Ricordi di un cattolico di
SILVANO BERTINI
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Fabrizio Rosticci “La Spalletta”, 2005
“La Spalletta”, 26 agosto 2005
RICORDI DI UN CATTOLICO Quelli che propongo di pubblicare alla Redazione de ‘La Spalletta’, non sono ricordi personali del sottoscritto, tra l’altro non proprio vicino a quel mondo che andrò a rievocare, ma sono ricordi di un “vero cattolico”. Ricordi giovanili, degli anni ‘30 del secolo scorso, che hanno tutti come riferimento l’Oratorio di San Filippo e la vita della comunità giovanile di Azione Cattolica San Giovanni Bosco guidata da Don Luigi Pedussia. L’Oratorio di San Filippo fu fondato, nella prima metà dell’Ottocento, da Annibale Cinci nella omonima chiesa di via Codarimessa fatta costruire nel 1600 da Benedetto Guarnacci, ex cavaliere di Santo Stefano e poi canonico della cattedrale [si veda, di Silvano Bertini, Annibale Cinci, maestro e studioso cattolico, in “Volterra” del maggio 1964]. Dopo un lungo periodo di inattività, l’Oratorio fu riaperto nel 1925 da Don Pedussia. Oggi per lo più ignorato, Don Pedussia fu un personaggio di rilievo ed anche scomodo nella Volterra cattolica, e non solo, del periodo fascista. Segretario del vescovo Dante Maria Munerati, fu presente nella vita volterrana dall’agosto 1924 al dicembre 1942. Appartenente alla congregazione salesiana, si dedicò con particolare attenzione alla cura dei giovani che cercò, in tutti i modi, di “proteggere” dall’influenza nefasta della rozza ideologia imperante. Ormai abituato alle mie frequenti rievocazioni, il lettore avrà forse intuito che l’autore di queste memorie (utile contributo per una ricostruzione storica del movimento cattolico volterrano) è il professor Silvano Bertini. Per delineare la sua figura di “vero cattolico”, come prima l’ho definito, ed evidenziarne sia il credo religioso che l’impegno civile, mi sembra utile avvalermi di ricordi di alcune persone che lo hanno conosciuto “da vicino”. Bruno Tertulliani, RICORDO DI UN AMICO da “La Spalletta” del 1 aprile 2000: «Il ricordo di Silvano Bertini parte da lontano, dagli anni 1930, quando collaboravamo attivamente con il gruppo diocesano dell’Azione Cattolica Giovanile. Silvano era uno dei giovani che l’Azione Cattolica, coadiuvando la famiglia, aveva educato all’onestà, alla tolleranza ed alla democrazia. Quando sorse la DC a Volterra, nell’anno 1944, salvo alcuni ex popolari, fu un gruppo di giovani a formarla e vivacizzarla. Silvano fu uno di quelli. Ricordo alcuni volantini, indirizzati ai giovani volterrani, redatti da Silvano: erano pieni di entusiasmo e di speranza per un mondo migliore. Trattavano problemi del lavoro, dell’economia, che allacciati a quelli della difesa della religione, formavano il programma sociale e politico cui ci ispiravamo. Silvano era considerato il “dotto” del gruppo; si viveva un momento storico ed avevamo l’ansia delle concretizzazioni. Ma presto Silvano sentì che l’impulso iniziale stava rallentando. Fu tra i dirigenti della sezione DC, consigliere comunale, più tardi assunse la direzione della rivista ‘Volterra’, ma certe politiche nazionali e locali non lo trovavano più consenziente. Il distacco dalla DC dell’onorevole Giuseppe Dossetti fu anche per Silvano un momento di svolta, fino a farlo decidere di lasciare la DC e di dichiararsi un uomo libero cattolico. I suoi meriti come insegnante e preside sono noti a tutti, per cui non mi ci
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soffermerò. Silvano Bertini rimase sulla piazza di Volterra la voce sincera che non si peritava a criticare od a stigmatizzare decisioni ed avvenimenti nazionali o locali. Parlare con lui negli anni Ottanta e Novanta era come risentire intatte le voci e le speranze dell’immediato dopoguerra e ci sembravano sogni. Infatti Silvano era rimasto un sognatore della politica pulita, della socialità generalizzata, della cultura approfondita per tutti. E nel mondo delle doppie facce, dei “ni”, delle indecisioni e dei sotterfugi, lui non si trovava. Silvano ci ha lasciati e si può veramente dire che Volterra ha perduto un grande amico». Maria Masti Trafeli, DUE PAROLE PER SILVANO dal volume Scritti Volterrani (2004): «[…] lo ricordo come un giovane serio e responsabile, studioso, ironico di una ironia arguta e fine, non sempre gradita dai soggetti verso i quali era diretta. Antifascista convinto e vero cattolico. Difendeva le sue idee senza mai scendere a compromessi con la sua coscienza. Questa sua coscienza senza compromessi caratterizzò la sua etica professionale come preside, come docente e come direttore della rivista ‘Volterra’». Ivo Gabellieri, PRESENTAZIONE del volume Scritti Volterrani (2004): «[…] il professor Bertini è stato anche colui che, insieme al professor Luciano Bruschi, mi ha avvicinato alla Politica, quella con la P maiuscola. Da lui ho imparato il far politica come servizio, la critica verso le ingiustizie, la trasparenza; come non ricordare le sue lotte dentro la DC contro la corruzione trenta anni prima di “mani pulite”. E’ a lui, e a don Italiano Macelloni, che debbo la mia formazione di giovane cattolico e la conoscenza del pensiero di molti uomini di rilievo del mondo cattolico negli anni pre e post conciliari - don Mazzolari, don Milani, padre Balducci, il giudice Meucci, Gozzini, Pistelli e La Pira - nonché la frequentazione costante con la rivista ‘Testimonianze’ di padre Balducci e con il periodico ‘Politica’, voluto da Nicola Pistelli. Ricordo con grande piacere ed emozione gli incontri del Circolo Gruppo Esperienze. Erano gli anni del dialogo tra cattolici e marxisti. Il professore era considerato “un cattolico di sinistra”; uomo di rara schiettezza, non aveva peli sulla lingua, entrava nel merito dei problemi che trattava con competenza, arguzia e grande disinteresse personale. Per queste sue doti era ritenuto da molti un personaggio “scomodo”. Da lui ho imparato, se necessario, a saper pagare di persona, pur di rimanere fedele ai propri princìpi, in nome dell’onestà, della trasparenza e della dedizione verso gli altri. Devo molto al professor Bertini e se non insisto oltre, pur avendo molte altre cose da raccontare, è perché sono certo che una parola in più non gli sarebbe gradita, proprio per la sua caratura intellettuale, limpida e priva di fronzoli […]». Nei prossimi numeri de “La Spalletta”, dovrebbero essere ripresentati gli articoli Ricordo dell’Oratorio, pubblicato su “L’Araldo” dell’11 gennaio 1953, La fanfara dell’Oratorio, comparso su “Volterra” del marzo 1972, e Don Luigi Pedussia, tratto da “L’Araldo” di novembre e dicembre 1974. In questo numero ripropongo, invece, un breve ma significativo trafiletto dal titolo Il mio amico prete, pubblicato su “Centro Cattolico Stampa” nell’agosto 1952. Tutti gli articoli precedentemente citati sono comunque raccolti nel volume Scritti Volterrani, edito da Pacini (Pisa) nel 2004. FABRIZIO ROSTICCI
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IL MIO AMICO PRETE Ora che gli è toccata una parrocchia più vicina, sono stato a trovare il mio amico prete. Preti ne conosco diversi ma questo solo è mio amico. Sono arrivato stanco, dopo un’ora di cammino sotto il sole cocente dal bivio a cui mi ha lasciato il postale. Mi guardo intorno. Il centro della parrocchia è costituito dalla chiesetta scalcinata e screpolata, da una bottega, che deve vendere un po’ di tutto, e da quattro casette raggruppate intorno. Qualche altra abitazione si intravede qua e là, in lontananza, sparsa per la campagna. In tutto trecento o quattrocento anime, mi sembra che abbia scritto il mio prete. Il mio arrivo deve costituire un piccolo avvenimento. Dalla bottega si affacciano due o tre persone curiosando. Al primo ragazzo che incontro sulla piazzetta assolata, chiedo del parroco. Ma non ce n’è bisogno perché dalla canonica esce il mio prete gridando festosamente il mio nome. Entriamo. Mi conduce nel suo studiolo dai vecchi mobili tarlati, dalle scansìe piene di libri. Lì, nella quieta penombra l’osservo un po’ meglio: mi sembra un poco invecchiato. Parliamo a lungo. Le cose nella parrocchia non vanno bene, c’è molto da lavorare. Il parroco precedente, che è morto, era molto vecchio e aveva lasciato andare un po’ tutto. La gente in genere è buona ma ignorante. Dopo la guerra si è lasciata montare la testa dai primi facinorosi