La fotografia come si deve
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TAVOLA
DEI C O N TE N U T I
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il blues del fotografo pagina 5
tempi e diaframmi, per non parlare degli ISO pagina 9
progetto fotografico: voglio essere Angelina Jolie pagina 15
codici visivi: William Turner pagina 23
la pagina nera: acqua setosa e lunghe esposizioni pagina 27
di Owl Shay
Se scatto una foto decente divento un fotografo? Certo che sì, nel mare magnum della sottocultura da social network è sufficiente una fotografia a fuoco per diventare maestri indiscussi. Se nel paese dei ciechi l’orbo è re, c’è poco da stare allegri, la pratica e l’esercizio sono banditi.
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Perché sprecare tempo prezioso rubato al lavoro di ritocco di uno scatto mediocre, quando un pubblico di incompetenti, dispensatori di lodi, digerisce tutto. Il talento è sopravvalutato, talento e pratica: inutili, povero Mozart, il genio si è esercitato per anni, perché è nato in un'epoca in cui per emergere dovevi saper fare, non solo millantare. Il contrasto tra l’immagine che abbiamo di noi e l’immagine che scattiamo è evidente nell’inflazione di immagini che ci circonda. Il digitale ha creato una categoria di analfabeti visivi: gli stereotipi imperanti, le mode visive sono replicate all’infinito. Perché battere nuove strade quando la via maestra del tramonto o della gnocca sono fonte di enormi soddisfazioni? Replicare è meglio che creare, in fondo. Quale dimostrazione di abilità fotografica vi è nello scattare una foto a fuoco, esposta dignitosamente e non mossa? Nessuna ovviamente: il minimo sindacale per scattare è la conoscenza tecnica, si può migliorare la propria tecnica senza conoscere le basi?
Si può affrontare il tour de France senza saper andare in bici? Certo che no, ma ai fotografi nativi digitali tutto ciò non importa. I social network promuovono la gratificazione immediata, scattare e pubblicare, lo schermo dev’essere carico di colore, pacchiano, iper-definito, i soggetti immediatamente riconoscibili: un’isola, un monumento con una luna gigante o meglio una via lattea, occorre creare un impatto fintoemozionale, acritico sino alla sospensione dell’incredulità. Non voglio esaltare il passato, ma è evidente che i limiti tecnici della pellicola spingevano ad una maggiore attenzione ai soggetti, all’esposizione, alla luce, ora al contrario qualsiasi scatto masticato da Photoshop è salvabile con filtri e rielaborazioni che non hanno alcuno scopo creativo. I fotografi da social network cercano il consenso e lo inseguono con ogni mezzo:
il talento non segue la cultura imperante, la supera, spesso non è compreso, ma, è importante, il talento è sufficiente a sé stesso, non agli altri. Dubito che molti dei novelli Ansel Adams che inondano il web abbiano mai letto un testo che tratta di ottica, sappiano qualcosa sulla temperatura colore o perché gli ISO si chiamano così, la loro reflex super-accessoriata se ne frega di iperfocale o problemi simili, ha un microprocessore che ragiona al posto del fotografo; la domanda che mi pongo è quindi: chi scatta, la macchina o il fotografo? Nessun talento può sostituire la conoscenza del mezzo espressivo, il lavoro su sé stessi e la capacità critica nei confronti dei propri capolavori, chi s’accontenta del consenso facile e immediato è condannato alla mediocrità, non ci sono scorciatoie.
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Finalmente qualcosa di serio, un po’ di tecnica. Qualcuno di voi si sarà chiesto: che diavolo sono questi tempi e diaframmi, per non parlare degli ISO. Vi daremo tutte le risposte, speriamo siano esaurienti, altrimenti andate su internet, è pieno di tutorial, ah già, dimenticavo, voi non avete bisogno delle basi, sapete già tutto, leggete solo per curiosità, per vedere se scrivo qualche fesseria. Ok, partiamo.
Tempi e diaframmi sono inversamente proporzionali, ovvero all’aumentare dell’uno, l’altro diminuisce. Tutto qua? Spiegaci il perché, tu che sei bravo. La reciprocità, così è chiamata la corrispondenza inversa tra tempo e diaframma, fa sì che i valori di esposizione di una coppia tempo diaframma (ad esempio 1/125 f 16) siano pari ad un’altra a patto che all’aumentare del tempo, diminuisca il diaframma e viceversa, per cui:
t 1/125 f 16 è pari a 1/250 f 11
ovvero diminuisco il tempo e apro il diaframma, per il sensore la quantità di luce è identica (a condizione che l’esposizione sia corretta). I più acuti fra voi avranno notato che un tempo più breve non da gli stessi risultati di un tempo più lungo, siete perspicaci, in effetti è vero.
