LIBRI PICCOLI VOLAND•33
Emil Cioran Sulla Francia
Emil Cioran Sulla Francia cura e traduzione di Giovanni Rotiroti
Voland
Titolo originale: De la France © Editions de l’HERNE, 2009 Published by arrangement with Agence litteraire Pierre Astier & Associés ALL RIGHTS RESERVED © dell’edizione italiana Voland Srl Roma 2014 Tutti i diritti riservati Prima edizione: settembre 2014 ISBN 978-88-6243-164-4
LA CONVERSIONE DI CIORAN SULLA VIA DELLA FRANCIA AL TRAMONTO di Giovanni Rotiroti
Siamo un popolo troppo buono, troppo onesto, troppo per bene. Io posso solamente amare una Romania in delirio. Tutti coloro che non amano così tanto il popolo romeno quanto lo amo io – poiché non hanno a cuore il suo futuro – sostengono che la qualità essenziale e il grande merito del romeno sia l’umanità. Non voglio dire che essa sia un difetto, ma mi è impossibile scoprirvi altra cosa che non sia una virtù mediocre, che non possa essere un culmine se non per uomini privi di personalità. In un mondo in cui solo l’eccesso del cuore e dell’intelligenza, la frenesia e il calcolo equivoco, i forti istinti e l’ipocrisia possono favorire l’elevazione, a cosa ci servirebbe una così grande bontà collettiva? Che cos’è l’umanità? Dare all’uomo ciò che appartiene all’uomo. Alla mia sete di conflitti, nel mondo delle apparenze, non riesco a trovare una parola contraria più detestabile se non questa umanità. Se potessi augurare alla Romania di vivere in pace e al fresco, sarei contento anch’io 7
della nostra umanità e mi assocerei con un elogio accomodante e piatto. Ma è meglio una rovina con brio piuttosto che un benessere insignificante. Chi non vive in modo apocalittico il destino della Romania non capisce niente di ciò che dobbiamo diventare. Ognuno di noi dovrebbe lacerarsi le carni sull’imperativo del nostro divenire. Quando si dirà che l’ardore e non l’umanità è la qualità essenziale e privilegiata della Romania, incrocerò le braccia e aspetterò di scivolare automaticamente con essa verso la gloria. Che vengano la passione, il fuoco, lo slancio e persino il terrore... La Francia è opera dell’entusiasmo molto più che del razionalismo o del classicismo. D’altronde, la passione cieca per la logica le è servita di più della logica stessa.1
Questo brano di Emil Cioran si trova nel suo libro del 1936 La Trasfigurazione della Romania, ripubblicato nel 1941 sempre a Bucarest. Nello spazio di pochi anni, una volta che si sarà definitivamente stabilito a Parigi il pensatore di Răşinari cambierà radicalmente idea a proposito della Francia. Nel 1941 – tempo in cui Cioran redige a matita i suoi pensieri sparsi in queste pagine intitolate Despre Franţa – le armate tedesche, che hanno sfilato prima sugli 8
Champs-Élysées per poi risalire il boulevard Saint-Michel, hanno già occupato la città che lo ospita. Cioran era arrivato a Parigi ufficialmente in borsa di studio nel 1937 per approfondire i suoi studi filosofici su Bergson, e nel 1941 aveva già alle spalle una rapidissima “carriera diplomatica finita”2 nello spazio di pochi mesi, cioè da marzo a giugno di quello stesso anno presso la Legazione romena di Vichy. Il suo soggiorno francese di studio e di “missione filosofica”, come scrive ad Alphonse Dupront, era stato interrotto a cavallo tra il 1940 e il 1941 a causa di un tempestivo rientro in patria. A tutta velocità, Cioran, dalle rive della Senna era approdato alle sponde del Danubio, e aveva pronunciato alla radio di Bucarest il 27 novembre 1940 queste “esaltazioni di uno scettico” per onorare la memoria del “Capitano”, Corneliu Zelea Codreanu, il leader storico e leggendario del Movimento Legionario, che era stato ucciso dal regime di re Carlo II di Romania nel 1938:
Dinanzi al Capitano, nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido. Una regione umana assillata dall’essenziale. La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e 9
la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia. La fede di un uomo ha dato vita ad un mondo che lascia dietro sé la tragedia antica e Shakespeare. E questo, nei Balcani! Sul piano assoluto, se avessi dovuto scegliere tra la Romania e il Capitano, non avrei indugiato un attimo. Dopo la sua morte tutti ci siamo sentiti più soli ma sulla nostra solitudine s’innalza la solitudine della Romania. Nessuna penna intinta nell’inchiostro della sciagura potrebbe descrivere il nostro destino sventurato. Tuttavia, dobbiamo essere vigliacchi e consolarci. Ad eccezione di Gesù, nessun morto è stato più presente tra i vivi. Qualcuno ha mai pensato qualche volta di dimenticarlo? “Da qui in avanti il paese sarà guidato da un morto”, mi diceva un amico sulle sponde della Senna. Questo morto ha diffuso un profumo di eternità sulla nostra pochezza umana, e ha riportato il cielo sopra la Romania.3
Al di là delle sue personali convinzioni ideologiche, questa dimostrazione pubblica di fedeltà alla memoria del “Capitano” – al quale Cioran aveva regalato una 10
copia della Trasfigurazione della Romania – consentirà al filosofo di Transilvania di sfuggire alla chiamata alle armi sul fronte russo e di beneficiare ufficialmente di una missione diplomatica in Francia, diventando così, agli occhi dell’amico scrittore Mihail Sebastian – su cui pesava la “colpa” in Romania, sotto il regime militare e legionario di quel periodo, di essere ebreo – “un uomo interessante, estremamente intelligente, senza pregiudizi e con una doppia dose di cinismo e di viltà, riunite in modo divertente”.4 Ma a Parigi, il sentimento di Cioran – che tra il 1933 e il 1934 aveva visto sfilare, rapito da traboccanti emozioni, le marce trionfali naziste a Berlino e a Monaco5 – è completamente mutato. Cioran riprende in mano La Trasfigurazione della Romania, da poco ripubblicata nel suo paese d’origine, dopo il suo exploit radiofonico, e comincia a riscriverla cambiandone il segno e mutandone radicalmente i toni. Lo stile di Schimbarea la faţă a României è abbandonato. Il “fanatico” Cioran, animato dal fuoco, dallo slancio frenetico, dallo spirito di crociata e persino dal terrore, si trasforma, in queste insolite pagine sulla Francia scritte tutte di getto, in un “esteta dei tramonti della cultura” che getta “uno sguardo tempestoso e trasognato sulle acque morte dello spirito”. Despre Franţa segna appunto questo rivoluzionario cambio di passo, e mutamento di “veduta”, nella scrittura e nello stile compositivo di Cioran. 11
Considerandolo giustamente “il libro cerniera di Cioran” tra l’opera romena e quella futura scritta direttamente in francese, Alain Paruit – che non solo ha tradotto in francese per L’Herne Despre Franţa, ma ha anche rivisto e corretto l’impostazione e l’organizzazione generale del testo romeno di Cioran, che non era affatto destinato alla pubblicazione – definisce con questa singolare aggettivazione il volumetto: “strano libro”, “libro inatteso”, “kafkiano, questo libro”.6 “Strano” questo “libro” perché, pur continuando a adottare le categorie abissali intorno alla “metafisica della vita” dei popoli con cui Cioran ha scritto La Trasfigurazione della Romania – a partire dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler e dai volumi filosofici di morfologia culturale di Lucian Blaga – in senso etnopsicologico, il pensatore di Sibiu, in qualità di testimone oculare e di cronista dello spirito, assiste impotente alla reale decadenza della Francia, trasformando, nel finale di queste pagine rapsodiche e frammentarie, il momento del più terribile inabissamento e tracollo storico dei francesi in un’incredibile e appassionante dichiarazione d’amore rivolta alla Francia, la quale viene quasi completamente personificata. “Libro inatteso” forse perché – conoscendo i reportage fanatici e gli articoli politici deliranti che Cioran inviava entusiasta da una Germania in via di progressiva nazificazione tra il 1933 e il 1935 – in questi fogli 12
sparsi di Despre Franţa si avverte una “ri-conversione” scettica di tipo soggettivo – tutt’altro che esaltata come in Schimbarea la faţă a României o amara in conformità al tono impiegato dai moralisti francesi – in cui la Francia, oggetto iniziale di un’indagine fenomenologica – dove viene descritto minuziosamente da Cioran il progressivo decadimento di una grande civiltà – muta il proprio statuto “ontologico” e diventa impercettibilmente oggetto-causa del desiderio del soggetto scrivente, assumendo cadenze luttuose e melanconiche, a partire dal suo inesorabile vuoto e dalla sua mancanza a essere. Il trionfalismo nazionalistico ed esasperato di Schimbarea la faţă a României si è ormai spento in Cioran. Il lirismo contraddittorio dell’esule ne ha preso definitivamente il posto con questo libro. Cioran abbraccia ormai le “vedute” poetiche di Fondane e di Bacovia, fatte di noia profonda (urât) e di cafard intrinsecamente moldavi, e dipinge un quadro della Francia dai colori crepuscolari in cui predominano la caducità, la melanconia, il desiderio nostalgico di tutta una civiltà in declino e in preda alla disgregazione.7 Rispetto alla Trasfigurazione della Romania, Sulla Francia testimonia, dal punto di vista soggettivo, non solo la particolare solitudine di Cioran a Parigi dove si sente “esiliato” dal luogo natio, ma attesta soprattutto quella profonda nostalgia tipica di chi è fondamentalmente 13
“sradicato”. Questa peculiare nostalgia in romeno si dice dor. Essa non esprime solo una tensione desiderante, o un’aspirazione, verso la lontananza – come la parola Sehnsucht intende esprimere nella lingua tedesca – ma significa “oltrepassare la lontananza nel luogo in cui ci si sente ovunque troppo lontani”.8 La nostalgia cioraniana è un dor, è un sentirsi eternamente lontani da casa. È un desiderio di ritorno verso il finito, verso l’immediato, verso la conquista di quello che si aveva prima di essere soli. È un appello terrestre e materno, una diserzione del lontano. È come se l’anima dello scrittore in esilio a Parigi non si sentisse più consustanziale al mondo, e allora sogna tutto ciò che ha perduto.9 Ed è forse anche questo l’aspetto “kafkiano” del libro, come suggerisce Paruit, citando – non integralmente – il brano che segue di Cioran:
Noialtri, incatenati ai nostri destini approssimativi, lo proviamo nell’attimo della nostra prima riflessione, nasciamo con esso e lo sviluppiamo col passare del tempo, ne subiamo le esperienze e le alienazioni – come certi poveri ebrei non ingannati da tentazioni messianiche. Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiu14
tezza. Come se non fossimo nati nel nostro elemento, la “patria” è un simbolo di interminabili dubbi, un punto interrogativo che non trova alcuna risposta – né etnica né sentimentale e neanche geografica.
Il dor viene accostato qui da Cioran alla tragica equivocità del destino giudaico di matrice fondaniana. Infatti, nel Cioran della Trasfigurazione della Romania, il particolare interesse del “messianismo ebraico” per i problemi sociali, per l’idea di “giustizia sociale”, erano le qualità “reali” che assicuravano la superiorità degli ebrei nei confronti dei romeni. A proposito del messianismo degli ebrei in senso politico, Cioran dichiarava che essi sono “il più intelligente, il più talentuoso” dei popoli. Il problema era un altro. In linea con gli stereotipi antisemiti del tempo diffusi negli ambienti del nazionalismo reazionario e conservatore, Cioran affermava che gli ebrei si erano opposti in Romania a tutti i tentativi di consolidamento nazionale e politico.10 Infatti, come si legge in una lettera di Cioran spedita a Marin Mincu nel 1988, il pensatore di Sibiu prenderà una definitiva distanza dal suo libro del 1936; e Despre Franţa rappresenta proprio il luogo e il momento in cui si manifesta in presa diretta questo irreversibile stacco soggettivo operato nel 1941: 15
Ciò che mi rincresce è che [La Trasfigurazione della Romania] contiene troppe affermazioni inutilmente ciniche, insolenze gratuite, idiozie che avevano libero corso all’epoca. Io ne rinnego completamente una grandissima parte che riflette i pregiudizi di allora, ritengo come inammissibili alcune considerazioni sugli ebrei. Le farò una confessione: il capitolo Un popolo di solitari contenuto nella Tentazione di esistere è una risposta ad alcune pagine della Trasfigurazione. Ho sempre ammirato gli ebrei ma allo stesso tempo li invidiavo per avere un destino, cioè nel senso positivo, mentre il fatto di nascere è sinonimo di fallimento.11
Ma in questo volume Sulla Francia è presente anche un altro aspetto degno di rilievo. Nel 1941, Cioran è ormai pronto per fare il grande “salto” – “salto storico” che nel suo appassionato e scandaloso libro del 1936 aveva desiderato non per sé, ma per la “sua” odiata e insieme amata Romania – nella lingua francese. Tutto il valore di Despre Franţa sta nell’après-coup storico e testuale. Con questo libro di Cioran, il cui destino era quello kafkiano della distruzione, emergerà un “nuovo” sog16
getto che trasformerà il delirio e il “non senso” di Schimbarea la faţă a României in “senso”, e il caos nazionalista in nuovo ordine universale-singolare. Da questo punto di vista Despre Franţa, frutto della contingenza storica – nel momento in cui Cioran si trovava a Parigi durante il periodo dell’Occupazione nazista – avrà lo statuto di evento, e questo evento apparirà allora come retroattivamente necessario. Cioran, identificandosi ormai nella Francia (“Capisco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è di marcio in me”), cerca di indicare inconsciamente a sé stesso un luogo ove possa trovare un possibile spazio di espressione nella lingua francese, prima di maturare il definitivo strappo dalla lingua romena e da tutte le sue precedenti convinzioni ideologiche. Ecco il brano:
La Francia attende un Paul Valéry patetico e cinico, un artista assoluto del vuoto e della lucidità. Lui, che di tutti i francesi di questo secolo si è meno ingannato – simbolo, attraverso la sua perfezione, dell’inaridirsi di una civiltà – non è la massima espressione della decadenza, poiché gli manca una vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile.
