanzia, Costante, soprannominato a Venezia “El Coco Din Don” per il modo oscillante di camminare. E per il quale Omar Sivori era una religione. O come Tommasino, bancario di Alghero che, folgorato da giovane da El Gran Zurdo (il grande mancino) Omar chiamò, dopo il matrimonio, uno dei suoi ragazzi. Si poteva delirare per chi vinse il “Pallone d’Oro” quando quel premio era difficile da raggiungere. Si poteva stravedere per uno che beffava con il tunnel persino Pelé. Che dichiarava prima di un Derby (puntualmen-
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te poi realizzandolo il proposito): «Domenica farò un tunnel a Denis Law». Che era il fuoriclasse di “quel” Torino. E che lo sarebbe stato anche nel Manchester United di Best e Bobby Charlton. Che ti inceneriva con gli occhi se ti azzardavi a dire che il più grande argentino in circolazione, in quella stagione, era, per tutta la critica, Alfredo Di Stéfano. L’ego non gli mancava. Dopo essersi ritirato, una sera ospite de La Domenica Sportiva gli fu chiesto chi fosse stato tra Pelé e Maradona il più grande di tutti i tempi. Se la cavò con diplomazia suddividendo equamente i meriti e le qualità dei due fuoriclasse. Ma con un’espressione del viso che era un programma. Del tipo: “Avreste dovuto inserire anche un terzo nominativo”. Ha ragione Mario Sconcerti quando afferma che la fregatura, per Omar Sivori, fu quella di aver giocato in un’epoca nella quale la televisione si occupava episodicamente del calcio. Mancano agli archivi, le immagini di qualità e i replay delle sue impossibili giocate. Quando lavoravo alla Rai, per un dossier del Tg2 cercai inutilmente un gol da lui realizzato al Comunale di Bologna dopo aver scartato mezza squadra rossoblu, prima di depositare nella porta difesa da Santarelli. Nelle teche Rai, quella partita, c’era. Ma non quel gol. Mi spiegarono che a volte accadeva. Accadeva che l’operatore si perdesse un gol o una fantastica azione, perché avendo magari terminato la pellicola, trafficasse sulla telecamera, per cambiare la bobina proprio nel momento meno opportuno. Mai io c’ero, a quella partita: 26 marzo 1961. Bologna 2 Juventus 4.
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Due gol di Vinicio per i felsinei. Uno di Mora su rigore e tre di Sivori per la Juventus. C’ero, assieme ai miei amici Francesco, figlio di un avvocato veneziano, e Pino, figlio dell’allora questore di Venezia. Eravamo sempre assieme: ci univa la passione per la Vecchia Signora e per quello lì. Che per noi era “il piede sinistro di Dio”. Quel gol è la cosa più simile da me vista a quello marcato da Diego Maradona ai Mondiali contro l’Inghilterra con la maglia dell’Argentina. Lo ricordo, anche perché un secondo dopo aver assistito al prodigio, quel pubblico dal palato fine, si alzò in ogni settore dello stadio per applaudirlo. Gridandogli «mostro»: strisciando tra la esse e la ti come usa da quelle parti. Sivori rappresentava la porzione anarchica che alberga in ognuno di noi. Refrattaria agli schemi e all’autorità. Sivori sapeva realizzare l’impossibile, che ogni ragazzo che sgambetta al campetto sogna di poter fare. E che i tifosi (di ogni fede) immaginano possa, quando la squadra del cuore è sotto nel punteggio, accadere. Sivori era un supereroe in grado di scansare gli avversari come birilli. Come Alberto Tomba danzando tra i paletti di uno slalom speciale. A volte era Superman. Altre l’infallibile Tex Willer. Uno simile alla sposa di Quentin Tarantino. L’incredibile Uma Thurman avvolta in lattice giallo (Beatrix The Bride, detta Black Mamba), in grado di affettarne, con la katana e l’acciaio del maestro Hattori Hanzo, un centinaio in una volta sola. Omar Sivori era alto un 1,63 e pesava 59 chili. Ma aveva il baricentro basso, gambe fortissime: portargli via la palla
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quando la difendeva era impossibile. Gianni Brera lo sfotteva (mutuando i “culi d’Orta” di Ernesto Ragazzoni) per i calzettoni alla “cacaiola”. Per quei suoi numeri da “foca ammaestrata” che lo irritavano. «Quanto ti illudi Omar – scriveva Gioanbrerafucarlo – di essere Cè Cesarini che passava le notti al night e poi scendeva in campo coprendolo splendidamente da mezz’ala.» Gianni Brera lo avrebbe voluto interno, Sivori. A sfruttare quel suo magico sinistro per la squadra, per il collettivo, piuttosto che per se stesso. Ma Sivori era un’altra roba. Realizzatore? Anche. Solista? Limitativo. Virtuoso del pallone? Non rende l’idea. Sivori era una squadra intera, in uno solo, anzi in un solo piede. Poteva estraniarsi per un’ora e più dalla partita come se la cosa non lo riguardasse. Poteva limitarsi a sbeffeggiare con un tunnel o una irriverente veronica il giocatore più forte e illustre della squadra avversaria, per mandare il consueto messaggio: il più forte sono io. Defilandosi poi in modo irritante dal contesto del gioco. Salvo accendersi come un neon per un fallo di troppo, per un torto a suo avviso non sanzionato dall’arbitro, per una parola a sproposito di un avversario. O magari perché la folla lo stava coprendo di contumelie. Allora El Cabezón si trasformava in Lucifero, capace di ogni diavoleria. Uno, come ama rammentare Marcello Lippi, che non si faceva picchiare. Anzi: «Era più facile accadesse il contrario». Era vero. Era così. Spiegava con qualche malizia Giampiero Boniperti: «Il brasiliano se può ti dribbla e passa la palla in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno
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in faccia e poi ti manda a quel paese con un hijo de puta4». Mai fidarsi di quelli dalla faccia d’angelo. Raccontò un commentatore televisivo statunitense che John Stockton, stella Nba degli Utah Jazz, uno dei più grandi playmaker della storia del basket, un mormone con la faccia da bambino al quale avresti permesso di portare la tua figlia adolescente al ballo della scuola, era solito passare sui blocchi a colpi di cazzotto. Specie contro quelli più grossi di lui. E ovviamente, senza farsi beccare dagli arbitri. Stockton aveva la faccia di un angelo. Omar Sivori anche lui ce l’aveva. Un angelo con i tratti di un indio e la faccia sporca.
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Ivi.
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