venuti dalla città ed ora non frequenta quasi più la chiesa. Alla Messa, alla domenica, poca gente. Qualche donna, qualche anziano e una decina di bimbi che, se Dio vorrà, potranno costituire il primo nucleo di una sezione di Aspiranti. Mentre il mio prete parla, osservo la sua tonaca sfilacciata e stinta, il suo volto affilato e penso alla dura vita che lo attende ogni giorno. Beni non ne ha la parrocchia. Un amico impiegato al Registro mi ha detto quanto sia misera la congrua. Non so come faccia a tirare avanti, come possa lui, così intelligente e colto, vivere in questo ambiente ignorante e diffidente. Esprimo questi pensieri ma il mio prete sorride. No. Lui non è sfiduciato e me lo dice sinceramente. Soffre. Questo è vero, ma sapeva che sarebbe stato così, quando si fece prete. Anzi è quasi contento che sia così. «La lotta mi tiene desto», dice. «Del resto io lavoro per il futuro, per l’eternità», continua. Sono partito a sera con un bagaglio di nuovi pensieri nella mente e, mentre mi allontanavo, già a buio, sulla via polverosa per arrivare a prendere il postale, c’era in me una serenità, una speranza nuova. Il mio prete mi aveva, senza saperlo, insegnato a non disperare più nella possibilità del bene, a sperare anche quando tutto quello che accade porterebbe a non sperare più. SILVANO BERTINI
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“La Spalletta”, 24 settembre 2005
RICORDI DI UN CATTOLICO [1] Da “L’Araldo”, 11 gennaio 1953
RICORDO DELL’ORATORIO La vecchia chiesa di San Filippo, silenziosa e dimenticata durante la settimana, accoglieva alla domenica oltre un centinaio di ragazzi e bambine. Vi si arrivava attraverso un intricato labirinto di vicoli e di stradine ventose. Faceva da guida e da richiamo una campanellina argentina che, poco prima dell’inizio della Messa, dava l’ultimo segnale con concitati rintocchi. Ricordo ancora bene come fu che mi iscrissi all’Oratorio. Fu Walter, un ragazzino grasso, dalla faccia sempre bianca per la polvere di alabastro della bottega artigiana paterna, che mi fece conoscere questa istituzione. Giocavamo, come al solito, a carte, seduti a terra all’angolo di un vicolo, quando ad un tratto egli esclamò: «Ragazzi, domani è domenica ed io vado all’Oratorio. Ci sono dei preti che regalano panini imbottiti dopo la Messa». Alle nostre domande piene di curiosità egli rispose dando tutte le spiegazioni ed informazioni che chiedevamo. Eravamo tutti figli di operai e ricordo bene che quella idea del panino ci piacque incondizionatamente. Qualcuno, abituato a sentir raccontare conversioni edificanti, ci rimarrà male e ci accuserà di eccessivo materialismo, ma da ragazzi decenni, sempre affamati, non c’era da aspettarsi certamente di più. La mattina dopo andai anch’io all’Oratorio. Avevo un poco di timore. Appena entrato nella vasta chiesa ad una sola navata, fui investito da un’onda canora e sonora. C’erano due lunghe file di panche. A destra i ragazzi ed a sinistra le bimbe. E tutti cantavano a squarciagola accompagnati dal suono lamentoso di un armonium. Un giovane seminarista mi si fece incontro; capì che ero nuovo e mi condusse ad una panca accanto ad alcuni ragazzi della mia età. Intanto era iniziata la Messa. Tutti rispondevano alle parole del celebrante, intercalando inni e canti a me sconosciuti, ma seducenti. C’erano anche degli a solo. Si alzava qualche bambina, che a me sembrava tanto brava e tanto bellina, e cantava con voce argentina. Ricordo ancora alcune parole: Su lodate o valli e monti prati, erbette, fiumi e fonti la più bella verginella che abbia fatto il Creator. Versi orribili, d’accordo. Ma di questo me ne sono reso conto molto dopo. Ricordo che il tempo trascorse in un baleno. La Messa finì insolitamente presto. E, all’uscita, c’erano davvero i panini imbottiti. Walter mi vide e mi sorrise con aria di superiori-
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tà e di protezione. Fu così che mi iscrissi all’Oratorio, compiendo il primo passo di una lunga serie di risoluzioni che mi portarono in un mondo nuovo ed entusiasmante. Dopo qualche mese un giovanotto, che poi seppi essere il delegato aspiranti della sezione annessa all’Oratorio, mi invitò in una misteriosa stanzina dietro la sagrestia della chiesa. La saletta sapeva di muffa e di rinchiuso perché c’era solo una piccola finestra in alto. Nel mezzo vi era un tavolo con sopra alcune copie de “L’Aspirante” e di “Pro Famiglia”. Mi colpì un disegno rappresentante la fucilazione di un prete messicano (si era al tempo delle persecuzioni di Callas). Alle pareti qualche manifesto ed un grande ritratto, con dedica autografa, di papa Pio XI e due armadietti con alcuni libri. Era quello allora l’unico sodalizio di Azione Cattolica della città. E oggi, se ripenso a quei tempi, sono orgoglioso di averne fatto parte. Quanti nomi e quanti volti di amici. Quante vittorie e quante sconfitte in quel periodo di attività quasi catacombale. Ricordo che i miei allora non volevano che divenissi socio della G.I.A.C.. Eravamo nel 1933 e solo due anni erano passati dal conflitto tra Azione Cattolica e fascismo. I giovani cattolici, anche i piccoli aspiranti, non erano visti di buon occhio dai dirigenti fascisti; soprattutto da quelli dell’Opera Nazionale Balilla.
Oggi l’Oratorio di San Filippo è chiuso. Ne funziona un altro più grande e più moderno in un’altra parte della città. Ma mi sembra diverso, meno bello. Ed è logico che sia così. Ogni età deve avere i suoi ricordi. Molti di quei ragazzi di allora sono morti. Alcuni militano ancora nelle varie organizzazioni cattoliche. Altri invece sono passati ad altri ideali. Forse oggi non pensano più a quei tempi. Tace la campanina della chiesa dimenticata dove oggi non officia più nessuno. Ma nel ricordo essa accompagnerà, magari come un’eco lontana, coloro che un giorno, ragazzi, risposero al suo appello festivo. SILVANO BERTINI
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“La Spalletta”, 1 ottobre 2005
RICORDI DI UN CATTOLICO [2] Da “Volterra”, marzo 1972
Una comunità giovanile degli Anni Trenta «LA FANFARA DELL’ORATORIO» Se consideriamo la notevole carenza di interessi per la musica che si riscontra oggi a Volterra sembra impossibile che negli Anni Trenta sia potuto accadere nella nostra città quanto stiamo per rievocare. Per diversi anni ci fu, allora, una piccola fanfara composta di ragazzi e di giovani che allietò con le sue allegre marcette bersaglieresche, processioni, feste religiose e civili ed allegre e rumorose scampagnate di ragazzi. DON PEDUSSIA E L’ORATORIO La piccola formazione bandistica fu uno dei tanti risultati scaturiti dalla dinamica, tenace, moderna volontà di don Luigi Pedussia, un sacerdote salesiano piemontese, nato a Carmagnola, presso Torino, e venuto a Volterra in qualità di segretario del vescovo monsignor Dante Maria Munerati, anche lui appartenente alla congregazione salesiana. Allora, quando si parlava di don Pedussia, i pareri, specialmente tra il clero, erano contrastanti e nettamente divisi in due settori. C’era chi lo appoggiava moralmente ed economicamente, chi lo aiutava in tutti i modi e c’era anche chi non poteva reprimere un moto di fastidio e di stizza. Invidia per i suoi successi riportati tra i giovani che raccoglieva da ogni parte della città nell’Oratorio di San Filippo? Amore per il quieto vivere compromesso dalla dinamica opera del sacerdote piemontese? Diffidenza verso forme di vita religiosa considerate troppo audaci e moderne e lontane dalle tradizioni locali? Chissà! Profondo è il mistero del cuore umano. Forse queste ragioni sopra accennate c’entravano un po’ tutte, insieme ad altre meno nobili. Mettere su quella fanfara di ragazzi non fu un’impresa facile. Prima furono comprati gli strumenti, con offerte raccolte da varie parti, poi la semplice divisa consistente in una maglietta blue scuro. Ma, soprattutto, occorreva un maestro che avesse la capacità, il temperamento, la pazienza di insegnare la musica (perché quei ragazzi, quando suonavano, conoscevano tutti la musica) a dei monelli vivacissimi che andavano dai dieci ai diciotto anni. Erano ragazzi allegri, spensierati, distratti, abituati a stare per le strade. Ci sarebbe voluto un miracolo ed il miracolo avvenne grazie alla intelligente, tenace opera del signor Giuseppe Fivizzoli che fu il maestro, il creatore di quella fanfara.