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Questa “vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile” Cioran li troverà nel silenzio aurorale e nell’incanto crepuscolare della lingua francese, in modo tale che il “vuoto” e la “lucidità” permetteranno lo schiudersi di una “nuova” parola che consenta il transito tra il vivente e il mortale, non soffocata nella sua pietrificazione immobile e desertificata del cafard, ma contenendo in sé stessa la possibilità di dissolvere l’oggetto nostalgico della “patria” e della madrelingua nel suo dileguare erratico e sognante.
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NOTA ALLA TRADUZIONE
Per la traduzione del testo di Cioran si è seguita la versione francese di Alain Paruit (De la France, Paris, L’Herne, 2009), il quale ha rivisto e corretto l’impostazione e l’assetto generale del manoscritto di Cioran. Sebbene le frasi di Cioran, in questo libro, comincino già a recare la determinante impronta della lingua d’adozione, esse non di meno conservano la presenza ancora viva delle parole romene. Per questo motivo, si è compulsato sistematicamente l’originale romeno (Despre Franţa, a cura di Constantin Zaharia, Bucarest, Humanitas, 2011) per essere più vicini alla volontà dell’autore e all’intenzione dell’opera.
SU LLA FRANC IA “Collection d’exagérations maladives”12
Non credo che avrei a cuore i francesi se non si fossero tanto annoiati nel corso della loro storia. Ma la loro profonda noia è priva d’infinito. È la noia profonda della chiarezza. È la fatica delle cose comprese. Mentre per i tedeschi le banalità sono considerate come l’onorabile sostanza della conversazione, i francesi preferiscono una menzogna detta bene a una verità formulata male. Tutto un popolo malato di cafard13. Ecco la parola più frequente tanto nel bel mondo quanto nelle classi inferiori. Il cafard è la noia psicologica o viscerale; è l’istante invaso da un vuoto improvviso, senza ragione – mentre l’ennui14 è il prolungamento nello spirituale di un vuoto immanente dell’essere. Al confronto, Langeweile15 è solo un’assenza d’occupazione. Il XVIII è il secolo più francese. È il salotto divenuto universo, è il secolo dell’intelligenza merlettata, della finezza pura, dell’artificiale piacevole e bello. È anche il secolo che si è annoiato di più, che ha avuto troppo tempo, che ha lavorato solo per far passare il tempo. Quanto sarei stato bene al fresco dell’ombra dell’intelligenza ironica di Madame du Deffand, forse la persona16 più chiaroveggente di quel secolo! “Je ne trouve en moi que le néant et il est aussi mauvais de trouver le néant en soi qu’il serait heureux d’être resté dans le néant.”17 Rispetto a lei, il suo amico Voltaire che diceva “je suis né tué”18, è19 un buffone saccente e laborioso. 23
Il nulla in un salotto, quale definizione per il prestigio! Chateaubriand – questo francese, britannico come tutti i bretoni – fa l’effetto di una tromba ronfante di fronte alle effusioni in sordina dell’implacabile Dama. La Francia ha avuto il privilegio di donne intelligenti, che hanno introdotto la civetteria nello spirito e il fascino superficiale e delizioso nelle astrazioni. Un motto di spirito vale quanto una rivelazione. Essa è profonda ma non può esprimersi, l’altro è superficiale ma esprime tutto. Non è forse più interessante realizzarsi in superficie che disarmarsi attraverso la profondità? Dove c’è più cultura: in un sospiro mistico o in una “battuta”? In quest’ultima, certamente, sebbene solo una risposta alternativa potrebbe corrispondervi.
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Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice20 elaborata della raffinatezza. La vita – quando non è sofferenza – è gioco. 24
Dobbiamo essere riconoscenti alla Francia per averlo coltivato con maestria e ispirazione. Da lei ho appreso a non prendermi sul serio se non al buio e, in pubblico, a prendermi gioco di tutto. La sua scuola è quella di una noncuranza21 saltellante e profumata. La stupidità vede ovunque obiettivi; l’intelligenza, pretesti. La sua grande arte è la distinzione e la grazia della superficialità. Mettere talento nelle cose da niente – cioè nell’esistenza e negli insegnamenti del mondo – è un’iniziazione ai dubbi francesi. La conclusione del XVIII secolo, non ancora contaminata dall’idea del progresso: l’universo è una farsa dello spirito.
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Si può credere a ciò che si vuole, si possono edificare divinità davanti a cui prosternarsi o fare sacrifici. Esse vengono dall’esterno, sono degli assoluti esteriori. La vera divinità dell’uomo è un criterio che ha nel sangue e attraverso il quale giudica le cose. Da quale punto di vista giudicare la natura umana, secondo quale imperativo22 psicologico si possono scegliere i valori, ecco l’assoluto effettivo rispetto al quale colui che professa la fede è pallido23 e insipido. 25
La divinità della Francia: il Gusto. Il buon gusto. Secondo cui il mondo – per esistere – deve piacere; essere ben fatto; consolidarsi esteticamente; avere dei limiti; essere un incanto dell’afferrabile; una dolce fioritura della finitudine. Un popolo di buon gusto non può amare il sublime, che è solo la predilezione per il cattivo gusto portato al monumentale. La Francia considera tutto ciò che oltrepassa la forma come una patologia del gusto. La sua intelligenza non ammette neppure il tragico, la cui essenza rifiuta di essere esplicita, come il sublime. Non è un caso che la Germania – das Land den Geschmacklosigkeit24 – li abbia coltivati entrambi come categorie ai limiti della cultura e dell’anima.
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Il gusto si colloca agli antipodi del senso metafisico, è la categoria del visibile. Incapace di orientarsi nel groviglio delle essenze, mantenute dalla barbarie della profondità, si diletta nell’ondulazione immediata delle apparenze. Ciò che non affascina l’occhio è un non-valore: questa sembra essere la sua legge. E cos’è l’occhio? L’organo della superficialità eterna – la ricerca della proporzione, la paura della mancanza di proporzione defi26
nisce la sua smania per i contorni visibili. L’architettura, adornata a partire dall’immanenza; la pittura d’interni e il paesaggio, senza la suggestione delle lontananze intatte (Claude Lorrain – un Ruysdael salottiero25, vergognoso di sognare); la musica della grazia accessibile e del ritmo misurato, – altrettante espressioni della proporzione, della negazione dell’infinito. Il gusto è bellezza soppesata, elevata a raffinatezza categoriale. I pericoli e le violenze fulminee del bello appaiono al gusto come delle mostruosità; l’infinito – una caduta. Se Dante fosse stato francese, avrebbe descritto solo il Purgatorio. Dove avrebbe trovato in sé la forza per l’Inferno e il Paradiso, e abbastanza audacia per gli estremi sospiri?
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Il peccato e il merito della Francia consistono nella sua socievolezza. Le persone sembrano fatte solo per incontrarsi e scambiarsi parole. Il bisogno di conversazione proviene essenzialmente dal carattere acosmico di questa cultura. Né il monologo né la meditazione la definiscono. I francesi sono nati per parlare e si sono formati per discutere. Lasciati da soli, sbadigliano. Ma quando sbadigliano in società? Ecco il dramma del XVIII secolo. 27
I moralisti giudicano male l’uomo nei suoi rapporti con i propri simili; essi non si sono elevati alla condizione dell’uomo in quanto tale. Per questa ragione, non possono andare al di là dell’amarezza e dell’asprezza dei toni – e neppure al di là dell’aneddoto. Essi deplorano l’orgoglio, la vanità, la meschinità, ma non soffrono per la solitudine interiore della creatura. Cosa direbbe La Rochefoucauld in mezzo alla natura? Penserebbe certamente all’ipocrisia dell’uomo, ma non sarebbe in grado di concepire quanta sincerità si nasconda nel brivido dell’isolamento che lo percorre in questi momenti di solitudine metafisica. Pascal è un’eccezione. Ma fino a lui – fino al più serio dei francesi – l’oscillazione tra il monastero e il salotto è evidente. È un uomo di mondo costretto, dalla malattia, a non essere più francese se non per il suo modo di formulare le cose. Per quel po’ di salute che gli resta non si distingue dagli altri moralisti. Toglietegli Port-Royal: di lui non rimane che un causeur26. Se ancora oggi continuiamo a leggere i moralisti romani della decadenza, è perché hanno approfondito l’idea di destino e l’hanno accostata alle peregrinazioni dell’uomo nella natura. Nei moralisti francesi – e presso tutti i francesi – non ritroviamo quest’idea. Essi non hanno creato una cultura tragica. La ragione – ma più ancora il suo culto – ha placato l’agitazione tempestosa del nostro foro interiore e, essendo irresistibile e nociva 28
alla nostra tranquillità, ci obbliga a pensare al destino e alla sua mancanza di pietà per la nostra piccolezza. La Francia è priva del lato irrazionale, del possibile fatale. Non è stato un paese infelice. La Grecia – di cui abbiamo invidiato l’armonia e la serenità – ha subìto27 il tormento dell’ignoto. La lingua francese non sopporta Eschilo. È troppo potente. Quanto a Shakespeare, egli suona docile e gentile, anche se dopo aver letto Racine, Amleto o Macbeth sembrano appiccare il fuoco al verso francese. Come se la lingua fosse incendiata dal tumulto e dalla passione delle parole. L’infinito non ha posto nel paesaggio francese. Le massime, i paradossi, le note e i tentativi, sì. La Grecia era più complessa. La Francia è una cultura acosmica, non senza terra ma al di sopra di essa. I suoi valori hanno radici, ma si articolano da soli28, il loro punto di partenza, le loro radici non contano. Solo la cultura greca ha già illustrato questo fenomeno di distacco dalla natura – non allontanandosi da essa, ma raggiungendo una rotondità armoniosa dello spirito. Le culture acosmiche sono culture astratte. Private del contatto con le origini, manca loro anche lo spirito metafisico, cioè l’erratico domandare soggiacente alla vita. L’intelligenza, la filosofia, l’arte francese appartengono al mondo del Comprensibile. E quando lo presentono, non lo esprimono, contrariamente alla poesia inglese e alla musica tedesca. La Francia? Il rifiuto del Mistero. 29
La Francia assomiglia di più all’antica Grecia. Ma mentre i greci creavano un’alleanza con il gioco dell’intelligenza e il soffio metafisico, i francesi non sono andati così lontano, non sono stati capaci – loro che amano il paradosso nella conversazione – di viverne uno in quanto situazione. Due popoli: i più intelligenti sotto il sole.
L’affermazione di Valéry secondo cui l’uomo è un animale nato per la conversazione è evidente in Francia, e incomprensibile altrove. Le definizioni hanno limiti geografici più rigorosi rispetto ai costumi.
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I paesi – purtroppo – esistono. Ognuno cristallizza una somma di errori chiamati valori, che coltiva, mette insieme, e ai quali dà corso e validità. La loro totalità costituisce l’individualità di ciascuno di essi e il suo implicito orgoglio. Ma anche la loro tirannia. Poiché inconsciamente schiacciano l’individuo. Pertanto, più egli è dotato, più si sottrae alla loro pressione. Ma siccome dimentica – per il fatto che vive – le deficienze della sua identità personale lo assimilano alla nazione 30
d’appartenenza. Ecco spiegato il motivo per cui persino i santi hanno un carattere nazionale. I santi spagnoli assomigliano a quelli francesi o italiani solo per la santità, e non per gli accidenti che svelano la loro particolare biografia interiore. E conservano un accento identificabile che ci permette di attribuire loro un’origine. Cosa facciamo quando parliamo della Francia? Descriviamo la maniera in cui si sono commessi fecondi errori su un certo luogo della terra. Essere dalla loro parte oppure opporsi significa adeguarsi a questi errori29 o prendere una strada ben diversa.
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Due volte – nella sua storia –la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone. Vale a dire in due momenti estranei al suo specifico genio. Le cattedrali e Napoleone – tutto quello che possiamo immaginare di meno francese! Tuttavia, il popolo ha vibrato: nel Medioevo ha trasportato i lastroni di pietra, ed è caduto ai piedi delle Piramidi o sulla Beresina. I francesi hanno creato lo stile gotico – d’essenza germanica – e, sul piano militare, hanno seguito l’ultimo 31
rappresentante del Rinascimento italiano. Si sono così superati due volte; hanno superato la loro perfezione raggiunta attraverso il contatto con due ispirazioni di natura straniera. Nella creazione gotica ha ribollito il sangue dei franchi, l’elemento germanico; nelle campagne napoleoniche, il genio mediterraneo delle spedizioni. All’infuori di questi momenti, la Francia si è accontentata di sé stessa. Niente lingue straniere, né importazioni di cultura, né curiosità alcuna per le cose del mondo. Questo è il difetto glorioso di una cultura perfetta – che trova, nella sua legge, l’unica forma di vita. È un paese contento del proprio spazio, dalla personalità geografica ben definita, riuscita persino sul piano fisico. Niente di spietato nella sua natura, e nessun grande pericolo nel sangue. Ha imposto una forma agli elementi germanici della sua struttura, ha troncato il loro slancio e li ha ridotti all’orizzontalità. Ecco perché il gotico francese è più delicato, più umano e più accessibile di quello tedesco che attacca le altezze come un ultimatum verticale rivolto a Dio. In una certa misura, le cattedrali francesi sono compatibili con il buon gusto. Non abusano dell’architettura; non la compromettono con la ricerca dell’infinito. Siamo in un popolo dell’immanenza, che ha creato il genere inimitabile dei dettagli sottili e rivelatori dell’esistenza nel mondo: l’ornamento. Così, niente è più francese di una 32
tappezzeria, un mobile, un merletto. Oppure, sul piano architettonico: un manoir30 o un hôtel (nell’antico senso della parola, di dimora privata). Un soffio di minuetto percorre, docile e liscio, una civiltà felice. La Francia ha potuto essere originale solo in questi prodotti di natura intima. Quando si sono logorati, ha esaurito gran parte delle sue possibilità. La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono. Durante il XVIII secolo, la Francia dettava legge31 in Europa. Da allora in poi non ha fatto altro che esercitare la sua influenza. Il simbolismo, l’impressionismo, il liberalismo ecc., sono i suoi ultimi contatti vitali con il mondo, prima di affondare in un’assenza fatale.