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La corrispondenza delle coppie tempo/diaframma in fondo è interessante dal punto di vista teorico. Difficilmente con le vostre reflex da x milioni di pixel perderete tempo a trovare la coppia tempo/diaframma equivalente, forse l’esposizione manuale non sapete neanche cos’è: è antiquariato. Il preambolo serve a spiegare una cosa banale: la fotocamera non ragiona come voi, sempre che ragioniate, elabora sulla base di parametri per i quali è stata programmata. Capire quali parametri utilizzare, perché spesso l’esposizione media è una media schifezza, perché il nero non è poi così nero, perché cercare il range di EV all’interno dell’inquadratura, senza parlare del sistema zonale che il grande Ansel Adams sapeva magistralmente eseguire, son tutte cose basilari per un fotografo, perlomeno per me. Che c’entrano gli ISO? Gli ISO rappresentano la sensibilità del sensore, la scala teorica è: 50, 100, 200, 400,800, etc… ogni passaggio raddoppia la sensibilità del sensore, tutto questo non è gratis, ovviamente, per aumentare la sensibilità viene amplificata, in questo modo viene anche amplificato il rumore con conseguente degradazione dell’immagine. Il risultato finale di un’immagine ripresa con alti ISO è, senza interventi di post produzione, piatto e spesso scarsamente contrastato, i neri non esistono e i bianchi sono bruciati: ne vale la pena? Gli alti ISO possono risultare utili in alcune circostanze: nella cronaca, dove è più importante l’immagine della qualità.
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Ma non possono essere un parametro di giudizio per la scelta di una fotocamera. Vi lascio alle vostre certezze: non c’è nulla che Photoshop non possa correggere, tranne la scheda smagnetizzata.
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Sagre paesane, feste patronali: narcisismo e culto della personalità ai tempi dei social. La più bella? Sono io Forse nessuno si è reso ancora conto di quando, quanto e come la bellezza sia diventata globale. E a chi dare la colpa. La solita compagnia di lestofanti? Photoshop, chirurgia estetica, mass media, cinema? Certo è che da quando siamo tutti connessi gli uni agli altri, la caratteristica locale non esiste più.
Eppure, la bellezza ha poco a che fare con l'adeguamento a un ideale. Anzi. Filosofi e direttori di casting sono d'accordo nella ricerca del particolare, quel tratto che differenzia dalla massa. Allora perché, una tale ansia di perfezione?
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Quando i selfie avranno preso il sopravvento, forse sarà già troppo tardi, per chiederselo. Un'immagine falsata, stucchevole, spesso inumana. Un'immagine che rispecchia la nostra epoca, direbbero i più polemici. Oppure no. Forse sintomo dell'insicurezza che viviamo minuto per minuto, del “sè” che decade, cedendo il posto al tempo. Tra qualche anno, almeno in foto saremo sempre belli, lisci, aitanti, immortali. Niente di nuovo, insomma. In definitiva, i programmi di foto-ritocco, non hanno cambiato il modo in cui vediamo noi stessi, ma quello in cui gli altri sono costretti a vederci. La tanto vituperata
globalizzazione, infatti, spesso si intrufola nei luoghi più impensati: la sagra locale, la processione patronale, in cui bellezze mozzafiato sfilano davanti al borgo d'origine. E in cui, la socialità legata ai riti religiosi, si mescola a quel “vorrei ma non posso”, dove tutto è sfoggio o spettacolo, anche nella piccola vetrina del paesello natìo. D'altronde, quale migliore occasione del red carpet tra vicini di casa e turisti annoiati, per scatenare fantasie e pericolosi gossip? Tanto per dimostrare che ancora una volta, tutto il mondo è paese, che ne sarebbe delle bellezze da copertina, qualora fossero relegate alla sagra paesana?
Secondo Doug Beaver, sviluppatore di Facebook solo nel 2008: 300 mila le immagini caricate sul social network al secondo 15 miliardi le foto processate al giorno, dai server 1,8 milioni i like che facebook contava in un minuto, nel mondo, nel 2013
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“Se c'è riuscita lei, ci riesco anch'io”. E forse, il punto, sta proprio in quell'io. In cui improvvisazione e narcisismo si fondono in una sola, letale immagine. Sempre social, sempre in prima fila.