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Il “sor Giuseppe” non era di Volterra. Era giunto sul poggio da Altopascio poco dopo il 1922. Conosceva bene la musica ed aveva suonato tanto in bande militari durante la prima guerra mondiale quando era sergente dei bersaglieri ed anche in piccole orchestrine da ballo. Era, allora, una delle colonne della Filarmonica Volterrana. Suonava come prima cornetta in quella banda di cui fu presidente il maestro Mori e che, più tardi, fu diretta dal maestro Cornacchini. Grazie ad un giornalino scritto a mano e poligrafato siamo in grado di conoscere le date precise della nascita e di molte esibizioni della piccola fanfara. «Voce Giovanile – periodico dell’Oratorio di San Filippo e dell’Associazione Giovanile di A.C. San Giovanni Bosco di Volterra» è il titolo della modesta pubblicazione consistente in quattro paginette formato protocollo, redatta, in gran parte, e scritta interamente a mano (su tre colonne) da Enzo Fivizzoli. Il primo numero è del gennaio 1933. Nel numero del dicembre 1933 c’è la seguente notizia che riportiamo: «La fanfarina del nostro Oratorio è uscita in pubblico per la prima volta prestando servizio in Piazza dei Priori ed al Teatro Persio Flacco. I nostri piccoli musicanti hanno brillantemente superato la prova del fuoco. Rallegramenti». Tutto questo era il risultato di un lungo periodo di lavoro, di studio, di prove, di sacrifici compiuti con entusiasmo da quei ragazzi che, quando marciavano al rullo di tamburo o suonavano i loro pezzi, erano seguiti da un nuvolo di bambini e di giovanetti che li guardavano, un po’ invidiosi, con gli occhi sgranati. Le prove si facevano in uno stanzino dietro la chiesa di San Filippo, a cui si accedeva da un usciolino scalcinato, vicino allo sbocco su Piazza dei Fornelli. Era una stanza per tutti gli usi, di 5 metri per 3,90. Da un lato, in un angolo, pendeva la fune della campana del piccolo campanile dell’Oratorio. Oltre che per la scuola di musica, essa serviva, volta per volta, da sala per le adunanze dell’Associazione Cattolica Giovanile, da locale per la scuola di catechismo, da teatrino, da biblioteca circolante, da saletta di proiezione per le comiche mute di Charlot, di Ridolini e di Cretinetti, da sala di ping-pong. Sfogliando «Voce Giovanile» è possibile ricostruire le tappe delle principali esibizioni della fanfara la cui vita è strettamente legata a quella dell’Oratorio di San Filippo e dell’Associazione Giovanile. Ne costituiva l’espressione più evidente e più rumorosa. NOTIZIE SULL’ATTIVITÀ DELLA FANFARA Indichiamo qui rapidamente qualche notizia che può essere utile per avere un’idea della Volterra giovanile di quei tempi. Si pensi che, settimanalmente, frequentavano l’Oratorio alcune centinaia di ragazzi e ragazze. - 24 dicembre 1933: festa della Madre al teatro Persio Flacco. Nel pomeriggio dello stesso giorno, gita a Villamagna su invito dell’indimenticabile don Castello, parroco di quella frazione. - 22 aprile 1934: festa di San Giovanni Bosco, celebrata in tutta la città ma, in maniera particolare nelle strade e nei vicoli vicini alla chiesa di San Filippo. - 10 maggio 1934: processione del Corpus Domini.
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- 3 giugno 1934: gita a Lanciaia con escursione a piedi alla rocca di Sillano. - 14 settembre 1934: gita a San Cipriano con tutti i ragazzi dell’Oratorio. - 11 novembre 1934: festa al Seminario di Sant’Andrea. - 19 marzo 1935: festa di San Giuseppe; gita a Collesalvetti presso l’Istituto salesiano. - 14 luglio 1935: la fanfara con tutti i ragazzi di Volterra è presente a Casaglia per un convegno giovanile cattolico delle zone di Cecina e di Volterra. - 11 luglio 1936: gita al Fagianino; cento ragazzi tra maschi e femmine fanno una passeggiata alla villa del colonnello Lagorio. Queste sono alcune delle esibizioni della banda (potremmo parlare di quelle a Saline, ad Ulignano, a Livorno, eccetera). Inoltre tutte le domeniche la fanfarina, per mantenersi in esercizio (oltre, naturalmente, alle prove serali) prestava servizio presso l’Oratorio. Solo chi vi ha preso parte può capire che cosa costituissero quelle gite, gratuite o quasi, per quei ragazzi del popolo: sia che esse si svolgessero a piedi o con degli autocarri. Sì, a quei tempi non si usavano i comodi autobus di oggi. Costava troppo il noleggio di uno di essi, anche scassatissimo. Si ricorreva allora ad uno o due autocarri sbuffanti e scoppiettanti. I ragazzi sedevano su delle panche laterali e trasversali fissate alla meglio. L’autocarro era coperto con un telo. Ma le strade erano quelle che erano: non asfaltate, tutte poggi e buche. Si alzava un polverone fittissimo che ricopriva tutto e tutti. Quando si scendeva i volti e le vesti erano simili a quelli di un mugnaio. Quasi tutti i gitanti erano còlti da mal d’auto. Il peggio era per i piccoli musicanti che, spesso, appena scesi, dovevano, con lo stomaco sottosopra per i conati del vomito, imboccare lo strumento e suonare i pezzi in programma. Ma tutto passava presto: le preoccupazioni... riprendevano solo quando giungeva il momento del ritorno a casa, al pensiero di affrontare di nuovo quelle orribili strade polverose. I parenti che aspettavano, a sera inoltrata, il ritorno dei figli, assonnati ma felici, li accoglievano come se fossero reduci da chissà quali lontane contrade. Erano così rare, allora, per un ragazzo le occasioni di lasciare la città! UNA NUOVA SEDE E POI LA CRISI Con il 1° settembre 1935 era avvenuto un fatto assai importante per la vita della fanfara e per i giovani dell’Associazione. Le due organizzazioni avevano trovato una nuova sede in Via Buomparenti, tra i locali dove poi sorse la libreria dell’Araldo e la bottega di vino all’angolo di Piazza Minucci. C’erano tre stanze, libere l’una dall’altra e due ampi corridoi. Era molto di più di quanto avessero mai sognato i ragazzi. L’avvenire sembrava, quindi, dei più rosei. Decine di ragazzi si iscrivevano all’Associazione, la fanfara sembrava prossima ad un potenziamento eccezionale. Purtroppo non fu così. Cominciò quella serie di guerre che dovevano ridurre l’Italia un mucchio di macerie. Sabato 15 febbraio 1936 il maestro Giuseppe Fivizzoli partiva per l’Africa. Fu il primo duro colpo. Nel luglio 1936 «Voce Giovanile» registrava già i primi sintomi
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di crisi della fanfara per l’assenza del maestro. Molti ragazzi venivano alle prove con minore assiduità. Non c’erano progressi: si era costretti a vivacchiare alla meglio. I supplenti del maestro, i giovani Amabilio Nencini e Dino Bulleri, facevano l’impossibile. Ma poco tempo dopo iniziarono le partenze per il servizio militare di alcuni dei suonatori più anziani. C’era nell’aria il presentimento della tragedia che avrebbe sconvolto il mondo. Dopo l’aggressione all’Etiopia venne l’intervento fascista in Spagna. La crisi si aggravò con l’inizio delle persecuzioni razziali che turbarono molto i giovani della piccola comunità. Ci furono altri richiami alle armi. Poi fu la guerra. La fanfara si sciolse. L’Associazione continuò a vivacchiare alla meglio, decapitata, decimata dalle partenze dei soci più grandi e dall’incomprensione di molti preti di Volterra. La bella sede fu presto abbandonata e si ritornò presso l’Oratorio di San Filippo. Ormai quell’esperienza era finita per sempre. Dopo la guerra i problemi erano tanti e diversi. Vi furono iniziative giovanili in forme diverse ed in altri settori che sarebbe interessante analizzare. Poi, piano piano, scomparve anche l’Oratorio. I ragazzi di un tempo erano maturati: presero vie diverse anche se in tutti, e ce lo hanno ribadito anche in questa occasione, rimase vivo il