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Una civiltà felice. Come non esserlo, visto che non si è lasciata tentare dalle partenze? Se non ci fosse stato Napoleone a spingere i francesi per il mondo, essi sarebbero rimasti la provincia ideale dell’Europa. Ha dovuto sbarcare dalla sua isola per scuoterli un po’. Ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria. Forse è per questo che tutte le sue spedizioni sono indissociabili dalla letteratura. I 33
francesi si sono battuti per avere qualcosa da raccontare. Senza nessun bisogno della grande avventura, essi cercavano solo di essere grandi agli occhi di Parigi. Non fanno una malattia del viaggio. Ma del focolare, del salotto o della proprietà. Soprattutto di quest’ultima. Joachim du Bellay che langue a Roma per “la douceur angevine”32, che si sente lontano dal suo villaggio e dai suoi conterranei nella Città Eterna, che esempio significativo! Oppure Baudelaire, terrorizzato dal timore della noia e dell’influenza dei poeti inglesi, che canta le partenze, ma è incapace di fuggire dal Quartiere Latino! In gioventù, la nostalgia di Parigi l’aveva portato a interrompere il suo viaggio in India. I francesi hanno sacrificato il mondo alla Francia. Cosa farebbero all’estero? – Del resto, tanti stranieri non hanno sacrificato il proprio paese a Parigi? Ecco forse la spiegazione indiretta dell’indifferenza e del provincialismo francese. Questa provincia è l’unica ad aver costituito un tempo il contenuto spirituale del continente. La Francia – come l’antica Grecia – è stata una provincia universale. Inoltre, sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita ad aprirsi al nuovo. Uno dei vizi della Francia è stata la sterilità della perfezione – la quale non si 34
manifesta mai così chiaramente come nella scrittura. La cura per la corretta formulazione, il non storpiare la parola e la sua melodia, il concatenare armoniosamente le idee, sono ossessioni francesi. Nessuna cultura si è preoccupata di più della questione dello stile e, in nessun’altra, si è scritto con tanta bellezza e perfezione. Non c’è alcun francese che scriva irrimediabilmente male. Tutti scrivono bene, tutti vedono la forma prima dell’idea. Lo stile è l’espressione diretta della cultura. I pensieri di Pascal si trovano in ogni predica e in qualsiasi libro di chiesa. Ma il suo modo di formularli è unico; la sua genialità è indissociabile da lui. Giacché lo stile è l’architettura dello spirito. Un pensatore è grande nella misura in cui accorda bene le sue idee; un poeta, le sue parole. La Francia ha la chiave di questo accordo. È per questo che ha prodotto una moltitudine di talenti. In Germania, per esprimersi impeccabilmente bisogna essere un genio. E non basta! Chi non conosce la formula può avere tutte le intuizioni possibili, ma rimane ai margini della cultura. Lo stile è la maestria della parola. E questa maestria è tutto. Nel mondo dello spirito, le verità espresse in maniera piatta non persistono, mentre gli errori e i paradossi accompagnati dal fascino e dal dubbio si insediano nella quasi-eternità dei valori – sappiamo che questi ultimi sono soltanto parole alle quali aderiamo 35
con un sentimento di rispetto vago o preciso, a seconda delle circostanze e del nostro umore. Non dobbiamo avere per la cultura il facile e reversibile entusiasmo degli ignoranti. Essa gode di tutti i vantaggi dell’irrealtà. Quando non è fonte d’incanto, si sfilaccia e fluttua. I suoi valori sono essenzialmente fiocchi astratti a cui appendere le nostre povere esaltazioni. La cultura è una commedia che prendiamo sul serio. Per cui non dobbiamo esagerarne i meriti. Ciò che è la supera, e solo raramente si rivela alla nostra inquietudine, situata molto più in alto. Intelligenti, cattolici, avari – tre modi per non perdersi, tre forme di certezza. I francesi non conoscono le esagerazioni contro l’io, la pregiudizievole generosità sul piano spirituale e finanziario. Il gusto e la cultura sono serviti loro per concepire delle limitazioni. Il timore di perdersi per un qualsiasi eccesso li ha incistati in una rigidità affettiva. C’è forse un popolo meno sentimentale? Il cuore del francese si intenerisce solo davanti ai complimenti garbati. La sua vanità è immensa; lusingarla può persino renderlo sentimentale… In genere, è capace d’intimità, ma non di solitudine. Un francese solo è una contraddizione in termini. Il sentimentalismo implica un dispendio lirico dell’anima in isolamento, la vibrazione senza disciplina e senza un orientamento razionale. Amare senza la ver36
gogna d’amare; adorare senza ironia; appassionarsi senza distanza… Ma disprezza la dimensione folclorica dell’anima. Ancora di più. Egli è superiore all’anima, quando non ne è al di fuori… Noi, che veniamo da altri paesi, perdiamo facilmente la coscienza geografica e viviamo in una specie di esilio continuo, né dolce, né amaro. Amiamo la natura, e non il paesaggio umanizzato dal focolare, dai parenti, dagli amici. Non abbiamo una nostra dimora se non per rimpianto e nostalgia. I francesi, sin dalla nascita, sono rimasti nel loro luogo natio, hanno avuto una patria fisica e interiore che hanno amato senza riserve, e non l’hanno mai umiliata, comparandola con altre; non sono stati sradicati a casa loro, non hanno vissuto il tumulto di una passione nostalgica insaziabile. È forse l’unico popolo in Europa che non conosca la nostalgia – questa forma d’infinita incompiutezza sentimentale. Privo di musica folclorica, che troviamo solo al sud (Paesi Baschi, Provenza, attraverso l’influenza spagnola e italiana), non è stato tormentato da questa impossibilità di stabilirsi che sconvolge gli slavi, i germanici, i balcanici e che si esprime nelle molteplici forme del Sehnsucht.33 Popolo afflitto dalla fortuna, dotato di chiarezza, capace di noia, ma non di tristezza, che ama, nelle sue forme di fede, l’approssimazione e che, oltre tutto, ha 37
una storia normale, senza vuoti, senza fallimenti né assenze – si è sviluppato secolo dopo secolo, ha valorizzato ciò in cui credeva, ha diffuso i propri ideali ed è stato presente nell’epoca moderna come nessun altro. Con la sua decadenza, paga ancora questa presenza; espia il vissuto significativo, la realizzazione sfolgorante, il mondo dei valori che ha creato. Se fosse rimasto a braccia conserte, la sua vitalità non sarebbe stata compromessa. Per le grandi nazioni, il tramonto è una nobile condanna.
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Ogni popolo ha i suoi problemi, ai quali si aggrappa fino a esaurirli; in seguito, se ne libera, ne cerca altri – e, quando non ne trova più, si colloca all’interno del proprio vuoto. È naturale che questi problemi siano delle illusioni; la questione è di stabilire se sono di qualità oppure no. I popoli di secondo ordine coltivano illusioni di cattiva qualità. Esse non possono essere considerate oggetto di riflessione, ma solo di disprezzo e amarezza. Nel campo della filosofia, la Francia si è limitata a un circolo di domande e di risposte in cui ritornano sempre gli stessi motivi: raison, expérience, progrès34, ma 38
quasi mai le regioni equivoche della metafisica personale o di una teologia soggettiva. Cartesio non è stato disturbato da Pascal. Il suo trionfo ha assicurato al pensiero francese il conforto dell’aridità intellettuale, l’ha condannato alla banalità, alla mancanza di rischio, l’ha allontanato dalla fertilità dei concetti vicini all’assurdo, che smuovono le categorie dal loro pallido sbigottimento. In fondo, non esiste una filosofia francese, come quella indiana, greca o tedesca. Poiché un pensiero ha vitalità solo se apre la discussione – fino alla redenzione o alla disperazione – sulle funzioni del possibile, cioè sulla realtà dinamica. Si è dovuto attendere Bergson – alla fine della filosofia francese – per scoprire il Divenire che Eckhart aveva perfettamente compreso, all’inizio della filosofia tedesca. Ma per chi voglia comprendere i limiti della Francia – perché descrivere un paese significa definirne i limiti, non precisarne il contenuto – l’esempio della sua musica è tra i più indicativi. Dato che in tal modo lei si tradisce: le emanazioni sonore fanno sgorgare incontrollabili affetti, ciò che vi è di più sovraccarico, più lontano e più profondo nell’uomo. La musica è un’arte seria – e può essere solo seria. Non conosce l’ironia; l’equivalente sonoro del motto di spirito non esiste. Nessuna virtù specificatamente francese è compatibile con la sua dignità. Questo è il motivo per cui i francesi non hanno creato granché in 39
questo campo. Molto più, tuttavia, rispetto agli inglesi, assolutamente sterili nell’arte musicale, anche se la amano più intensamente dei francesi. La musica richiede una sorta di pietà astratta, che possiedono i tedeschi, un’ingenuità ispirata e vasta, che incontriamo nella musica italiana del XVII secolo – ma solo la musica italiana, d’altronde, essendo l’opera una farsa sinistra, un borbottio appassionato privo d’ampiezza e profondità. Il sublime è la categoria banale della musica; lo slancio tragico o il tema della calma vastità, le forme del suo respiro. Rameau, Couperin o Debussy, quest’ultimo all’apparenza così diverso dai primi, sono talmente francesi per la loro delicatezza e il loro rifiuto del tumulto. Un merletto che si sfilaccia sembra essere la loro trama sonora. Debussy è uno slavo da salotto, un parigino orientale. Solamente Berlioz ha un certo respiro. Ma chi non è colpito dalla sua falsa immensità? Chi non è irritato dalla sua forza dimostrativa, dalla sua corsa verso la vastità e la tensione? È un infinito ricercato… Quanto a César Franck, è un compatriota di Ruysbroeck – l’ammirabile – e porta nel sangue l’eredità di una mistica poco francese… La Francia è il paese della perfezione angusta. Non può elevarsi alle categorie sovraculturali: al sublime, al tragico, all’immensità estetica. Ecco perché non ha dato e non avrebbe mai potuto dare uno Shakespeare, 40
un Bach o un Michelangelo. Rispetto a questi ultimi, lo stesso Pascal è un maestro dei dettagli, un sottile rammendatore del frammento. Le riflessioni dei moralisti francesi sull’uomo – assolute nella loro impeccabile rifinitura35 – sono comunque modeste, se comparate alla visione dell’uomo di un Beethoven o un Dostoevskij. La Francia non offre grandi prospettive; vi insegna la forma; vi dà la formula, ma non il respiro. Coloro che conoscono soltanto lei sono colpiti da una grave sterilità, e il suo contatto esclusivo è veramente pericoloso. Si deve ricorrere a lei solo per correggere le estremità del nostro cuore e del nostro pensiero, come una scuola del limite, del buon senso e del buon gusto, come un breviario che ci guida ed evita di farci cadere nel ridicolo dei grandi sentimenti e delle grandi attitudini. La sua misura deve guarirci dalle erranze patetiche e fatali. In questo modo, la sua azione sterilizzante diventa salutare.
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L’uomo medio è più realizzato in Francia che ovunque altrove. Il suo livello supera quello dell’inglese, del tedesco o dell’italiano. La mediocrità ha raggiunto un tale stile che è difficile trovare nell’individuo comune, 41
nell’uomo della strada, esempi di stupidità caratterizzata. Chiunque sa presentarsi bene, chiunque sa qualcosa. Per questo la Francia è grande per dei nonnulla. Può darsi che, alla fine, la civiltà non sia altro che la raffinatezza del banale, la cesellatura delle cose minute e la cura nel conservare un briciolo di intelligenza nell’accidentale quotidiano. Vale a dire: rendere l’idiozia naturale, possibile da sopportare, avvolgendola nella grazia e conferendole il lustro della finezza. Non c’è dubbio che tra i francesi si trova il minor numero di duri, irrimediabili, eterni imbecilli. Persino la lingua sembra opporsi. Nei bistrot, si lanciano repliche da salotto. La nazione non consente né la profondità né l’idiozia che altrove mostrano milioni di persone qualunque e alcuni geni incommensurabili. La Francia perde il proprio equilibrio se esce dalla mediocrità. Bisogna esserle riconoscenti di aver coltivato fino al vizio l’orrore della banalità. Quando il più raffinato nordico, nel pronunciare un truismo e nel ripeterlo, non si sente impedito da alcuna regola del saper vivere, quando nessun germanico conosce la vergogna dell’evidenza, lo spazio francofono ci offre, al contrario, la freschezza e l’indicibile leggerezza della vivacità di paradossi facili o significativi. Il difetto e la forza del Nord derivano dal fatto che non conosce il peso della noia nella conversazione. Se i tedeschi non hanno il romanzo, se la loro prosa è illeggibile, non è solo perché 42
la musica e la metafisica sono per loro degli adeguati mezzi di espressione, ma perché non sono capaci di parlare, di sostenere le variazioni a livello della discussione. Il romanzo è una creazione dei francesi e dei russi: due popoli che parlano e sanno parlare. I dialoghi soporiferi del romanzo tedesco, l’incapacità nazionale di andare oltre i monologhi, spiegano l’inevitabile carenza della prosa. Per chi ama l’aroma della parola immediata, la Germania provoca un infinito sbadiglio. La poesia, la musica e la filosofia sono atti dell’individuo solitario. I tedeschi stanno o da soli o tutti insieme. Mai in dialogo – mentre la Francia è il paese del dialogo e rifiuta le ispirazioni scialbe o sublimi dei suoi vicini insulari o d’oltre-Reno. Niente è meno tedesco del XVIII secolo – e niente è più francese di questo secolo. Tutto in esso è decorativo, dall’abbellimento esteriore ai fronzoli dello spirito. L’intelligenza diventa l’ornamento esclusivo dell’uomo. La pigrizia elegante e il cicaleccio sottile definiscono la sua nobile superficialità. Il francese ha dimenticato l’idea del peccato: è la grande scusa del secolo. Così, il suo libertinaggio non può essere condannato: nessun piacere deve essere guastato dal senso di colpa – prodotto da un panico plebeo o da un vizio solitario, poco apprezzati in un mondo infinitamente socievole. Fragonard è il simbolo della liberazione sensuale e di tutte le indiscrezioni dei sensi. Nessuno, nella storia 43
della pittura, emana altrettanto profumo, una tale sete delicata di voluttà, di vizio innocente e inutile. Tutto il segreto della felicità non risiede forse nella sensazione? Ciò che è certo, è che il Rinascimento e il XVIII secolo, le epoche moderne che l’hanno coltivata con maggiore intensità, sono anche quelle più lontane dalla Crocifissione. La chiave che dà l’accesso ai dolci segreti terreni si trova fuori dal cristianesimo. – L’intelligenza e i sensi possono trovare una buona intesa e anche aiutarsi a vicenda. Ma quando interviene l’anima, con le sue inquietudini oscure, la pace è definitivamente turbata. L’uomo rivela allora la propria essenza sotterranea o celeste – e il piacere, fiore dell’immanenza, appassisce. Essere superficiali con stile36 è più difficile che essere profondi. Nel primo caso, occorre molta cultura; nel secondo, un semplice squilibrio delle facoltà. La cultura è sfumatura; la profondità, intensità. Senza una dose d’artificio, lo spirito umano si spezza sotto il peso della sincerità, questa forma di barbarie.
