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Brezza Barocca

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Prefazione

Prefazione

teriali, alla loro storia critica e alle stesse dichiarazioni d’intenti dei loro autori ha riservato per me delle sorprese inattese: la conferma, certo, del cosciente richiamo a quella che Roberto Longhi, già nel 1914, al di là di qualunque contestualizzazione storica, indicava come una «fastidiosa brezza barocca che dura da Bernini a Rosso»4; ma anche il riconoscimento di una sostanziale assenza di riferimenti precisi tanto all’indiscusso padre della scultura barocca, Gian Lorenzo Bernini appunto, quanto ad altri maestri del XVII secolo, quali Alessandro Algardi o Francesco Mochi. Sempre Longhi, nel 1913, a proposito della pittura futurista aveva scritto:

«il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento […] Al cerchio, succede l’ellisse […] Ora venendo dopo i cubisti […] i nuovi pittori si propongono di conservare la cristallizzazione cubistica della forma, e imprimerle moto […] Ne risulta […] la profonda legittimità della nuova tendenza, e la sua superiorità sul cubismo»5 .

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Del resto già Heinrich Wölfflin, nel 1908, aveva scritto: «Non si misconoscerà che il nostro tempo sia affine al Barocco italiano»6. Lo stesso Longhi, molti anni più tardi, nel 1949, avrebbe poi parlato suggestivamente di «patetico barocchetto spoletino» a proposito dell’opera dell’amato Leoncillo7, ma si trattava ancora una volta di un barocco come eterna categoria dello spirito e della visione.

È ben noto come uno degli elementi cardine del Ritorno all’ordine in Italia, già a partire dal secondo decennio del Novecento, sia stato il programmatico richiamo ai modelli della pittura del Tre e Quattrocento da parte di Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Felice Casorati e altri ancora. Nel caso di alcuni di loro, dallo stesso Carrà ad Arturo Martini, già da tempo la critica ha rinvenuto nelle loro opere rimandi puntuali anche alla scultura antica (dall’etrusca alla romana), così come a quella del Medio Evo e del Rinascimento (si pensi ad esempio agli studi di Flavio Fergonzi su Martini). Da quella stessa linea di ricerca si è inteso ripartire qui, con l’obiettivo, cioè, di stabilire se simili nessi, espliciti ed inequivocabili, fossero rintracciabili anche nelle opere dei tre artisti protagonisti di questa mostra. Non si poteva, allora, non ascoltare prima di tutto la voce stessa di tali protagonisti, a partire da Fontana, l’unico fra i tre ad aver avuto precise ambizioni teoriche, e non a caso, quindi, l’unico ad aver chiamato in causa esplicitamente il Barocco in più scritti pensati per una circolazione pubblica (e scalati in un ampio arco temporale). Sempre a proposito di Fontana, più che non per Melotti e Leoncillo, e inoltre in anni precedenti, la critica ha speso più volte l’aggettivo o il sostantivo “barocco”. Da un punto di vista storiografico, insomma, il peso di Fontana nella discussione intorno al tema del ritorno al Barocco è senz’altro preponderante.

4 longhi 1914 [1961], p. 133. 5 longhi 1913 [1961], p. 48. Ezio Raimondi, citando e discutendo Longhi, ha significativamente intitolato Il cerchio e l’ellisse un capitolo del suo suggestivo saggio Barocco moderno (Raimondi 2003, pp. 70-96), al quale si rimanda anche per una più ampia contestualizzazione del pensiero del giovane Longhi in rapporto a Wölfflin e alla Scuola di Vienna.

6 WölFFlin [1908], 1928, p. 129.

7 longhi 1949 [1984], p. 69. Nell’intervista sopra riportata del 1963, come si è visto, Fontana sembrava quasi prendere le distanze da quella qualifica di “barocco” che fin dagli anni Trenta veniva “impropriamente”, a suo dire, assegnata alla sua opera in ceramica. È vero, però, che lo stesso Fontana, nel 1946, sarebbe stato il principale ispiratore per i giovani allievi dell’Accademia di Buenos Aires autori del Manifesto Blanco, nel quale si affermava che «Lo spazio viene rappresentato con ampiezza ogni volta maggiore durante diversi secoli. I barocchi fanno un salto in questo senso: lo rappresentano con una grandiosità non ancora superata e aggiungono alla plastica la nozione del tempo. Le figure sembrano abbandonare il piano e continuare nello spazio i movimenti raffigurati»8. Cinque anni più tardi, nel Manifesto tecnico dello spazialismo, lo stesso Fontana scriveva, riprendendo quasi letteralmente quanto già scritto nel Manifesto Blanco:

«È necessaria la superazione della pittura, della scultura, della poesia. Si esige ora un›arte basata sulla necessità di questa nuova visione. Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresenta come grandiosità ancora non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati»9 .

Fontana era potentemente evocativo in questi brani, ma non indicava con precisione modelli e genealogie artistiche alle quali intendeva rifarsi. Certo è naturale, in rapporto proprio al concetto di Spazialismo, pensare a quello berniniano di Bel composto, con quella compenetrazione di architettura con pittura e scultura che Fontana intendeva riproporre in chiave contemporanea. Nel 1950 Guido Ballo avrebbe colto bene questo rapporto sottotraccia di filiazione tra il Bel composto e lo Spazialismo:

«E perché un anno fa, in una sua mostra al Naviglio, non esponeva ceramiche, ma creava un ambiente spaziale: le forme si richiamavano in una luminosità diffusa […] Poteva sembrare scenografia: era una grande ceramica, dove le forme libere si richiamavano tra loro in sordina, con un effetto suggestivo, e lo spazio diventava quasi palpabile, aderendo alle forme. Eravamo dunque alle estreme conseguenze del mito barocco»10 .

Dal punto di vista della storia critica in senso stretto, quel concetto era stato elaborato già nelle prime biografie berniniane del 1682 e 1713 (Filippo Baldinucci e Domenico Bernini). È curioso notare che la prima edizione moderna italiana della biografia di Baldinucci sarebbe stata pubblicata nel 1948, a cura di Sergio Samek Ludovici, per i tipi delle edizioni del Milione, facenti capo all’omonima galleria

8 La citazione è tratta dalla traduzione in italiano dello stesso Fontana, cfr. Fontana 1946 [1970], pp. 119-120; cfr. anche CRispolti 2002, p. XLI. 9 Fontana 1951 [1970]. 10 Per la citazione di Ballo si veda panCotto 1991, p. 25.

1. Narciso Tomé, Transparente, 1729-1732, Toledo, Cattedrale

milanese dove Fontana e Melotti avevano tenuto diverse mostre importanti (e quelle edizioni pubblicarono quasi esclusivamente cataloghi delle esposizioni ivi tenute)11 . Nel suo testo del 1951, peraltro, Fontana sembrerebbe avesse in mente soprattutto i gruppi plastici di traboccante energia, privi di qualunque argine architettonico-compositivo, diffusi in tutto il pieno Barocco europeo. Paradigma di un’intera stagione di grandi macchine sempre più complesse e spazialmente libere, era ovviamente la Cattedra di san Pietro di Bernini, ma vengono alla mente anche le sue infinite riprese, a partire dal Transparente della Cattedrale di Toledo [Fig. 1], espressione massima di quel Barocco ispanico poi diffusosi, soprattutto nella sua variante detta churrigueresca, anche nel Nuovo Mondo: non si dimentichi che Fontana era cresciuto a Buenos Aires, e doveva aver nel suo DNA visivo esempi di quel linguaggio. Non si possono, naturalmente, proporre delle vere e proprie fonti figurative sei settecentesche per il Fontana dello Spazialismo [Fig. 2], e d’altronde, come già detto, si capisce bene che per lo stesso scultore quel termine, “barocco” aveva assunto connotazioni ampie prive di ogni riferimento cronologico specifico. A maglie altrettanto larghe, in fondo, erano anche gli agganci al Barocco

11 BaldinuCCi 1682 [1948]; il tema del Bel composto sarebbe stato oggetto di uno studio monografico da parte di Irving Lavin solo nel 1980. 2. Lucio Fontana, Ambiente spaziale, 1949, Milano, Galleria del Naviglio

proposti per primi dagli autori di recensioni e interventi militanti sulle sculture di Fontana esposte in varie mostre milanesi degli anni Trenta, alcune di queste monografiche. È stato scritto che già nel dicembre del 1931, Raffaello Giolli, critico d’arte specialista soprattutto dell’architettura razionalista, avrebbe chiamato in causa il Barocco a proposito delle opere viste alla mostra tenutasi alla Galleria Il Milione

che si sarebbe chiusa nel gennaio successivo12; in realtà però l’autore, pur menzionando Michelangelo e Bernini, non menzionava mai il Barocco. Veniva allora sottolineata soprattutto la forte, drammatica matericità delle creazioni dello scultore, sentite come antitetiche rispetto alla compiutezza della forma classica; ed è altresì significativo che tra i pezzi esposti fossero alcune delle più antiche terrecotte policrome di Fontana13. Il poeta, giornalista e ingegnere Leonardo Sinisgalli nel 1934 dichiarava che scrivendo «di barocco a proposito di lui [Fontana] abbiamo inteso riferirci a quella che fu la crisi di un’epoca nel pieno possesso di un’espressione che non trovava più resistenze», senza cioè chiamare in causa artisti o opere precise. Era importante, per l’autore, sottolineare il carattere aperto, libero, delle recenti creazioni dell’artista: «Lo sforzo di Lucio Fontana è quello di rompere la forma chiusa della sua scultura. Fontana non sa immaginare una statua senza pensare al suo intorno d’aria, di luce»14. Nel 1940, poi, in un breve testo monografico dedicato alla grafica di Fontana, Duilio Morosini parlava del «barocco di certe ceramiche». Ma soprattutto nel 1944, al tempo in cui Fontana era rientrato a Buenos Aires, l’argentino Ricardo Ratti individuava un «barocco subcosciente de Fontana», suggerendo un confronto con El Greco: si trattava, insomma, quasi di una corrente carsica, e quel Barocco era più che mai uno stile sottratto alla storia, tanto che vi rientrava un visionario artista tardomanierista quale il Theotokopoulos15 . Lisa Ponti, in un articolo del 1948 apparso su «Domus», scriveva addirittura: «Ora Fontana lo si dice barocco: un po’ è barocco perché tale è la ceramica stessa, che è, in fondo, il barocco della scultura; un po’ per la tentazione di impreziosire cui porta il maneggiare una materia capace di tanti valori»16. In un articolo della stessa autrice pubblicato nel numero precedente di quella rivista, il grande artista veniva associato proprio agli altri due protagonisti di questa mostra (e ad un quarto, Agenore Fabbri), sotto il minimo comun denominatore del Barocco:

«e di questa cristi [la crisi della scultura] vediamo approfittare i nostri scultori-ceramisti, da Fontana capostipite, a Leoncillo, a Melotti, a Fabbri che irrompono con la loro “scultura a fuoco”, scultura con colore, volumi colorati. Questo intervento vivace della ceramica è, per certi aspetti, un po’ come una fioritura barocca, provvisoria, estrosa, in reazione sia alla scultura classica, esausta, sia a quel deserto che hanno creato appunto i primi esperimenti astratti»17 .

La Ponti, forse, associava al Barocco la ceramica in quanto policroma, e quindi intrinsecamente fusione di pittura e scultura, tema sul quale si ritornerà. E la vedeva anche in contrapposizione alla scultura del Novecento e a quella astratta (Melotti, però, non si sarebbe riconosciuto in quel giudizio sprezzante verso quest’ultima). Ed è bene rimarcare subito come si trattasse, in fondo, quasi di un fraintendimento: nes-

12 BRaun 2019, pp. 31 e 217, nota 11.

13 giolli 1931; CRispolti 2006 [2015], I, pp. 145146, catt. 31 SC 20-21; II, p. 1000. 14 sinisgalli 1934.

15 Si veda CRispolti 2002, p. XLII. 16 ponti 1948b, p. 37. 17 ponti 1948c, p. 35. 3. Massimiliano Soldani Benzi, Pietà, 1745 circa, Los Angeles, Los Angeles County Museum

sun grande maestro della plastica di età barocca, né di quella romana (da Bernini ad Algardi fino a Camillo Rusconi), né della maggior parte delle altre scuole italiane (dal veneziano Giusto Le Court al genovese Filippo Parodi) si cimentò mai con la ceramica policroma. Neanche nel contesto napoletano ci sono eccezioni significative in tal senso. E si deve fare un’ulteriore precisazione: la fabbrica di porcellane di Capodimonte, fondata nel 1743 dai Borbone, solo molto più tardi, ormai in età Neoclassica, produsse pezzi che per dimensioni o impegno potevano essere visti quasi come sculture, laddove l’unica manifattura italiana che già alla metà del XVIII secolo licenziava grandi invenzioni, anche policrome, era quella di Doccia, fondata

4. Antonio Maria Maragliano, San Pasquale Baylon in adorazione del Santissimo Sacramento (particolare), 1710 - 1713, Genova, Santissima Annunziata del Vastato 5. Scultore napoletano del XVIII secolo, Scarabattola Bordoni (particolare), Bologna, collezione privata

in Toscana da Carlo Ginori. Da questa, come noto, uscirono soprattutto porcellane bianche (a partire dalle monumentali copie dall’Antico del 1745 circa, ancora oggi al Museo di Sesto Fiorentino), ma anche eccezionali pezzi policromi come la Pietà da un modello di Massimiliano Soldani Benzi oggi al Los Angeles County Museum [Fig. 3]18. Si tratta, in questo caso, di un capolavoro ancora pienamente nello spirito del Barocco, anche per quella sfavillante policromia, ma si deve tenere presente che sono oggi noti pochissimi pezzi simili a questo, e sarebbe oltremodo improbabile ipotizzarne una conoscenza da parte di Fontana, Melotti o Leoncillo negli anni Trenta, o anche Cinquanta. Ammesso e non concesso che gli stessi avrebbero apprezzato una porcellana come questa (né, del resto, è possibile istituire confronti visivi pregnanti). Fontana nel 1939, a proposito del suo passaggio a Sèvres, sembrava prendere le distanze proprio dalla porcellana settecentesca: «Portai nei laboratori che avevano servito le tavole di tutti i Luigi di Francia un minotauro al guinzaglio che dava cornate ai cestini di porcellana e alle allegorie di biscotto».19

18 Fabbrica della bellezza 2017, pp. 31 e 126. 19 Campiglio 1994, p. 37. 6. Fausto Melotti, L’Angelo dell’Apocalisse, 1948, Milano, collezione privata

È vero, però, che la policromia è un elemento costante di tanta produzione plastica di età barocca: non certo di quella più celebre, romana, ma di quella in legno, dai capolavori di Antonio Maria Maragliano a Genova [Fig. 4], fino a quelli di Giacomo Colombo e Niccolò Fumo a Napoli. E, a Venezia, si devono almeno ricordare anche i telamoni in marmo bianco e nero del colossale Monumento Pesaro in Santa Maria Gloriosa dei Frari, manifesto del Barocco veneziano, opera celeberrima.20 Lo sguardo potrebbe forse allargarsi anche ad altre invenzioni notissime della scultura policroma, ovvero le affollate scene dei Sacri Monti lombardi, da Varallo ad Orta, realizzate in terracotta dal Cinquecento, che furono riscoperte criticamente a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, e per le quali peraltro sarebbe avventuroso istituire un rapporto con le sperimentazioni di Fontana e Melotti degli anni Trenta. Un discorso a parte, infine, meriterebbero i presepi napoletani del Settecento, anch’essi realizzati in terracotta policroma, che ebbero sempre grande notorietà, e che ebbero senz’altro un ruolo nell’imporre nell’immaginario collettivo l’idea di una scultura barocca costantemente a colori (e in più polimaterica) [Fig. 5]. Ma ancora una volta si deve escludere, per l’evidenza dello stile, che siffatti pezzi intercettassero la curiosità dei Nostri; possono, tutt’al più, rintracciarsi sottili affinità elettive [Fig. 6]. Uno dei primi, invece, a chiamare in causa il Barocco vero e proprio, ovvero quello stile nato nella scultura romana intorno al 1620, era Leonardo Borgese, il quale nel 1939, avvertiva «in qualche modo uno spirito berniniano» nell’opera di Fontana, e parlava anche di Umberto Boccioni21. È significativo che Giolli, Morosini e Borgese avessero tutti legami più o meno stretti con la carismatica figura di Edoardo Persico, che nel 1935 aveva scritto un testo su Fontana22. Il richiamo a Boccioni ci fa tornare alla mente la “brezza barocca” di Longhi. Quest’ultimo, infatti, aveva forgiato quell’espressione a proposito proprio di Boccioni, avviandone per primo una straordinaria celebrazione in chiave di movimento e energia dinamica23. Ed in tal senso si deve citare qui, subito, una lettera di Fontana di diversi anni dopo, datata 2 novembre 1949:

«Dall’uomo nero 1929 il problema di fare dell’arte istintivamente si chiarisce in me, né pittura né scultura, non linee delimitate nello spazio, ma continuità dello spazio nella materia. Perciò niente M. Rosso, ma piuttosto dinamismo plastico di Boccioni, perciò macchie assolute di colore sulle forme per abolire il senso della plasticità e della materia, niente di concluso in quel senso»24 .

Fontana, cioè, sosteneva di essersi rifatto già a partire dal 1929 a Boccioni, in chiave di «dinamismo plastico», e quindi, per dirla con Longhi, riallacciandosi a quella vena che aveva dietro anche la tradizione che andava da Bernini a Medardo

20 La scultura policroma di età barocca aveva già conosciuto fortuna e riprese nell’Ottocento, si veda BaCChi 2018, pp. 14-16.

21 CRispolti 2002, p. XLII. 22 peRsiCo 2016, pp. 11371141.

23 simonato 2018, pp. 246247.

24 Lucio Fontana 1999, p. 249. 7. Scipione, Il Cardinale Decano, 1930, Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale 8. Leoncillo Leonardi, Arpia, 1939, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

Rosso (laddove, invece, Fontana voleva negare quell’influenza di Rosso sulla propria opera che pare invece evidente, soprattutto, come si dirà, negli anni Trenta). Ma è con un articolo fondamentale di Enrico Crispolti, Carriera “barocca” di Fontana, uscito nel 1959 su «Il Verri», ovvero una rivista di cultura diretta dal filosofo Luciano Anceschi (a sua volta impegnato nel processo di rivalutazione del Barocco), che l’immagine di un Fontana barocco divenne moneta corrente25, anche perché un nucleo di Concetti spaziali del 1954-1957 (composizioni, quindi, astratte) sono stati successivamente catalogati dallo stesso Crispolti con il nome complessivo di Barocchi26. Nonostante tutto questo ampio dibattito svoltosi tra gli anni Trenta e Cinquanta, solo molto più tardi sono stati tentati dei confronti puntuali con fonti figurative seicentesche, senza peraltro che fossero mai argomentati filologicamente. Lo stesso Crispolti, infatti, illustrava un suo testo pubblicato nel già citato Lucio Fontana: metafore barocche (2002) accostando un modelletto (tra l’altro oggi ritenuto non autografo) relativo alla Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini con una ceramica del 1935-36 (Uva, foglia di vite e melone), proponendo una pura suggestione visiva,

25 L’articolo del 1959 venne ripubblicato già nel 1963, e più di recente nel 2004, in una raccolta di testi per la quale è stato proposto ancora una volta il titolo complessivo di Carriera “barocca” di Fontana, ad attestare il successo di questa formula critica, cfr. CRispolti 1959 [2004], pp. 24-30.