ricordo di quei tempi lontani e l’eco di quelle musiche elettrizzanti che rallegrarono tante ore della loro povera fanciullezza. Vogliamo qui ricordare i nomi dei componenti di quella piccola fanfara. Crediamo che siano tutti: se ci fosse qualche omissione, del tutto involontaria, siamo pronti a rettificare. Questi ragazzi (tuttora viventi, tranne due) furono: Venio Balducci, Luciano Bocci, Dino Bulleri, Fazio Brogi, Defendo Calastri, Ottorino Cecchelli, Renato Ciandri, Ivo Del Colombo, Valerio Del Colombo, Franco Degli Innocenti, Vinicio Degli Innocenti, Marcello Duccini, Guido Fantozzi, Enzo Fivizzoli, Silvano Fivizzoli, Luciano Meucci, Guido Moretti, Amabilio Nencini, Giampiero Paradisi, Guido Ragli, Venio Salvestrini, Germano Toncelli, Vannuccio Trinciarelli. E maestro, guida, animatore, con la sua cornetta d’oro, il signor Giuseppe Fivizzoli. CONCLUSIONE E BREVE POLEMICA A chiusura di questa rievocazione sorge spontanea una riflessione. Che cosa è rimasto di quella esperienza allora così viva? Sul piano individuale, certamente, parecchio. Sul piano cittadino, invece, quasi tutto è andato perduto, nel senso che non ci risulta che oggi esistano organismi, associazioni, circoli numerosi e vivi (a parte qualche gruppetto che si occupa di sport) che abbiano portato avanti, in nuove forme, il discorso dell’Associazione Giovanile con un ventaglio di interessi paragonabili a quelli a cui ci riferiamo (sport, musica, cultura, escursionismo, gite, giochi, problematica religiosa, eccetera). Educatori, genitori, insegnanti, sacerdoti non hanno saputo, o potuto, o voluto creare strutture e metodologie più moderne ma valide per i giovani di ambo i sessi, in questi ultimi anni: si fa presto a dire che i giovani sono cambiati. Anche quelli di allora erano giovani diversi da quelli che li avevano preceduti e le cose, come abbiamo detto all’inizio, non sempre andavano lisce: c’era anche allora chi si scanda-
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lizzava, chi metteva il bastone tra le ruote. Probabilmente gli adulti non hanno avuto fiducia nei giovani perché sono rimasti troppo... vecchi o sono invidiosi di un bene (la gioventù) perduto per sempre e disposti, perciò, ad osteggiare stizzosamente i giovani con le armi della maliziosa maturità e della disincantata vecchiaia. Hanno avuto paura di scandalizzare il prossimo, il perbenismo ossequioso ed untuoso. Sono stati troppo egoisti. Hanno creduto che dare ai giovani più benessere economico bastasse per riempire la solitudine, l’eterno dramma dell’inserimento del giovane nella società. Non è vero che i giovani, oggi, abbiano tutto. E’ un discorso cretino: i giovani, oggi, sono più soli di quanto mai siano stati prima ed hanno paura della società che abbiamo creato, una società mostruosa, incontrollata ed impazzita che dovrebbe fare paura anche a noi adulti, apprendisti stregoni, che ce la siamo lasciata sfuggire quasi completamente di mano. Allora, in tempi amari e tristi, i giovani trovarono qualcuno che si sacrificò per loro, sul serio, per molto tempo, disinteressatamente, e furono disposti a sacrificarsi anch’essi. Ci fu qualcuno che dette loro piena fiducia, silenziosamente, umanamente. Oggi ci sembra che manchi soprattutto questo. Nel dopo guerra la insipienza di certe gerarchie ecclesiastiche giunse al punto di distruggere la chiesa dell’Oratorio di San Filippo per farne un magazzino-deposito per le merci della Pontificia Commissione Assistenza (di roba spesso avariata, in balia dei topi), togliendo così una delle possibilità fondamentali per una eventuale ristrutturazione di una comunità giovanile su basi moderne, per un auditorio, per una sala cinematografica, per un cineforum, per mostre, per filodrammatiche o per qualsiasi altra manifestazione in cui i giovani avrebbero potuto manifestare liberamente la loro personalità. Non ci fu verso. Menti ristrette ebbero paura del nuovo, della libertà, guardarono sempre con sospetto chiunque avanzasse ipotesi, progetti, suggerimenti. Oggi siamo al punto in cui siamo. Se qualcuno ha da dire qualcosa lo dica. C’è bisogno d’interessarsi, e non in maniera paternalistica e stupida ma civica ed umana, anche di questo problema. E si ricordi che non è facile e che non esistono ricette infallibili e semplici. In un mondo basato sulla legge dell’egoismo legalizzato, sullo spirito di sopraffazione, di violenza dei più ricchi, dei notabili, dei più forti, geloso di privilegi, più o meno onestamente acquisiti, i giovani sono soli a cercare la loro strada. Per lo meno non pretendiamo di voler plasmare il mondo futuro, il loro mondo, a nostra immagine e somiglianza. BIBLIOGRAFIA: 1. 2.
«Voce Giovanile» periodico mensile poligrafato dall’Oratorio di San Filippo e all’Associazione di A. C. di San Giovanni Bosco di Volterra. Annate 1933-1934-1935-1946. Sull’Oratorio di San Filippo si veda anche: Ricordando l’Oratorio di S. Filippo di Silvano Bertini su “Volterra” del marzo 1964.
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“La Spalletta”, 8 ottobre 2005
RICORDI DI UN CATTOLICO [3] Da “L’Araldo”, 17 e 24/XI e 1/XII 1974
DON LUIGI PEDUSSIA Appunti e notizie sulla vita dei cattolici nella città di Volterra DON PEDUSSIA UOMO DI DIO Ciascuno ha incise nel fondo della memoria alcune figure che emergono nitidamente e che l’usura del tempo non rende evanescenti ma anzi fa apparire più vive e più simpatiche. Una di queste è la figura rubizza, dal mento un po’ aguzzo, di don Luigi Pedussia, prete salesiano che a Volterra ha speso una buona parte della sua vita sacerdotale. Pochissimi lo hanno ricordato: io che cominciai a conoscerlo agli inizi degli Anni Trenta e che l’ho visto all’opera fino al momento della morte di mons. Munerati, di cui era segretario, mi proverò a ricordarlo. Questa non sarà una biografia in senso normale del termine, ma piuttosto una serie di appunti, di ricordi, di impressioni forse non del tutto in perfetta cronologia. Ma forse don Pedussia una biografia tradizionale non la vorrebbe nemmeno. Era assai schivo e molto modesto ed attribuiva tutto quello che di bello e di buono faceva al suo santo prediletto, Giovanni Bosco, fondatore dell’ordine a cui apparteneva. Don Pedussia era nato nel 1881 a Carmagnola (in provincia di Torino) da una famiglia contadina che aveva molti figli. Ben presto entrò nell’ordine dei Salesiani e, ancora seminarista, ebbe il suo primo incontro con Dante Munerati, allora già sacerdote salesiano, ma non ancora vescovo. Dante Munerati aveva bisogno di un giovane che fungesse da segretario per un certo periodo di tempo per certi suoi studi e ricerche che lo impegnavano molto. Gli fu assegnato, per caso, il giovane Pedussia, seminarista tenace, intelligente, attento, riflessivo e… testardo. Quando fu nominato vescovo di Volterra fece intendere alla sua congregazione che sarebbe andato a Volterra solo se gli avessero affidato come segretario don Luigi Pedussia. Si iniziò così, tra i due, quel sodalizio che sarebbe durato per tutta la vita del vescovo. Per don Pedussia fu inefficace, infatti, la prassi del suo ordine che, in genere, nel giro di sei anni trasferiva i sacerdoti da una casa all’altra. Il binomio vescovo Munerati-don Pedussia sarebbe stato interrotto solo dalla morte. UN ORATORIO E TANTA GIOVENTÙ Qui a Volterra don Pedussia era destinato ad essere un prete in solitudine… sacerdotale: ossia, i sacerdoti, in genere, non lo potevano soffrire. La solitudine per un