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Quando una civiltà inizia la propria decadenza? Quando gli individui cominciano a prendere coscienza; quando non vogliono essere più vittime degli ideali, 44
delle forme di fede, della collettività. Una volta che l’individuo si è risvegliato, la nazione perde la propria sostanza, e quando tutti si destano, essa si decompone. Niente è più pericoloso della volontà di non essere ingannati. La lucidità collettiva è un segno di affaticamento. Il dramma dell’uomo lucido diventa il dramma di una nazione. Ogni cittadino diventa una piccola eccezione, e queste eccezioni accumulate costituiscono il deficit storico della nazione. Per molti secoli, la Francia non ha fatto altro che credere e, quando dubitava lo faceva all’interno delle proprie credenze. Ha creduto via via nel Classicismo, nei Lumi, nella Rivoluzione, nell’Impero, nella Repubblica. Ha avuto gli ideali dell’aristocrazia, della Chiesa, della borghesia, del proletariato; e ha sofferto per ognuno di essi. I suoi sforzi, trasformati in formule, sono stati proposti all’Europa e al mondo, che li hanno imitati, perfezionati e compromessi. È la Francia ad aver vissuto in primo luogo il loro processo di crescita e dissoluzione, e con la maggior intensità; ha creato degli ideali e li ha consumati; li ha sperimentati fino alla fine, sino al disgusto. In ogni caso, una nazione non può essere generatrice all’infinito di fede, di ideologie, di forme statali e di vita interiore. Essa finisce per traballare. Le fonti dello spirito si seccano, e si risveglia davanti al suo desertico vuoto, con le braccia incrociate, atterrita dall’avvenire. 45
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Se mi mettessi nei panni di un francese di questi ultimi decenni, a cosa potrei aderire? Alla democrazia? Ma, alla fine di un secolo in cui si è abusato della parola “peuple”37, dopo la mistica della libertà e dopo il suo logoramento, dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? Nel momento in cui le sue idee sono state compromesse, un popolo, che ha fatto una grande Rivoluzione che ha attecchito ovunque, perde anche il suo primato ideologico. Un secolo dedicato a preparare la Rivoluzione e un altro a diffonderla hanno reso presente la Francia sul piano dottrinario e politico. Ma gli ideali del 1789 si sono arrugginiti; del loro prestigio resta solo una desueta magniloquenza. La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito. Cosa è stata? Una combinazione di razionalismo e di miti: una mitologia razionalista. Più precisamente: l’incontro di Cartesio con l’uomo della strada. La democrazia non dà alcun brivido e, in quanto aspirazione, è scialba e anacronistica. Potrebbe ancora servire alla patria? Alla patria? La Francia è stata patria sin dal Medioevo, quando le altre nazioni non avevano neppure preso coscienza di sé 46
stesse. È stata amata, glorificata, ha valorizzato tutti gli ideali di cui era capace. Nessun momento della sua storia ispira rammarico. Ogni epoca ha visto la massima realizzazione delle proprie possibilità; non un soffio di vuoto, non un’assenza grave. Ovunque, uomini al livello richiesto. In nome di cosa la Francia potrebbe ancora arrivare agli uomini? Cosa potrebbe ancora proporre all’umanità e a sé stessa? I francesi non si possono più permettere una morte qualsiasi. Lo scetticismo cerebrale è divenuto organico. L’assenza di futuro è la sostanza del presente. L’eroe non è più concepibile – perché nessuno è più inconsapevole né profondo. Una nazione è creatrice finché la vita non è il suo unico valore, finché i suoi valori sono i suoi criteri. Credere nella finzione della libertà e morire per essa; partecipare a una crociata per la gloria; considerare che il prestigio del proprio paese sia necessario all’umanità; sostituirsi a essa attraverso le proprie convinzioni, ecco i valori. Tenere più alla propria pelle che a un’idea; pensare con lo stomaco; esitare tra l’onore38 e la voluttà; credere che vivere valga più di ogni altra cosa, ecco la vita. Ma i francesi amano solo lei, vivono solo per lei. Da tanto tempo non possono più morire. L’hanno fatto troppo spesso in passato. Quali forme di fede possono ancora inventare? La mancanza di vitalità ha mostrato 47
loro la vita. E la Decadenza non è che il culto esclusivo della vita. Vivere è un semplice mezzo per fare. Durante la decadenza diventa uno scopo. Vivere in tal modo, ecco il segreto della rovina. Il processo attraverso cui un popolo si esaurisce è tra i più naturali. Se non si esaurisce, è segno di malattia, d’inefficacia, di eterna deficienza. Solo i popoli che non hanno vissuto non decadono – e gli ebrei. Ma la Francia ha vissuto un’efficacia raramente incontrata nel corso della storia. Ha troppo vissuto. Tuttavia, mentre nelle epoche di grandezza lo faceva in nome dei valori – che erano la sua vita – oggi i valori sono nulla e la mancanza di vita è tutto. Un popolo stanco si allontana dalle proprie creazioni. Non vibra più nel mondo dello spirito se non per l’intelligenza, poiché i giacimenti psicologici da cui provengono le forme di fede si sono esauriti. Cosa farei se fossi francese? Mi riposerei nel cinismo.
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Capisco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è di marcio in me. E la Germania, la Russia, i Balcani, at48
traverso la freschezza ereditata da un popolo tellurico. Decadenza significa lucidità collettiva: espirazione dell’anima. Non avere più anima. È il caso della Francia. Ma come l’ha perduta? Nella misura in cui un popolo crea, depone nelle sue oggettivazioni una parte di sé. Con ogni opera muore un sentimento, con ogni gesto un’emozione, con ogni slancio, una possibilità. La cultura assorbe le riserve di sensazioni, è una tomba del cuore, un’economia di energia sul conto del sangue. Ogni prova del genio francese – una chiesa, una massima, una battaglia – racchiude in sé un plus di presente e un minus d’avvenire. L’attualizzazione di un popolo – la traduzione in segni dei suoi segreti dinamici – rivela una vitalità e annuncia una fine. La creazione conduce alla morte, salva le forme oggettive dello spirito e uccide le forze vitali dell’anima. Sotto la cultura giace il cadavere dell’uomo. Tanto è il vuoto dei francesi di oggi. E questo tanto è molto. La loro anemia affettiva non è di natura temporale, non è una crisi di crescita e neppure un accidente storico, ma la conclusione di un processo plurisecolare, il coronamento finale di un destino. Non solo non hanno più sentimenti, ma se ne vergognano addirittura. Niente offende un francese più dell’anima. Un popolo che si mummifica nel dubbio. Un alessandri49
nismo senza l’ampiezza di quello greco-romano. Una fine evidente, senza frastuono né dramma. Il dramma attiene più al ricercatore, giacché per lui la Francia può essere soltanto il campo di verifica di qualche tema di filosofia della cultura. Pensiamo agli slavi, ai russi – popoli di albe future – la cui anima è ispirata dalle muse. La terra gorgoglia nel loro sangue; la sensibilità cresce in essi come le piante. I loro riflessi sono intatti; i loro istinti, steppe di possibili germogli. Poco importa come li si prenda, ovunque soltanto futuro, questo futuro che può essere vicino o formare il contenuto dei secoli venturi. Nei francesi, gli istinti sono colpiti, erosi, la base dell’anima, spezzata. Un tempo furono vigorosi – dalle crociate a Napoleone – i secoli francesi dell’universo. Ma i tempi che verranno saranno quelli di un vasto deserto; il tempo francese sarà esso stesso un dispiegamento del vuoto. Fino all’irreparabile estinzione. La Francia è colpita dal cafard39 dell’agonia.
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Le grandi nazioni non fanno naufragio accidentalmente, ma in virtù di una necessità inscritta nel loro nucleo. Nessun intervento umano né calcolo razionale 50
possono arrestare lo scivolamento lungo il pendio dell’estinzione. Qualsiasi cosa si faccia in Francia, qualsiasi misura si prenda, nessuno potrà obbligare i francesi a fare dei figli. Quando un popolo ama la vita, rinuncia implicitamente alla sua continuazione. Tra la voluttà e la famiglia, l’abisso è totale. La raffinatezza sessuale è la morte di una nazione. Il massimo sfruttamento di un piacere istantaneo; il suo prolungamento al di là dei limiti della natura; il conflitto tra le esigenze dei sensi e i metodi dell’intelligenza sono le espressioni di uno stile decadente, che si definisce attraverso la sciagurata capacità dell’individuo a manovrare i propri riflessi. Il corrispettivo biologico della lucidità, della volontà di non essere più dupe40, ha delle conseguenze catastrofiche. I bambini potranno solo diventare persone che credono in qualcosa, che aderiscono, che sono abbastanza incoscienti per sentirsi parte di una nazione, che sentono gioiosamente il bisogno di ingannarsi attraverso la partecipazione e le passioni. Un popolo senza miti è sulla via dello spopolamento. Il deserto delle campagne francesi41 è il segno inquietante della mancanza di una mitologia quotidiana. Una nazione non può vivere senza idoli, e l’individuo è incapace di agire senza l’ossessione dei feticci. Fin quando la Francia riusciva a trasformare i concetti in miti, la sua viva sostanza non era compromessa. 51
La forza di dare un contenuto sentimentale alle idee, di proiettare nell’anima la logica42 e di riversare la vitalità nelle finzioni – tale è il senso di questa trasformazione e il segreto di una cultura fiorente. Generare miti e aderirvi, lottare, soffrire e morire per essi, ecco ciò che rivela la fecondità di un popolo. Le “idee” della Francia sono state idee vitali, per il cui valore si è lottato anima e corpo. Se ancora mantiene un ruolo decisivo nella storia spirituale dell’Europa è perché ha animato tantissime idee, tirandole fuori dal nulla astratto della pura neutralità. Credere significa animare. Ma i francesi non possono né credere né animare. E non vogliono più credere, nel timore di essere ridicoli. La decadenza è il contrario43 di un’epoca di grandezza: è la ri-trasformazione dei miti in concetti. A un intero popolo davanti a vuote categorie – mentre abbozza a mano libera una vaga aspirazione, diretta verso il proprio vuoto spirituale – non resta altro che l’intelligenza non innestata sul cuore. Dunque sterile. E l’ironia, non sostenuta dall’orgoglio, non ha più senso se non come auto-ironia. Nella sua forma estrema, questo processo è tipico degli intellettuali. Niente, tuttavia, è più falso che credere che solo essi ne siano stati toccati. Tutto il popolo lo è stato, a vari livelli. La crisi è strutturale e mortale. Chi ha attraversato i villaggi francesi, un tempo si52
curamente animati da respiro e passione, difficilmente trattiene una stretta al cuore davanti a una monotonia e un silenzio resi ancor più gravi e irrimediabili dall’esclusiva presenza di qualche vecchio, le cui rughe neppure consolano, poiché non offrono alcun ricordo di un altro passato. In tutte le provincie francesi, la totale mancanza di vita, di ritmo, di bambini, di futuro, uccide. È la morte assoluta, vegliata dal fascino ancestrale di chiese isolate, i cui campanili rassegnati, con una vaga e vetusta civetteria, sembrano invitarvi ad andar via, a non restare, malinconici, sulla soglia della loro definitiva assenza. Né l’erranza dei miei passi, né l’amok44 esplosivo si sono mai fatti sentire così vivamente come nelle mie peregrinazioni lungo le strade della Francia. Sembrava che fuggissi dall’odore della morte, dall’odore di chiuso di una staticità definitiva. Ma sapevo molto bene che qui, dove vagabondavo da anni, avevano vissuto, per secoli, le uniche persone felici. Tuttavia, la gloria ha un prezzo. La Francia “eterna”, prima di perdersi, diventerà un paese come gli altri. Sotto Napoleone, aveva ancora dei giovani. I suoi marescialli erano dei ragazzini. Egli stesso, a trent’anni, era sazio di gloria. Ma aveva tra le mani un paese ancora capace di follia. Se, per miracolo, un Napoleone fosse apparso in mezzo a tanti vecchi, cosa avrebbe mai potuto fare? Si 53
sarebbe occupato probabilmente di filantropia, di pensioni, di archivi. Quanto è stata grande, la Francia! La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure. Abbiamo tutti il diritto di credere che nel suo incanto aurorale sia stata generosa, prodiga, accogliente. Ma chi l’ha conosciuta nel suo periodo di decomposizione, con il suo spirito avaro, litigioso e meschino, ha capito che un tale supporto sociale non poteva che condurre a una rapida rovina. La Rivoluzione ha concentrato tutti i vizi del popolo francese. Dell’individualismo e del culto della libertà per i quali, un tempo, aveva versato il suo sangue, ha conservato, nella sua forma crepuscolare, solo il denaro e il piacere. La sua fine segna il momento più mediocre della storia di Francia. Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo. La sua tradizione giacobina non può arrivare ad altre soluzioni. Ma lo stesso proletariato è infettato dalla mancanza di missione, dall’ombra storica del paese. Del fremito rivoltoso delle masse moderne, ha conservato solo le rivendicazioni materiali, facendo rimbombare i suoi bisogni e il suo odio. La Francia non ha più un destino rivoluzionario, perché non ha più idee da difendere45. Se anche facesse qualche rivoluzione, non potrebbe avere alcun significato particolare. 54
Le forme spirituali del passato non vengono più in suo soccorso. Il cattolicesimo è così penoso, così polveroso, che rinnovarsi attraverso di esso equivarrebbe a una legalizzazione della morte. Cosa potrebbe farsene un popolo dagli istinti atrofizzati di liturgie soporifere, di prediche intervallate da citazioni in latino che sembrano più irreali di un sogno fatto nelle profondità di una piramide? L’esaurimento spirituale conduce alla mummificazione di una cultura. Tutta la sua allegria non impedirà alla Francia di diventare una mummia spirituale, come gli oracoli non l’hanno impedito ai Greci, né gli dèi ai Romani. Le Parche sono più spietate con i popoli che con gli individui.