26 CRispolti 2006 [2015], I, pp. 318-339.

sulla base di un comune carattere bozzettistico dei due pezzi, senza cioè neanche menzionare tale terracotta seicentesca nel testo27 . L’etichetta di barocco è impiegata dalla critica del tempo anche per sottolineare la strenua opposizione di certe tendenze figurative al monumentalismo retorico auspicato dall’arte ufficiale del Ventennio. Alla piena espressione del Ritorno all’ordine in Italia, ovvero la pittura e la scultura severa del movimento Novecento, risponde polemicamente la materia ribollente di quella dei maestri della Scuola Romana, Mario Mafai e Scipione, ed in quest’ultimo, come noto, il richiamo alla Roma seicentesca di Piazza San Pietro e Piazza Navona, è esplicito nei suoi cardinali [Fig. 7]. Al candore dello Stadio dei Marmi e dell’Eur si oppone il “barocchetto” della borgata Garbatella [Figg. 9-10]. E così si comprende bene come Longhi, quando parlava di «dolente barocchetto spoletino» a proposito di Leoncillo, indicato come un «espressionista della scuola romana», avesse in mente tutto questo, quest’orizzonte culturale (e i risvolti politici ad esso sottesi), ma non specificatamente la scultura di Bernini e dei suoi contemporanei28. Anche per Leoncillo, però, sono stati individuati possibili prestiti dalla plastica del Seicento: la Madre romana uccisa dai tedeschi [Fig. 11] è stata avvicinata alla Ludovica Albertoni di Bernini, e l’Arpia [Fig. 8] alla «trance estatica della Santa Teresa»29. Anche per le figure femminili di Melotti è stata evocata la Santa Teresa, tanto per la loro «espressione ora aggraziata ora estatica»30 quanto per le pieghe dei panneggi, invocate persino per le scultore di Leoncillo già da Toti Scialoja nel 194631. Nessuno di questi confronti appare realmente pregnante, né dal punto di vista dell’invenzione, compositivo, né da quello squisitamente stilistico; sembrerebbero anzi confronti dettati da quella che, dopo tanti anni di evocati rapporti con il Barocco, era divenuta quasi una precisa necessità, quella cioè di dare concretezza storica ad un discorso critico che agli occhi degli stessi studiosi rischiava forse di trasformarsi in un topos generico. Non si vuole negare che in alcune di queste opere vi sia qualche rimando compositivo a grandi modelli secenteschi, come nella già citata Madre romana uccisa dai tedeschi di Leoncillo (1944), magari ispirata alla Santa Cecilia di Maderno32 o anche allo Stanislao Kostka di Legros (ma in fondo più vicina, forse, all’Anna Magnani crivellata dagli spari dei Nazisti di Roma città aperta di Roberto Rossellini, dell’anno successivo [Fig. 12]) o ancora nelle tre raffigurazioni di Dafne di Melotti (1933), dove il riferimento al marmo berniniano nel modo in cui le gambe della fanciulla si stanno trasformando in un tronco sembra innegabile33; d’altronde in quest’ultimo caso era lo stesso tema iconografico, così supremamente segnato dal capolavoro di Gian Lorenzo alla Galleria Borghese, ad imporre un dialogo con quel modello.

Insomma, si può parlare di un Novecento barocco per la scultura italiana a partire dagli anni Trenta? Certamente sì, bisogna solo stare attenti a distinguere

27 CRispolti 2002, pp. XLII- XLIII.

28 longhii 1949 [1984], pp. 68-69.

29 masCelloni 1990, p. 13. 30 CaRBoni 2003, p. 13. 31 Commellato 2003, p. 42; l’articolo comparso sulla rivista «Mercurio» è stato ripubblicato in Toti Scialoja 2015, p. 129. 32 FeRRaRi 1960, p. 8. 33 Fausto Melotti 2003, pp. 94-95, catt. 3-6. 9. Roma, Stadio dei Marmi

10. Roma, Quartiere della Garbatella

11. Leoncillo Leonardi, Madre romana uccisa dai tedeschi, 1944, collezione privata

quei rari prestiti dal repertorio figurativo del Sei-Settecento (anzi, quasi solo del Settecento, come vedremo), dal riconoscimento dell’appartenenza dei capolavori di Fontana, Leoncillo e Melotti ad una precisa categoria dello spirito, un eterno Barocco sempre risorgente dopo un’epoca di misura e canone, o in simultaneo contrasto con essa. In fondo anche il Barocco propriamente detto aveva fatto seguito al Rinascimento (secondo la contrapposizione classica istituita da Wöllflin); quello del XX secolo non può che essere letto in rapporto dialettico con il movimento Novecento (al pari di altre tendenze di fronda degli stessi anni, come quella del Chiarismo che recuperava in questa chiave la tradizione impressionista). Non vogliamo però soltanto connotare questo Barocco di Fontana e degli altri sulla falsariga di una fortunata formula di Frank Wedekind del 1917, nella quale, quasi provocatoriamente, si affermava: «il Kitsch è il gotico o il barocco del nostro tempo»34 . Quanto, piuttosto, riconoscere che è esistito un Barocco del Novecento, del quale i Nostri sono stati protagonisti. Nel suo brillante e spregiudicato Baroque baroque: the culture of excess (1994), che declina sontuosamente la folgorante formula di Wedekind, mescolando materiali della cultura alta a quelli della cultura

34 Kitsch, il testo dell’autore scritto per il teatro in cui si trova il passo riportato, sarebbe stato pubblicato, postumo, nel 1918, cfr. CalinesCu 1987, p. 225. 12. Anna Magnani nel film Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945

popolare, Stepen Calloway riproduce e accosta dipinti di Alessandro Magnasco (un pittore che ritroveremo più avanti) a fotogrammi dei balletti di Vaslav Nijinsky, fino a una infinità di foto di dive del cinema e di moda35. Tra queste riproduciamo un costruitissimo scatto di Cecil Beaton, apparso su «Vogue» nel 1948, memore dei dipinti ‘neobarocchi’ di Franz Xavier Winterhalter, che si accosta perfettamente alle sofisticate, eleganti donne in ceramica del Melotti degli anni intorno al 1950 [Figg. 13-15]. E la stessa assonanza si riconosce bene tra altre figure simili del ceramista milanese e terrecotte di donne in abito elegante modellate da un contemporaneo di Winterhalter, un vero e proprio Barocco dell’Ottocento, ovvero Jean-Baptiste Carpeaux [Figg. 16-17]. Si può insomma parlare di un Barocco metastorico che attraversa le epoche e i generi, a partire dal fregio dell’Altare di Pergamo per arrivare fino al Novecento (e magari, chissà, fino al XXI secolo), senza cercare di ancorarlo forzatamente a quello, propriamente detto, del Seicento. E però, allo stesso tempo, si può anche cercare di contestualizzare meglio le coordinate culturali in cui inscrivere il Barocco della ceramica italiana tra gli anni Trenta e Cinquanta.

35 CalloWay 1994, pp. 21, 40, 148.

13. Cecil Beaton, Abiti da sera di Charles James (da Vogue America 1948)

La nascita di questa fortunata ipotesi critica si può ben datare, come si è visto, proprio ai primi anni Trenta, in leggero anticipo sulla mostra che segnò l’esordio del Fontana ceramista, tenutasi nel 1938, sempre alla Galleria Il Milione. Esiste ovviamente una continuità precisa tra le opere dello scultore che suscitarono in Giolli e Sinisgalli quei giudizi e i capolavori in ceramica per i quali sempre più spesso, dopo, venne speso l’aggettivo barocco: si tratta del gusto spiccatamente bozzettistico tanto delle terrecotte dei primi anni Trenta quanto poi delle sculture in ceramica successive. Era quella, credo, la cifra stilistica più evidentemente in contrasto con certa retorica o magniloquenza della scultura ufficiale contemporanea, e a quello si riferiva il critico quando scriveva che «lo sforzo di Lucio Fontana è quello di rompere la forma chiusa della sua scultura. Fontana non sa immaginare una statua senza pensare al suo in-

14-15. Fausto Melotti, Senza titolo, 1950 circa, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

16. Jean-Baptiste Carpeaux, Impression de Amélie de Montfort, 18671869 circa, New York, Metropolitan Museum of Art 17. Fausto Melotti, Senza titolo, 1949 circa, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico 18. Adolfo Wildt, Vir temporis acti, 1914-1919, Milano, Galleria d’Arte Moderna 19. Lucio Fontana, El auriga, 1928, ubicazione ignota

torno d’aria, di luce». È notevole che un artista che si era formato con Adolfo Wildt [Figg. 18-19], straordinario virtuoso che licenziava marmi di accecante e perfetta levigatezza, passasse presto, prima di tutto grazie all’impiego della terracotta come medium espressivo, a quelle forme aperte, in costante dialogo con l’aria e la luce, attraverso le quali si recuperava l’eredità di Medardo Rosso, altro barocco sui generis [Figg. 20-21]. Questo mi sembra un nodo essenziale, e non credo sia un caso che proprio all’inizio del Novecento può farsi risalire la nascita dell’interesse per i bozzetti in terracotta di età barocca: non modelli e modelletti ben rifiniti come quelli, ad esempio, avidamente collezionati già nel Sei e Settecento (si pensi soprattutto alla collezione Farsetti di Venezia), ma i veri e propri bozzetti apprezzati proprio per la loro qualità, appunto, bozzettistica. Nel 1905 veniva acquistato a Roma, dai coniugi Brandgee di Brooklyn, il più importante nucleo di bozzetti di Bernini, provenienti verosimilmente dalla bottega del maestro, capolavori che certo sarebbero piaciuti ai Nostri [Figg. 21, 25]. Nel 1912 quelle stesse terrecotte sarebbero state riprodotte e discusse nel primo libro moderno americano dedicato a Bernini, a conferma evi-

20. Medardo Rosso, Conversazione in giardino, 1896-1897, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

dente del crescente interesse per quel tipo di manufatti36. Interesse culminato con il classico studio di Albert Erich Brinckmann, in ben quattro volumi, Barock-Bozzetti, del 1923-1925, nel quale veniva riprodotta una quantità impressionante di terrecotte, spesso appena abbozzate37. Il terreno per il pieno apprezzamento di questo tipo di linguaggio era stato evidentemente preparato anche dal successo internazionale del già citato Rosso. Fontana, in particolare, continuò a lungo la sua attività come modellatore, e ancora nella Donna che si spoglia del 1947, ad esempio, si espresse in quelle forme bozzettistiche che si prestano ad un confronto con i capolavori berniniani di due secoli prima [Figg. 22, 25, 27]. Il 1922, inoltre, è una data fondamentale per la storia della riscoperta critica del Barocco: in quell’anno si tenne una imponente mostra nelle sale di Palazzo Pitti dedicata alla pittura (con la completa esclusione della scultura) del Sei e Settecento. L’enorme risonanza dell’evento si accompagnò a quella vera e propria polemica che vide coinvolti, con scritti usciti sulle pagine di «Valori plastici», artisti e intellettuali quali Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Lionello Venturi e Emilio Cecchi; a quel dibattito si lega la nascita di una tendenza neoseicentesca riconoscibile nell’opera, ad esempio, di Felice Carena38. Come già notato da Crispolti, le opere degli anni Trenta di Fon-

36 noRton 1914.

37 BRinCkmann 1923-1925 (solo i primi 2 volumi erano dedicati alle terrecotte italiane; il terzo a quelle francesi e dei Paesi Bassi, il quarto alle tedesche).

38 mazzoCCa 1975; Novecento sedotto 2010. 21. Lucio Fontana, Donne sul sofà, 1934, Roma, collezione Argan

tana che sollecitarono e sollecitano un confronto con il Barocco, non avevano nulla a che fare con questa tendenza39, ma è chiaro come i tempi fossero maturi per un confronto, declinabile in tante forme diverse, con il linguaggio dell’arte dei secoli XVII e XVIII. Come detto, infatti, la mostra di Palazzo Pitti copriva un arco cronologico molto ampio, e vi erano rappresentati tanti pittori del Settecento veneto, quali Giambattista Tiepolo e Francesco Guardi; lo stile inquieto e guizzante di quest’ultimo non poteva non essere apprezzato da Fontana, e sarebbe stato anche alla base dell’evoluzione di un maestro quale Filippo de Pisis (per il quale il riferimento a Guardi è evidente [Figg. 28-29]), mentre Melotti, a sua volta, di Tiepolo avrebbe ripreso nelle ceramiche degli anni Cinquanta precise scelte cromatiche (il rosa Tiepolo, per l’appunto) [Figg. 3235]. Ma sull’immaginario visivo di Fontana, nello specifico, poté agire la straordinaria 39 CRispolti 2002, p. XLIII.

22. Gian Lorenzo Bernini, Angelo inginocchiato, 1672, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum 23. Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 circa, Possagno, Gipsoteca

fortuna conosciuta in quegli anni da un maestro che proprio allora veniva riscoperto, il genovese Alessandro Magnasco. Sebbene quasi mai citato a proposito della produzione barocca di Fontana, mi sembra che in realtà siano proprio i dipinti di questo maestro a presentare significative tangenze con le ceramiche dell’artista, a partire da quelle degli anni Trenta, ma anche con quelle successive [Figg. 36-37]. Magnasco, a partire dal 1920, fu oggetto di una fortuna, anche mercantile, davvero sorprendente, tanto che venne fondata una Magnasco-Society per promuovere la conoscenza dell’artista attraverso mostre monografiche. La prima di queste si tenne a Düsseldorf, proprio nel 1920, e in quello stesso anno un’altra se ne aprì a Milano, e fece subito un certo clamore se Carrà, nel contesto di quel dibattito di cui si è detto, la recensiva nel 1921. La rivalutazione critica di Magnasco si accompagnava a quella di El Greco, e i due pittori venivano accomunati sotto un medesimo denominatore, quali pittori visionari, scorretti, fortemente espressivi, dalle forme nervose e bozzettistiche: le cifre cioè caratterizzanti le terrecotte e poi le ceramiche di Fontana. Il successo di Magnasco, d’altronde, continuò negli anni successivi, con mostre tenute a Londra (1930) e Parigi

24. Lucio Fontana, Il duca Gian Galeazzo Visconti, 1952, Milano, Museo della Veneranda Fabbrica del Duomo

25. Gian Lorenzo Bernini, Santo con libro, 1650 circa, Roma, Museo di Roma 26. Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812 circa, Bassano del Grappa, Museo Civico

(1935).40 Non è un caso che già Scialoja nel 1946 chiamasse in causa Magnasco a proposito di Leoncillo41. Un’assonanza con il linguaggio franto, spigoloso e tormentato di quel pittore si riconosce in tanta produzione ceramica di Fontana, fino ancora agli anni Cinquanta, come dimostra ad esempio il Cristo del 1949 [Figg. 38-39], che per altri versi fa tornare in mente un capolavoro di un grande pittore del Seicento, Rembrandt, che pur non venendo in genere classificato come un esponente del Barocco, dipingeva con una libertà e una sensualità che sarebbero poi molto piaciute al Novecento.42 Quando partecipò al concorso indetto nel 1950 per la quinta porta in bronzo del Duomo di Milano (nel 1952 la competizione si restrinse a pochi concorrenti, tra cui Luciano Minguzzi, che si aggiudicò la vittoria ex aequo con Fontana, e poi realizzò l’opera) l’artista adottò un linguaggio nel quale si coglie bene l’eco della scultura tardobarocca settecentesca, soprattutto mitteleuropea. Viene in mente in particolare il

40 geddo 1996, pp. 41-42; mazzoCCa 1975, p. 875. 41 Ripubblicato in Toti Scialoja 2015, p. 128. 42 È utile ricordare qui come già Lorenzo Fiorucci (Barocco e Barocchetto 2018, p. 26) abbia suggerito quasi una filiazione diretta tra opere come il Taglio rosso di Leoncillo (1962), la Figura con carne di Francis Bacon (1954), il Bue squartato di Guttuso (1939) e infine l’altro Bue squartato di Chaim Soutine (1928): alla radice della fortuna di questo tema era, ovviamente, il Bue squartato di Rembrandt al Louvre. 27. Lucio Fontana, Donna che si spoglia, 1947, ubicazione ignota

28. Francesco Guardi, Il rio dei Mendicanti al convento dei Domenicani, 1760 circa, Bergamo, Accademia Carrara 29. Filippo de Pisis, Canale a Venezia, 1931, Firenze, Museo del Novecento

nome di Johann Georg Pinsel, scultore attivo nella seconda metà del XVIII secolo all’estremità orientale dell’Europa, nei territori dell’odierna Polonia e Ucraina, il cui linguaggio profondamente anticlassico, quasi neomanierista e neogotico allo stesso tempo, incontrava il gusto contemporaneo: egli venne infatti riscoperto nello stesso momento di Magnasco (o anche di El Greco), a partire dal primo Novecento [Figg. 40-41].43 E di fronte ai modelli in gesso approntati da Fontana per quell’importante concorso tornano in mente ancora i bozzetti di Bernini [Figg. 22, 24-25, 42-43]. D’altronde si deve anche ricordare come proprio in quel momento venisse avviato il recupero critico delle terrecotte di Antonio Canova [Figg. 23, 26], giudicate un’espressione più autentica del genio del maestro rispetto ai levigatissimi marmi, sentiti allora come fredde traduzioni d’accademia (naturalmente quelle posizioni sono state ampiamente superate dagli studi successivi, a partire già da quelli di Hugh Honour, che pure ha studiato così a fondo il processo creativo di Canova attraverso quelle stesse terrecotte). Magnasco, lo si è detto, era il pittore maggiormente rappresentativo del Settecento lombardo-genovese: Fontana poteva averlo visto e conosciuto attraverso quella mostra milanese ma anche nel corso dei suoi soggiorni in Liguria. Al 1935, infatti, risale l’inizio dell’attività dello scultore in veste di ceramista, quella cioè per cui più spesso sarebbe stato speso l’aggettivo barocco da parte della critica. In quell’anno 43 Pinsel 2012.