Ma nel momento in cui le caratteristiche e le imperfezioni che rendono un volto “unico” si perdono, rimane l'imitazione, spesso goffa e grottesca, di chi si ritrova obbligata, invece, a fare della propria bellezza una professione.
IL PROGETTO FOTOGRAFICO:
Ci siamo divertiti nell'operazione satirica di affibbiare costumi appartenenti alla tradizione sarda, alle bellezze del cinema di ieri e di oggi. Siamo consapevoli, comunque, che l'odierno culto della personalità non si basi solo sulla bellezza. E che, proprio la più bella del reame, quasi sicuramente si nasconda in qualche festa patronale: intenta a imbellettarsi per le foto di rito, da pubblicare su qualche social in tutta fretta dopo che la sapiente mano di photoshop l'avrà resa un'altra. Ringraziamo di cuore i fotografi ai quali abbiamo preso in prestito gli scatti presenti sul web e da noi pubblicati con i volti di altre protagoniste. E li invitiamo a farsi vivi, così da poterne indicare il nome.
IMPARA L'ARTE. CODICI VISIVI _________________________________________________________________
Avete mai provato, in nave, quella sensazione di catastrofe imminente dovuta al maremoto, durante una bufera? Attimi che durano un'eternità , in cui a farla da padrone è il terrore di essere travolti dalle onde, dal freddo e dall'acqua. Bene, in quei momenti, William Turner dipingeva. Banchi di nebbia, tempeste di neve, onde impazzite sono i temi prevalenti di un periodo in cui, accademici e artisti si pongono la solita domanda: può l'uomo dominare la natura?
E ovviamente, la natura in questo caso non è solo l'insieme di fenomeni meteorologici cui possiamo assistere in una giornata ventosa, ma le passioni che imperversano nell'animo umano, decretandone un destino di successi e fallimenti. La sfida che il padre del romanticismo inglese perseguì per l'intera esistenza ha origini antiche. L'uomo, in tutti i suoi limiti, si confronta con la forza terrificante di ciò che è impossibile dominare. Il famoso “sublime”, tanto caro a Kant e Burke. Aggettivo che deriva proprio da quel confine invalicabile che separa gli esseri umani dalla manifestazione di assoluta potenza, davanti alla quale ognuno di noi si scontra con la propria piccolezza: il divino. Una sfida persa in partenza, quella di Turner e di tutti noi, se si pensa che anche oggi, nel 2016, nessuna tecnologia è arrivata a piegare la catastrofe naturale al volere dell'uomo. Ma la seconda sfida, quella con i suoi contemporanei, Turner la vince. Vuole dipingere con la luce. Come ci riesce? Innanzitutto osservando. Londinese di nascita, ha la possibilità di spostarsi per tutta l'isola. Il paesaggio della sua prima infanzia infatti, ha i toni cupi e minacciosi del Galles e dell'Inghilterra: pioggia e vento. Insoddisfatto dei primi risultati, che comunque gli fanno guadagnare una precoce acclamazione, si mette anche a copiare il meno noto paesaggista del 1600 francese, Claude Lorrain. Il secondo ingrediente è l'esercizio rigoroso ed estenuante, al quale l'artista si dedica giorno e notte. Poi viaggia. Stanco della tetraggine inglese, si dirige verso Francia e Italia, incuriosito dalla mitologia che avvolge il famoso stile di vita mediterraneo. Finalmente al caldo, siamo nel 1802. Il risultato: Turner porta a casa quelli che saranno i primi esempi di Astrattismo e diventa precursore dell'Impressionismo: bingo, salutate la capolista.
C ODICI VISIVI ______________________________________________ Un percorso già segnato, si potrebbe pensare, per uno studente entrato all'Accademia di Belle Arti inglese a soli 14 anni. Ma forse l'elemento che ebbe maggior peso nell'opera dell'autore, fu la capacità di adeguarsi al mercato del momento. La carriera del nostro infatti, si apre con i Lord inglesi che gli chiedono delle riproduzioni topografiche delle loro proprietà terriere. Turner è molto distante dallo stereotipo dell'artista maledetto, eroe ribelle di misere o nobili origini. Era il figlio di una famiglia piccoloborghese, dedicatosi alla pittura perché la pittura, in quel periodo, dava di che campare. Tutto qua.