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Con una cultura così caratterizzata, la Francia non può rivolgersi a soluzioni esterne. Le trasfusioni di sangue prolungano solo l’agonia. Considerato il suo grandioso passato, sarebbe indegno ricorrere a tali viltà. Non può essere alla propria altezza se non accettando una fine con stile, amministrando con maestria la propria cultura al tramonto, spegnendosi con intelligenza e persino con fasto – non senza corrompere la freschezza dei propri vicini o del mondo con le sue infiltrazioni 55
decadenti e le sue insinuazioni pericolose. Può ancora intervenire concretamente, solo in maniera negativa, nel cammino delle altre nazioni come focolaio di una nobile epidemia. L’Europa non ha forse bisogno, dopo tanto fanatismo, di un’ondata di dubbi? E non ci stiamo preparando tutti a un male del secolo il cui contributo sarebbe tra i più allettanti? Se la Francia ha ancora un senso, è quello di evidenziare lo scetticismo di cui è capace, di darci la chiave delle nostre incertezze o di distruggere le nostre certezze. A voler aggiustare qualcosa, si esporrebbe solo all’ironia e alla pietà. Le forze di un nuovo credo si sono da tempo spente in lei. Non ha fallito niente nel proprio passato. Ma se rifiutasse il suo destino alessandrino, mancherebbe la sua fine. E sarebbe un peccato. La Francia attende un Paul Valéry patetico e cinico, un artista assoluto del vuoto e della lucidità. Lui, che di tutti i francesi di questo secolo si è meno ingannato – simbolo, attraverso la sua perfezione, dell’inaridirsi di una civiltà – non è la massima espressione della decadenza, poiché gli manca una vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile. Sul versante della raffinatezza, i francesi possono ancora essere fecondi. La rinuncia al contenuto è il segreto di Valéry e dell’avvenire francese. Il culto assoluto dei pretesti, sostenuto da un dinamismo senza illusioni, ecco la via che si apre alle sue possibilità alessandrine. Se la Fran56
cia non diventerà il paese delle pericolose sottigliezze, non abbiamo più niente da imparare da lei. Chi troverà la formula del suo sfinimento? L’Europa ha ancora sufficiente vitalità per sopportare proficuamente un soffio di incertezze delicate e velenose. Il sangue germanico e slavo lo richiede, ne ha persino bisogno. Lo scetticismo conferisce nobiltà alla virilità e distinzione alla forza. L’avvenire spirituale del continente sarà composto da un miscuglio di universalismo e scetticismo. L’impero dissolve le ideologie. Al loro posto appariranno dubbi infinitamente raffinati. Le carenze della Francia orneranno le energie dei popoli più freschi, e faciliteranno così il loro processo di disgregazione. La Francia servirà comunque da modello alle grandi nazioni moderne; mostrerà loro dove vanno e dove finiranno, tempererà i loro entusiasmi46. Giacché la Francia prefigura il destino degli altri paesi. È arrivata più rapidamente alla fine, perché si è spesa molto, e da molto tempo ormai. Quando i tedeschi sono entrati a Parigi, prevedevano – poiché conoscono la storia – come sarebbero andate le cose, leggevano il loro futuro nella rassegnazione e nella stanchezza della Città. I popoli iniziano in epopea e finiscono in elegia. Germania, Inghilterra e Russia sono i paesi delle disuguaglianze geniali. La loro assenza di forma interiore determina la loro evoluzione tra culmini e abissi, 57
tra eccesso e serenità. Solo la Francia si è regolarmente sviluppata dalla nascita alla morte. È il paese più realizzato, che ha dato tutto quello che poteva dare, che non ha mai perso un’occasione, che ha avuto un Medioevo, un Rinascimento, una Rivoluzione e un Impero. E una decadenza. È il paese che ha fatto il proprio dovere. È il paese della realizzazione. Slavi e germanici accettano la fatalità: la loro sorte non ha conosciuto un corso normale, mentre è stato dato alla Francia d’avere un destino misurato. Si è sviluppata come ordine parallelo alla natura. L’uomo ha continuamente controllato il suo contenuto storico. Il francese stesso si definisce come essere umano, e non come individuo. La Francia, un paese di esseri umani e non di individui.
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Nei periodi in cui una nazione è al suo apice, fanno automaticamente la loro comparsa alcuni uomini che propongono47 di continuo direttive, speranze e riforme. La loro insistenza e la passione con cui sono seguiti dalle masse testimoniano la forza vitale di questa nazione. Il bisogno di rigenerazione attraverso la verità e l’errore è proprio dei periodi fiorenti. Uno svitato come 58
Rousseau rappresenta un culmine di effervescenza. Chi dà peso ancora alle sue opinioni? Il loro tumulto ci interessa, tuttavia, in ragione dell’eco che hanno suscitato e del suo significato. Un’apparizione di questa portata è inconcepibile oggi. Il popolo non si aspetta niente. Chi gli potrebbe proporre qualcosa, e che cosa? I popoli vivono veramente solo nella misura in cui sono ingozzati di ideali, nella misura in cui non possono più respirare sotto il peso di troppe convinzioni. La decadenza è la vacanza degli ideali, il momento in cui si installa il disgusto di tutto; è un’intolleranza all’avvenire – e, in quanto tale, un sentimento deficitario del tempo, con la sua inevitabile conseguenza: la mancanza di profeti e, implicitamente, di eroi. La vitalità di un popolo si manifesta attraverso coloro che possono morire per valori che superano la sfera ristretta degli interessi individuali. L’eroe muore di sua spontanea volontà. Ma questo consenso finale è possibile solo perché è spinto inconsciamente dalla forza di vita del suo popolo. Quest’ultimo sacrifica i suoi membri per eccesso di forza. Un popolo muore di troppa vita attraverso i suoi eroi. Quando non ne produce più – non aderendo più al tipo di umanità che essi rappresentano – l’inaridimento sigilla incurabilmente il suo avvenire con uno stigma negativo. Agli antipodi dell’eroismo si trova l’amore della vita in quanto tale. Ecco perché le decadenze non hanno respiro epico. In epoca greco-romana, 59
l’epicureismo o lo stoicismo hanno annunciato la rovina definitiva del mondo omerico che aveva vissuto nella poesia del fatto, mentre la fine della civiltà antica si compiaceva nella prosa dell’intelligenza. La conclusione del processo francese non è qualcosa di diverso: è una prosa dell’intelligenza. Le nazioni costruiscono il loro cammino attraverso errori sublimi e lo concludono in aride verità. Gli eroi omerici vivevano e morivano; gli snob d’Occidente disquisivano sul piacere e sul dolore. Da francesi di crociata, sono diventati francesi di cucina o di bistrot: il bien-être48 e la noia. È naturale che un popolo che muore non voglia morire. La vecchiaia storica, come quella individuale, è un culto della vita attraverso la mancanza di vita. È la raggrinzita caricatura del divenire… La ricerca insistente della felicità, la sete dopo la pagliacciata del paradiso, la volontà di soffocare il cuore amaro del tempo, l’interiorità degli istanti, sono le prove di un profondo affaticamento. Nel desiderio di sfinirsi nell’immediato, c’è la rinuncia dell’infinito. Niente è più penoso che vedere una nazione che ha fatto abuso – a giusto titolo– dell’attributo “grand” – grande nation, grande armée, la grandeur de la France49– degradarsi in un gregge umano che si affanna dietro la felicità. Era realmente grande quando non la cercava. Nessuna guerra, nessuna rivoluzione, nessun monu60
mento e nessun atto eccezionale si sono mai realizzati senza la passione avventurosa per i flagelli dell’avversità e senza questa influenza della fortuna e della sfortuna che corona gli atti di gloria. “Le Français moyen”, “le petit-bourgeois”50: tipi vergognosi che circolano normalmente, che sono fioriti sulle rovine della grandezza e delle imprese del passato. Quale ironia della vita: il sacrificio degli eroi è seguito dalle delizie della mediocrità, come se gli ideali schizzassero dalla gloria del sangue solo per essere calpestati dai dubbi.
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Un popolo può essere considerato come colpito quando i problemi penetrano nei suoi istinti, i dubbi nei suoi sensi, le incertezze nei suoi riflessi. Il suo corpo accusa gli interventi dello spirito. La decadenza biologica è un eccesso di razionalità negli automatismi. Le funzioni non rispondono in tempo e non svolgono il loro compito. La vita è piena solo nell’incoscienza. Un’antica cultura erode le proprie fondamenta, rallenta le reazioni spontanee e corrompe il sangue, calmandolo e coltivandolo. La scomparsa dell’irrazionale nel sangue è il pericolo delle civilizzazioni nella loro epoca matura, come 61
le invasioni dei barbari agli albori della civiltà. Una goccia di coscienza nella sua circolazione – e la veduta51 del mondo cambia. Gli ideali crollano e, con essi, il simbolo della vita che li ha sorretti. Una cultura muore a tutti i livelli e, più grave, anche nelle sue vene52. La raffinatezza si attacca alla loro sostanza53. Cos’è la Decadenza, cos’è la Francia? Sangue razionale. Ciò la colloca in una situazione di contrasto rispetto ai “primitivi”, che non devono essere intesi solo nelle arti, ma in tutti i piani dello spirito. La Francia è tutto quello che c’è di meno primitivo, cioè di fresco, di immediato, d’assoluto. Lo stadio aurorale di una civiltà è caratterizzato dalla relazione ingenua con gli oggetti e i valori. Tutto ciò che entra nel campo della percezione o del ragionamento conserva un segno dell’incondizionato, come un brivido virginale dello spirito aperto al mondo. Un “primitivo” crea senza saperlo, senza ossessione tecnica o riflessione estetica, a partire dall’istinto che lo pone nella vita delle cose. È l’uomo che vive nell’estasi dell’oggetto. Per questo la sua visione è così poco problematica e così poco contaminata dai dubbi e dalla coscienza. Nello stadio crepuscolare di una civiltà, il dubbio sostituisce l’estasi, e i riflessi non servono più come risposta immediata alla presenza degli oggetti. Ci troviamo agli antipodi delle epoche primitive. L’artista di62
venta un sapiente della percezione – per disgusto dello sguardo – e l’uomo una creatura parallela a sé stesso. Un tempo, respirava nei miti e in Dio: ora, nelle considerazioni fatte su di loro. La corruzione dell’istinto è una vittoria catastrofica dello spirito, e la cultura, nella sua totalità, non fa che porre interrogativi alla biologia. Essi aumentano proporzionalmente alla raffinatezza dello spirito. La storia delle civiltà coincide con le crisi biologiche, che onorano la “vita” diminuendola. I francesi si sono logorati per eccesso d’essere. Non si amano più, perché sentono troppo ciò che sono stati. Il patriottismo emana dall’eccesso vitale dei riflessi; l’amore del paese è quanto c’è di meno spirituale, è l’espressione sentimentale di una solidarietà animale. Niente ferisce l’intelligenza più del patriottismo. Lo spirito, raffinandosi, soffoca gli avi nel sangue e cancella dalla memoria il richiamo della zolla di terra battezzata, dalle illusioni fanatiche, patria. Come potrebbe la ragione, ritornata alla sua vocazione essenziale – l’universale e il vuoto – spingere ancora l’individuo disgustato di essere cittadino verso l’idiozia delle chiacchiere della Città? La perdita degli istinti della Francia è il sigillo di un grandioso disastro inscritto nel destino dello spirito. Come lo stoicismo, al tramonto della civiltà grecoromana, ha diffuso l’idea del “cittadino del mondo”, 63
poiché nessun ideale “locale” accontentava più l’individuo soddisfatto di una geografia immediata e sentimentale, allo stesso modo, la nostra epoca – disponibile a causa della decadenza della più riuscita tra le culture – aspirerà alla Città universale, in cui l’uomo, sprovvisto di un contenuto diretto, ne cercherà uno più lontano, che appartiene a tutti gli uomini, inafferrabile e vasto. Quando si sfilacciano i legami che univano i simili nell’idiozia riposante della comunità, questi tendono le proprie antenne gli uni verso gli altri, come altrettante nostalgie verso altrettanti vuoti. L’uomo moderno trova solo nell’Impero un rifugio che corrisponde al suo bisogno di spazio. È come l’appello a una solidarietà esteriore la cui ampiezza lo opprimerebbe e, al tempo stesso, lo libererebbe. Di cosa può nutrirlo una patria? Quando porta con sé così tanti dubbi qualunque angolo di mondo può diventare una dimora. La coscienza, affrancata dagli appelli oscuri del sangue, si strappa dall’impaludamento dei sospiri natii, nella tradizione delle manie ancestrali. Nel percorrere con il pensiero o con le sensazioni alcune civiltà, trasformerete l’universo in culle intercambiabili e riscatterete le eredità materne o le impressioni d’infanzia con i benefici incerti del distacco. Il cammino della storia soffoca la voce della terra. Il suo avanzamento ha polverizzato le mura della Città e distrug64
gerà quelle della coscienza. Essere a casa ovunque, ecco la legge che una civiltà troppo matura impone all’uomo e che trasforma il suo seme in frutto marcio. In fondo, cos’è la civiltà? Un inutile guardiano della luce.
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La sfortuna della Francia è che il suo tramonto è divenuto evidente in un’epoca in cui ognuno conosce la storia. Il XIX secolo ci ha lasciato in eredità una prospettiva sulle civiltà, sulle loro convinzioni e la loro filosofia. Siamo tutti, a diversi gradi, vittime dell’informazione, e non abbastanza ingenui per giudicarne la vitalità e i valori. L’alessandrinismo, uno stile di cultura costruito sul senso della storia, ci obbliga a delle sintesi che sfruttiamo con fantasia e sapiente irresponsabilità. Esteti dell’universo storico, consideriamo le credenze degli altri come pretesti, e le loro decadenze come spettacoli. Del declino della Francia si può parlare solo in termini estetici; noi non lo avvertiamo negativamente e neppure i Francesi lo provano. Gli sviluppi storici universali hanno il valore di vedute. E il Divenire stesso, cos’è se non una funzione tragicomica delle nostre fascinazioni? 65
La Francia è una brillante occasione per verificare le esperienze negative. Ci autorizza al disincanto e al gioco, al paradosso e all’irresponsabilità. Il suo destino ci rafforza negli scacchi, ma non possiamo rovesciare i nostri fallimenti sui suoi – un’alleanza di estenuanti sforzi per il gusto di futuri esteti. Essere alessandrino, cioè lirico e freddo; partecipare con tutto il cuore, ma con obiettività; debordare spettacolarmente. Impossibile altrimenti sentire il passato e il presente. Un paese che non vive più nel possibile, cosa può ispirare se non una tenerezza ironica? La malattia del presente? Le mie ferite si toccano con le ferite della Francia. Che incontro fatale!