30. Filippo de Pisis, Natura morta marina, 1929, collezione privata 31. Lucio Fontana, Vongola e corallo, 1936, Milano, collezione privata

Fontana conobbe Tullio Mazzotti, detto d’Albisola, grande protagonista della rinascita di questa tecnica in chiave contemporanea: a tal proposito basti ricordare come nel 1938 egli avrebbe sollecitato Filippo Tommaso Marinetti a pubblicare, insieme a lui, il documento programmatico Ceramica e aeroceramica. Manifesto futurista. Si deve peraltro fare subito una precisazione: Fontana non amava essere definito come semplice ceramista. In un articolo pubblicato l’anno dopo la presentazione al pubblico delle sue prime opere di quella nuova stagione, avvenuta come si è detto nel 1938, l’artista scriveva: «Io sono uno scultore e non un ceramista. Non ho mai girato al tornio un piatto né dipinto un vaso. Ho in uggia merletti e sfumature […] Aborro i mistici della tecnica. Con la tecnica prodigiosa dei Sèvres e Copenaghen si arriva a soddisfare il gusto delle signore e dei collezionisti. È una specie d’estasi delle cose fragili e del mezzo tono. Io cerco altro».44 Se, come vedremo, in alcune sue opere Melotti si sarebbe avvicinato ad un sofisticato gusto decorativo apprezzando proprio quei mezzi toni così aborriti da Fontana (nel 1979 Alberto Arbasino avrebbe chiosato, da par suo, le ceramiche di Melotti così: «[…] vibrazione, sventolio, ala, palpebra, clavicembalo e “sorriso degli Dèi”»)45, quest’ultimo rimarcava sempre l’intima struttura plastica delle sue ceramiche. Concludendo: «I critici dicevano ceramica. Io dicevo scultura»46. La già citata recensione di Giolli del 1931 si intitolava

44 Campiglio 1994, p. 36. 45 La citazione è tratta da un articolo uscito su “La Repubblica” il 14 giugno 1979, ripubblicato solo parzialmente in aRBasino 2014, p. 322.

32. Giovan Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva, 1720 circa, collezione privata

sintomaticamente È scultura?. In quel caso, per la verità, il critico era stato spiazzato da terrecotte nelle quali Fontana aveva improvvisamente reciso ogni legame con il linguaggio del suo maestro Adolfo Wildt, mentre diversa era la questione posta dalle ceramiche della seconda metà di quel decennio: il suo inesausto, inquieto sperimentalismo aveva già portato più volte l’artista a forzare le regole e i canoni della scultura, in declinazioni profondamente diverse. Nel 1935, come si sa, sempre al Milione si era tenuta la prima mostra di scultura astratta in Italia, dove Fontana aveva esposto opere in ferro e in cemento armato, quasi sulla scia di Alexander Calder47, incredibilmente lontane da quelle in ceramica policroma di appena pochi anni successive: si passava, cioè, da un linguaggio geometrico e cerebrale ad uno che, proprio al suo confronto, non poteva non qualificarsi come barocco. E, sia detto per inciso, non si dimentichi che lo stesso Fontana avrebbe poi finito per abbandonare praticamente del tutto la plastica, per traslare nella pittura e nello spazio quella stessa ricchezza di ricerca: per lui la ceramica era sempre stata uno tra i tanti possibili mezzi espressivi, mai una tecnica con la quale perseguire fini decorativi. Ora, è vero che anche Arturo Martini non pensasse la ceramica come una ripresa di quei «merletti e sfumature» che Fontana aveva «in uggia», ma è anche vero che il sommo scultore trevigiano aveva preceduto Fontana (così come Melotti e Leoncillo) nelle sue sperimentazioni con quella tecnica (in seguito, alla metà degli anni Trenta, sembra che Melotti cuocesse nel proprio forno le ceramiche tanto di Fontana quanto di Martini);48 nelle opere esposte alla Galleria Pesaro di Milano nel 1927 [Fig. 44], però, Martini non aveva mai affrontato la scala monumentale che da subito affascina tanto Fontana quanto gli altri. Nelle

46 Campiglio 1994, p. 37. 47 BRaun 2019, p. 34. 48 Campiglio 1994, p. 35. 33. Fausto Melotti, Senza titolo, 1951-1952 circa, Milano, collezione privata

34. Giovan Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva (particolare), 1720 circa, collezione privata 35. Fausto Melotti, Cartoccio, 1950 circa, Milano, collezione privata

36. Lucio Fontana, Seppia 1937, collezione privata

sue ceramiche Martini è scultore a tutto tondo, ma sempre «a passo ridotto», per dirla con Longhi, non persegue la stessa ambizione sottesa alle sue eccezionali terrecotte refrattarie, quasi il medium stesso gli suggerisse una finalità intimamente decorativa, si direbbe d’arredo, da interno borghese, di quei pezzi. Lo stesso Fontana, per la verità, aveva esplorato anche le potenzialità del formato piccolo, in quelle visionarie nature morte in ceramica che possono far tornare alla mente, semmai, i dipinti di de

37. Alessandro Magnasco, Sant’Antonio predica ai pesci, 1730-1740 circa, Pisa, Museo Civico

Pisis, proprio per quella qualità neosettecentesca di una pittura guizzante di improvvise accensioni cromatiche [Figg. 30-31]. Ed egli così le rievocava: «alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste, tutto un acquario pietrificato e lucente. La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore». È questa fascinazione per

38. Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Bue scuoiato, 1655, Parigi, Louvre

il colore e la lucentezza che il fuoco scatena ed esalta, oltre alla vocazione talvolta monumentale, a distinguere nettamente le ceramiche di Fontana da quelle di Martini, e a proiettare le prime verso il futuro, fino all’Informale. L’affermazione di Fontana nell’articolo del 1939, «Io sono uno scultore, e non un ceramista», si carica di un valore quasi profetico se letto in rapporto con quelle che saranno le incursioni nello stesso campo del gigante dell’arte del Novecento, Pablo Picasso. Molti anni dopo, infatti, precisamente nel 1948, Gio Ponti avrebbe pubblicato su «Domus» un articolo nel quale, dando conto di una visita di

39. Lucio Fontana, Cristo, 1949, Roma, collezione privata

una compagine di ceramisti italiani a Picasso, allora trasferitosi nel sud della Francia, a Vallauris, descriveva a caldo quella che era la recentissima fascinazione del maestro per la tecnica della ceramica, sottolineando proprio come in Italia, già da tempo alcuni scultori, primi fra tutti appunto Fontana e Leoncillo, avevano aperto la strada in tal senso. Nelle foto di apertura di quell’articolo comparivano Agenore Fabbri e Tullio d’Albisola, ma non lo stesso Fontana. Pochi anni dopo, nel 1950, Guido Ballo, dando voce a Fontana che conosceva bene, avrebbe polemizzato contro quello che era già divenuto un luogo comune, ovvero la convinzione che fosse stato il grande spagnolo a rivitalizzare per primo, nel Novecento, la tecnica della ceramica49. Alla fine dell’anno dopo, nel dicembre 1951, Fontana avrebbe peraltro scritto il testo introduttivo ad una mostra milanese proprio delle ceramiche di Picasso, definendosi egli stesso ceramista, con uno scarto notevole rispetto all’affermazione perentoria del 193950, e rievocando un precedente incontro con il grande spagnolo: «Ricordo con commozione la visita fatta a Pablo Picasso in compagnia di parecchi ceramisti italiani». Verrebbe automatico identificare quella visita con l’episodio immortalato nelle foto di “Domus” del 1948, ma rimane sorprendente l’assenza di Fontana da quelle foto. Ad ogni modo in quel testo del 1951 si leggeva: «Devo confessare che a ritroso io mi sentii di fronte a questa sua potenza, io ceramista, ancor più amante di quest’arte che mi ha impegnato fin da fanciullo»51. Picasso, da parte sua, forse non avrebbe mai sottoscritto in toto la precedente e celebre dichiarazione d’intenti («sono uno scultore e non un ceramista») dell’artista italo-argentino: egli, cioè, avrebbe proprio prodotto, servendosi della manifattura di Vallauris, vasi e piatti [Fig. 45], cioè quegli oggetti d’uso da sempre realizzati in ceramica. Se Fontana lottava strenuamente per sottrarre quasi quel medium alla sua tradizionale funzione, Picasso l’avrebbe esaltata in altra chiave, senza mai negarla. Si trattava di un nodo centrale per chiunque si accostasse alla ceramica. La posizione di Melotti, ad esempio, era un’altra ancora: in una intervista del 1984 poi pubblicata nel 1992 da Antonia Mulas, egli sosteneva, implicitamente, di aver abbracciato la ceramica proprio per sfruttarne le sue potenzialità decorative e funzionali, producendo cioè su larga scala vasi, piatti, o oggetti comunque di piccole dimensioni:

«Visto che la scultura non mi dava il pane, e poi non mi piaceva fare i debiti […] mi sono messo a fare delle ceramiche. Ho inventato una specie di ceramica che è piaciuta molto e che mi ha dato dei soldi, per cui ho potuto vivere tranquillo […] Dopo, a un certo momento, si sono accorti che anche come scultore non ero male e ho piantato la ceramica […] un poeta può fare delle bellissime pubblicità ma in fondo si vergogna di fare solo quello, e così mi vergognavo. Ma quando ho visto le ceramiche di Picasso

49 panCotto 1991, p. 25. 50 Fontana 2016, p. 24. 51 Fontana 1951, p. 24. 40. Johann Georg Pinsel, Sant’Anna, 1760 circa, Monaco, Bayerische Nationalmuseum 41. Lucio Fontana, Madonna, 1960, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana (la foto riproduce l’opera quando si trovava ancora a Cimiano presso il Centro di Istruzione Professionale)

42. Gian Lorenzo Bernini, Quattro personaggi della famiglia Cornaro, 1647-1649 circa, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum

ho pensato che non era il caso di vergognarmi perché le mie non erano più brutte delle sue!»52 .

Non è un caso che Melotti confrontasse le proprie ceramiche con quelle di Picasso [Fig. 46]: si trattava di pezzi che appartenevano in qualche modo allo stesso genere, laddove quelle di Fontana erano davvero un’altra cosa. Melotti, che fin dalla fine degli anni Venti aveva stretto un profondo e duraturo rapporto di amicizia con Fontana, condividendo con lui il primo maestro, Wildt, aveva cominciato a lavorare sistematicamente con la ceramica alla metà degli anni Quaranta. All’inizio di quell’esperienza si collocano una serie di piccole sculture, alcune delle quali non tanto diverse dai celebri Teatrini in terracotta; se ne ricorda qui uno in particolare, la Lettera a Fontana del 1944 [Fig. 48], nella quale l’artista pagava quasi un tributo di riconoscenza all’amico che per primo aveva cominciato a lavorare con quel medium (si ricordi che le carriere dei due artisti furono per tanti

52 mulas 1992, pp. 30-31. 43. Lucio Fontana, Tre Papi (modello per le porte del Duomo di Milano), 1952, Milano, Museo della Veneranda Fabbrica del Duomo

versi quasi parallele: sempre nel 1935, e sempre al Milione, anche Melotti aveva esposto le sue prime sculture astratte). Dello stesso anno, il 1944, è la Storia di Arlecchino [Fig. 47], e in entrambe quelle ceramiche mi sembra di sentire un’affinità con i dipinti surrealisti di Alberto Savinio (affinità che è possibile riconoscere anche con certe sculture giovanili di Leoncillo). D’altronde se si intende barocco in senso ampio, come a volte facevano i critici dell’epoca, ovvero come principio opposto al classico, si comprende bene come il linguaggio surrealista potesse essere ricondotto a quel minimo comune denominatore, e in questo senso credo che anche la pittura di Max Ernst, il quale aveva esposto al Milione nel 1931, possa aver influenzato il Melotti della Storia di Arlecchino. Del tutto diverse sarebbero state le ceramiche degli anni successivi, vasi, piatti, coppe o anche quei cartocci che erano sempre prima di tutto oggetti d’uso, che incontrarono quel gran favore commerciale rievocato tanti anni dopo dall’autore, il quale, lo si è visto, voleva prendere le distanze da un’attività che sosteneva di aver portato avanti solo per ragioni economiche. Già nel 1974, in un’intervista rilasciata ad Harper’s Bazar, aveva infatti dichiara-

to: «Io non amo molto la ceramica»53. A differenza di Fontana, insomma, Melotti sentiva una profonda distanza tra il mestiere di scultore e quello di ceramista: se il primo, affermando di essere uno scultore e non un ceramista, rivendicava a questo materiale uno status equiparabile a quello del marmo o del bronzo, il secondo non sarebbe mai arrivato a fare questo salto, anche perché, lo si è detto, egli aveva accettato, si può dire, il tradizionale ruolo della ceramica. E questo discorso rimane valido anche tenendo conto del fatto che lo stesso Fontana avrebbe prodotto piatti e oggetti decorativi, in particolare dagli anni Cinquanta, verso i quali esprimeva le proprie riserve Garibaldo Marussi, il quale recensendo una mostra dell’artista del 1950 (Milano, Il Milione) scrisse: «Le opere che Fontana oggi presenta sono quasi tutte dei piatti, dei grandi piatti, da appendere al muro, per ravvivare il tono di un ambiente […] son troppo carichi, talvolta troppo pastosi […] sovrabbondanza […] turgore […] tumefazione […] costituiscono il pericolo verso il quale corre Fontana oggi»54. È naturale concludere, alla luce di quanto detto fin qui, che Marussi trovava quel Fontana un po’ troppo barocco. In merito a questo nodo critico (ceramica come scultura versus ceramica di piatti e vasi) la posizione di Leoncillo era sostanzialmente la stessa di Fontana. Già nel 1947 Gio Ponti, in un articolo pubblicato in una rivista svizzera (in tedesco, inglese e francese), dedicato prima di tutto alle bellissime Cariatidi di una balaustra del 1945 circa, scriveva:

«Now, face to face with his powerful work we see how true this is. And we see that what might separate sculpture from ceramic and relegate the latter to the level of learned infancy and the standard of a vain decorative toy, has been left far behind»55 .

L’assioma di Leoncillo al quale Gio Ponti si riferiva qui, sarebbe stato citato di nuovo dallo stesso Gio Ponti nell’articolo sopra citato del 1948 relativo alla visita a Picasso a Vallauris: «La scultura senza colore non è scultura, è architettura»56. Il grande maestro del design italiano era stato colui che aveva lanciato sulla ribalta internazionale il nome di Leoncillo nel 1940 invitandolo alla Triennale di Milano dove egli vinse la medaglia d’oro per le arti applicate. Lo scultore spoletino aveva esordito nel 1939 come ceramista, e in quell’anno aveva modellato i busti raffiguranti Le quattro stagioni (Roma, Palazzo Merulana, Collezione Cerasi), in cui anche il tema iconografico rimandava a lontani precedenti seicenteschi, certamente visti attraverso la lente della scultura ottocentesca, a partire dal già citato Carpeaux [Figg. 49-50]: d’altronde Longhi, in quella «fastidiosa brezza barocca che dura da Bernini a Rosso» inseriva significativamente anche il nome del francese57 . Leoncillo, a differenza di Melotti, non avrebbe mai rinnegato quell’attività, alla quale anzi rimase fedele per tutta la sua carriera: Leoncillo non lavora mai né

53 CaRBoni 2003, p. 12. 54 panCotto 1991, pp. 2225.

55 ponti 1947, p. 217. 56 ponti 1948a p. 25. 57 longhi 1914 [1961], p. 133. 44. Arturo Martini, Presepio, 1926-1927, Genova, Galleria d’Arte Moderna

il marmo né il bronzo, e ben diversamente da Fontana, non vive un percorso che lo porta dalla scultura alla pittura (per non dire dello Spazialismo); egli è orgogliosamente uno scultore in ceramica. Questo non toglie che Leoncillo, proprio come Fontana, ma soprattutto Melotti, realizzasse oggetti d’uso, senza anzi fermarsi a piatti e vasi, ma producendo sorprendenti servizi di tazzine da caffè (alla pari dello stesso Melotti), quasi a rimarcare l’unicità di quei pezzi pensati in genere come oggetti seriali di poco valore. Ma si tratta di una parte in fondo minoritaria dell’opera di Leoncillo, e quindi per lui il discorso deve rimanere molto diverso rispetto a quello fatto per Melotti. Va da sé, è ovvio, che anche i già citati vasi e cartocci di quest’ultimo sono oggi caparbiamente (e giustamente) catalogati nelle monografie uno a uno, come pezzi unici (quali sono), quasi a contraddire le affermazioni dell’autore che non voleva riconoscersi in quella produzione sentita come più commerciale rispetto alle sculture astratte. Ora, per quanto riguarda Leoncillo, è stato prima di tutto Longhi ad associarlo al concetto di barocco, e quanto scritto dal grande studioso è stato in seguito ripetuto senza sostanziali aggiustamenti di tiro. E per lo storico di Alba Leoncillo non era barocco per le sue forme aperte, o per le potenzialità “spazialiste” delle sue terrecotte, raramente monumentali, quanto piuttosto per il suo contrapporsi tanto all’arte di regime, e cioè al Novecento, quanto per le accensioni cromatiche, quell’essere cioè la sua scultura, sempre una scultura-pittura. Ed è evidente che Leoncillo si potesse riconoscere in quel tipo di lettura. Con Leoncillo, però, si deve di nuovo affrontare la questione Picasso, ma questa volta in tutt’altra declinazione. Fin dalla seconda metà degli anni Quaranta le ceramiche di Leoncillo tradiscono una forte influenza della sintassi cubista, che in sé, evidentemente non è facilmente associabile alla categoria del barocco. Lo scultore non avrebbe mai rinnegato quel rapporto, rifiutando quasi l’esegesi di Longhi che tendeva a ridimensionarlo, almeno all’altezza cronologica del 1954, l’anno in cui pubblicò il suo breve ma pregnante saggio monografico sull’artista: «Già nel gruppo, o diciamo sagoma dei Minatori, è meno traccia del diverbio fra la sintassi di estrazione cubista e la riconoscibilità necessaria al soggetto dimesso. Leoncillo insiste a dire che ancora vi occhieggino i celebri Suonatori di Picasso; ma io non riesco a rammentarmene di fronte alla nuova umiltà dell’impegno umano […]»; anche a proposito del Bombardamento notturno del 1954 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) Longhi chiosava: «detto anche Guernichetta per il ricordo, ma puramente tematico, del celebre dipinto picassiano»58. Si noti, tra l’altro, come a dieci anni di distanza dalla Madre romana uccisa, Leoncillo continuasse ad affrontare soggetti legati al tema della guerra vista dalla parte delle vittime innocenti (sempre Longhi parlava di «una pietà intera che sa accollarsi e trascinare con sé la sua pena di spazio, di esistenza e di sciagura»): vivissimo era 58 longhi 1954 [1984], pp. 72, 74.