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prete non è cosa eccezionale, ma deve essere triste non legare con i confratelli. Tutto sommato, quando con la morte del Munerati don Pedussia se ne andò da Volterra, moltissimi furono felici di liberarsene. Quel prete piemontese, tenace, attivo aveva turbato il quieto vivere di tanta gente pastoralmente o arretrata o addormentata. Centinaia di volterrani, allora ragazzi, ricordano con simpatia ed affetto questo prete della loro fanciullezza ed adolescenza. Quasi nessun prete lo ha amato o lo ha ricordato o lo ricorda con simpatia. Don Pedussia a Volterra non si limitò, infatti, a fare il segretario del vescovo ma, seguendo la vocazione salesiana, si dedicò alla cura dei giovani. In Via Coda Rimessa c’era un Oratorio ormai chiuso da tempo. Era la chiesa di San Filippo, fatta costruire da un Guarnacci ai primi del ‘600. Il luogo allora (ed anche oggi) apparteneva alla centuria di San Filippo. Nel passato aveva svolto una funzione particolarmente interessante e che sarebbe bene che qualcuno, un giorno, illustrasse più ampiamente. Vi si erano svolte delle veglie sacre con accompagnamento musicale. Il maestro volterrano Annibale Cinci, benemerito anche in altri campi per i suoi studi di storia locale, vi aveva tenuto un Oratorio festivo ed una scuola per i giovani più poveri della città, nella prima metà dell’Ottocento. La chiesa era piena di polvere e dimenticata ed intristiva in un semiabbandono. Don Pedussia, con l’appoggio del vescovo, l’aprì per istituirvi un Oratorio festivo che durò fino al dopo guerra quando l’ambiente e la chiesa furono distrutti nelle strutture interne e tutto fu ridotto ad un magazzino della P.O.A. (quanti delitti si sono compiuti e si compiono ancora oggi in nome del… bene!). I POCHI AMICI Accanto all’Oratorio, che divenne una comunità giovanile singolare e mai più ricostruita in Volterra, sorsero i Cooperatori e le Cooperatrici salesiani; frequentemente si riunirono nella chiesa padri e madri di ragazzi di tutta la città. Fu questo uno dei meriti più grandi di don Pedussia. Dopo di lui, mai più, nonostante altri generosi tentativi, fu possibile riunire insieme i ragazzi della città in una esperienza comunitaria così viva. Certo don Pedussia ebbe sempre costante, determinante l’appoggio dell’autorità del vescovo Munerati. E di un aiuto così autorevole c’era veramente bisogno perché gelosie, incomprensioni, invidie, sospetti ed anche peggio accompagnarono il generoso lavoro di don Pedussia. Pochissimi furono i sacerdoti che lo capirono, che lo aiutarono. Io ricordo soltanto don Cavagnera, padre spirituale del Seminario, il canonico Bellini, i seminaristi del Seminario vescovile che tenevano le varie classi di catechismo ed alcune suore dell’Istituto San Giuseppe e, fra tutte, l’infaticabile suor Concetta. Sporadicamente appariva qualche altro sacerdote (don Mancini), ma per il resto fu gelo e freddezza. Si brontolava che, in quella vecchia chiesa, quella masnada di ragazzi e ragazze, prima o poi, avrebbero spaccato tutto (si vide bene invece, chi, nel dopoguerra,
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avrebbe spaccato tutto). Poi non si riusciva a capire perché tutti quei ragazzi e quei giovani, al suono della campanella dell’Oratorio, giungessero da tutta la città ad affollare, contenti, la vasta chiesa, disertando le Messe e le chiese parrocchiali. Eppure di ragioni ce n’erano parecchie e neanche difficili a capirsi. UNA MESSA COMPRENSIBILE La riforma liturgica era allora nella mente di Dio, ma la Messa dell’Oratorio non era così noiosa ed incomprensibile come le altre Messe. Qui si cantava in italiano ed in latino dal principio alla fine. C’era un piccolo armonium che riempiva di musica la chiesa: c’erano gli a solo dei ragazzi e delle ragazze più vocalmente dotati. C’era una realtà: era la Messa per giovani. La Messa era solo uno degli aspetti delle tante attività di quella comunità giovanile; c’era anche una intuizione di don Pedussia: non si è mai vista un’anima disincarnata dal corpo e lui pensava anche al corpo. In quei tempi di miseria, dopo la Messa, si distribuiva, a tutti i presenti, una pasta, un panino, un sacchetto di caramelle; c’erano le gare di catechismo con le premiazioni finali (libri, scarpe, pezze di stoffa per cucire vestiti, giocattoli), c’erano le gite, c’era la fanfara, c’era tanta allegria e tanta giovinezza. Anche perché don Pedussia aveva capito queste cose, i giovani gli volevano bene. La festa di San Giovanni Bosco era celebrata in maniera eccezionale come mai a Volterra è stato celebrato nessun altro santo. Le vie della zona vicino a San Filippo erano parate con festoni, con lampioncini che a sera venivano accesi: la chiesa risplendeva di luce, c’era una processione per tutti i vicoli del luogo. Tutti gli abitanti si sentivano partecipi ed erano contenti per l’attività svolta da quel prete sempre allegro e sorridente che parlava in maniera così diversa dai toscani. Anche gli alabastrai della zona, liberi pensatori, emarginati dal fascismo, guardavano con curiosità e con un certa simpatia quel prete e permettevano che i loro figli frequentassero l’Oratorio. L’attività dell’Oratorio era iniziata il 10 agosto del 1925; gli iscritti erano già centocinquanta. Nel 1926-27 ci fu una crisi di presenze per contrasti ed incomprensioni. Don Pedussia, che era molto stanco, prese un periodo di vacanza. Quando ritornò trovò solo un piccolo gruppo di ragazzi che lo aspettavano con ansia. Egli era scoraggiato e forse, se i ragazzi presenti non avessero insistito, si sarebbe arreso. Da “Voce giovanile”, un foglietto poligrafato che cominciò ad uscire nel 1933 (a cura di Enzo Fivizzoli, Dino Bulleri e pochi altri) abbiamo ricavato queste notizie. Dalla preziosa pubblicazione risulta che, negli anni seguenti, gli iscritti all’Oratorio raggiunsero quasi le trecento unità, con una media oscillante approssimativamente sulle duecentocinquanta. Fra i cattolici volterrani nei burrascosi Anni Trenta DON PEDUSSIA E IL FASCISMO Gli anni in cui sorse l’Oratorio erano difficili: lo stato liberale si avviava al tramonto; già da due anni il fascismo era al potere. Con il 1925 iniziava lo stato totalitario;
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con il 1926 venivano soppressi i partiti e tutte le libere associazioni, perfino i boyscouts. Nel 1931, anche dopo i Patti Lateranensi, ci fu lo scontro con l’Azione Cattolica, che fu sul punto di essere sciolta. Il fascismo non poteva vedere, certo di buon occhio, l’attività svolta da quel prete piemontese. Don Pedussia fu di una pazienza e di una abilità diplomatica non comuni. Le adunate fasciste della domenica mattina sconvolgevano il suo lavoro pastorale, ma lui non si poteva ribellare apertamente. I ragazzi dell’Oratorio erano «quelli di don Pedussia»: venivano presi in giro con argomenti pesanti nei locali pubblici, accompagnati dal canto di «A don Bosco, al padre santo…» intonato sardonicamente e con allusioni volgari. Anche nelle adunate del sabato fascista, in genere, non avevano vita facile, specialmente se erano iscritti anche all’Azione Cattolica San Giovanni Bosco. Poveri pomeriggi del sabato, sciupati nel non far niente, nel marciare assurdamente in su ed in giù nell’orto dell’asilo infantile, all’interno dei locali dell’Opera Nazionale Balilla (e poi Gioventù Italiana del Littorio) di Via San Lino! Il turpiloquio, la bestemmia, le canzoni sguaiate ed irriverenti erano la cosa più normale, mentre capimanipoli, ufficialetti e dirigenti infrusciaccati, pettoruti, saputelli e boriosi facevano la gara a mettere in vetrina i ritrovati suggeriti dai “Fogli d’Ordine” della Direzione centrale del Partito Nazionale Fascista. Giravano, abbaiavano ordini e contrordini o lasciavano i ragazzi nell’inerzia mentale e ideologica più assoluta. Non si imparava niente di buono. Don Pedussia, ad un certo punto, chiese di fare il cappellano della G.I.L. e tentò, per qualche sabato, di svolgere