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Una decadenza di cui percepiamo tutto il senso diviene feconda per noi, non per coloro che la subiscono. Ancora una volta ci arricchiamo alle spalle della Francia. Siamo i vampiri intellettuali dei suoi tormenti. Nella sua mancanza di miti, piantiamo la tenda delle nostre imprese intellettuali, nel suo vuoto, ci esercitiamo nell’avventura. Che fastidio, le sue eventuali speranze! Un paese che serve solo come luogo di partenza 66
per il volo verso le altezze e le irrealtà dello spirito, un paese senza alcun punto d’appoggio, ma dal cui orizzonte possiamo ancora definirci come davanti a un cielo pallido, consapevoli che ne maschera un altro azzurro. Giacché, per quanto benevoli possiamo essere, la si può scusare soltanto per il suo passato. Quando l’Europa sarà avvolta dalle ombre, la Francia rappresenterà la sua tomba più viva.
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Lo sradicamento dai valori e il nichilismo istintivo costringono l’individuo al culto della sensazione. Quando non si crede più a niente, i sensi diventano religione. E lo stomaco finalità. Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia. Un romano, un certo Gavio Apicio, che percorreva le coste dell’Africa alla ricerca delle più belle aragoste e che, non trovandole di suo gusto in alcun luogo, non riusciva a stabilirsi da nessuna parte, è il simbolo dei deliri culinari che si instaurano in mancanza di fedi. Da quando la Francia ha rinnegato la sua vocazione, l’atto del mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento. La coscienza di 67
questa necessità, la sostituzione del bisogno con la cultura – come nell’amore – è il segno dell’affievolirsi dell’istinto e dell’attaccamento ai valori. Ognuno di noi ha potuto fare quest’esperienza: quando nella vita si attraversa una crisi scatenata dal dubbio, quando tutto ci disgusta, il pranzo diventa una festa. Gli alimenti sostituiscono le idee. I francesi sanno di mangiare da più di un secolo. Dall’ultimo contadino all’intellettuale più raffinato, l’ora del pasto è la liturgia quotidiana del vuoto spirituale. La trasformazione di un bisogno immediato in fenomeno di civiltà è un avanzamento pericoloso e un grave sintomo. La pancia è stata la tomba dell’Impero romano, ineluttabilmente lo sarà anche per l’Intelligenza francese.
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L’alessandrinismo è il periodo dei rinnegamenti sapienti; il rifiuto come stile di cultura. L’uomo erra con nobiltà tra gli ideali; il pensatore fa serpeggiare con sottigliezza la sua mente tra le idee. Né l’uno né l’altro fanno sosta da qualche parte. Non hanno patria, né focolare. Poiché la decadenza è l’assenza del tetto spirituale, cioè la negazione della dimora attraverso lo spirito. Dove piantare il corpo e fissare l’ispirazione? L’im68
maginazione erudita vi spinge in tutte le direzioni; nessun orizzonte dello spirito arresta la curiosità per le cose nuove… invecchiate. È l’avventura senza speranza, la disperazione nostalgica. Ci sono dei paesi che sono fecondi e vasti solo nella decadenza. È il caso dell’antica Roma, troppo contenuta ai suoi albori, conquistatrice durante il suo crepuscolo. L’invasione delle religioni orientali, la moltitudine dei nuovi idoli che cavalcavano le superstizioni autoctone, lo scetticismo e l’immoralità che alleggerivano i costumi delle province, portarono a compimento il suo tramonto. La fine della Francia non si misura. È troppo naturale, troppo evidente e troppo poco densa; è la conclusione logica del suo divenire; così logica che non stupisce. Lo straordinario non è una categoria francese. Un’agonia priva di grandezza. Come se avesse finito il suo vuoto… La Francia non è al riparo di Niente; è allo scoperto di fronte al futuro. In essa tutto ciò che non è amarezza è segno di volgarità. La felicità francese ha perso il proprio ritmo vivace e generoso, essa è gioia senza contenuto, fuga dalle preoccupazioni e dalle responsabilità. Il vuoto della Francia – testimoniato dalla ricerca del divertimento a ogni costo – diventa agli occhi dello spettatore un aspetto54 molto triste. Il bisogno di ridere – il terrore 69
davanti alla fronte corrugata – prende l’aspetto grossolano di una nazione decaduta sul mercato. In altri secoli, gioiva nel non prendere la vita sul serio, per eccesso di gravità; ora, è assillata dal vuoto, tormentata da cuori svuotati. Il contenuto sentimentale della tristezza le instilla paura: il suo riso è aspro, uno spasmo di sangue acre. Il suo declino, evidente da quasi un secolo, non ha spinto nessuno dei suoi figli a protestare disperatamente. Si direbbe che tutti non aspettassero altro che farsi dimenticare55, impercettibilmente, nell’opulenza… Il disgusto del sensazionale in un popolo che fu per molti secoli il sangue di un continente e la gloria dell’universo, la racchiude irrimediabilmente in un futuro anonimato.
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Se i francesi non si fossero disgustati di loro stessi, meriterebbero il disprezzo. È la prima volta nella loro storia che conoscono questo sentimento. Ma esso non ha né la forza necessaria né il brivido torturante. Noialtri, incatenati ai nostri destini approssimativi, lo proviamo nell’attimo della nostra prima riflessione, nasciamo con esso e lo sviluppiamo col passare del tempo, ne subiamo le esperienze e le alienazioni – come certi poveri 70
ebrei non ingannati da tentazioni messianiche. Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza. Come se non fossimo nati nel nostro elemento, la “patria” è un simbolo di interminabili dubbi, un punto interrogativo che non trova nessuna risposta – né etnica né sentimentale e neanche geografica. La Francia è qui; ha trovato il suo posto nel mondo a tutti i livelli. Ha perso solo l’avvenire. Come ha potuto evitare la vecchiaia? I suoi vetusti prestigi la eleveranno forse alla nobiltà del rinnegamento? Il secolo dei Lumi avrà lasciato sufficienti riserve d’intelligenza per coltivare superbe negazioni? Un tramonto che non si capisce perde la sua poesia nel ridicolo. Progetti e speranze, nel momento dell’imbalsamazione, rasenterebbero la volgarità e getterebbero un’ombra triste sulla sua antica gloria. Le civiltà mature che non hanno compreso56 la gloria dell’estinzione suscitano la pietà delle nazioni inferiori. Sulle sponde della Senna, sogno una grandezza crepuscolare che imporrebbe le sue assenze a un continente incerto. La Francia saprà essere presente attraverso… ciò che non c’è più?
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Il mio destino è di avvolgermi con i resti delle civiltà. Come mostrare la mia forza se non resistendo in mezzo al loro putridume? Il proporzionato rapporto tra barbarie e nevrastenia mantiene in equilibrio questa formula. Esteta dei tramonti delle culture, getto uno sguardo tempestoso e trasognato sulle acque morte dello spirito… Nell’onda così calma della Senna57 vedo riflettersi la mia mancanza d’avvenire insieme a quella della Città, e lascio al fiume indifferente58 la mia stanchezza tremante. Venuto da lande primitive, dal sotto-mondo della Valacchia, con il pessimismo della giovinezza, in una civiltà troppo matura, quale fonte di brividi davanti a tanto contrasto! Senza alcun passato in un passato immenso; con il terrore originario nello sfinimento finale; con il tumulto, e una vaga nostalgia in un paese disgustato dell’anima. Dall’ovile al salotto, dal pastore59 ad Alcibiade! Che salto oltre la storia, e che fierezza pericolosa! I tuoi antenati si trascinavano nella pena, ed ecco che, per te, il disprezzo sembra essere un’azione, e l’ironia, senza il profumo di una tristezza astratta, un’impresa volgare. Non poter vivere se non nel paese dove chiunque può essere toccato dall’intelligenza! Un universo composto da agorà e salotti, un incrocio di Ellade e Parigi, ecco lo spazio assoluto dell’esercizio della mente. 72
L’avvenire60 umano si dispiega tra questi due poli: il pastoralismo e il paradosso. La cultura è una somma d’inutilità: il culto della sfumatura, la delicata complicità con l’errore, il gioco sottile e fatale con l’astrazione, la noia profonda, il fascino della dissoluzione. Il resto è agricoltura.
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Le decadenze sono: tranquille, galoppanti o verticali. Quella francese sembra trovarsi nel mezzo. Tre modi di andare a fondo, che si differenziano per il loro ritmo. L’annegamento di una civiltà… rivela la vita come un gioco d’impudica fatalità e di spietato rigore. In fondo, cos’è una civiltà? Un’organizzazione dell’assurdità della vita, un ordine provvisorio nell’incomprensibile. Appena i suoi valori si esauriscono e non spingono più l’individuo verso la fede e verso l’azione, la vita rivela il suo non-senso. Colui che vive ai margini di tutte le forme di cultura, che non cade vittima di nessuna, si condanna da sé, poiché intravede il niente dell’essere nella loro trasparenza. La successione delle civiltà è la serie di resistenze che l’uomo ha opposto all’orrore della pura esistenza. 73
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Un popolo ha vitalità finché accumula forze pericolose per sé e per gli altri. Ma quando lo squilibrio e la rivolta cominciano a neutralizzarsi, quando ogni istante del presente non è più l’occasione di una crisi feconda per il futuro, la sua tensione non oltrepassa la soglia del tempo. Esso cade sotto il dominio del tempo. E gli eventi lo schiacciano. Il fenomeno della decadenza rivela lo scivolamento verso la dipendenza del tempo. Nessun potere sotterraneo sorge per imporre una nuova configurazione alla storia. Il divenire significa allora inerzia della dissoluzione, impossibilità della sorpresa. Un paese che non è più un minaccia per sé stesso – in cui nessuno più si stupisce – sogna la sua permanenza nei simboli negativi della durata: la culla e la tomba. Il tempo gira allora invano attorno alla propria dissoluzione… Non può più pompare il futuro. Nel mondo, tutto appassisce: desideri, pensieri, cieli e civiltà. Una sola cosa resta in fiore: l’assurdo, l’atemporale assurdo. Dal punto di vista della vitalità, essere avanti è dannoso, poiché facendo un passo – anche più d’uno – al di là delle evidenze della vita, ci si libera del peso fecondo dei valori. 74
Un paese avanzato non patisce alcuna complicità con un ideale qualsiasi. Raccoglie in sé tutto ciò che potrebbe costituire una negazione del gotico, cioè dello slancio, della trascendenza, dell’altezza. La sua energia non tende verso l’alto, si piega. La Francia è Notre-Dame riflessa nella Senna – una cattedrale che rifiuta il cielo. Un individuo, una civiltà avanzano al di fuori della vita. Ogni progresso implica un’equivalente rovina. Sul piano storico, la progressione assoluta significa la fine di una missione; per l’individuo, l’impossibilità di vivere. Cosa apprendere dalle civiltà che hanno fermentato troppo, se non morire? La Francia mi offrirà forse la lezione di una onorevole agonia? Un intero paese che non crede più a niente, che spettacolo esaltante e insieme degradante! Sentire i francesi, dall’ultimo dei cittadini al più lucido, dire col distacco dell’evidenza: “La France n’existe plus”, “Nous sommes finis”, “Nous n’avons plus d’avenir”, “Nous sommes un pays en décadence”61, che lezione tonificante, quando non si è più amanti delle illusioni! Mi sono spesso abbandonato con voluttà all’essenza dell’amarezza della Francia, mi sono deliziato della sua mancanza di speranza, ho lasciato rotolare i miei brividi disincantati lungo i suoi pendii. Dopo che per molti secoli è stata il cuore spirituale dell’Europa, la naturale accettazione 75
della periferia l’abbellisce ora di una vaga seduzione negativa. Per chi cerca i declivi, lei è lo spazio consolatore, la fonte torbida dove si disseta la febbre inestinguibile. Con quanta impazienza ho atteso questo esito, tanto proficuo per l’ispirazione malinconica! L’alessandrinismo è la dissolutezza erudita come sistema, il respiro teorico all’imbrunire, un gemito di concetti – e il momento unico in cui l’anima può accordare le proprie ombre allo sviluppo oggettivo della cultura. Se il crollo della Francia non ha destato troppo scalpore, è accaduto per i suoi precedenti e per la natura della sua storia. Mai ha amato il ritmo violento né l’eccesso disumano; non conosce l’equivalente del dramma elisabettiano o del romanticismo tedesco. Estranea ai simboli potenti della disperazione o ai doni impetuosi dell’esclamazione – dove trovare una Santa Teresa tra queste donne dal sorriso intelligente? – la Francia porta a buon fine la sua caduta, secondo il ritmo specifico della sua evoluzione. Siccome non ha consumato la sua vitalità in sobbalzi esasperati, la sua vecchiaia non può più dar luogo ad aspre tensioni. La dolcezza di Montaigne62 la veglia durante il suo crepuscolo, così come la vegliò ai suoi inizi. La Francia si prepara a una fine decente. Ci sono momenti in cui la speranza corrisponde a una mancanza di nobiltà, e la ricerca della felicità a un inconveniente. 76
La Francia è certamente un organismo. Ma nel suo sviluppo ha toccato un così alto grado di perfezione che trova meglio i suoi simboli nelle figure geometriche che negli accidenti del divenire biologico. I suoi valori si legano secondo il modello degli schemi e la purezza delle astrazioni. Ci si chiede come può perire ciò che condivide l’apparenza della stabilità? E come delle forme destinate a rimanere immutabili, a causa della loro vuota rotondità, possano logorarsi? La decadenza della Francia non rassomiglia alla decomposizione di una geometria? Sarebbe forse questo il caso, se si trattasse di un male formale? Ma si tratta di un male dell’anima la cui rovina si riflette nel mondo dei valori, delle forme, della cultura propriamente detta. Come sistema di civiltà in sé, la Francia potrebbe perpetuarsi in maniera indefinita; ma coloro che lo portano, coloro che l’hanno prodotto, non lo sopportano più, non lo producono più. I valori di un paese possono durare, ma l’anima – la loro radice – non dura più. L’uomo, in effetti, si è inaridito. E nella misura in cui marcisce, le sue creazioni entrano nella storia dello spirito, che non è altro che una forma consolatoria dell’archeologia, vera e propria finalità degli sforzi umani. Non conoscendo rotture né pause – al contrario della Spagna dopo la caduta dell’impero o della Germania dopo la pace di Vestfalia – si è sviluppata se77