45. Pablo Picasso, Le quattro stagioni, 1950, Faenza, Museo Internazionale della Ceramica 46. Fausto Melotti, Vaso, 1950-1951, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

ancora l’impegno morale, etico di Leoncillo. Passando in rassegna tutta la produzione dell’artista, anche quella della stagione dell’informale, di per sé priva di un esplicito contenuto narrativo, rimane sempre costante questa temperatura; fanno forse eccezione le creazioni dei primissimi anni Quaranta, in particolare i Trofei [Figg. 54-55], qui in mostra accanto ai loro bozzetti, felicissime riletture delle panoplie barocche (memori, a loro volta, di quelle della Roma imperiale), per le quali Leoncillo sembra recuperasse motivi dell’immaginario di Gio Ponti, magari anche attraverso la lente del surrealista Savinio [Figg. 51-53]. Longhi, nel 1954, aveva sotto gli occhi un arco importante della produzione di Leoncillo, dai suoi esordi più espressionisti legati alla Scuola Romana di Scipione e Mafai, ma anche alla pittura di impegno civile di Renato Guttuso, fino alla svolta cubista che, pace Longhi, aveva segnato profondamente l’arte del maestro. Lo stesso Guttuso avrebbe recensito a caldo quel testo del 1954, discutendo, in un dialogo

47. Fausto Melotti, Storia di Arlecchino, 1944, Milano, collezione privata

a distanza con Longhi, del concetto di realismo nell’opera di Leoncillo59. Recentemente si è voluto sciogliere il senso delle parole del pittore romano, che si sarebbe permesso «di fare le bucce al Longhi, che secondo lui continuava a scambiare per realismo il populismo dei pitocchetti del Seicento»60, ma in realtà è difficile leggere nel testo dello storico di Alba quest’implicazione, e non sembra neanche che quella fosse l’interpretazione che ne aveva dato lo stesso Guttuso. Nella formula «dolente barocchetto spoletino» erano condensati vari spunti critici: l’avversione a un linguaggio trionfalista e anche la scelta di una posizione defilata, tra Umbertide e Spoleto, dell’artista, così come il rifiuto di cerebrali formule astratte. Ma sottilmente o sotterraneamente barocca sarebbe stata anche la scultura successiva di Leoncillo, quella oggi di maggiore successo, ovvero la fase informale. Per questa mi sembra straordi-

59 guttuso 2013, pp. 380384.

60 del puppo 2019, pp. 126127. 48. Fausto Melotti, Lettera a Fontana, 1944, collezione privata

nariamente calzante un passaggio di Massimo Carboni relativo, peraltro, a Melotti: «[…] quell’imperiosa presenza che potrebbe dirsi tra il Barocco e l’informale della materia associata al colore»61. Sebbene Leoncillo, formatosi a Roma e radicatosi in Umbria, occupi una posizione diversa rispetto al duo milanese Fontana-Melotti, i

61 CaRBone 2003, p. 12.

49. Jean-Baptiste Carpeaux, Busto di Amélie de Montfort, 1867-1869 circa, Parigi, Petit Palais

legami fra questi tre artisti furono senz’altro stretti. Lo confermano i rapporti di cui si è già detto con Gio Ponti, tanto di Leoncillo quanto di Fontana, e poi la simultanea presenza di Leoncillo e Fontana, con due vere e proprie personali, alla Biennale del 195462. L’ininterrotta attività di Leoncillo in veste di scultore-ceramista differenzia profondamente l’artista spoletino dai suoi colleghi, che in momenti diversi abban-

62 del puppo 2019, pp. 119126. 50. Leoncillo Leonardi, Autunno, 1939, Roma, Palazzo Merulana, Collezione Cerasi

donarono quella tecnica; Fontana, lo sappiamo bene, lo fece per seguire quel suo personalissimo e complesso percorso che, seppur spiazzante ad uno sguardo superficiale, si rivela invece, oggi, di una coerenza rara nel panorama del Novecento italiano. Melotti, da parte sua, esplicitò un’altra delle ragioni che avevano sempre reso conflittuale il suo rapporto con la ceramica:

«Per me la ceramica è un pasticcio. È una cosa anfibia e sotto sotto c’è sempre un piccolo imbroglio, perché non puoi mai sapere esattamente quello che fai. C’è un super-regista che è il fuoco, che ti monta sulle spalle e alla fine dirige lui le operazioni. Per quanto tu faccia alla fine una virgola ce la mette lui e questo ad un artista darà sempre fastidio. Almeno a me dà fastidio che ci sia qualcuno che mette le virgole a quello che dico o che scrivo»63 .

Melotti non ce ne voglia, ma proviamo anche noi a mettere qualche virgola a quanto egli aveva detto nel corso di quell’intervista del 1974. Fontana oggi è più noto internazionalmente soprattutto per gli ormai iconici Tagli e Buchi; Melotti voleva essere ricordato come scultore astratto: entrambi, secondo tempi e modi diversi, muovevano verso un linguaggio meno materico, più concettuale. La fondamentale, recente mostra monografica che il Metropolitan Museum di New York ha dedicato a Fontana nel 2019 ha reso giustizia a tutta l’arco della carriera di Fontana, compresa quindi la sua attività come scultore in ceramica. Se Melotti insisteva a sminuire, paradossalmente, capolavori incantevoli come le Figure femminili qui in mostra, era anche perché queste, accese da una fantasia capricciosa, dovevano apparirgli tanto più lontane da quel rigore geometrico che era l’altra faccia della sua personalità d’artista, sviluppata nella scultura astratta. Ed egli attribuiva al fuoco la responsabilità di un’accensione sfrenata (barocca?) antitetica a quella serietà che egli sentiva intrinseca alla sua ricerca d’astrattista della prima ora, più alta e seria (classica?). Quella stessa eterna dicotomia, ancora e sempre wölffliniana, tra barocco e classico, si legge anche facilmente, tra le righe, di un altro passo chiave di quel testo longhiano più volte citato:

«[…] provarsi a chiedere a questi altri [gli scultori italiani contemporanei] di che si tratti; e saranno i più presuntuosi non sensi: arrivare al ciottolo – volumi puri – senso del blocco – cubo – sfera – ovo – germe – ghiandola – monumento. Significativo che le risposte, salvo la diversa striatura terminologica, giungano quasi identiche da parti delle più varie accademie: il fumista Brancusi o Moore, l’astrattista di lusso, risponderanno, su per giù, come Dazzi o Messina»64 .

Questa stroncatura senza appello dell’astrattismo, nella quale potevano certo rientrare anche le opere alle quali Melotti teneva di più, serviva per introdurre l’apprezzamento per la scultura di Leoncillo: «non puri i volumi, ma investiti e grondanti di tono dall’interno e dall’esterno». Pur al netto di tutti i distinguo fatti fin qui, un’intima essenza barocca della scultura in ceramica di questi artisti mi sembra confermata, quasi avallata, da una semplice considerazione: ad apprezzarla in questa chiave era stato colui che, come pochi altri, ha contribuito a riscoprire e rivalutare il Baroc-

63 CaRBoni 2003, p. 12. 64 longhi 1949 [1984], p. 68. 51. Alberto Savinio, Monument, 1929, collezione privata

co. Pare verosimile, allora, che Longhi, grande estimatore del Leoncillo barocchetto, guardasse con maggior diffidenza al Leoncillo informale [Fig. 56]. Si spiegherebbe anche così l’esclusione dell’artista umbro dalla selezione degli scultori destinati a figurare nella serie dei Maestri della scultura per quanto riguarda il Novecento: quanto quella scelta fosse sorprendente lo si evince dal tono della lettera del 1968 con cui Francesco Arcangeli comunicava la notizia allo stesso Leoncillo, riportando

52. Giovanni Battista Piranesi, Trofeo di Ottaviano Augusto, 1753 53. Tomaso Buzzi (su progetto di Gio Ponti), Disegno del centro di un Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia, da eseguire in porcellana bianca e oro («Domus», I (1928), n. 11)

per esteso il testo di una missiva a lui indirizzata da Franco Russoli, condirettore della collana:

«Carissimo, ti mando il pezzo di Raimondi [Giuseppe] che spero non ti farà dispiacere. Inoltre Russoli mi scrive “Per Leoncillo – che ho visto a Venezia – credo anch’io che sia un artista che ha dato con piena dedizione poetica il suo ‘messaggio’ […] Per i ‘Maestri della Scultura’, Fabbri non avrà un fascicolo monografico, perché soltanto Rosso, Boccioni, Martini, Manzù, Marini sono entrati in lista, data la limitazione dei fascicoli. Però ci saranno numeri supplementari e compendiari, dove anche Leoncillo avrà la sua parte […]”. Vedi non c’è male del tutto […] tuo Momi»65 .

In quel volume «supplementare e compendiario», pubblicato l’anno dopo, sarebbe stata riprodotta una ceramica di Leoncillo raffigurante il celebre tema della

65 FioRuCCi 2019, p. 242. 54-55. Leoncillo Leonardi, Due Trofei, 1941, Milano, collezione privata

56. Leoncillo Leonardi, San Sebastiano, 1961, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico Madre romana fucilata dai tedeschi (1944), un’opera cioè particolarmente rappresentativa del Leoncillo più caro a Longhi: erano trascorsi quasi quindici anni dalla svolta in senso Informale dell’artista, che in ossequio alle idiosincrasie dello studioso d’Alba, veniva consegnato alla storia come un “dolente barocchetto”.

LE OPERE

Roberto Cobianchi

Lucio Fontana Vongola e corallo, 1936

Ceramica policroma, 17 x 31 x 23 cm

Provenienza Milano, Galleria del Milione Milano, collezione privata

«Fondi di mare, fondi d’anima: le ceramiche di Lucio Fontana conservano impresso il dramma di onde remote e quello di una mano viva; l’uomo e le acque vi hanno lasciato riflessi di colori a testimonianza della loro storia»1. Così l’architetto Ernesto Nathan Rogers apriva la sua recensione alla mostra delle ceramiche di Lucio Fontana tenutasi nell’aprile del 1938 alla Galleria del Milione di Milano2, riproducendo anche quest’opera con il titolo «Elementi marini». Intitolata «Moule et corail, gris et noir/Shell and Coral; gray with black reflections», la scultura figura invece nella monografia bilingue che Erich. E. Baumbach dedicò a Fontana, e che vide la luce a Milano nello stesso anno3. Come è stato osservato, fu proprio Baumbach a riconoscere alle ceramiche di Fontana «la stessa spinta innovatrice che fino ad allora era stata riconosciuta solamente alla sua opera scultorea e ai suoi disegni»4 . Vongola e corallo fu modellata e invetriata nella prima fase di sperimentale incontro tra Fontana e la ceramica, ad Albisola, a fianco dello straordinario «vasaro» futurista Tullio d’Albisola (Tullio Mazzotti) e “offerta alle fiamme” nei forni della Manifattura fondata dal padre di questi Giuseppe. Tullio d’Albisola e Fontana si erano conosciuti, come ricorda il primo, grazie al critico d’arte Edoardo Persico, prematuramente scomparso non ancora trentenne nel 1936, che deve avere suggerito anche l’idea di una collaborazione tra i due:

«Lucio Fontana mi è stato presentato da Edoardo Persico, proprio a Genova, sullo scalone di Palazzo Ducale durante la Mostra di Plastica murale nel ’34 […] Io accettai con entusiasmo l’idea d’una edizione ceramica di pezzi unici direttamente modellati dallo scultore dei cavalli matti. Ma Fontana non venne nei nostri forni che dopo la partenza del suo e mio grande amico, nel ’36. Da allora cento meravigliosi monotipi riflessati e a smalti preziosi portano la sua firma legata alle sigle semplici del vecchio vasaro d’Albisola, e altrettanti, in mirabili sculture greificate, con la famosa corona della Reale manifattura di Sèvres (1937)»5 .

Nell’estate e autunno del 1937, infatti, Fontata si era recato a lavorare presso la Manifattura di Sèvres, dove scoprì un nuovo materiale, il grès, con il quale modellerà

1 Rogers 1938 (l’articolo è ora riprodotto in Campiglio 2014, tavv. 5-9). L’opera è catalogata in Crispolti 2006 [2015], I, p. 165, n. 36 SC 6. 2 Principali esposizioni successive: Milano, Palazzo della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, La scultura colorata. Il colore del vero, 21 giugno - 6 settembre 2001; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, La natura della natura morta da Manet ai nostri giorni, 1 dicembre 2001 – 24 febbraio 2002; Genova, Palazzo Ducale, Fontana. Luce e colore, 22 ottobre 2008 - 15 febbraio 2009; Parigi, Galerie Karsten Greve, Lucio Fontana. Scultura/Sculpture, «Io sono uno scultore e non un ceramista», 31 marzo – 23 giugno 2012; New York, Metropolitan Museum of Art, Lucio Fontana: On the Threshold, 23 gennaio – 14 aprile 2019 e Bilbao, Guggenheim Museum, Lucio Fontana: En el umbral, 17 maggio–29 settembre 2019.

3 Baumbach 1938, p. 53 (la monografia è riprodotta in Campiglio 2014, tavv. 1065).

4 Pancotto 1991, pp. 13-53. 5 d’Albisola 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 68-74).

capolavori policromi quali il monumentale Torso Italico. Qualche anno più tardi, in una celebre dichiarazione programmatica del suo intendere la ceramica in quanto scultore e non ceramista, anche Fontana ricorderà i suoi inizi ad Albisola:

«Soltanto nel 1936 iniziai nella fabbrica Mazzotti di Albisola una vera e propria attività in questo campo [ceramica] con una cinquantina di pezzi: alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste, tutto un acquario pietrificato e lucente. La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore»6 .

La stupefacente qualità della cromia e delle iridescenze di Vongola e corallo, così come quella dei pezzi compagni del magico fondale marino di cui fa parte – quali Corallo e conchiglia nero e verde o Polipo e corallo – continua a sedurci come una sognante immersione «dans le Poème de la Mer, infusé d’astres, et lactescent, devorant les azures verts», da cui però emergiamo richiamati con prepotenza alla realtà dalla «maniera rude e antiaccademica con la quale la mano plasmò la terra»7; la mano priva di finzioni dello scultore Fontana che ha in «uggia merletti e sfumature»8 .

6 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 7576). Si veda inoltre Campiglio 1994.

7 Rogers 1938 (riprodotto in Campiglio 2014, tavv. 5-9). 8 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 75-76).

Lucio Fontana Cristo, 1949

Ceramica riflessata, 58 x 26.5 x 8.5 cm Firma e data sotto la base: L. F. 49

Provenienza Roma, collezione privata

Questo eccezionale Cristo in ceramica riflessata venne presentato da Lucio Fontana alla Biennale di Venezia del 1950, e contestualmente pubblicato nel catalogo dell’esposizione con quella stessa data1; in realtà il pezzo era stato realizzato l’anno precedente, come dimostra l’indicazione autografa apposta sotto la base2. All’importante appuntamento internazionale in laguna Fontana si era proposto con un gruppo di ceramiche, «piatteria e Cristi»3, la cui forza di «autentica scultura», anche a dispetto delle ripetute prese di posizione del suo autore – celeberrima quella del 1939: «io sono uno scultore e non un ceramista»4 – fu tuttavia messa in luce già da Attilio Podestà nel recensire la mostra:

«Dei tre nomi di punta [della scultura italiana della «generazione di mezzo»], Fontana, Mirko e Fazzini, solo il primo è presente alla Biennale ed è anche a se stesso presente, con pezzi di autentica scultura: malgrado il buon Fontana vada ripetendo che queste sue ceramiche sono fatte per gioco, essendo ormai morta la scultura, secondo il significato che alla parola si è fino ad oggi inteso dare»5 .

Dopo l’allontanamento dai forni di Albisola, a seguito del ritorno in Argentina nel 1940, dove all’attività artistica si era affiancata anche quella di docente, con il rientro in Italia nella primavera del 1947 Fontana ritorna immediatamente a plasmare, cuocere e smaltare nuove straordinarie opere ad Albissola Marina; più precisamente «Lo scultore abita a Pozzo Garitta (uno stupendo cortiletto in cui sorgevano secoli fa le prime fornaci di ceramica albisolesi), in uno stanzone arredato con gusto squisito»6: lo studio-abitazione che egli manterrà fino alla fine degli anni Cinquanta. Si tratta di un decennio cruciale in cui Fontana alterna soggetti figurativi come il nostro Cristo, certo più immediatamente accessibili al pubblico, ma non per questo di minor impegno per l’artista, con opere spazialiste, in una dicotomia di cui egli sente talvolta il peso: «se posso domani taglio la corda per Pozzo Garitta […] speriamo di sistemarci fino a settembre. Producendo tonnellate di ceramiche che in fondo rendono più dei buchi, che purtroppo io amo ancora tanto!!»7 . È poi dallo scorcio degli anni Quaranta che lo scultore si apre veramente alle po-

1 Biennale 1950, p. 175, tav. 49.

2 Oltre che nel catalogo delle Biennale, l’opera è riprodotta in podestà 1950, p. 123; CaiRola 1981, p. 205, Tav. XVII; CRispolti 2006 [2015], I, no. 49 SC 18, p. 218. Registrazione presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano con il numero 420/3.

3 Da una lettera di Fontana all’architetto Mario Bardini del 7 luglio 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138. Alla Biennale del 1950, infatti, Fontana espose, oltre la nostro Cristo, due Gran piatti con battaglia. 4 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 7576). Si veda inoltre Campiglio 1994, pp. 34-41. 5 podestà 1950, p. 123. 6 FaBiani 1961 (citato in panCotto 1991, p. 33). 7 Da una lettera di Fontana all’architetto Mario Bardini del 7 luglio 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138.

tenzialità espressive dei lustri e dei riflessi metallici a terzo fuoco, che aveva sì già occasionalmente utilizzato nei tardi anni Trenta, nell’iniziale produzione condotta nelle fornaci di Giuseppe Mazzotti (la MGA Mazzotti Giuseppe Albisola) – si vedano ad esempio la Vittoria, il Cervo o il Gallo –, ma che ora prende vigore grazie anche all’apporto tecnico altamente specializzato del cognato di Tullio d’Albisola, Giuseppe Baldantoni8 . Nel marzo del 1949, scrivendo allo scultore Pablo Edelstein, che gli era stato allievo all’Accademia di Altamira, la scuola che aveva fondato a Buenos Aires nel 1946, Fontana rivela anche il proprio interesse per questa tecnica e la soddisfazione per i risultati ottenuti: «E il suo forno di ceramica come va? […] fa ceramiche riflessate? Qui io ne ho fatte di meravigliose, le interessano?»9 E di queste ceramiche «meravigliose» fa parte il nostro Cristo. Sono proprio i riflessi a caratterizzare la superficie di molti capolavori, a partire dalla Via Crucis del 194710; quella Via Crucis-corallo11, come ebbe a definirla Gio Ponti, a cui il Cristo non solo si apparenta formalmente, ma si affianca come uno dei più precoci e intensi vertici di questa produzione, nascendo da una medesima tensione drammatica di forma-luce-colore: una forma brulicante e “barocca”, sconvolta da violacei bagliori che la percorrono inarrestabili, in cui il pallido corpo di Cristo, appeso alla concrescenza di una croce vestita a lutto, si materializza, e si scioglie al contempo, come un ectoplasma. Nel 1962, nell’introduzione al catalogo della mostra dedicata dalla galleria Pater di Milano alle ceramiche di Fontana, Marco Valsecchi ricorda con nostalgico piacere il maestro

«[…] al suo rientro in patria, ad Albisola, accanto ai forni di Tullio Mazzotti. Le dita agili a far prillare la creta umida, il pollice deciso a segnare le fosse, gli antri, anzi a dissodare la dura resistenza delle superfici: figure danzanti nella freschezza del corpo nudo, gladiatori combattenti, arlecchini vorticosi, e i crocefissi, che non so come si apparentavano a certi acquasantini barocchi che si tenevano a capo del letto: altaroli portatili, contorti e gonfi di volute per un trionfo dell’innocente imagerie domestica»12 .