delle lezioni di religione, insieme ad altri che cercavano di impartire un insegnamento qualsiasi, per far cessare quella specie di bolgia. Ma il tentativo durò poco. Si accorse presto che in quell’ambiente ogni fatica era inutile. Forse fece quell’esperienza per far cessare l’ostilità di alcuni sacerdoti notoriamente fascisti, forse per impedire più gravi limitazioni al suo Oratorio. Qualcuno, più tardi, lo accusò di filofascismo. Niente di più assurdo ed inesatto. Se negli ambienti cattolici volterrani ci fu qualcuno che, anche durante gli anni 19351936 quando il fascismo era all’apogeo, fece delle critiche al regime, questo avvenne negli ambienti dei ragazzi più grandi di don Pedussia. Verso la fine degli anni Trenta fu arrestato a Torino Aldo Pedussia, nipote di don Luigi. E’ questa una pagina che non molti a Volterra conoscono e che è bene qui ricordare. Rammento i pianti ed il dolore del buon prete quando giunse la notizia dell’arresto e della condanna da parte del Tribunale Speciale Fascista. Aldo Pedussia, fin dagli anni dell’università, fu uno dei capi, anzi il più attivo, del movimento Giustizia e Libertà in Piemonte. Ne ha parlato recentemente anche Guido Calogero nel corso di una trasmissione televisiva dedicata ai protagonisti della lotta antifascista (lunedì 9 settembre 1974). Tra i documenti (esposti anche a Volterra al Palazzo dei Priori) della «Mostra dell’Antifascismo e della Resistenza» itinerante per tutta l’Italia, erano riprodotte anche alcune lettere di Aldo Pedussia ai suoi cari, in cui si parlava di “zio Luigi”. Aldo Pedussia era allora rinchiuso nel
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carcere di San Gimignano per scontarvi una dura condanna inflittagli per la sua attività antifascista tra i giovani e gli intellettuali. Don Luigi, come risultava anche da quelle lettere, cercava di alleviare la prigionia del nipote inviandogli libri di ogni genere, molti editi dalla S.E.I., editrice salesiana, che poteva avere a buon prezzo. Ma la Direzione del carcere, forse su ordini dall’alto, forse perché impensierita dal fatto che il detenuto Aldo Pedussia leggesse libri di filosofia, di teologia, di economia e classici di ogni genere, non li passava al condannato che, nelle lettere ai familiari, alludeva sempre con una certa ironia a questi libri di cui lo zio gli parlava nelle sue lettere e che non arrivavano mai. Aldo Pedussia fu, una volta liberato dal carcere nel 1943, valoroso comandante partigiano in Piemonte nelle Brigate Giustizia e Libertà. Un fervido piemontese nella “quieta” vita religiosa di Volterra ESPERIENZE PASTORALI DI DON PEDUSSIA Il lungo episcopato di monsignor Munerati fu molto importante per Volterra. Precedentemente, sotto monsignor Mignone, si era fondato un settimanale cattolico, “La Scintilla”, vera e propria spina nel fianco del predominio liberale e monarchico che, infatti, sulle pagine de “Il Corazziere” non tardò a scatenarsi con una serie di attacchi e di polemiche. Con Munerati fu fondato “L’Araldo” le cui alterne e burrascose vicende sono state rievocate di recente su queste colonne. Penso che molto dei metodi pastorali di quel tempo sia dipeso da don Pedussia. Tutto e niente fu rivoluzionario nel suo insegnamento pastorale. Niente di eccezionale rispetto al livello medio italiano del tempo, quasi tutto di nuovo rispetto al livello cittadino e diocesano. Egli si servì di mezzi tradizionali quale il teatrino dei burattini, il cinema muto a passo ridotto (imparammo ad amare Charlot, Ridolini e gli altri eroi della risata proprio allora), la biblioteca con i libri di Ugo Mioni (caro eroe «Braccioforte»), della “Pro Famiglia”, di “Letture Cattoliche”, i tornei di ping pong, eccetera. C’era però una grossa novità: tutto era gestito, amministrato, curato, organizzato dai ragazzi più grandi dell’Oratorio. Lui tirava fuori i soldi, talvolta in maniera che a noi sembrava miracolosa. E poi venne la fanfara con la sua scuola di musica. I ragazzi non stavano mai in ozio, si giocava a pallone, si organizzavano gite, si effettuava la vendita di diecine e diecine di copie de “L’Araldo”, di “Crociata Missionaria”, di “Pro Famiglia” e di tante altre pubblicazioni. Nessuno si tirava indietro, ma nessuno era forzato a fare se non se la sentiva. L’Oratorio era come un porto di mare. Tanti approdavano e venivano accolti festosamente; c’era chi continuava a venire, chi spariva e riappariva dopo qualche tempo e chi non ritornava più. A tutti don Pedussia dava la sua fiducia, a tutti concedeva qualche minuto del suo tempo prezioso per parlare di tutto. Era onnipresente, dava consigli, esortazioni, ma lasciava una grande libertà. Nessuno doveva fare qualcosa senza entusiasmo, senza convinzione.
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Ricordo di essere stato richiamato diverse volte perché «ponevo troppe domande», sollevavo parecchi dubbi ad alcuni seminaristi della scuola di catechismo, ed essi si erano lamentati con lui. Fece quelle osservazioni con grande pazienza, sorridendo con comprensione e finendo col dire che non c’era niente di male ma che, forse, talvolta potevo farlo mettendo in imbarazzo qualcuno: anche i seminaristi, in fondo, non erano che degli studenti un poco più grandi di noi. Riusciva a realizzare un clima fraterno, di reciproco aiuto, di amicizia: chi è stato amico all’Oratorio, anche se la vita ha imposto dispersioni, divisioni, ha conservato una parte di quel prezioso patrimonio. “L’Araldo” gli portava via tanto tempo; il vescovo spesso si serviva di lui per tirare le orecchie ai preti della diocesi che lo temevano e lo vedevano come un’eminenza grigia che spingeva il vescovo buono ad essere cattivo con loro. Era un santo allora? Era perfetto? Non credo. Aveva certamente anche lui i suoi difetti, probabilmente commetteva anche lui i suoi errori ma era, secondo noi ragazzi dell’Oratorio, un vero uomo di Dio: e così ci appare anche ora a distanza di tanti anni. Non ricordo di averlo mai visto veramente arrabbiato. Addolorato, stanco, perplesso sì, ma mai adirato con qualcuno. Certo era diverso da noi toscani. La sua stirpe contadina piemontese era rimasta inalterata. Fino agli ultimi anni di vita, trascorsi nella casa salesiana di Colle Val d’Elsa, fu attivo, umile, instancabile: un vero contadino nella vigna del Signore che non si smarrisce se il raccolto non è buono, che non si dispera se le avversità atmosferiche imperversano; pronto sempre a ricominciare daccapo con spirito giovanile fino all’ultimo respiro. Ed ora chiudiamo questi ricordi che non vogliono essere affatto un’agiografia, non pretendono di essere stati esaurienti perché molto ancora si potrebbe dire sull’Oratorio di San Filippo e molti altri potrebbero dire di più. Queste righe volevano essere un contributo a quella storia locale che, nell’ambito del movimento cattolico, mi sembra essere un poco scarsina di notizie. Se tutti quelli che hanno documenti, ricordi, aneddoti li tirassero fuori, in qualche modo forse si salverebbero notizie preziose per gli storici del domani. Non sembri un’esagerazione: la storia non è fatta solo di documenti ufficiali, ma anche di diari, di riflessioni, di umori, di impressioni, di esperienze di persone o di gruppi. E tutto questo può avere un riflesso anche nella storia di più ampio respiro. Nella tomba è bello non portare niente: neppure i ricordi. Se non possiamo lasciare un’eredità di beni economici, sforziamoci, almeno, di lasciare, a chi viene dopo di noi, un’eredità di affetti: qualunque sia l’uso che ne vorranno fare i nostri nipoti. SILVANO BERTINI
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Al centro il vescovo Munerati e don Luigi Pedussia.
Il portale dell’Oratorio di San Filippo.