condo le leggi della crescita normale. Il suo divenire è naturale. È per questo che non ha formulato la teoria del divenire, e che il mondo l’ha creduta statica. Il dinamismo – trattenuto in un culto astratto – implica rotture e irrealizzazioni intime, l’incapacità di evolvere normalmente. I paesi senza compimento naturale sono quelli che hanno bisogno della parata teorica del divenire. L’irrazionalismo tedesco o il pensiero apocalittico russo – religioso o nichilista, poco importa – sono sorti dalla sete di compimento di due grandi popoli cui la storia non ha sorriso – disponevano di un eccesso di vitalità che non poteva esprimersi in realizzazioni e valori oggettivi. Essi apportavano un surplus di vita, che non si accordava alla loro realtà politica minore: costretti alla virtualità da cui nasce, d’altronde, il dinamismo, mentre la Francia, durante la sua supremazia, era attualità. Vista dall’esterno, la sua evoluzione conosce un minimo di disaccordi, di assenze e di pause. A cosa le sarebbe servita una teoria del divenire? Lei sa cos’è. Un paese sicuro del proprio futuro, signore del suo tempo, non ha bisogno di dinamismo; lo vive – a meno di non infonderlo nella sua decadenza, per un rifiuto del ridicolo che comprometterebbe così la sua notoria lucidità…
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La Francia può ancora fare una rivoluzione. Ma senza grandezza, senza originalità e senza scalpore: prendendo in prestito i miti dagli altri – come i comunisti francesi, i soli a possedere una vena rivoluzionaria – raffazzonando discorsi con vecchie frasi, con pezze anarchiche e con la disperazione della piccola borghesia che ha perso la testa. Bisognerà, prima che abbia completamente esaurito le sue possibilità di rigenerazione sociale, che la zizzania – la populace63– trionfi, faccia la propria comparsa. La vita esiste solo in banlieue64. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile. Solo che la sua classe operaia non ha né risorse di eroismo né slanci sovversivi. La carriera rivoluzionaria della Francia è virtualmente conclusa. Lei può solo lottare per il suo stomaco. L’eroismo, che implica uno strano miscuglio di sangue e di inutilità, non può più essere il suo ossigeno. Mai un popolo con gli istinti assopiti ha proposto all’umanità il benché minimo ideale, e neppure briciole di fede. Un’intelligenza sveglia, ma priva di vitalità, diventa lo strumento artificiale dei piccoli fatti quotidiani, della caduta in una mediocrità senza rimedio. Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e vo79
lendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante. Le grandi potenze soffrono della malattia delle separazioni, languiscono virilmente per lo spazio. I cittadini disprezzano le comodità minori del focolare domestico; i contadini guardano al di là dell’orizzonte dell’aratro. Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria. …Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino. Questo stesso tipo di stanchezza dovette prendere anche i legionari romani, quando il monumentale furore delle spedizioni si fu placato. L’agricoltura non può rimpiazzare la gloria. Quando un popolo l’ha assaporata lungamente, una volta finita, niente può sostituirla. È il caso della Francia, il cui solo contenuto è la sua antica gloria, che non scalda più nessuno. Nella decadenza, un popolo si separa da sé stesso. La creazione si limita allora, per lui, a ordire la sua assenza con un vago sforzo, a conservare la propria sterilità, allo stesso modo in cui il fallimento dell’individuo si riduce a coprire, con un velo d’intelligenza, il putridume del suo midollo spirituale. L’anima che velocemente innalzava, in un allegro, i suoi sensi generosi finisce in un andante stizzito, ritmo predestinato per tutte le forme di intorpidimento, storico o individuale. 80
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L’alessandrinismo può essere considerato come una forma di cultura riuscita quando rappresenta una pienezza della decrescita. Ci sono disgregazioni feconde e disgregazioni sterili. Una grande civiltà che si provincializza diminuisce il suo volume spirituale; ma quando stende gli elementi della propria dissoluzione, quando universalizza il proprio insuccesso, il crepuscolo conserva i simboli dello spirito e salva le sue parvenze di nobiltà. Un certo patetismo della vecchiaia si addice a una cultura in declino; essa può persino costituire, per la qualità particolare dei suoi pendii, una grande epoca. Allora, l’individuo che ne fa parte può essere fiero del presente; ha il diritto di disprezzare il passato e il futuro. Anzi, è obbligato a farlo. Mettendo a tacere le antiche glorie e guardando dall’alto verso il possibile, si allunga sulla culla estetica della raffinatezza, e non ha più paura del tempo. Ma chi non porta un Alcibiade nel sangue non ha niente da fare nelle epoche troppo mature. Se è giovane, è maldestro; se vecchio, agonizzante. Incapace di stare alle regole del gioco – giacché lo spirito è gioco – si risveglia privato delle sue possibilità! Avere coscienza del momento storico della decadenza non è una gran cosa; ma è estremamente diffi81
cile trarne le conseguenze, accettare la verità che ci è imposta dall’evidenza. Poche persone si rendono conto in maniera lucida dello stile complesso della decadenza, pochi hanno coscienza del fenomeno che la forza del divenire li costringe a vivere. Un’epoca alessandrina è un’epoca di sintesi. In essa si inframmezzano tutte le forme della cultura, perché manca di originalità produttiva e dispone solo di un destino che riassume bilanci e contabilità spirituali. Andare a fondo con questo immenso materiale, che sorte invidiabile! Ma quanti sono in grado di apprezzare questo eccesso della decrescita? Per vivere vibratamente il vuoto traboccante della sera spirituale, occorre non solo educare il nostro senso storico, ma anche prendere le distanze dal mondo, coltivare una certa sensibilità neroniana senza follia, una predisposizione per i grandi spettacoli, per le emozioni rare e pericolose, per le ispirazioni audaci. Colui che non ama l’attrazione equivoca dei crocevia, che cosa può cercare in questi tempi in cui scricchiolano le articolazioni di una civiltà e, in altri luoghi, lievitano forme nuove – se non il caos?
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Paese nel mezzo, tra il Nord e il Sud, la Francia è un Mediterraneo con un supplemento di bruma. In questa terra dove sono nate le cattedrali e Pascal, il blu è scuro, e per quanto possa eccellere in chiarezza, non è meno striata dalle suggestioni dell’oscurità. La Francia, nella sua totalità, è più profonda di quanto sembri. Tra tutti i grandi paesi, nessuno dà l’impressione – a prima vista – di tanta superficialità. Questo perché ha coltivato le apparenze. Ma le ha coltivate in profondità; le ha ben curate; le ha dissodate. Non ha il senso dei mondi sotterranei e non è inseguita dalle essenze, ma è il paese del fenomeno in sé. Un paesaggio di Monet – che esaurisce la poesia del visibile – la soddisfa. L’impressionismo è l’apparizione più naturale dell’arte francese, in qualche modo è la conclusione del genio francese. Se le apparenze sono tutto, la Francia ha ragione. Non si può dire molto su di esse. La Francia ha capito persino le apparenze delle tenebre. La probabile infondatezza della metafisica potrebbe salvarla per l’eternità. Una cultura di misteri fuggitivi, ma senza mistero. E senza genio selvaggio. Qui sta una delle sue carenze costitutive, e la spiegazione della vistosa calma della sua decadenza. La burrasca dei sensi – che gli inglesi vivono ma che oc83
cultano per dare libero corso talvolta alla sua furia – ecco cosa manca alla Francia. Quanto sembra pallida accanto all’Inghilterra! Non ha neanche un equivalente – seppur minore – di Shakespeare. Anche se, a partire dal suo fenomeno evolutivo, una civiltà reca un germe di morte e si dirige verso la sua fine fatale, un tumulto interiore suggerisce un fremito di vita che copre l’inevitabile decomposizione. Ma la Francia – sotto tutti gli aspetti del suo spirito – si è sforzata di soffocare il ribollire primario dell’uomo. Lo sforzo di stilizzazione ha ucciso il genio selvaggio e l’originalità passionale, che si addicono così bene sia ai poeti inglesi che al fondo anglosassone. In essa non vi è nulla del sogno infinito delle grandi civiltà, né della paura dei limiti dell’immanenza, che fondano l’appello65 dell’ispirazione liberata . Una nazione apoetica. Non è forse significativo che Baudelaire e Mallarmé – il primo, grande poeta, il secondo, grande artista – si siano nutriti della sostanza poetica dell’Inghilterra, che siano anglicizzanti nell’intimità dell’anima e non solo per formazione intellettuale? La Francia non ha abbastanza apertura sul caos, sul dramma dell’imperfezione e sulle gestazioni cosmiche. Una cultura acosmica è una cultura senza grandi poeti. Cosa potrebbe opporre al preromanticismo inglese? Gli stati vaghi – le irrealizzazioni monumentali – come poterli tradurre in una lingua lineare? Come tra84
durli visto che non li conosce? Le sfumature della lingua tedesca per esprimere le variazioni della tristezza le sono estranee. La pleiade dei poeti del romanticismo tedesco ha eccelso nella gamma del vago, di quel vago che avviluppa il mondo. La poesia si esercita solo nelle indeterminatezze metafisiche, nel vuoto che si apre tra anima e cielo. Un Novalis è incompatibile con lo stile della cultura francese, con lo stile della perfezione fenomenica. La Francia ha opposto l’eleganza all’infinito. Da qui, tutti i meriti e tutte le carenze del suo genio. Lo spirito diventa indagatore nel momento in cui niente gli sembra più assurdo dell’Evidenza. Ma cos’è la sua eleganza se non un culto mantenuto dalle evidenze? La densità dell’oscurità nei fondamenti abissali di una civiltà sostiene il suo dinamismo, mentre la quantità di luce la condanna alla sterilità. È la condanna dell’equilibrio immobile, la soppressione del ritmo e della dialettica. Il razionalismo come forma di vita è la negazione della vita. Vivere effettivamente è una crisi continua dell’ordine. Lo stesso progresso – che può essere solo concepito come un tempo pieno – è una rovina costante della dimensione formale dell’esistenza. La Francia rappresenta un tipo di cultura antidionisiaca. L’estasi e l’ebbrezza dello spirito, la comunione nella confusione feconda e il torbido sorriso dell’anima 85
che rendono il mondo mistico, non si accordano con l’inclinazione alle dissociazioni, in cui lei eccelleva. Il culto del contorno – il disegno, sul piano dello spirito – ne fa una cultura non geniale. Poiché tutto ciò che si mantiene nei limiti della forma, all’interno della pura apparenza, rimane esterno al genio. Una paese con laghi di pensiero, ma senza suggestione oceanica… Viene talvolta da credere che il secolo dei Lumi si sia fissato in una spietata perfezione, come una protesta contro l’infinito. Il sole, i mari e i continenti dei sensi erano troppo volgari per penetrare nelle astrazioni senza l’orizzonte dei salotti. Nessun’altra civiltà ha passato a un vaglio più stretto l’universo, mai l’occhio è stato più adattato a organo di delimitazione, e il suo quadro a simbolo della perfezione. In Spagna, un Van Gogh sarebbe stato un’apparizione naturale; in Francia, l’olandese ha qualcosa di apocalittico. Il brivido orgiastico non entra nelle possibilità dello spirito francese, che è definito in opposizione ai fondamenti abissali dell’uomo e agli oracoli dell’anima. Ma troppa decenza risveglia una sensazione di sterilità e di incistamento. Il nostro bisogno di immenso tenta di trovare su altre sponde il respiro dell’orgia: la Francia – con troppe cupole e troppe poche torri – è insufficiente per le nostre ricerche verso l’alto come verso il basso. Le culture acosmiche diventano anemiche nella mediocrità delle evidenze. 86
Sapreste, guardando morire un popolo, rafforzare le vostre convinzioni infiacchite, ergervi con il furore del male interiore contro la tentazione del contagio? La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione. Rifiutare di spegnersi benché ci si sia compiaciuti di procedere dritti sulla via dell’estinzione. Farsi un destino di protesta contro la sorte, combattere contro la fatalità, ecco la conclusione vittoriosa degli spettacoli storici. Sebbene io capisca infinitamente meglio i Romani della fine, rammolliti dal vizio, dalla mancanza di fede e dal lusso, rispetto a quelli della grandezza, aspri, sani e fiduciosi nei loro idoli, conservo da qualche parte il rispetto per gli altari dell’illusione e per i templi non scossi dall’ironia. Quando Catone il Vecchio diceva che due aruspici non potevano guardarsi onestamente in faccia senza scoppiare a ridere, io ci credo, senza rimpiangere le vitali superstizioni. Una volta che i nostri simboli sono stati annullati dalla lucidità, la vita si trasforma in un amaro vagabondaggio tra templi abbandonati. Come vivere ancora con le sole rovine degli dèi? L’esortazione a esistere mi spinge a sognare altri inganni; e non sono trascinato nelle decadenze senza provare il bisogno di avvistamenti menzogneri. La pulsazione della linfa richiede l’occupazione di un territorio vacante; slanci da conquistatore si agitano nei ci87
miteri. Il Barbaro si è risvegliato. È la sola risposta – quella della vitalità – ai dubbi della conoscenza. Quando l’istinto ha l’ultima parola, il pericolo di rotolare dal pendio della sparizione diminuisce. Coloro che appartengono a una cultura decadente non ce l’hanno più, e dunque la salvezza non è più possibile. La protesta dei riflessi contro la tentazione del tramonto implica un fondo segreto di salute e di forza, che non potevano essere soffocate dai riflessi crepuscolari. E poi, c’è nell’individuo un’avidità d’essere che disarma gli appelli del nulla, un appetito miracoloso per l’esistenza, che schiaccia la complicità dilettante sotto la nobiltà equivoca dei crepuscoli. Per quanto possa piacervi lo smembramento di una civiltà, finché le vostre articolazioni resistono, rimarrete esteti dalle risorse primarie, non essendo abbastanza maturi – salvo nel pensiero – per morire, né sufficientemente marci per andare a fondo, ma solo abbastanza fieri per non farvi disonorare da adescamenti esaltanti. Finché non avrete deposto le armi, finché una vasta visione non vi avrà completamente roso le midolla, voi disporrete ancora della forza necessaria per affrontare ogni spettacolo. Una specie di furore moribondo giace negli esteti della decadenza. Ma loro preferiscono la vista della morte alla morte stessa. La questione è: fino a dove saranno trascinati66 nel gioco 88
fatale, fino a che punto potranno resistere alla sua attrazione morbosa67?