Con la sua presenza e il suo lavoro ad Albisola, Fontana contribuì inoltre ad alimentare la vita culturale di una cittadina che in pochi anni divenne uno dei più propositivi centri artistici dell’Italia del Nord, frequentata abitualmente da molti altri artisti che si volevano confrontare con la ceramica, quali Aligi Sassu, Agenore Fabbri, Asger Jorn, Giuseppe Capogrossi. Non è un caso dunque che già il 18 ottobre del 1952 il consiglio comunale di Albissola Marina avesse deliberato il conferimento della cittadinanza onoraria allo «scultore Lucio Fontana»13 .

8 BoChiCChio 2018a, pp. 81-84.

9 Da una lettera di Fontana a Pablo Edelstein del 25 marzo 1949, in Lucio Fontana 1999, pp.107-110, a p. 108.

10 CRispolti 2007.

11 Campiglio 2005, p. 128. 12 ValseCChi 1962 (citato in panCotto 1991, p. 33). 13 BoChiCChio 2018b, p. 28 e nota 2 p. 58. Il Cristo non ha avuto precedenti passaggi di proprietà, rimanendo gelosamente custodito dalla famiglia del primo collezionista che lo acquistò all’esposizione veneziana del 1950. Come testimonia l’etichetta ancora incollata sotto la base, il Cristo era posto in vendita a Lire 300,000.

Lucio Fontana Corrida, 1950-55 circa

Ceramica policroma, 38 x 73 x 8 cm Firma in basso a sinistra: l. fontana

Provenienza Canada, collezione privata Collezione privata (courtesy Galleria dello Scudo, Verona)

Questa Corrida è esemplare della produzione ceramica più alta di Lucio Fontana negli anni Cinquanta, in una fase, tuttavia, in cui alle tematiche figurative cominciano ad aggiungersi le sperimentazioni spazialiste1. Il soggetto del rilievo, già amato da Picasso, fu, insieme a quello della battaglia, tra i prediletti anche da Fontana, che lo sviluppò soprattutto in gran piatti dai bordi che talvolta «si spampanano alle estremità come in tanti lobi di foglie o in tanti petali»2, come ebbe a descriverli, con un giudizio pieno di riserve, Garibaldo Marussi recensendo la mostra che la galleria milanese Il Milione dedicò nel 1950 alle ceramiche di Fontana; riserve critiche che tuttavia rimasero isolate, a fronte di un’accoglienza pressoché entusiastica e costante per questa produzione dell’artista. Un significativo esempio di confronto è il gran piatto Corrida di collezione privata con riflessi in oro a terzo fuoco, eseguito nel 1950 nella manifattura La Fenice di Albisola Capo3 . Nel formato rettangolare, fortemente orizzontale e privo di ogni richiamo funzionale, il rilievo si mette in dialogo con le iniziali trasposizioni tridimensionali dei Concetti spaziali, in cui l’argilla viene ripetutamente bucata o graffita4. Qui, diversamente, la materia malleabile viene rialzata nella cresta della plaza de toros, graffiata con guizzi nervosi per dar vita al matador – agile danzatore – e al toro e, qua e là, colpita da veloci “svirgolate”. Ma è la policromia a completare magistralmente queste forme così compendiarie, ad accenderle di un significato profondamente drammatico, che ci fa ritornare alla mente le parole di Death in the Aftrenoon (1932) di Ernest Hemingway: «Bullfighting is the only art in which the artist is in danger of death and in which the degree of brilliance in the performance is left to the fighter’s honour».

1 L’opera, registrata con il n. 1737/ 37 presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano, è stata esposta a New York, Andrea Rosen Gallery, Sterling Ruby / Lucio Fontana, 10 settembre – 22 ottobre 2011.

2 panCotto 1991, pp. 22-25. 3 Riprodotto in Lucio Fontana 2018, pp. 84-85. 4 Prossime alla nostra Corrida, per qualità stilistiche e formato, sono le due Corride comparse sul mercato in anni recenti: Finarte 906, Arte moderna e contemporanea, opere grafiche, disegni, dipinti, Milano 21 giugno 1994, lotto 292; Christie’s 2424, Arte moderna e contemporanea, Milano 26 maggio 2003, lotto 258.

Lucio Fontana Corrida, 1952

Bronzo in due parti, 80 x 133 cm Firma e data in basso a sinistra: l. Fontana/52

Provenienza Trivero, collezione privata Collezione privata

Al tema della corrida Lucio Fontana dedicò, nel corso degli anni Cinquanta, numerose ceramiche, principalmente piatti e alcune targhe, una delle quali è esposta in questa mostra. Questa Corrida, di scala quasi monumentale, è però eccezionale in quanto fusa in bronzo1 . Dopo le sculture funerarie degli anni Trenta, che hanno il loro vertice nel Redentore del Monumento Castellotti, e prima del ciclo spazialista delle Nature (1959-60), la trasmutazione in metallo della creta modellata è una “alchimia” davvero rara nell’opera dello scultore: fanno eccezione i Cavalli che seguono la vittoria del 19362 – bozzetto di presentazione per un gruppo colossale e celebrativo realizzato in gesso per il Salone della Vittoria alla VI Triennale di Milano –, e pochi altri esempi tra cui una Corrida in piombo colorato, risolta con grafismi di superficie, dal forte carattere di sperimentazione tecnica3; al contrario, il nostro bronzo mantiene tutta l’immediatezza della plastica più libera e virtuosistica di Fontana, e l’incresparsi frastagliato della materia è portato qui all’estremo: un pezzo si distacca per galleggiare libero nello spazio. La dispersione delle parti caratterizza talune ceramiche di questi anni, come l’elegantissima Madonna con il Bambino e angeli del 19564, composta da due elementi, per culminare a livello monumentale nell’altorilievo in refrattario dipinto e invetriato che decora la facciata della chiesa dell’Assunta ai Piani di Celle Ligure (1956-1958), nel quale Paolo Campiglio ha puntualmente riconosciuto «un episodio di scultura sacra analogo alle figurazioni eseguite sui piatti in ceramica, in una dimensione architettonica [… in cui] le figure […] prendono vita dal contrasto tra la materia dinamica e magmatica della scultura e la superficie piana della facciata»5 . Se anche la Corrida bronzea non può prescindere dalla parete di fondo, per prendere vita e rendere giustizia al dinamismo interno che la anima, la “scheggia” isolata è pura astrazione avulsa da ogni responsabilità narrativa, tuttavia indispensabile al compimento spaziale dell’opera.

1 CRispolti 2006 [2015], I, p. 298, n. 52 SC 17.

2 Si veda la scheda di Paolo Campiglio in Lucio Fontana 2017, p. 20. 3 CRispolti 2006 [2015], I, p. 298, n. 52 SC 19.

4 Asta Christie’s 324, Arte moderna e Contemporanea, Milano 27-28 maggio 2014, lotto 11. L’opera è registrata presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano con il n. 1900/250.

5 Campiglio 2017, p. 11.

Leoncillo Leonardi Sirena, 1939

Ceramica policroma, 62 x 25 x 23 cm Firma in basso a destra: Leoncillo

Provenienza Roma, collezione Amerigo Terenzi Roma, collezione Apolloni (courtesy Galleria del Laocoonte)

Con l’Arpia e l’Ermafrodito la Sirena1 compone uno straordinario gruppo noto come i Mostri, «tre fantasiosi capricci splendidamente cotti, policromati e invetriati»2, come ebbe a definirli Ercole Maselli, esposti nel 1940 alla Triennale di Milano, dove Leoncillo era stato invitato da Gio Ponti, e ancora nel 1943 a Roma – pochi mesi prima dell’occupazione nazista della città – alla Galleria dello Zodiaco, appena fondata dall’esuberante e bellissima Linda Chittaro3. Di questa mostra collettiva intitolata Giovani artisti italiani (Donnini, Leoncillo, Purificato, Scialoja, Turcato, Valenti, Vedova), il pittore Virgilio Guzzi colse all’istante non solo la bellezza e l’originalità dei pezzi di Leoncillo, ma anche la loro siderale distanza dalle qualità decorative connaturate alla ceramica:

«Con una mostra di giovanissimi si chiude quest’anno alla Galleria dello Zodiaco l’importante stagione artistica. Alcuni, come Scialoja, Purificato, Vedova, Valenti, erano già noti, altri come Leoncillo, Donnini e Turcato ci si scoprono oggi invece per la prima volta. Dei quali tre inediti occorre dire subito che il Leoncillo è quello che si rivela ai nostri occhi come un artista già fatto e originale. Queste sue ceramiche bisogna anzi senz’altro definirle magnifiche: e non certo solo per lo splendore raro degli smalti, ma per l’originalità della invenzione, la vitalità della deformazione espressionistica e barocca. E una mitologia che nelle mani di questo plasticatore e pittore umbro funziona benissimo; e fa pensare a un sentimento poetico che potrebb’essere l’equivalente di certi stati d’animo e fantasie di Scipione. La Sirena, e specialmente l’Arpia, dove quei rossi attingono una intensità sensuale fortissima, e quindi un valore lirico dei più rari, sono opere da non potersi certo giudicare come prodotti di arte decorativa. Fatto è che noi ci troviamo di fronte a un artista nuovo. Lo spiritoso (e patetico) ceramista è soprattutto un poeta che potrà riserbarci le più belle sorprese»4 .

Nel 1939, a pochi anni dal trasferimento a Roma che era avvenuto nel 1935, Leoncillo si era spostato a Umbertide, cuore della produzione ceramica umbra, con l’intenzione di perfezionarsi sul piano tecnico e utilizzare i forni della manifattura Rometti,

1 In generale su quest’opera si veda il commento critico di Enrico Mascelloni in Leoncillo 2018, pp. 40-45. 2 maselli 1943 (citato da appella 2002, p. 118). 3 Principali esposizioni successive: Spoleto, Chiostri di San Nicolò, Leoncillo. Esposizione antologica, 8 luglio – 8 settembre 1969; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Leoncillo 1915-1968, 19 settembre – 28 ottobre 1979; Roma, Galleria W. Apolloni – Spazio Babuino 136 – Galleria del Laocoonte, Leoncillo. Le Carte e le Ceramiche, 29 ottobre 2018 – 28 febbraio 2019.

4 guzzi 1943 (citato da appella 2002, p. 117)

dove dal 1929 al 1934 era stata direttore artistico Corrado Cagli; è in questi forni che vennero cotti anche i Mostri. La Sirena è un capolavoro che prende vita dalla naturale, eppure sofferta e sensuale, capacità dell’artista di modellare la creta con accenti fortemente espressivi, capaci di travalicare il rimando al mito, compagno della pressoché contemporanee – e pure straordinarie – esperienze di tanti altri protagonisti dell’avanguardia artistica romana degli anni Trenta, a cominciare da Cagli e Mirko Basaldella, per riallacciare fili sottili di un percorso che, come è stato precocemente e da più parti sottolineato, lega Medardo Rosso a Scipione5. E se i volumi della Sirena sono tutt’altro che puri, bensì «investiti e grondanti di tono dall’interno e dall’esterno»6 – per citare Roberto Longhi – , e lo sarebbero a prescindere dallo specifico tecnico, la sintesi colore-luce pertinente alla ceramica rende la figura palpitante e tragicamente viva. Appartenuta ad un influente esponente del PCI, nonché intellettuale di chiari orientamenti artistici quale fu Amerigo Terenzi – che subito dopo la liberazione di Roma nel 1944 fece parte del comitato organizzatore della mostra, voluta dal quotidiano l’Unità, L’arte contro la barbarie. Artisti romani contro l’oppressione nazi-fascista, a cui Leoncillo partecipò con le due versione della Madre romana uccisa dai tedeschi, che gli valsero il primo premio ex-aequo per la scultura – la Sirena è l’unico pezzo della «trilogia» a non figurare in un museo pubblico: l’Arpia, già nella collezione di Cesare Brandi, e l’Ermafrodito sono infatti conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

5 Per l’importanza della Scuola romana sull’opera giovanile di Leoncillo si veda Ruiz de inFante 2002. 6 Dalla lettera inviata da Roberto Longhi il 10 giugno 1949 a Corrado Del Conte in occasione della mostra di Leoncillo alla galleria Il Fiore di Firenze, e pubblicata successivamente in apertura della monografia del 1954 (longhi 1949 [1984], p. 68).

Leoncillo Leonardi Due Trofei (bozzetti), 1940

Ceramica policroma, cm 46 X 14 X 17 cadauno

Provenienza Roma, collezione Cipriano Efisio Oppo Roma, collezione privata

Queste due “creature leoncilliane” sono i bozzetti preparatori per i Trofei monumentali previsti come decorazione del Palazzo della Civiltà italiana all’E.U.R., una commissione giunta a Leoncillo sul finire del 1940 per il tramite di Cipriano Efisio Oppo che, in qualità di vice presidente dell’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, era coinvolto in prima persona anche nella scelta delle opere d’arte da collocare negli edifici dell’Esposizione universale programmata per il 1942 (E 42)1 . Eseguiti a Umbertide, dove Leoncillo viveva dal 1939, i bozzetti – a circa un terzo del vero – erano stati approvati già da nove mesi, stando alle parole dello scultore stesso che li ricorda in una sua lettera del Luglio 1941, nella quale lamenta con Oppo l’inspiegabile e reiterato rinvio della firma del contratto2. L’ambizioso progetto dell’E 42, vagheggiato fin dal 1935 con la candidatura di Roma a sede dell’Esposizione, aveva cominciato a vacillare dopo l’entrata in guerra dell’Italia, ma i sogni di gloria del neonato impero tardarono a svanire, e anche per Loncillo ci fu il tempo per siglare il contratto per i due Trofei, il 24 novembre 1941, e consegnare le opere finite3 . I bozzetti dei Trofei entrarono in possesso di Oppo, che custodiva anche altri capolavori della fase iniziale di Leoncillo, e dei quali si era certo “innamorato” quando li vide esposti, tra l’aprile e il giugno del 1940, alla VII Triennale di Milano: i quattro busti femminili raffiguranti Le stagioni (1939). Rimasti uniti nella loro vicenda collezionistica, i due bozzetti possono qui essere accostati per la prima volta alle opere finite, consentendoci di valutar appieno come la fantasia dello scultore avesse, sin dall’inizio e senza esitazioni, intrapreso una strada antiaccademica, fortemente immaginativa ed espressiva. Al tema ispirato alla gloria della Roma dei Cesari, sicuramente auspicato da Oppo, Leoncillo rispose infatti con quella libertà estrema, carica di ironia e ribellione, che solo la sua “scultura con colore” ha avuto e continua ad avere.

1 Principali esposizioni: Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Leoncillo 1915-1968, 19 settembre – 28 ottobre 1979; Verona, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti, Le scuole romane sviluppi e continuità 19271988, 9 aprile – 15 giugno 1988; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, Scultura e ceramica in Italia nel Novecento, 3 ottobre – 26 novembre 1989; Roma, Galleria Arco Farnese, Leoncillo mostra antologica, Roma, aprile 1990; Parigi, Pavillon des Arts, Ecole Romaine, 1925-1945, 24 ottobre 1997 – 25 gennaio 1998; Matera, Chiese rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci – Sasso Barisano, Leoncillo. Opere dal 1938 al 1968, 6 luglio - 30 settembre 2002.

2 Benzi 1986, p. 185 3 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 368.

Leoncillo Leonardi Due Trofei, 1941

Ceramica policroma e lustri, 130 x 36 x 36 cm Firma e data sulla base: Leoncillo ‘41

Provenienza Milano, collezione privata

Questa eccezionale coppia di Trofei, nata per fregiare l’interno di un edificio pubblico, il Palazzo della Civiltà italiana a Roma, è da annoverare per virtuosismo tecnico, qualità cromatiche e fantasia inventiva tra i capolavori di Leoncillo. Le due opere erano state richieste allo scultore – sul finire del 1940 – da un suo illustre ammiratore, un personaggio che seppe unire all’attività artistica di pittore, e a quella di critico militante, l’impegno politico come deputato e, soprattutto, l’infaticabile azione di promotore culturale in ruoli direttivi del Sindacato Nazionale Fascista delle Belle Arti: Cipriano Efisio Oppo. Dal 1936 Oppo fu inoltre fortemente impegnato, in qualità di vice presidente dell’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, nell’organizzazione dei concorsi artistici e delle iniziative correlate alla preparazione dell’Esposizione universale prevista per il 1942 (E 42). È in questo competitivo contesto che si profilò anche la commissione a Leoncillo dei Trofei destinati al più celebre degli edifici dell’E.U.R, quello finanziato dal senatore Giovanni Agnelli, sulle cui quattro identiche facciate campeggia in caratteri capitali la frase di Mussolini: «un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori»1 . Da Umbertide, dove si era ormai trasferito dal 1939 per lavorare avvalendosi dei forni della manifattura Ceramiche Rometti, il 2 aprile del 1941 Leoncillo manifesta al suo committente l’incapacità di portare a termine l’opera secondo il piano previsto, nonostante si trovasse già in una fase avanzata di lavorazione:

«Eccellenza, ho lavorato quaranta giorni ai due “Trofei”; sono ormai ultimati, pronti alla lavorazione ceramica, ma molti scrupoli proprio oggi mi prendono, mi impediscono di continuare il mio lavoro. Così grandi mi sembrano estranei alla mia particolare ispirazione, mi sembrano aver tradito la seduzione del tema. Perdonatemi è tutta colpa mia. Sento di farli più piccoli o riunire le invenzioni dei due in uno solo, intensissimo. Vi scrivo per chiedervi la vostra simpatia, per sapere che comunque attendete li mio lavoro purché bello. Questo siate certo. Farò una cosa bellissima. Per questo ora non posso andare avanti, perché non posso rinunciare a questa opera più bella che mi è accanto. Attendo con ansia una vostra risposta. Per il prezzo, che dovrà

1 Sulle vicende della decorazione interna del Palazzo, che oltre ai Trofei di Leoncillo doveva contenere altre opere mai realizzate (due balaustre in porfido con rilievi eseguite rispettivamente da Bruno Giuliarelli e Edgardo Mannucci, e una targa in marmo di Renato Rosatelli ), si veda la scheda di V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, pp. 368-370.

naturalmente mutare, non occorre alcun accordo, non mi interessa. Alla consegna starò assolutamente alle condizioni che il vostro giusto consiglio vorrà porre. Devotissimo Leoncillo Leonardi»2 .

La risposta di Oppo non lascia però margini di discussione: come da accordi preventivi i due Trofei dovevano essere di «metri 1.60 ciascuno»3 . Nonostante l’Italia fosse entrata in guerra ormai da più di un anno, quando l’11 luglio Leoncillo si rivolse nuovamente a Oppo con parole accorate, la commissione non era stata ritirata, sebbene ritardata da lungaggini che parevano allo scultore permeate di “promesse bugiarde”:

«Eccellenza […] son qui a Umbertide sfiduciato e stanco e con una povertà che non mi dà neppure la libertà necessaria a procurarmi i mezzi per eseguire le mie ceramiche. È del lavoro per l’E.U.R che volevo parlarle: Pregarla di farmi eseguire questo lavoro di cui pure sono stati accettati i bozzetti per i quali ho speso tempo e fatica. Nove mesi sono passati dall’accettazione, e il contratto mi è stato rimandato da un giorno all’altro, da una settimana all’altra, da un mese all’altro. Tante volte dietro invito dell’Ufficio statistico son venuto all’E.U.R. per definire le tante cose che furono definite; tante sollecitazioni feci e con ogni tono, e sempre mi fu risposto con promesse, ma tutte ugualmente bugiarde. Si che alla fine non mi resta nell’animo che la sensazione di essere stato continuamente burlato e quella della mia umiliazione e della mia impotenza ad ottenere ciò che mi è dovuto e che non mi viene mai contestato ma in effetti negato. Per quanto non riesca a spiegarmi il perché di tutto questo, sono tuttavia sicuro che Lei non ne sa nulla […] Ora non mi resta che la speranza che Lei voglia comprendermi e aiutarmi. Mi consola il pensiero della stima e dell’affetto che Lei mi ha tante volte dimostrato, in questo momento di debolezza e di esasperazione»4 .