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“La Spalletta”, 15 ottobre 2005
ALDO PEDUSSIA Prima di addentrarci nell’esposizione dell’argomento in oggetto, desidero ringraziare la Redazione de “La Spalletta” per aver consentito la pubblicazione dei Ricordi di un cattolico di Silvano Bertini. Nell’articolo dedicato a Don Luigi Pedussia, Bertini ricordandone la figura e mettendo in evidenza i suoi rapporti, non certo condiscendenti, con il regime dittatoriale, accenna anche alla vicenda di un suo nipote: Aldo Pedussia, protagonista della lotta antifascista, prima con la cospirazione nel Movimento Universitario, successivamente come militante nel movimento Giustizia e Libertà e comandante partigiano del CLN piemontese; «una pagina che non molti a Volterra conoscono e che è bene qui ricordare». Avendo avuto l’opportunità di mettermi in contatto con il Dottor Aldo Pedussia (che gentilmente e con molto entusiasmo si è più volte reso disponibile), ho cercato di approfondire la sua conoscenza, pensando che i lettori potessero essere interessati alle vicende, decisamente non comuni, di un personaggio legato in qualche modo a Volterra. Aldo Pedussia nasce a Torino nel 1922. Studente modello, è allievo dell’Istituto Tecnico “Sommeiller”, presso il quale si diploma Ragioniere con una votazione di poco inferiore ai nove decimi, la migliore di tutta la Provincia di Torino. Si iscrive alla Facoltà di Economia dell’Università di Torino e contestualmente si impiega presso l’Istituto San Paolo, che gli aveva proposto l’assunzione già nel corso dell’anno scolastico precedente al diploma, in concorrenza con altre aziende, tra le quali la Fiat. Il curriculum resistenziale di Aldo Pedussia inizia nel 1940 con la fondazione, nella casa dei genitori in Via Principessa Clotilde 33 a Torino, del Movimento Universitario Antifascista, che dirige con altri quattro colleghi fino al gennaio 1942 allorché è arrestato e deferito al Tribunale Speciale di Roma insieme ai maggiori responsabili della organizzazione. Il Movimento che gli storici ritengono anticipatore della Resistenza 1943-45 e precursore dei Comitati di Liberazione, è considerato dall’OVRA uno dei più attivi e consistenti di tutta l’opposizione clandestina. Solamente nel gennaio 1942 la polizia fascista riesce a colpire il Movimento, con l’arresto di dirigenti e collaboratori che subiscono pesanti condanne di detenzione. Sette degli otto arrestati appartengono al «[…] gruppo che (con Aldo Pedussia) si era formato sui banchi di scuola, all’Istituto Tecnico “Germano Sommeiller” […] negli anni che vanno dal 1935 al 1940. […] Erano nati, per la gran parte, nell’anno della marcia su Roma e appartenevano a quella che avrebbe dovuto essere la prima generazione integralmente fascista, la prima generazione che non potesse fare confronti diretti tra il regime fascista e le condizioni di vita e di libertà che l’avevano preceduto […]». Questa aggregazione di giovani quasi tutti diciottenni, basava la sua attività antifascista sulla cospirazione: «[…] I torinesi che il mattino del 23 agosto 1941 uscirono di casa all’alba per andare al lavoro, ebbero la sorpresa di leggere sui muri, sul piano stradale, sulle spallette dei ponti sul Po, alcune scritte ancora fresche 18
di stampa. Chi aveva avuto il coraggio di scrivere, a vernice rossa, nella seconda estate di guerra, “Abbasso Mussolini, abbasso Hitler”? Chi aveva tracciato a caratteri cubitali “Viva l’Italia libera”? […] La medesima azione venne ripetuta nella notte tra il 20 e il 21 novembre, con una variante, l’uso dei rulli […]. Nella medesima notte s’incollarono manifestini sui muri, se ne lanciarono all’ingresso delle fabbriche, se ne infilarono sotto le serrande dei negozi di via Roma […]. Alla polizia fascista furono meno sorpresi dei semplici cittadini: già da dieci mesi, dal dicembre del 1940, cresceva sul tavolo del dirigente l’ufficio politico la pila di lettere, scritte a matita o a carta carbone e successivamente con artigianali e rudimentali strumenti di rulli tipografici, che con ordinato stampatello attaccavano violentemente fascismo e nazismo e incitavano alla ribellione […]. Le lettere venivano pazientemente scritte in carattere stampatello […]. Ognuno dei componenti il direttivo ebbe l’incarico di seguire un determinato ceto o una determinata categoria professionale e di redigere lettere tenendo conto degli interessi particolari e del grado di cultura. Il testo, naturalmente, era poi sottoposto all’approvazione di tutto il direttivo prima di essere copiato in centinaia di esemplari […]». (Aldo Pedussia, I cospiratori, Edizioni del Circolo della Resistenza dell’Azienda Acquedotto Municipale di Torino 1964). Aldo Pedussia, promotore e dirigente del Movimento, viene condannato a 14 anni di reclusione e trascorre sei mesi alle “Carceri Nuove” di Torino, quattro alle Carceri “Regina Coeli” di Roma e dieci nel Reclusorio per detenuti politici di “Forte Urbano” a Castelfranco Emilia (contrariamente a quanto riportato nell’articolo di S. Bertini, Aldo Pedussia non fu mai recluso nelle carceri di San Gimignano). Dopo venti mesi di carcere, in seguito alla destituzione di Benito Mussolini del 25 luglio, viene liberato, come tutti gli antifascisti, nell’agosto 1943. Con l’8 settembre, “braccato” continuamente da nazisti e fascisti nel frattempo ritornati al potere nel Nord Italia, inizia la sua partecipazione alla Resistenza quale Commissario della Brigata partigiana “Santorre di Santarosa”, e quindi come Ispettore del CLN della Regione Piemonte. I documenti originali della lotta ‘patriottica’ di Aldo Pedussia, relativi agli anni 1940-1945, sono conservati in un Fondo allo stesso, aperto presso l’Archivio di Stato di Torino; le lettere originali dal Carcere, nonché copie di documenti originali, sono custodite nell’Archivio Storico del Comune di Torino; un Fondo presso l’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti” comprende i documenti riguardanti la sua attività politica prima e dopo la Liberazione. Nel 1965, su proposta del Console francese in Torino, riceve le insegne di Cavaliere al “Merito Interalleato”. Dopo la Liberazione, si laurea in Economia con una Tesi d’avanguardia su “Le ragioni economiche dell’unità federalista europea”. E’ allora che inizia il suo rapporto e l’assidua frequentazione con Altiero Spinelli: diventa, infatti, esponente del Movimento Federalista Europeo e dell’Union Européenne des Fédéralistes, sia a livello piemontese che nazionale ed internazionale, fino al 1970. Su Aldo Pedussia, federalista ed europeista (1945-1957), viene assegnata, nel 2004, una Tesi di Laurea alla Facoltà di Scienze Politiche. Sempre nello stesso anno, nell’Istituto Tecnico “Sommeiller” è presentata una
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tesina per l’esame di maturità su “Aldo Pedussia, uomo della Resistenza in Torino”. Il Movimento Universitario Antifascista e il suo promotore Aldo Pedussia, sono riconosciuti pubblicamente, altresì, con una mostra nel 2003: fra i relatori è presente anche l’ex Sindaco di Torino Diego Novelli, amico ed estimatore di Aldo Pedussia, «patriota e manager di aziende pubbliche torinesi». Se di eccelso valore può definirsi l’attività sociale di Aldo Pedussia, altrettanto si dovrà dire del suo curriculum professionale. A partire dagli anni ’50 è, per un trentennio, Direttore amministrativo e poi Direttore generale dell’Azienda Acquedotto di Torino che diventerà un colosso del settore, conseguendo rilevanti risultati di economicità, solidità, efficienza, riconosciuti sia sul piano nazionale che europeo. Sotto la sua direzione, l’Azienda ottiene, nel 1965, l’Oscar per il miglior bilancio tra le aziende pubbliche italiane. Nel 1984, al collocamento in quiescenza, il Sindaco Novelli vuole insignirlo del “Sigillo Civico” della città di Torino, massima onorificenza per chi in modo encomiabile ha svolto attività a vantaggio della comunità. Iscritto all’Albo dei Commercialisti, dei Revisori contabili, dei Giornalisti pubblicisti, tra le altre cose svolge attività di insegnante di Ragioneria delle Aziende municipalizzate, con contratto presso l’Università di Torino; consegue il Master in Gestione aziendale, ottiene la cattedra di Ragioneria degli Enti pubblici presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano ed è infine insignito del titolo di “Accademico Tiberino”. In 40 anni di attività, è autore di circa 300 trattati di ragioneria e di economia; le sue pubblicazioni sono depositate presso la Biblioteca del Centro Studi Piemontesi, quale “Fondo Aldo