Solo con la padronanza di luce, tela e colori ad olio o acquarello, Turner potè permettersi il lusso di innovare, nella sorpresa e a volte nel rifiuto generale, lasciando i suoi contemporanei nell'ombra. Accostiamo adesso l'immagine a tutta pagina, con l'acquarello di Turner della pagina precedente 'The Blue Rigi, Sunrise', del 1842 e conservato alla Tate Gallery di Londra. I paesaggi sono distanti fisicamente e colti in epoche diverse, ma li accomuna l'atmosfera rarefatta dalla nebbia, lo stupore davanti all'evento naturale. E' singolare notare come, in tanti fotografi contemporanei sia presente una visione pittorica spesso inconsapevole. Non sappiamo quali siano i fattori in gioco, in questo caso. Quelli culturali, forse, dato che buona parte delle arti visive del'900 europeo (si pensi al cinema), traggono spunto proprio dai maestri su tela. Oppure quelli psicologici: di fronte a elementi indomabili, in ogni periodo storico, a ogni latitudine, la reazione dello spettatore è la stessa? O forse, è il linguaggio artistico a giocare un ruolo unificante tra uomini di epoche e nazionalità diverse?
IL PEGGIO DEL PEGGIO CHE DOBBIAMO SOPPORTARE
Vi sono poche certezze nella vita dell'uomo. Una di queste, è che in un preciso istante nella storia, le pareti degli uffici alle quali appendere le foto decorativo-zen che ritraggono cascate e ciottoli ripresi con filtro ND e acqua setificata, termineranno. Nel senso che in tutto il pianeta non si troverà più, mai più, una parete disponibile.
Di grande impatto visivo e scarso sforzo tecnico, rende felici i “vorrei ma non posso” di mezzo mondo. Seriamente: quante volte l'abbiamo vista? Fisicamente, mai. In foto, invece... Ecco, abbiamo scovato uno dei soggetti più abusati del globo fotografico. Non c'è fotografo, infatti, che non si sia cimentato, almeno una volta nella vita, cavalletto alla mano, a riprendere quella che negli ultimi anni, è diventata a furor di popolo la rappresentazione fotografica del già visto.
IL PEGGIO DEL PEGGIO
foto: Timothy O'Sullivan Shoshone Falls, Idaho 1874
Il risultato è una marea imperversante di vapori acquei che solo la fantasia di chi scatta riesce ad attribuire a determinati luoghi. Prendiamo la Sardegna. In un posto in cui gli abitanti non sanno manco come si scrive la parola “nebbia”, e in cui il solleone regna 300 giorni l'anno, una foschìa vaporosa come quella che si vede nella maggiorparte delle foto di paesaggio degli ultimi anni, è impossibile. Primo fattore: realtà fotografica falsata. Però è come il sesso: già visto troppe volte, ma continua a piacere. Secondo fattore, quindi: ripetitività.
IL PEGGIO DEL PEGGIO
Se ne segnalano due varianti: il bianco e nero chic-malinconico, e il rosa-tramonto suggestivo. E poi vi chiedete perché il National Geographic non vi pubblichi. Mai. È semplice: gli editor di Nat Geo (così lo chiamiamo in gergo), ne hanno talmente gli occhi pieni di acqua setosa, che le questioni sono: 1.riuscite a fare acqua setosa su Marte (non è da tutti, serve l'attrezzatura “adatta”, ma l'acqua su Marte c'è, lo sappiamo da qualche mese) 2.riuscite a fare acqua setosa in situazioni di rischio meteorologico estremo (vulcano in eruzione, terremoto, tsunami). Soprattutto, il concetto, qual è? Io, fotografo da meno di un mese che si firma photographer, ho scoperto la quantità impressionante di esposizioni lunghe presenti sul web, e questo perché prima di oggi, giorno fatidico della scoperta, vivevo in una grotta. Quindi che faccio? La voglio anch'io, nel mio portfolio! E dacci dentro col cavalletto. Ma non basta. Voglio che tutti vedano le mie prodezze, e se ne possano riempire gli occhi. Filtriamo con gradienti su photoshop. Come sopra: abbiamo acqua setosa intellettual-chic in bianco e nero, e nebbia colorata nelle suggestive tonalità rosa-salmone. Così altri 150 milioni di utenti Flickr. Il risultato? L'acqua ripresa a 30 secondi di apertura diaframma è diventata un progetto fotografico mondiale. Il tutto è paradossale, dato che l'acqua setosa, è di per sé un soggetto vecchio quando la fotografia stessa. I primi fotografi paesaggisti infatti, che avevano a disposizione una lastra che prima di 4 minuti di apertura non si impressionava, con buona probabilità sognavano il giorno in cui la tecnologia dell'epoca, avrebbe loro consentito di riprendere l'acqua ferma.
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