Il contratto sarà approvato e reso esecutivo il 24 novembre 19415, ma il naufragio dell’E 42 decretò anche il temporaneo l’oblio dei due Trofei, che nel 1945 vennero riacquistati da Leoncillo stesso, che li presentò al pubblico romano alla Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi, l’esposizione che ebbe luogo nel marzo-aprile 1946 alla Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi. Visti insieme alla sua Balaustra di cariatidi 6 (una delle quali è presente in mostra), e alle opere degli altri artisti e artigiani che il poliedrico pittore e mosaicista Galassi aveva riunito a lavorare nello studio allestito in un’ala di Villa Poniatowsky a Roma7, anche i Trofei devono essersi rivelati per quello che erano veramente: non magniloquenti simboli di “gloria imperitura” bensì frutti maturi di un rinato e ironico “effimero barocco”, superbi complementi d’arredo degni di una moderna Versailles. Leoncillo credeva fortemente nel valore e nella bellezza di queste opere, a cui aveva

2 mazzaRella 1990, p. 14. 3 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 369. 4 Benzi 1986, p. 185. 5 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 368. 6 Si veda la scheda di una delle Cariatidi in questo catalogo.

7 Cassani 2012.

dedicato una lunga gestazione, al punto da scegliere di completarle non a Umbertide, bensì a Gualdo Tadino presso la Società Ceramica Luca della Robbia, per arricchirne il già ricco cromatismo di sontuosi lustri d’oro a terzo fuoco da lui mai impiegati in precedenza; al netto delle insoddisfazioni espresse nella lettera a Oppo dell’aprile 1941, ne risultò senza dubbio «una cosa bellissima», al punto che qualche anno più tardi lo scultore ritornò sul tema, modellando e invetriando un nuovo Trofeo monumentale per la decorazione di un bar a Roma, pubblicato nel 1948 da Gio Ponti sulla rivista Domus. Con il consueto acume critico Ponti seppe cogliere la natura personalissima anche di questo lavoro:

«La decorazione di un bar a Roma è stata l’occasione di questo gran “Trofeo” di Leoncillo, vera creatura leoncilliana, esempio di quella “scultura con colore” che egli preconizza, e dalla idea fantastica che gli è prediletta – quella degli alberi vestiti di armature e drappi, fatti quasi personaggi drammatici. L’idea persiste anche nei pannelli (un po’ infiltrata – vedi la testa scultorea e la colonna – di quel tanto di fantasia dechirichiana che appartiene ormai più alla nostra epoca che a de Chirico stesso)»8 .

Tolta la «fantasia dechirichiana», queste parole possono puntualmente essere riferite anche ai Trofei per l’E 42, e quell’«idea fantastica […] degli alberi vestiti di armature e drappi» deve essere piaciuta enormemente all’architetto – deve anzi averlo lusingato – visto che per il Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia, commissionato dal governo italiano nel 1929 e realizzato in porcellana bianca e oro dalla manifattura Richard Ginori, egli stesso aveva per primo voluto un Trofeo (disegnato da Tomaso Buzzi) in forma di tronco rivestito di lorica, elmo, scudo e armi; un pezzo squisito di cui Leoncillo deve essersi ricordato con affetto, vista la reciproca stima amichevole che legava i due9. Non sembra dunque casuale che Leoncillo abbia poggiato, come già aveva fatto Buzzi, i suoi due Trofei su una base sinuosamente sagomata, assente nei bozzetti, a cui poi “appiccica” un cartiglio ansato con la scritta «Trofeo», “musealizzando” ironicamente le pencolanti panoplie come si farebbe con un pezzo da collezione. Veramente con questi Trofei «Leoncillo crea degli oggetti tesi a insinuare il dubbio della collocazione»10, e con il dubbio un inatteso e seducente senso di spaesamento.

8 ponti 1948, p. 27. Su questo Trofeo si veda la scheda di Enrico Mascelloni in Leoncillo 1990, p. 51. 9 Il disegno preparatorio di Buzzi per il Trofeo è qui riprodotto nel saggio di Andrea Bacchi. Sul rapporto tra Ponti e Leoncillo si veda FioRuCCi 2019, pp. 225-228. 10 mazzaRella 1990, p. 15.

Leoncillo Leonardi Cariatide bifronte, 1945 circa.

Ceramica policroma a terzo fuoco, 82 x 18 x 18 cm

Provenienza Roma, collezione Umberto Carpi de Resmini Roma, Galleria Carlo Virgilio & C.

Questa Cariatide bifronte fa parte di una serie di elementi per una balaustra, presentata da Leoncillo alla Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi. L’esposizione, tenutasi a Roma nel marzo-aprile 1946 alla Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi, e accolta calorosamente da Gio Ponti1, mostrava i lavori realizzati dagli artisti e dagli artigiani che il poliedrico pittore e mosaicista Enrico Galassi aveva riunito nello studio allestito in un’ala di Villa Poniatowsky a Roma, affinché si dedicassero alla creazione di complementi per l’arredo di dimore signorili2. Alla fugace esperienza dello Studio di Villa Giulia parteciparono, tra gli altri, Consagra, Mirko, Afro, Tamburi, Scardia, Montanarini, Gentilini, Maccari e Pietro Cascella. Sedotta dalla «grande processione trionfale e dannata di cariatidi», Lisa Ponti, in un suo articolo su Stile, la rivista che il padre Gio aveva inizialmente fondato con il titolo Lo stile nella casa e nell’arredamento (1941-43), ha trovato parole pregnanti per descriverne la totale assenza di decorativismo di queste stupefacenti creature di Leoncillo, che si rivelano appunto:

«[…] dei viluppi vivi e trepidanti, uscitigli dalle mani, inermi, pronti a ritirarsi: si muovono ciecamente e dolorosamente come degli organi interni, e sono così umidi, brillanti, ricchi, colorati, iridescenti. E poi su alcune delle loro facce si sorprendono tratti improvvisamente spirituali – come nelle figure delle nuvole –; son facce velate e vivide, con tracce di dolore, come se fossero dei San Sebastiani […] E le braccia e i panneggi hanno ombre e profondità come nella pittura, e diffondono paura, muovono l’aria»3 .

Oltre a una fotografia d’insieme, e a numerosi dettagli, l’articolo di Lisa Ponti porta in chiusura una dettagliata, e per noi assai preziosa, descrizione della balaustra nel suo insieme, rivelando una varietà di soluzioni formali di cui la Cariatide bifronte è soltanto una possibilità:

«La balaustra è composta di 2 elementi a 4 figure, uno come caposcala e l’altro come termine, di 2 a 3 figure nei due angoli della rampa e, negli intervalli, di altri a 2 figure voltati alternativamente in modo da mostrare l’una e l’altra faccia. Nei due elementi a 4

1 ponti 1946a. Entusiastico fu l’apprezzamento che Toti Scialoja riservò espressamente alla balaustra di Leoncillo nella sua recensione alla mostra, dal titolo Mirko e Leoncillo in una mostra di arti applicate, comparsa prontamente nel 1946 sulla rivista «Mercurio» (ora in Toti Scialoja 2015, pp. 126131).

2 Su Galassi e lo Studio di Villa Giulia si veda Cassani 2012.

3 ponti 1946b, pp. 27-28.

figure predominano, in uno il viola, e nell’altro il verde caldo; in quelli a 3 figure in uno il rosso aranciato e nell’altro il bruno rosso, e in quelli a 2 il verde azzurro. In tal modo la scala è architettata plasticamente e cromaticamente secondo la sua funzionalità. L’oro che è in tutti gli elementi li collega fra loro. Anche l’invenzione di aver fatto i gruppi a 4 figure con 4 sole gambe, e quelli a 3 con 3, e quelli a 2 con 2, è servita a far differenziare gli elementi secondo la loro funzionalità architettonica senza ingrandire troppo i più ricchi rispetto agli altri»4 .

Nel 1947 anche Gio Ponti, grande ammiratore dell’opera di Leoncillo, si soffermò sulla balaustra, ritenendola l’esito migliore dell’artista fino a quel momento: «This balustrade, for example, was made to rise from the profoundest depths of Leoncillo’s being, up to today it is his major work by the force of his immaginative energy wich makes us think of the greatest periods of court art»5 . Il richiamo alle celebri Cariatidi dell’Eretteo6 si complica nella doppia faccia della sinuosa figura di Leoncillo, quasi identica nella postura e nei gesti, ma da un lato le gambe leggermente accavallate sono coperte nella parte bassa dal drappo, mentre dall’altra una rimane scoperta. È però la maestria di Leoncillo nell’uso del colore a trasfigurare questa creatura, così che la magica pelle lattea, marezzata di iridescenze violacee, si accende a contrasto col drappo cobalto scintillante di dorature a terzo fuoco. Nell’insieme la balaustra non trovò un utilizzo, finendo per essere smembrata e una Cariatide bifronte figura, ad esempio, tra gli elementi ornamentali che affollano una delle vetrine del bar dell’elegante transatlantico Conte Grande, rinnovato, dopo essere stato preda bellica degli americani tra il 1943 e il 1945, da Gio Ponti e Nino Zoncada7. Quattro di queste Cariatidi bifronti, che ancora reggono sul capo un tratto dell’architrave/corrimano, sono oggi esposte alla Galleria d’Arte Moderna Giovanni Carandente in Palazzo Collicola a Spoleto, mentre un’altra è entrata a far parte della collezione di Claudio e Elena Cerasi8. Un ulteriore esemplare, già presentato alla mostra di Matera del 20029 e pervenuto ad una collezione privata di Umbertide, è stato esposto alla mostra dedicata dal Fa.Mo. Museo Rometti di Umbertide a Lucio Fontana e Leoncillo nel settembre-ottobre 201810 . Nello Studio di Villa Giulia si realizzarono «pezzi di eccezione» nei quali Gio Ponti riconobbe «come la dignità dell’antico, al pari della vitalità del moderno, non sia questione di tempo. Quando un oggetto è fatto, fuori dai calcoli immediati di prezzo e di lavoro, per valere nel tempo, noi possiamo dire che è già antico, fuori cioè dal tempo che viviamo, e ciò è il privilegio della sola arte»11. In sintonia con questo spirito creativo, anche la balaustra fu concepita come un sontuoso complemento d’arredo e realizzata avvalendosi – eccezionalmente nella pratica di Leoncillo –, almeno per le figure a due sole facce come la nostra, di uno stampo. L’artista è però intervenuto su

4 iVi, p. 29. 5 ponti 1947, pp. 216-219. 6 Ferrari 1960, p. 7. In generale per il richiamo di Leoncillo alla scultura antica si veda CoRgnati 2019, con un rimando alle Cariatidi a p. 42. 7 Una fotografia storica della vetrina con la Cariatide bifronte di Leoncillo è pubblicata da Giuseppe Appella in Leoncillo 2002, p. 130. 8 Apolloni 2018, pp. 12-13.

Fagiolo dell ’aRCo 2016, p. 121.

9 Leoncillo 2002, p. 42, cat. 12, (Courtesy Galleria d’arte Maggiore, Bologna). 10 Barocco e Barocchetto 2018, pp. 60-61. 11 Ponti 1946a, p. 22.

ogni figura con evidenti ritocchi e varianti prima della cottura e della successiva stesura dei colori, così che non solo la policromia di ogni pezzo è differente, ma anche il modellato. La balaustra presentata alla mostra del 1946 poteva essere estesa a seconda dell’utilizzo specifico, e delle richieste di un potenziale cliente, come testimonia l’esistenza di alcune Cariatidi bifronti in biscotto, pronte per ricevere l’invetriatura, una delle quali fa ora parte della collezione Marignoli di Spoleto12 .

12 Due esemplari in terracotta sono rispettivamente comparsi alle seguenti vendite: Christie’s 16799, First Open/ Online, Londra 4-11 aprile 2019, Lotto 59 (https:// onlineonly.christies.com/s/ first-open-online/leoncillo-1915-1968-59/68254); Christie’s 19255, First Open: Post-War & Contemporary Art Online, Londra 14-27 ottobre 2020, lotto 31 (https:// onlineonly.christies.com/s/ first-open-post-war-contemporary-art-online/leoncillo-1915-1968-31/102271). Altre due terrecotte figuravano come unico lotto all’asta Sotheby’s 340, Arte contemporanea, Milano, 26-27 novembre 2019, lotto 147 (https:// www.sothebys.com/en/ auctions/ecatalogue/2019/ arte-contemporanea-mi0340/ lot.147.html).

Fausto Melotti 1. Senza titolo, 1949 circa Ceramica policroma, 53 × 22.5 × 18 cm

Provenienza Collezione privata

2. Senza Titolo, 1950 circa Ceramica policroma, 81 × 25 × 27 cm Firma sulla la base: Melotti

Provenienza Milano, collezione privata

3. Senza titolo, 1951 circa Ceramica policroma, 42 x 11,5 x 10 cm Firma all’interno: Melotti

Provenienza Collezione privata

4. Senza titolo, 1951-52 circa Ceramica policroma, 62 × 16 × 16 cm Firma sotto la base: Melotti

Provenienza Milano, collezione privata

5. Senza titolo, 1950 circa Firma sotto la base: Melotti Ceramica smaltata, 75 x 25 x 27 cm

Provenienza Milano, collezione privata

Le cinque figure femminili qui riunite sono sorelle “poco più giovani” della fanciulla che tiene delicatamente nella mano sinistra due uccellini, databile al 19481, e di tante altre che Melotti modellò da quel momento in avanti, sostanzialmente per un decennio, prima di tuffarsi nuovamente in quell’esperienza astratta, già avviata negli anni Trenta, che egli riteneva rendesse davvero giustizia al suo essere scultore. Questi suoi elegantissimi «cartocci leggeri» furono prontamente ospitati nel 1948 da Gio Ponti sulla rivista Domus, con il rammarico di non poter rendere giustizia, nel bianco e nero delle riproduzioni, all’eccezionale qualità dell’invetriatura policroma:

«Finché non ci saranno possibili riproduzioni a colori non potremo dare una documentazione soddisfacente dei pezzi di Fausto Melotti, che sono – come questa figura con l’uccellino in mano – quasi cartocci leggeri e vuoti di ceramica intrisa degli smalti più inattesi. Melotti – al quale dedicheremo un servizio nei prossimi numeri – in questi ultimi anni, firmandosi “Sette Punti”, è stato l’autore di una produzione ceramica veramente sorprendente che, dai divertimenti delle collane smaltate, e poi delle famose tazzine da caffè e degli “animali sbagliati”, arriva alle bellissime coppe frangiate, ai pezzi fantastici – come questa figura leggera, fresca di invenzione – e ai pezzi di scultura […], cui Melotti tiene assai. Questa ceramica che sa così “scherzare col fuoco” fa stupire per i suoi esiti»2 .

Sebbene Melotti, «astrattista della prima ora»3, avesse consacrato alla ceramica oltre vent’anni di attività, presentando i propri lavori in sedi di assoluto prestigio a cominciare dalle biennali veneziane del 1948 e del 1950, dagli anni Sessanta volle ricondurre questa produzione alla necessità di provvedere alla famiglia: «Ho inventato una specie di ceramica che è piaciuta molto e che mi ha dato dei soldi, per cui ho potuto vivere tranquillo. Dopo, a un certo momento si sono accorti che anche come scultore non ero male e ho piantato la ceramica»4. A fronte di reiterate affermazioni di questo tenore, alla ceramica di Melotti è stato attribuito da subito un valore autonomo e vitale, al quale gli approfondimenti critici più recenti hanno riconosciuto una complessità semantica che travalica di gran lunga la fatidica “leggerezza” melottiana5 . Rispetto ad opere più antiche quali la Dafne del 1933, dall’ascendenza martiniana, nelle nostre più tarde figure femminili – senza titolo e senza alcun riferimento narrativo – assistiamo, come ha osservato Germano Celant, ad una sostanziale «densificazione dell’impalpabile» che, ben oltre le ragioni di sostentamento economico, «[…] si deve legare al turbamento sensoriale di un idealista – a cui una tragedia storica [la guerra] ha distrutto lo studio quanto le utopie – che intende riappropriarsi delle sue illusioni e dei suoi sogni non più ideali, ma individuali.»6 . Dalle proporzioni manieriste, le teste piccole e le braccia esili, queste creature, vestite di sfoglie sottili tagliate e piegata con apparente noncuranza, attingono in modo assolutamente personale al mondo mitico dell’antichità, e come nuove statuette di

1 Fausto Melotti 2003, p. 97, fig. 9. 2 ponti 1948a, p. 29. 3 Camini 1950, p. 40. 4 mulas 1992, p. 31. 5 CaRBone 2003. 6 Celant 1994b, I, p. XIV.

Tanagra variano infinitamente i loro gesti e il loro passi di danza seguendo armonie sorvegliatissime. Altrimenti, la cromia, manipolata dal sortilegio del fuoco, ne accresce il senso di astratta sublimità; e anche noi ci interroghiamo oggi sulla provenienza e il riapparire di questi magici esseri «[…] vaganti, come frammenti affioranti, disancorati da non si sa quale profondità, isolati e viaggianti in quella che Melotti chiama la “terra di nessuno”»7 . La più antica figura presentata in mostra8 (1), si apparenta ancora, nei toni fortemente espressivi dell’invetriatura, a La Follia9 del 1948, che Melotti espose in quell’anno alla XXIV Biennale di Venezia, o ancora di più alle due Cariatidi realizzate nel 1950 per la nave Conte Verde10; è dunque in questo intervallo cronologico che se ne dovrà collocare la realizzazione, nella fase iniziale di un percorso che troverà nel tema della figura femminile uno dei favoriti dallo scultore. Altre due delle nostre ceramiche, una presumibilmente del 195011 (2) e l’altra leggermente più tarda12 (4), presentano invece una policromia giocata sui toni chiari del bianco lunare che trasmuta nel rosa screziato di grigio, celeste e viola, caratteristica di molte di queste opere, a cominciare dalla già citata fanciulla che nella mano sinistra tiene due uccellini. Nel contrasto tra il busto bianco-iridato e il nero dell’abito “lavico” e fasciante, l’esemplare di dimensioni più ridotte del nostro gruppo13 (3) si apparenta invece ad un limitato numero di figure eseguite nei primi anni Cinquanta14. Da ultima, a completare la panoramica su questa specifica produzione di Melotti, primeggia un’altera figura dalla rara smaltatura con effetto metallico (5)15, un altro capolavoro di questo scultore-ceramista ripetutamente definito “mago” «per la enigmatica origine delle sue figure che […] sembrano scaturire dal fuoco»16 .