Pedussia”. Un altro Fondo, che raccoglie suoi studi ragionieristici ed economici, è aperto presso l’Istituto Tecnico “Sommeiller”, la scuola dove si era brillantemente diplomato. Ancora giovane a dispetto dell’età, Aldo Pedussia conserva vivo il sentimento antifascista e, orgogliosamente, ben volentieri ama dissertare su quel periodo storico. Quale Presidente del Circolo della Resistenza “La Rosa Bianca”, ha promosso importanti mostre e partecipato come relatore e testimone a numerosi convegni resistenziali di rilevanza nazionale. Egli è dell’opinione che la Resistenza sia stata un fenomeno complesso di cui la guerriglia armata rappresentò soltanto la punta dell’iceberg. La vera e propria Resistenza deve considerarsi iniziata a partire dagli anni ’20: ciascuno, secondo la propria coscienza, poteva schierarsi contro il fascismo e rifiutarne l’ideologia. In questo senso si può parlare di una «maturazione della Resistenza nella Resistenza», una sorta di evoluzione interna al singolo individuo, fino alla presa di coscienza della necessità di reagire. I cattolici in particolare sarebbero approdati a questa conclusione per ragioni di coscienza e di etica. Egli ricorda che l’avversione cattolica al fascismo si manifestò perché esso rappresentava un’ideologia contraria ai principi cristiani, basata sulla sopraffazione dei più deboli elevata a sistema e sul disprezzo della persona. Dopo l’8 settembre, tutto ciò si mutò in aperta ribellione e molti giovani si unirono alle bande partigiane per liberare l’Italia. Quei giovani dell’Azione Cattolica e della FUCI che, anziché aderire alla RSI o rifugiarsi in un mero attendismo, scelsero la lotta partigiana, la videro come rivolta morale
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prima ancora che come scelta politica. Decisivo per Aldo Pedussia, in quegli anni, fu l’incontro con Aldo Capitini, teorico della non violenza e autore del saggio “Elementi di un’esperienza religiosa” in cui, condividendone l’istanza religiosa, riscontrò una forte consonanza con la propria tesi dell’autonomia e della assolutezza della scelta morale e con la propria opposizione etica al fascismo. Aldo Pedussia, precursore e protagonista della Resistenza, è citato più volte negli scritti di Aldo Capitini, di Guido Calogero e di altri storici eminenti; la sua figura è tratteggiata anche nell’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza. Nelle varie commemorazioni per il 60° Anniversario della Liberazione, è ricorrente negli interventi di Aldo Pedussia l’importanza di mantenere viva la memoria e di trasmetterla ai giovani. E nel cercar di trasmettere informazioni più veritiere, approfondisce l’indagine storica per rivalutare l’importanza della «Resistenza dimenticata», cioè quella Resistenza patriottica, autonoma, democratica, cattolica, liberale, azionista rimasta ingiustamente per troppo tempo nell’ombra. I suoi scritti di argomentazione antifascista, sono tutti basati sul principio etico espresso dallo ‘studente Pedussia’ ai propri genitori in una lettera dal carcere del 1942: «Io ho agito a fin di bene e per un’idea, per questo sono sereno e dovete esserlo anche voi». Le più significative pubblicazioni sono: - I cospiratori (Documenti di prima mano su genesi e movimenti di resistenza raccolti da un protagonista, con l’elenco dettagliato dei 924 giovani italiani con età inferiore a 23 anni, condannati dal Tribunale Speciale Fascista dal 1927 al 1943. Introduzione di Norberto Bobbio), Torino, 1964. - Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano, 1971. - Nuove, Regina Coeli, Forte Urbano (Brani di lettere dal carcere di un giovane patriota dell’anno Quaranta), Torino, 1978. Nel ricordare lo zio Luigi, traspare in Aldo Pedussia un senso di profonda emozione, accompagnata però da un sorriso ironico di reazione alla notizia dell’accusa di filofascismo che alcuni nel dopoguerra indirizzarono al prete salesiano per aver tentato, da cappellano della GIL volterrana, di salvaguardare i suoi ragazzi dall’influenza dell’esibizionismo fascista. Egli tiene a precisare come Don Luigi Pedussia, con tutta la diplomazia possibile, avesse cercato di strappare al fascismo militante la gioventù di Volterra con iniziative prettamente salesiane di natura culturale, musicale, sportiva, apprezzate dai giovani stessi. Ed avalla l’asserzione del Bertini che definisce assurda ed inesatta l’accusa di filofascismo affermando che «se negli ambienti cattolici volterrani ci fu qualcuno che, anche durante gli anni 1935-1936 quando il fascismo era all’apogeo, fece delle critiche al regime, questo avvenne negli ambienti dei ragazzi più grandi di Don Pedussia». Ricorda anche, quanto il vescovo Munerati apprezzasse suo zio, tanto da volerlo ad ogni costo con sé come segretario a Volterra. Aldo Pedussia conosceva bene Monsignor Munerati che era stato insegnante di suo padre Michele al Liceo di Parma e che poi, già vescovo, in occasione delle sue visite a Torino, alloggiava sempre con piacere nella dimora dei Pedussia in Via Principessa Clotilde (a proposito, Aldo Pedussia ama definire il padre come «suo primo integerrimo e coerente Maestro di libertà
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e di opposizione al fascismo»). Nel dicembre 1942, alla morte di Monsignor Munerati, Don Luigi fu trasferito a Roma presso la Procura Generale Salesiana, come Vice Procuratore (Procuratore era Don Tommasetti): bene, in quella sede, negli anni ’40, si ritrovarono clandestinamente i principali avversari del regime prima del 25 luglio 1943, cioè quegli antifascisti non definibili “dell’ultima ora”. Fu poi sempre Don Luigi che, con disposizione ad hoc, alla liberazione dei detenuti politici da parte del governo Badoglio nell’agosto 1943, partì da Roma per rilevare dal Reclusorio di Castelfranco Emilia il nipote Aldo ed accompagnarlo a Carmagnola (paese natio di Michele e Luigi Pedussia) dove la famiglia era sfollata. Queste notizie che molto cordialmente il Dottor Aldo Pedussia mi ha fornito, oltre ad averci fatto conoscere lo spessore di un antifascista di così grande levatura, credo possano contribuire anche a delineare meglio la figura di quel salesiano, personaggio scomodo per molti, che per un ventennio, in un contesto avverso e pervaso da una ideologia nefasta, fu determinante per la formazione di tanti ragazzi volterrani. FABRIZIO ROSTICCI
Aldo Pedussia, immagine del 2004.
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“La Spalletta”, 5 novembre 2005
“LA SPALLETTA” NEGLI ARCHIVI STORICI TORINESI Egregio Direttore, con piacere ti rimando quanto per mio tramite il Dottor Aldo Pedussia ha voluto farti pervenire a ringraziamento dell’articolo pubblicato il 15 ottobre scorso. Penso sarà poi motivo di soddisfazione per te ed anche per la Redazione, comunicarti che alcune copie di quel numero de “La Spalletta” saranno depositate presso i vari Istituti e Archivi Storici torinesi dove è conservata la documentazione ‘patriottica’ e professionale relativa ad Aldo Pedussia. L’illustre nipote del salesiano piemontese, Don Luigi Pedussia, che a Volterra, per circa un ventennio, fu promotore e animatore della Comunità giovanile dell’Oratorio di San Filippo e che recentemente è stato ricordato sulle pagine del tuo settimanale con alcuni articoli di Silvano Bertini [Ricordo dell’Oratorio, La Fanfara dell’Oratorio, Don Luigi Pedussia, “La Spalletta” 3 settembre e 1 e 8 ottobre 2005]. Cordiali saluti, FABRIZIO ROSTICCI
Torino, 25 ottobre 2005
Spettabile Direzione “La Spalletta” di Volterra A mezzo l’encomiabile sig. Fabrizio Rosticci, desidero ringraziare la Direzione della pregevole Rivista volterrana “La Spalletta” per aver voluto, con articoli del sig. Rosticci, ricordare nella storia di Volterra mio zio Don Luigi Pedussia e di riflesso il sottoscritto suo nipote, esponendo il suo ‘curriculum’ patriottico e professionale (del primo - ‘resistenziale’ - ebbero a parlarne i professori Capitini e Calogero, nonché altri storici). Il tutto è tratto da documenti originali, contenuti in dossier intestati a “Fondo Aldo Pedussia”, presso: l’Archivio di Stato di Torino; l’Archivio Storico del Comune di Torino (dal quale fu insignito del Sigillo Civico); il Centro Studi “Giorgio Catti” sulla Resistenza (del quale è oggi Presidente Onorario); l’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza di Torino; l’Archivio del Liceo Tecnico “Germano Sommeiller” (di cui il sottoscritto fu allievo negli Anni Trenta). Con i migliori e cordiali saluti, Aldo Pedussia
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