7 Camini 1950, p. 40. 8 Certificato su fotografia no. 1949 14 dell’Archivio Fausto Melotti di Milano.

9 Celant 1994a, I, no. 1948 1, p. 75. 10 iVi, I, no. 1950 3 e 1950 4, p. 82. 11 iVi, I, no. 1950 10, p. 84; Fausto Melotti 2003, no. 33, p. 106. 12 iVi, I, no. 1951–1952 6, p. 89; Fausto Melotti 2003, no. 28, p. 105. 13 Certificato su fotografia no. 1951 10 della Fondazione Fausto Melotti di Milano.

14 Si veda ad esempio Celant 1994a, I, no. 1953 1, p. 93. 15 iVi, I, no. 1950 9, p. 105; Fausto Melotti 2003, no. 29, p. 105. 16 ponti 1950, p. 41.

TESTO INGLESE

BAROQUE BREEZE

Andrea Bacchi

In an interview of 1963, Lucio Fontana (1899-1968) stated: «for a while I made a sort of coloured sculpture that is usually described, improperly, as Baroque. I wanted to bring light into sculpture. In short, I was looking for a new dimension»1. Improperly or otherwise, the term Baroque has been repeatedly applied to Fontana’s coloured sculptures of the 1930s and 1940s, as well as to the almost contemporary works of Leoncillo Leonardi (1915-1968) and Fausto Melotti (19011986), starting already from the fourth decade of the century. Use of the term has become almost automatic in all the numerous studies (mainly Italian) that have dealt with this extraordinary period in 20th century sculpture2. We could mention, for example, representative titles like Lucio Fontana: metafore barocche (exhibition in Verona of 2002) and Barocco e barocchetto: materia e colore nella scultura di Lucio Fontana e Leoncillo Leonardi (exhibition in Umbertide of 2018). In these masterpieces by Fontana, Leoncillo and Melotti, ceramic was deprived of its more habitual function, in other words its use in the decorative arts, to become the principal medium for an entirely new type of sculpture, sometimes monumental, with a poetic authority that had no precedents outside the Renaissance and the works of Luca della Robbia and his followers3, though the latter were completely extraneous to the cultural context of our three sculptors and did not influence them in any way. Here we present an important group of sculptures representative of a phase that, especially in the international context, has only recently begun to receive the recognition it deserves in the history of 20th-century art: four works by Fontana covering the period between 1936 and 1958 together with five by Melotti, all executed in the years around 1950, and as many as six by Leoncillo, representative of his works between 1939 and the mid-1940s. A few months ago, Matteo Lampertico asked me if, as a scholar of Baroque sculpture, I might like to research these artists to determine if there were any genuine stylistic links with the works of that period, and, more generally, how these sculptures might be connected with Baroque art. I accepted this invitation with enthusiasm (and trepidation) as I have a profound appreciation for the works of these masters, and have in some way always felt that they presented affinities with the figurative universe of

1 Rossi 1963,p. 47. 2 The growing critical interest in the works of these three artists, and in particular the attention paid to their ceramic production, has produced an almost unmanageable bibliography that cannot be adequately described here; however, some references of a general nature are needed, starting with FeRgonzi 1986 and Scultura e ceramica 1989. More specifically see: on Fontana CRispolti 2006 [2015], Lucio Fontana 1991 and Campiglio 2014; on Leoncillo, for whom a general catalogue is under preparation, Leoncillo 2002 and Leoncillo 2018; on Melotti Celant 1994a and Fausto Melotti 2003. 3 longhi (1954 [1984], p. 72), with reference to Leoncillo, had already stressed the relative unpopularity of ceramics in the Italian artistic tradition.

the 17th and 18th centuries. A more attentive examination of these materials, their critical history and the declarations of intent of the artists who made them reserved unexpected surprises for me: of course, there was the confirmation of the deliberate allusion to what Roberto Longhi, as early as 1914, disregarding any historical contextualization, described as a «tiresome Baroque breeze that lasts from Bernini to Rosso»4; but also, ultimately, the recognition of the absence of specific references both to the undisputed father of Baroque sculpture, Gian Lorenzo Bernini, and to other masters of the 17th century, such as Alessandro Algardi or Francesco Mochi. It was again Longhi, in 1913, who wrote with reference to Futurist painting:

«the problem of Futurism with respect to Cubism is that of the Baroque with respect to the Renaissance. The Baroque merely sets in motion the mass of the Renaissance [...] The circle is succeeded by the ellipse [...] Now, coming after the Cubists [...] the new painters aim to maintain the Cubist crystallization of form, and to give it motion [...] The result is [...] the profound legitimacy of this new movement, and its superiority over Cubism»5 .

Indeed, Heinrich Wölfflin had written, already in 1908: «There can be no doubt that our time resembles the Italian Baroque»6. Longhi himself, many years later, in 1949, spoke strikingly of a «mournful Barocchetto from Spoleto» with regard to his beloved Leoncillo7, but once again the Baroque was seen as an eternal category of the spirit and of vision.

It is well known that one of the key aspects of the Return to Order in Italy, starting already from the second decade of the 20th century, was the programmatic allusion to the models of painting of the 14th and 15th centuries on the part of Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Felice Casorati and others. In the case of some of these artists, from Carrà himself to Arturo Martini, critics have for some time also identified specific references to ancient sculpture (from Etruscan to Roman) in their works, alongside those to the Middle Ages and Renaissance (I am thinking particularly of Flavio Fergonzi’s studies on Martini). This same line of research formed my own starting point here, with the objective of establishing if similar links, explicit and unmistakeable, can also be identified in the works of the three artists showcased in this exhibition. As such, a necessary premise was to listen to the voices of our protagonists, starting with Fontana, the only one of the three who had obvious theoretical ambitions and not coincidentally, then, the only one who referred explicitly to the Baroque in various writings intended for public circulation (and written over a long timespan). Again, critics have on various occasions employed the adjective or noun “Baroque”

4 longhi 1914 [1961], p. 133. 5 longhi 1913 [1961], p. 48. Ezio Raimondi, quoting and discussing Longhi, significantly gave a chapter of his striking essay Barocco moderno the title Il cerchio e l’ellisse (Raimondi 2003, pp. 70-96), to which we also refer for a broader contextualization of the thought of the young Longhi in relation to Wölfflin and the Vienna School.

6 WölFFlin [1908], 1928, p. 129. 7 longhi 1949 [1984], p. 69. with respect to Fontana, to a greater extent than Melotti or Leoncillo, and in earlier years. From a historiographical point of view, in short, Fontana’s influence on the debate over the return to the Baroque is without doubt preponderant. In the aforementioned interview of 1963, as we have seen, Fontana seems almost to deliberately distance himself from the label of “Baroque” that had been applied to his ceramic production since the 1930s, in his opinion “improperly”. However, it is also true that Fontana himself, in 1946, appears to have been the prime inspiration for the young students of the Buenos Aires Academy of Fine Arts who had authored the Manifesto Blanco, which stated that: «Space is represented with increasing amplitude over several centuries. Baroque artists make a leap forwards in this respect: they represent it with a grandeur that has not yet been surpassed and imbue sculpture with the notion of time. The figures seem to abandon the flat plane and continue the movements depicted in space»8. Five years later, in the Manifesto tecnico dello spazialismo, Fontana himself wrote, repeating almost to the letter what had already been written in the Manifesto Blanco:

«We need to move beyond painting, sculpture, poetry. We now need an art based on the necessity of this new vision. The Baroque has guided us in this direction, it represents space with a grandeur that has not yet been surpassed, in which the notion of time is added to sculpture, the figures appear to abandon the flat plane and to continue the movements represented in space»9 .

These passages by Fontana are powerfully evocative, but he does not specify exactly which models and artistic genealogies he intended to imitate. Certainly, it is natural, in relation specifically to the concept of Spatialism, to think of Bernini’s Bel Composto, with that intermingling of architecture, painting and sculpture that Fontana aimed to repropose in a contemporary key. In 1950, Guido Ballo effectively captured this underlying descendance of Spatialism from the Bel Composto:

«And because a year ago, in an exhibition he held at the Naviglio, he did not exhibit ceramic pieces, but created a spatial environment: the forms called to one another in a diffuse luminosity [...] It might have seemed like a stage set: it was a large ceramic work in which the free forms called to each other mutely, to striking effect, and the space became almost palpable, adhering to the forms. We had thus attained the ultimate consequences of the myth of the Baroque»10 .

From the point of view of historical criticism in the strict sense, this concept had already been developed in the earliest biographies of Bernini of 1682 and 1713 (Filippo Baldinucci and

8 The original quotation is drawn from Fontana’s own Italian translation, cfr. Fontana 1946 [1970], pp. 119-120; cfr. also CRispolti 2002, p. XLI. 9 Fontana 1951 [1970]. 10 For the quotation from Ballo see panCotto 1991, p. 25.

Domenico Bernini). It is curious to note that the first modern Italian edition of Baldinucci’s biography was published in 1948, in an edition by Sergio Samek Ludovici, published by the Edizioni del Milione, belonging to the Milanese gallery of the same name where Fontana and Melotti had held several important exhibitions (and whose other publications were almost exclusively catalogues of the exhibitions held there)11. Moreover, in his text of 1951, Fontana appears to have had in mind above all the sculptural groups of explosive energy, lacking any architectural or compositional boundaries, widespread throughout the European High Baroque. The paradigm for an entire phase of large creations, increasingly complex and spatially free, was of course Bernini’s Throne of St Peter, but we could also think of its countless imitations, starting from the Transparente in the Cathedral of Toledo [Fig. 1], the highest expression of that Spanish Baroque that later spread through the New World as well, especially in the variant known as Churrigueresca: we should not forget that Fontana grew up in Buenos Aires, and must have had examples of this style in his visual DNA. Naturally, it is impossible to suggest genuine 17th- and 18th-century figurative sources for the Spatialist Fontana [Fig.2], and in any case, as we have said, it is evident that for the sculptor himself the term “Baroque” had taken on broad connotations lacking any specific chronological reference point. Ultimately, the ties to the Baroque first proposed by the authors of militant reviews and essays on the sculptures by Fontana displayed at various exhibitions in Milan during the 1930s, including some solo shows, were equally loose. It has been written that already in December 1931, Raffaello Giolli, a militant art critic specializing mainly in Rationalist architecture, mentioned the Baroque with reference to the works he had seen at the exhibition held at the Galleria Il Milione, due to close in the following January12; in fact, however, the author never mentioned the Baroque, although he did allude to Michelangelo and Bernini. The strong, dramatic materiality of the sculptor’s creations was underlined, seen as antithetical to the purity of the classical form; also significant is the fact that the pieces on display included some of Fontana’s earliest polychrome terracotta works13. The poet, journalist and engineer Leonardo Sinisgalli stated in 1934 that, by writing «of the Baroque with reference to him [Fontana], our intention was to refer to the crisis of a time period in full possession of an expression that no longer met with resistance», in other words without calling upon any specific artists or works. For the author, it was important to stress the open, free nature of the artist’s recent creations: «Lucio Fontana strives to crack open the closed form of his sculpture. Fontana cannot imagine a statue without considering its surroundings of air, of light»14. Later, in 1940, in a short monographic text devoted to Fontana’s drawings, Duilio Morosini spoke of the «Baroque of some ceramics». But, above all, in 1944, at the time when Fontana had returned to Buenos Aires, the Argentine Ricardo Ratti identified in Fontana a

11 BaldinuCCi 1682 [1948]; the theme of the Bel Composto was the subject of a monographic study by Irving Lavin only in 1980. 12 BRaun 2019, pp. 31 and 217, note 11. 13 giolli 1931; CRispolti 2006 [2015], I, pp. 145-146, cat. nos 31 SC 20-21; II, p. 1000. 14 sinisgalli 1934. «subconscious Baroque», suggesting a parallel with El Greco: in other words, this was almost a subterranean current, and the Baroque was more than ever a style that escaped history, to the extent that a visionary late Mannerist artist like Theotokopoulos could be included within it15 . Lisa Ponti, in an article of 1948 published in Domus, went so far as to write: «Now Fontana is described as Baroque: he is a little Baroque, because such is the nature of ceramic itself, which is, at heart, the Baroque of sculpture; to some extent because of the temptation to embellishment entailed by manipulating a material capable of so many interpretations»16. In an article by the same author published in the previous issue of the magazine, the great artist was associated precisely with the other two protagonists of that exhibition (and a fourth, Agenore Fabbri), under the shared banner of the Baroque:

«and we see our ceramicist-sculptors taking advantage of this crisis [the crisis of sculpture], from their progenitor Fontana to Leoncillo, Melotti and Fabbri, who burst in with their “fired sculpture”, a sculpture with colour, coloured volumes. This lively intervention of ceramic is, in some respects, a little like a Baroque flourishing, provisional, fanciful, a reaction both to classical sculpture, now exhausted, and to that desert created by the first abstract experiments»17 .

Ponti, perhaps, associated ceramic with the Baroque for its polychromy, which intrinsically made it a fusion of painting and sculpture, an issue to which we will return below. She also viewed it in opposition to the sculpture of the Novecento movement and to abstract sculpture (Melotti, however, did not recognize himself in this scornful judgement of the latter). It is worth noting at once that, at heart, we are dealing almost with a misunderstanding: no great sculptor of the Baroque era, nor of the Roman school (from Bernini to Algardi to Camillo Rusconi), nor of the majority of the other Italian schools (from the Venetian Giusto Le Court to the Genoese Filippo Parodi) ever worked in polychrome ceramic. Even in the Neapolitan context there are no significant exceptions to this rule. And we must make a further distinction: the Capodimonte porcelain manufactory, established in 1743 by the Bourbon monarchs, only produced pieces that, for their size or complexity, could in some sense be interpreted as sculptures much later, in what was by then the Neoclassical period; the only Italian manufactory to produce large inventions, including some polychrome pieces, as early as the mid-18th century, was that at Doccia, founded in Tuscany by Carlo Ginori. The latter, as is known, mainly made white porcelain (starting with the monumental copies of ancient sculptures of around 1745, still in the Museum at Sesto Fiorentino today), alongside exceptional polychrome pieces, such as the Pietà after a model by Massimiliano Soldani Benzi now in the Los Angeles County Museum [Fig. 3]18. In this case, we are dealing with a

15 See CRispolti 2002, p. XLII. 16 ponti 1948b, p. 37. 17 ponti 1948c, p. 35. 18 Fabbrica della bellezza 2017, pp. 31 and 126.

masterpiece that is still fully Baroque in spirit, in part thanks to its resplendent polychromy, but it should be remembered that only a handful of similar pieces are known today, and it is extremely unlikely that Fontana, Melotti or Leoncillo knew of them in the 1930s, or even in the 1950s. That is assuming that they might have appreciated a porcelain piece such as this (nor can we establish any telling visual parallels). In 1939, Fontana, speaking of his time at Sèvres, seemed to distance himself specifically from 18th-century porcelain: «I brought into the workshops that once served the tables of all the King Louis of France a minotaur on a leash that gored the porcelain baskets and allegories in biscuit with its horns».19 Nonetheless, it is true that polychromy is a constant feature of many Baroque sculptures: certainly not the most famous, Roman sculptures, but of those in wood, from the masterpieces of Antonio Maria Maragliano in Genova [Fig. 4], to those of Giacomo Colombo and Niccolò Fumo in Naples. And, in Venice, we should mention at least the telamons in black and white marbles of the colossal Pesaro Monument in Santa Maria Gloriosa dei Frari, a manifesto of the Venetian Baroque and a work of enormous renown.20 We could even broaden our gaze to other extremely well-known inventions of polychrome sculpture, in other words the crowded scenes of the Lombard Sacred Mountains, from Varallo to Orta, executed in terracotta starting from the 16th century and rediscovered by critics from the 1950s onwards, for which it would in any case be bold to suggest a connection with the experiments of Fontana and Melotti in the 1930s. Finally, the Neapolitan nativity scenes of the 18th century, also made of polychrome terracotta, merit a separate discussion; they certainly played a part in establishing in the collective imaginary the idea of a Baroque sculpture that was always coloured (and in a variety of materials; [Fig. 5]. Yet once again, for obvious stylistic reasons, we must rule out the idea that such pieces aroused the curiosity of our sculptors; at most, we might be able to identify subtle elective affinities [Fig. 6]. One of the first to refer to the Baroque proper, in other words the style that originated in Roman sculpture in around 1620, was Leonardo Borgese, who in 1939, identified «a sort of Berninian spirit» in the works of Fontana, and also mentioned Umberto Boccioni21. Significantly, Giolli, Morosini and Borgese all had more or less close ties to the charismatic figure of Edoardo Persico, who had written a text on Fontana in 1935 22. The mention of Boccioni brings to mind Longhi’s “Baroque breeze”. The latter, indeed, had coined this expression precisely with reference to Boccioni, and was the first to launch an extraordinary celebration of this artist in terms of movement and dynamic energy23. In this context, we should immediately quote a letter from Fontana dated several years afterwards, of 2 November 1949:

19 Campiglio 1994, p. 37. 20 The polychrome sculpture of the Baroque period had already been appreciated and copied in the 19th century, see BaCChi 2018, pp. 14-16. 21 CRispolti 2002, p. XLII. 22 peRsiCo 2016, pp. 1137-1141. 23 simonato 2018, pp. 246-247. «Since the Black Man of 1929, the problem of making art has becoming instinctually clear to me, neither painting nor sculpture, not lines delimited in space, but the continuity of matter in space. For this reason, no M. Rosso, but rather the plastic dynamism of Boccioni, and thus absolute splashes of colour on the forms to abolish the sense of plasticity and materiality, nothing definitive in this sense»24 .

In other words, Fontana claimed to have imitated Boccioni already in 1929, along the lines of “plastic dynamism” and thus, to use Longhi’s words, connected himself to that vein also underlain by the tradition running from Bernini to Medardo Rosso (despite Fontana’s attempts to deny the influence of Rosso on his own works, it nonetheless seems evident, above all, as we will see, in the 1930s). But it was thanks to a fundamental article by Enrico Crispolti, Carriera “barocca” di Fontana, published in 1959 in Il Verri, a cultural magazine directed by the philosopher Luciano Anceschi (also engaged in the process of re-evaluating the Baroque), that the image of a Baroque Fontana became commonplace25, in part because a group of Spatial Concepts of 1954-1957 (and thus of abstract compositions) were subsequently catalogued by Crispolti himself under the collective name of Baroques26. Despite this whole wide-ranging debate between the 1930s and 1950s, detailed comparisons with 17th-century figurative sources were attempted only much later, and without any philological backing. Crispolti himself, indeed, illustrated a text that he published in the aforementioned Lucio Fontana: metafore barocche (2002) with side-by-side reproductions of a small model (no longer considered original) for the Fountain of the Four Rivers by Bernini and a ceramic piece of 1935-36 (Grapes, Vine Leaf and Melon), making a purely visual suggestion, based on the shared nature of the two pieces as sketch models, in other words without even mentioning the 17th-century terracotta in the text27 . The label Baroque is also used by the critics of the time to stress the strong contrast between some figurative trends and the rhetorical and monumental style pursued in the official art of the Fascist era. The full expression of the Return to Order in Italy, in other words the severe painting and sculpture of the Novecento movement, was polemically countered by the seething matter of the masters of the Roman School, Mario Mafai and Scipione, and in the latter, as is known, the allusion to the 17th-century Rome of Piazza San Pietro and Piazza Navona is explicit in his Cardinals [Fig. 7]. Opposing the candour of the Stadio dei Marmi and of the EUR district is the “Barocchetto” of the Garbatella district [Figs 9-10]. It is thus clear to see why Longhi, when he spoke of a «mournful Barocchetto artist» with reference to Leoncillo, described as an «expressionist of the Roman school» had all this in mind, this cultural context (and its underlying political implications),

24 Lucio Fontana 1999, p. 249. 25 The article of 1959 was reprinted already in 1963, and more recently in 2004, in a collection of texts for which the overall title of Carriera “barocca” di Fontana, was once again proposed, an indication of the popularity of this critical formula, cfr. CRispolti 1959 [2004], pp. 24-30. 26 CRispolti 2006 [2015], I, pp. 318-339. 27 CRispolti 2002, pp. XLII-XLIII.

but not specifically the sculpture of Bernini and his contemporaries28. For Leoncillo, too, however, various possible borrowings from 17th-century sculpture have been identified: the Roman Mother Killed by the Germans [Fig. 11] has been compared to Bernini’s Ludovica Albertoni, and the Harpy [Fig. 8] to the «ecstatic trance of the St Teresa»29. For Melotti’s female figures, too, the St Teresa has been evoked, both for their «expression, now graceful, now ecstatic»30 and for the folds of the draperies, also referenced for Leoncillo’s sculptures by Toti Scialoja already in 194631. None of these comparisons appears truly meaningful, either from the point of view of the invention and composition, or from a purely stylistic viewpoint; rather, these appear to be comparisons dictated by what, after so many years of evoking connections to the Baroque, had become almost a necessity: in other words to give historical concreteness to a critical discourse that in the eyes of the scholars themselves was perhaps in danger of becoming a generic topos. This is not to deny that in some of these works there might be some compositional allusion to important 17th-century models, as in the aforementioned Roman Mother Killed by the Germans by Leoncillo [Fig. 11] (1944), perhaps inspired by Maderno’s St Cecilia32 or by Legros’ Blessed Stanislas Kostka (but ultimately closer, perhaps, to Anna Magnani falling under a hail of Nazi bullets in Roberto Rossellini’s Roma città aperta of the following year) [Fig. 12] or again in Melotti’s three depictions of Daphne (1933), where the reference to Bernini’s marble, in the way in which the girl’s legs transform into a tree trunk, seems undeniable33; furthermore, in this latter case the iconographical theme itself, shaped by Gian Lorenzo’s masterpiece in the Galleria Borghese, made a dialogue with this model unavoidable.

In short, can we speak of a 20th-century Baroque in Italian sculpture starting from the 1930s? Certainly, but we must take care to distinguish these rare borrowings from the figurative repertoire of the 17th and 18th centuries (more accurately, almost exclusively of the 18th century as we shall see), from a recognition that masterpieces by Fontana, Leoncillo and Melotti belong to a specific category of the spirit, an eternal Baroque that always reappears after a time of measure and canonical creations, or that contrasts with it simultaneously. Ultimately, the true Baroque had itself followed the Renaissance (in accordance with the classic opposition established by Wöllflin); that of the 20th century must necessarily be read in a dialectical relationship with the Novecento movement (alongside other fringe trends of the same years, like Chiarismo, which recovered the Impressionist tradition in the same spirit). However, we do not simply wish to describe this Baroque of Fontana and the others in the terms of a well-received formula coined by Frank

28 longhii 1949 [1984], pp. 68-69. 29 masCelloni 1990, p. 13. 30 CaRBoni 2003, p. 13. 31 Commellato 2003, p. 42; the article published in the magazine Mercurio was reprinted in Toti Scialoja 2015, p. 129. 32 FeRRaRi 1960, p. 8. 33 Fausto Melotti 2003, pp. 94-95, cat. nos 3-6. Wedekind in 1917, which stated, almost provocatively, that «Kitsch is the Gothic or the Baroque of our time»34 . Rather, we should acknowledge that there was a 20th-century Baroque, of which our sculptors were protagonists. In his brilliant and open-minded Baroque baroque: the culture of excess (1994), sumptuously reinterpreting Wedekind’s brilliant formulation, mixing materials from high culture with those of popular culture, Stephen Calloway reproduces and compares paintings by Alessandro Magnasco (a painter to whom we will return later) to stills showing the ballets of Vaslav Nijinsky, and countless photographs of cinema and fashion stars35. Of these, we show a highly constructed photograph by Cecil Beaton [Fig. 13], published in Vogue in 1948, reminiscent of Franz Xavier Winterhalter’s “Neo-Baroque” paintings, and that forms a perfect companion to the sophisticated, elegant ceramic women created by Melotti in the years around 1950 [Figs 14-15]. The same assonance can be identified among other similar figures by the Milanese ceramicist and the terracottas of women in stylish garments modelled by a contemporary of Winterhalter, a genuine 19th-century Baroque artist, Jean-Baptiste Carpeaux [Fig. 16]. In short, we can speak of a metahistorical Baroque that runs through different periods and genres, starting from the frieze on the Altar of Pergamon and enduring until the 20th century (and, who knows, perhaps the 21st as well), without necessarily attempting to anchor it to the Baroque proper of the 17th century. Yet, at the same time, we can also attempt to better contextualize the cultural reference points within which to insert the Baroque of Italian ceramics between the 1930s and 1950s.

The birth of this felicitous critical hypothesis can be dated, as we have seen, to the early 1930s themselves, briefly anticipating the exhibition that marked Fontana’s debut as a ceramicist, held in 1938, again at the Galleria Il Milione. There is obviously continuity between those works by the sculptor that led Giolli and Sinisgalli to pronounce these judgements and the masterpieces in ceramic to which the adjective Baroque was increasingly applied: this is the marked character of both the terracotta pieces of the early 1930s and of the later ceramic sculptures as sketch models. I believe that this was the stylistic trait most evidently in contrast with the rhetoric or bombast of contemporary official sculpture, and that this was what the critic was referring to when he wrote that: «Lucio Fontana strives to break the closed form of his sculpture. Fontana cannot imagine a statue without considering its surroundings of air, of light». It is remarkable that an artist who had trained under Adolfo Wildt [Figs 18-19], an extraordinary virtuoso who executed marbles of a blinding and perfect polish, quickly moved on, thanks above all to the use of terracotta as his expressive medium, to those open forms, in constant dialogue with air and light, through which he took up the legacy of Medardo Rosso, another Baroque artist sui generis [Figs 20-21]. This seems to me a fundamental point, and I do not believe that it is an accident that the start of the interest in Baroque terracotta models can be dated precisely to the start of the 20th century: not the well-finished models, both large and small, like those, for example, that were eagerly collected already

34 Kitsch, the text by the author written for the theatre in which the passage quoted appears, was published posthumously in 1918, cfr. CalinesCu 1987, p. 225. 35 CalloWay 1994, pp. 21, 40, 148.

in the 17th and 18th centuries (I am thinking above all of the Farsetti collection in Venice), but the true bozzetti appreciated precisely because they were bozzetti. In 1905, in Rome, the Brandgees of Brooklyn purchased the most important group of models by Bernini, in all likelihood from the master’s workshop, masterpieces that our sculptors would certainly have appreciated [Figs 22, 25]. In 1912, these same terracottas were reproduced and discussed in the first modern American book dedicated to Bernini, an obvious confirmation of the increasing interest in artefacts of this type36. This interest peaked with Albert Erich Brinckmann’s classic studies, in as many as four volumes, Barock-Bozzetti, of 1923-1925, which reproduced an impressive number of terracottas, often barely roughed out37. The ground had clearly also been laid for the full appreciation of this style by the international success of the aforementioned Rosso. Fontana, specifically, continued his work as a modeller for a long time and still expressed himself – in Woman Undressing of 1947, for example – in those model-like forms that lend themselves to a comparison with Bernini’s masterpieces of two centuries earlier [Figs 22, 25, 27]. The year 1922 is also a fundamental date in the history of the critical rediscovery of the Baroque: in that year an imposing exhibition was held in the rooms of Palazzo Pitti devoted to the painting (but completely excluding sculpture) of the 17th and 18th centuries. The enormous publicity given to this event was accompanied by a genuine polemic that saw the involvement, with writings published in the pages of Valori plastici, of artists and intellectuals such as Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Lionello Venturi and Emilio Cecchi; connected to this debate was the emergence of a neo-17th-century style that can be seen in the works, for example, of Felice Carena38. As already noted by Crispolti, Fontana’s works of the 1930s that elicited and still elicit a comparison to the Baroque had nothing to do with this style39, but it is clear that the time was ripe for a revival, interpretable in many different ways, of the language of art of the 17th and 18th centuries. As we have seen, the Palazzo Pitti exhibition covered a very broad time-span, and many painters of the Venetian 18th century were represented, including Giambattista Tiepolo and Francesco Guardi; Fontana could not have failed to appreciate the restless and nervy style of the latter, which was also a fundamental influence on the evolution of a master of the calibre of Filippo de Pisis (in whom the reference to Guardi is obvious) [Figs 28-29], whilst Melotti, in his turn, replicated specific chromatic choices made by Tiepolo in his ceramics of the 1950s (Tiepolo pink, in particular; [Figs 32-35]). More specifically, the extraordinary popularity in these years of a master who was then being rediscovered, the Genoese Alessandro Magnasco, had an influence on Fontana’s visual imaginary. Though he is hardly ever mentioned in connection with Fontana’s Baroque production, it seems to me that it is in fact the paintings by this master that present significant points of contact with the artist’s ceramics, starting from those of the 1930s, but

36 noRton 1914.

37 BRinCkmann 1923-1925 (only the first 2 volumes were devoted to Italian terracottas; the third to those of France and the Netherlands, the fourth to those of Germany). 38 mazzoCCa 1975; Novecento sedotto 2010.

39 CRispolti 2002, p. XLIII. also those of later years [Figs 36-37]. Magnasco, from 1920 onwards, attained a truly remarkable popularity, including on the art market, to the extent that a Magnasco Society was established to promote understanding of the master through monographic exhibitions. The first of these was held in Düsseldorf, in 1920, and another opened in Milan in that same year and immediately made headlines: Carrà reviewed it in 1921 in the context of the debate alluded to above. The critical re-evaluation of Magnasco ran parallel to that of El Greco, and the two painters were grouped together under a single common denominator as visionary, irregular, highly expressive painters of nervy and sketch-like forms: in other words, the same stylistic features that characterize the terracottas and later the ceramics of Fontana. Magnasco’s popularity continued in subsequent years, with exhibitions held in London (1930) and Paris (1935).40 It is no coincidence that in 1946 Scialoja already mentioned Magnasco with reference to Leoncillo41. An assonance with the broken, edgy and tormented style of the painter can be seen in many of Fontana’s ceramics, right up to the 1950s, as demonstrated, for example, by the Christ of 1949 [Fig. 39], which in other ways calls to mind a masterpiece by a great painter of the 17th century, Rembrandt, who, though not usually classified as a Baroque artist, painted with a degree of freedom and sensuality that later became very popular among the artists of the 20th century [Fig. 38].42 When he participated in the competition held in 1950 for the fifth bronze door of Milan Cathedral (in 1952 the competition was narrowed down to a handful of participants, including Luciano Minguzzi, who was proclaimed joint winner with Fontana, and later executed the work) the artist adopted a style with clear reminiscences of late Baroque 18th-century sculpture, especially that of central Europe. In particular, it brings to mind the name of Johann Georg Pinsel, a sculptor active in the second half of the 18th century on the eastern edge of Europe, in the present-day Poland and Ukraine, whose profoundly anti-classical style, almost neo-Mannerist and neo-Gothic at the same time, was in keeping with contemporary taste: indeed, he was rediscovered at the same time as Magnasco (or El Greco), starting in the early 20th century [Figs 40-41].43 Faced with the plaster models created by Fontana for that important competition we are again reminded of Bernini’s bozzetti [Figs 22, 24-25, 42-43]. Moreover, we should also remember that at that precise moment the critical recovery of Antonio Canova’s terracottas was also beginning [Figs 23, 26], judged to be a more authentic expression of the master’s genius than his highly polished marbles, which at the time were felt to be cold academic imitations (naturally these positions were amply superseded by later studies, starting already with those by Hugh Honour, who also undertook an in-depth analysis of Canova’s creative process through those same terracottas). Magnasco, as we have said, was the most representative painter of the Lombard and

40 geddo 1996, pp. 41-42; mazzoCCa 1975, p. 875. 41 Reprinted in Toti Scialoja 2015, p. 128. 42 It is worth recalling here that Lorenzo Fiorucci (Barocco e Barocchetto 2018, p. 26) had already suggested almost a direct filiation between works such as Red Cut by Leoncillo (1962), the Figure with meat by Francis Bacon (1954), the Slaughtered Ox by Guttuso (1939) and finally the other Slaughtered Ox by Chaim Soutine (1928): underlying the popularity of this theme, of course, is the Slaughtered Ox by Rembrandt in the Louvre. 43 Pinsel 2012.

Genoese 18th century: Fontana may have seen and become familiar with his works thanks to the Milanese exhibition, but also during his stays in Liguria. The start of the sculptor’s work as a ceramicist, in other words that for which the adjective Baroque was most often used by critics, dates to 1935. In that year Fontana met Tullio Mazzotti, called d’Albisola, a major protagonist of the revival of this technique in a contemporary key: in this context suffice it to recall that in 1938 he encouraged Filippo Tommaso Marinetti to publish, with him, the programmatic document Ceramica e aeroceramica. Manifesto futurista. However, we should immediately make a distinction: Fontana did not wish to be described as a simple ceramicist. In an article published the year after the first works of this new period were presented to the public, which as we have said was 1938, the artist wrote: «I am a sculptor, not a ceramicist. I have never thrown a plate on a wheel or painted a vase. I detest lacy details and delicate nuances […] I abhor the mystics of technique. The marvellous technical skill of Sèvres and Copenhagen serves to satisfy the taste of ladies and collectors. It is a sort of ecstasy aroused by fragile objects and half tones. I am seeking something else».44 Whilst, as we shall see, in some of his works Melotti came close to a sophisticated decorative style thanks to an appreciation of precisely those half tones so hated by Fontana (in 1979 Alberto Arbasino, in his typical style, described Melotti’s ceramics as follows: «[…] vibration, fluttering, wing, eyelid, harpsichord and “smile of the Gods”»)45, the latter always stressed the intimate plastic structure of his ceramics, concluding: «Critics said ceramics. I said sculpture»46. Giolli’s aforementioned review of 1931 had the telling title È scultura?. In that case, truth be told, the critic had been disconcerted by terracottas in which Fontana had abruptly cut all ties with the language of his teacher Adolfo Wildt, whilst the question posed by the ceramics of the second half of that decade was a different one: his inexhaustible, restless experimentalism had already led the artist on several occasions to break the rules and conventions of sculpture, in profoundly different ways. In 1935, as is known, and again at Il Milione, the first exhibition of abstract sculpture in Italy took place, at which Fontana presented works in iron and reinforced concrete, almost following in the footsteps of Alexander Calder47, incredibly distant from those in polychrome ceramic created just a few years later: in other words, he moved from a geometrical, intellectual style to one that, in comparison, could only be described as Baroque. And, let it be said in passing, it should not be forgotten that Fontana himself eventually abandoned sculpture almost completely, transferring the same richness of research into painting and space: for him ceramics had always been one of the many possible expressive media, never a technique with which to pursue decorative ends. It is true that Arturo Martini also never thought of ceramics as a revival of those «lacy details and delicate nuances» that Fontana «detested», but it is also true that the great

44 Campiglio 1994, p. 36. 45 The quotation is drawn from an article published in La Repubblica on 14 June 1979, reprinted only partially in aRBasino 2014, p. 322. 46 Campiglio 1994, p. 37. 47 BRaun 2019, p. 34. sculptor from Treviso had preceded Fontana (and Melotti and Leoncillo) in his experiments with this technique (later, in the mid-1930s, it seems that Melotti fired the ceramics of both Fontana and Martini in his own kiln);48 however, in the works displayed at the Galleria Pesaro in Milan in 1927 [Fig. 44], Martini never worked on the monumental scale that attracted both Fontana and the others from the outset. In his ceramics, Martini is a well-rounded sculptor, but always «at a slow pace» to use Longhi’s expression; he does not pursue the same ambition that underlies his exceptional refractory terracottas, almost as if the medium itself suggested to him an intimately decorative purpose for these pieces, as an ornament for a middle-class home. Fontana, himself, in truth, had also explored the potential of the small format in those visionary ceramic still lives that might remind us, if anything, of the paintings of de Pisis, precisely thanks to the neo-18th-century quality of a painting style alive with sudden flashes of colour [Figs. 30-31]. He described them thus: «seaweed, butterflies, flowers, crocodiles, lobsters – a complete petrified and gleaming aquarium. The material was appealing; I could shape a seabed, a statue or a tangle of hair and impress upon it a pure and compact colour that was amalgamated by heat. Heat was a sort of intermediary, making the form and the colour permanent». It is this fascination with colour and sheen, triggered and exalted by heat, alongside an occasional vocation for monumentality, that makes Fontana’s ceramics clearly distinct from those of Martini, projecting the former into the future, towards the Informal movement. Fontana’s statement in the article of 1939, «I am a sculptor, not a ceramicist» takes on an almost prophetic meaning when read alongside the incursions into the same field of the giant of 20th-century art, Pablo Picasso. Many years later, and specifically in 1948, Gio Ponti published an article in Domus in which, describing the visit of a group of Italian ceramicists to Picasso, who was living in the south of France, at Vallauris, he offered an instant snapshot of the master’s very recent fascination with the ceramic technique, stressing that precisely in Italy, various sculptors, and first of all Fontana and Leoncillo, had long paved the way for this development. The photograph printed at the start of this article showed Agenore Fabbri and Tullio d’Albisola, but not Fontana. A few years later, in 1950, Guido Ballo, giving voice to Fontana, whom he knew well, attacked what had already become a commonplace, in other words the belief that it was the great Spanish artist who had been the first to revitalize the ceramic technique in the 20th century49. At the end of the following year, in December 1951, Fontana wrote the introductory text for a Milanese exhibition of Picasso’s ceramics, describing himself as a ceramicist, a significant shift from his peremptory statement of 193950, and recollecting a previous meeting with the great Spaniard: «I remember with profound emotion the visit made to Pablo Picasso in the company of several Italian ceramicists». It is tempting to identify this visit as the event immortalized in the photos in Domus of 1948, but Fontana’s absence from these photographs remains surprising. In any case, in that

48 Campiglio 1994, p. 35. 49 panCotto 1991, p. 25. 50 Fontana 2016, p. 24.

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