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Tutta una civiltà collocata al di fuori del possibile. Ecco il senso di una doppia discordanza: individuale e storica. Uno stesso affanno nei battiti del cuore e nell’universo dei valori. L’anima non dà più il ritmo e non dona più il suo contenuto a questo universo. Un paese senz’anima smette di essere un pericolo per i suoi vicini. Il mondo slavo si eleva con fare minaccioso in Europa a causa del suo eccesso d’anima. La Russia ne ha troppa. la Francia, troppo poca. Esse si contrappongono nella maniera più significativa; vicendevolmente si reclamano, come le luci dell’alba si rivolgono alle luci dell’imbrunire. I romanzi di Dostoevskij ci rivelano la desolazione profetica del cuore dell’uomo; i suoi personaggi sono degli eroi. Les Fleurs du mal – la desolazione priva d’avvenire; l’individuo soffre senza avere alcuna possibilità di agire in una dimensione del tempo. La miseria psicologica dello slavo è fertile, aperta alle opportunità; gli individui hanno un destino – soprattutto quando si decompongono; e si decompongono per un 89
eccesso di vita. Il finale dostoevskiano è annunciatore di mondi venturi; quello baudelairiano è la fine di una cultura, è il vuoto dell’anima e dei valori. La Francia non ha più l’energia che costituisce l’esistenza degli eroi. I russi possono essere negativisti, poiché credono alle negazioni, che non sono per loro un semplice spettacolo. È l’intensità, e non l’orientamento, a decidere la qualità delle convinzioni. Esse creano una persistenza nello spirito, anche quando lo combattono. Una fede è sempre un pericolo, poiché è un segno di vita, mentre il dubbio dell’intelligenza tocca solo altre intelligenze. Il massimo che un francese potrebbe ancora realizzare, sarebbe un’esistenza pascaliana senza grandi inquietudini. La sua unica forma di avvenire è un Pascal vuoto – mentre i russi, collocati all’altra estremità geografica e spirituale, hanno dietro di loro la tradizione interiore delle sette, delle possibilità assolute d’errore e d’aderenza. Essi traboccano di universo. Manca loro solo la forma per realizzarsi nell’ordine oggettivo della cultura. Ai francesi non restano che le forme. I tedeschi si pongono più o meno nel mezzo, tra un mondo indebolito e un altro che sta per fondersi68; hanno ancora un’anima, ma teoricamente rivolgono lo sguardo senza disdegno al livello del divenire francese, perché sono sufficientemente lontani dal loro inizio da fare, senza rischio, astrazione delle domande pericolose che pone loro la storia. Insufficientemente maturi dal punto di 90
vista culturale, i russi hanno il diritto di guardare la Francia dall’alto. Non si pongono gli stessi problemi, poiché respirano nel possibile.
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Essendosi eccessivamente inoltrato in mezzo a valori troppo diversi, il rischio che può correre l’individuo che fluttua al di sopra delle culture è il falso io, la perdita della misura e del gusto, la sua estensione nelle dimensioni inautentiche. Le limitazioni della Francia sono un antidoto contro il falso io, una barriera di classicismo eretta contro le tendenze alla disponibilità e al vago. Poiché conserva un’eredità classica perfino nel suo anticlassicismo. Le sue stesse confusioni hanno qualcosa di Racine. Il verso grave e oscuro di Valéry proviene formalmente dall’autore della Fedra; l’inintelligibile rispetta le apparenze della chiarezza e le profondità sorridono nello stile. Esiste forse una mistica meno orgiastica ed estasi meglio definite di quelle francesi? E tanti santi classici, con tanti Francesco di Sales e tanti equilibrati slanci? Quando abbracciamo troppo, falsifichiamo il mondo, ma soprattutto noi stessi. Non abbiamo più i mezzi per ritrovarci. Ma la Francia è una scuola di amplessi limi91
tati, una lezione contro l’io illimitato. Chi non è passato da questo rischia di invecchiare come un apprendista delle virtualità. Un’anima vasta racchiusa nelle forme francesi, che tipo di umanità feconda! Impariamo almeno questo, ai crocevia della storia: cerchiamo di adeguare i nostri difetti a modelli di valore, approfittiamo della rovina degli altri e, rafforzando la nostra materia vischiosa nello spirito, proviamo a evitare l’erta impervia delle elegie. Dalla Francia non possiamo trarre alcun contenuto; ma lei costituisce un universo di modelli che l’anima può assumere per non perdere il proprio contegno e la sua sicurezza. La mancanza di vita di un paese ci premunirà dai pericoli della vita. Dal turbinio dei puri slanci, la salvezza – sul piano della cultura – può venire solo dall’espressione. Il futuro farà nascere una cultura di orge formali? L’Europa troverà una formula per conciliare la profonda depravazione dello slavo o la teorica sfrenatezza del germanico e la calligrafia intellettuale della Francia? Per quanto la riguarda, la Francia non darà più sostanza allo spirito. Gli slavi e i germanici daranno forse vitalità alle sue forme? Poiché non riesco a immaginare un paese più carente di midollo della Francia. Nessuna santa illusione – giacché ogni illusione è santa – sonnecchia ormai più nelle sue ossa. Solo il vuoto e la sua veglia regnano ancora sullo spazio delle credenze in declino. 92
Ciò che ci vuole per la nostra palpitazione vitale è un correttivo categoriale. Il pathos scatenato, senza vincoli normativi, porta alla disarticolazione dello spirito, a un gotico sfrenato che, con il proprio slancio, annulla lo stile. Una barbarie nelle categorie, ecco la sola possibilità di coniugare proficuamente la vita con lo spirito. Altrimenti, l’irrazionale abbassa la cultura al livello dei troppo terrestri Balcani, come anche il regno dei modelli astratti conduce all’ossificazione della Francia. Il paradosso dei tempi venturi sarà forse definito da estasi improntate69 al culto della geometria, dall’abbandono simultaneo alla passione e al pensiero? Sogno una cultura di oracoli in logica, di lucide Pizie… e di un uomo che controllerebbe i propri riflessi per accrescere la vita, e non per inaridirla.
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Chi ha portato a termine le dissoluzioni può ancora ritrovarsi, mentre colui che è rimasto tra di esse è perduto. Se avete vissuto una decomposizione, e se ne avete la forza, avete la possibilità di rifarvi; vibrazioni nascoste vi riportano verso l’orizzonte vitale del futuro. Ma non dovete giudicare il vostro coraggio a partire 93
dalla condivisione delle putrefazioni oggettive. Le vostre, le avete godute fino a soddisfarvi; le altre, non le gusterete meno. La terapeutica minore della temperanza guida al fallimento; quella della temerarietà, al crollo o alla rinascita. Siete stati forse cadaveri tra i cadaveri del mondo? Allora meritate una primavera sotto altri cieli. Con la storia bisogna lottare; con il passato è necessario accanirsi come con il presente. Chi cerca un’epoca per timidezza o erudizione è placido o vigliacco. Considerate tutta la storia universale come il campo di sviluppo del vostro ardimento. E se non avete slancio guerriero, trasformatelo in sogno, affinché il pretesto dell’irrealtà giustifichi l’assopimento dei vostri istinti.
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Il fenomeno della decadenza è la conclusione definitiva della maturazione storica. Una civiltà più matura non rappresenta un avanzamento nei valori, ma nella vita. Poiché non abbiamo alcun diritto di apprezzarne l’esito come se fosse un culmine. Ciò che è erudizione rispetto al vigore dello spirito o vecchiaia di fronte allo sprigionarsi della forza, corrisponde alla decadenza riguardante lo sviluppo ascensionale della vitalità. La 94
sclerosi è la punizione che la vita merita per i suoi eccessi. La Francia paga secoli di tumulto con l’immobilità. È una degradazione di cui essere fiera e alla quale può dare stile attraverso il cinismo. La nazione che maggiormente ha portato avanti l’idea del progresso si trova a esserne esclusa. Non si tratta qui di una bella espiazione e di una sanzione piena di senso? Il concetto di progresso – sul piano storico, un rifiuto della morte – che è sorto dal più dinamico e superficiale ottimismo, pecca per la mancanza di un fondamento metafisico. Credere a un eterno e incurabile avanzamento significa bendarsi gli occhi per non vedere l’essenziale. La deficienza metafisica dell’uomo moderno non può più significativamente rivelarsi se non in questo concetto. E siccome la Francia l’ha introdotto, è la prima a pagarne le conseguenze. La sua decadenza assume così il valore di un atto di giustizia. La storia la punisce per avergli voluto conferire più di quanto potesse ricevere, e una dignità non all’altezza. Le generosità sono delle gravi colpe teoriche. Tuttavia, senza di esse, una civiltà non giustifica il proprio cammino sotto il sole. Esse rivelano il potere di illusione – di vita – che giace in un popolo. Più sono grandi, più il risveglio sarà schiacciante. È un seme di donchisciottismo a segnare le potenzialità interiori di una nazione. La civiltà che crea è il frutto di questo seme. Quando si è esaurita, l’uomo si siede al margine del proprio de95
stino, con tutti i valori generati dalla linfa degli inganni fruttuosi, coltivando il proprio abbattimento nella contrizione e nel disincanto. La Francia non è punita ironicamente solo per la sua fede superstiziosa nel progresso, ma per tutte le grandi e nobili formule sotto le quali ha nascosto la propria caducità. “La civilisation française”, “La France dans le monde”70 non hanno forse espresso, sotto l’apparenza concisa della loro magniloquenza, l’idea che il tipo di civiltà francese sia unico? E l’aggiunta dell’aggettivo “nazionale” a tutti i valori ha avuto forse altro significato se non quello di individuare una forma di cultura considerata come un simbolo universale? Ma, più di tutto, “La France éternelle”71 non ha forse fissato in due parole lo sforzo ingannevole per sfuggire alla soluzione finale, ovvero quella del tempo? Nessuna eccedenza di prestigio verbale ha potuto fermare né coprire lo svolgimento fino al suo termine. Che nessun francese abbia intravisto “La France mortelle”72 è sicuramente un allontanarsi, per paura, dal vero. Ma il suo contemporaneo straniero non può più permettersi la falsa speranza, dal momento che, per lui, il senso dell’irreparabile della storia è una gloria che abbellisce negativamente l’anima.
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Un paese è grande non tanto per l’innalzamento del livello d’orgoglio dei propri cittadini, ma per l’entusiasmo che ispira agli stranieri, per la febbre che trasforma in satelliti dinamici coloro che sono nati sotto altri cieli. C’è mai stato forse un paese al mondo che abbia avuto così tanti patrioti provenienti da un altro sangue e da altre tradizioni? Non siamo stati noi tutti, nelle crisi, negli accessi o nei respiri di lunga durata, dei patrioti francesi? Non abbiamo forse amato la Francia con più ardore dei suoi figli? Non ci siamo innalzati e umiliati con una passione facilmente comprensibile e tuttavia inspiegabile? Venuti in così tanti da altri luoghi, non l’abbiamo forse abbracciata come l’unico sogno terreno del nostro desiderio nostalgico? Per noi che arriviamo da ogni sorta di paese, da paesi sfortunati, l’incontro con un’umanità realizzata ci conquistava offrendoci l’immagine di una dimora ideale. Noi tutti che abbiamo sprecato giorni e anni sulle sue strade, noi abbiamo versato le innocenze della nostra anima in una tenerezza che non rimpiangiamo, anche se, così facendo, abbiamo perso le nostre possibilità di essere fecondi sul suolo natio, lontani dallo spazio e più ancora dalla nostra nostalgie73. Le abbiamo forse dato un giorno la parte migliore delle nostre convinzioni, o ci siamo forse deliziati nelle delusioni come nelle nostre esperte occupazioni? Quale altro paese avrà raccolto omaggi e ri97
fiuti più lusinghieri? Noi l’abbiamo tanto viziata che, d’ora in poi, né lei né noi troveremo altra occasione di incontro lirico. Ci accontenteremo di altri spazi, ma senza slanci né inchini. Qualcosa della Francia è passata in noi, qualcosa che ha ucciso in noi l’innocenza dell’anima. Dove trovare gli stimoli per altri ingenui concepimenti? Il seme dell’infanzia che fa nascere il tempo ha inaridito il suo vigore in un paese privato delle sementi del suo avvenire per un troppo pieno di passato. Il nostro errare verso qualcos’altro è troppo spesso soffocato dalla maligna influenza di una nazione sul punto di esaurire il proprio senso. Noi portiamo sulle spalle e nel pensiero i riflessi della sua fine. Forse per questo le nostre idee hanno qualcosa della monotonia del polso e delle sicure agonie. Ovunque volgiamo i nostri passi, che siano sentieri o altipiani, la Francia non morirà da sola, ma noi espieremo insieme a lei il gusto insolito della caducità. E per ogni speranza che vorremmo mantenere, il peso di quest’eredità ci rigetterà, senza scampo, dal cuore dell’avvenire verso i suoi confini. 1941 [a matita] Manoscritto depositato alla Bibliothèque littéraire Jacques Doucet nel Fondo Cioran.
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NOTE 1 Emil Cioran, Schimbarea la faţă a României, Bucarest, Editura Vremea, 1936, p. 88. 2 Come si legge in una lettera di Cioran ad Alphonse Dupront, datata 11 giugno 1941, in Cahier Cioran, a cura di Laurence Tacou e Vincent Piednoir, Paris, L’Herne, 2009, p. 460. 3 Emil Cioran, Profilul interior al Căpitanului. Exaltările unui sceptic, Conferenza radiofonica, 27 novembre 1940 in “Glasul Strămoșesc”, Sibiu, n. 10, 15 dicembre 1940. 4 L’annotazione nel Diario di Sebastian è datata 2 gennaio del 1941. Mihail Sebastian, Jurnalul II. Jurnalul indirect. 1926-1945, a cura di Teșu Solomovici, Bucarest, Editura Teșu, 2012, p. 678. 5 Cfr. Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione (19301934), a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Marisa Salzillo, postfazione di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine, Mimesis, 2013. 6 Cfr. Alain Paruit, La Métamorphose, in E.M. Cioran, De la France, Paris, L’Herne, 2009, pp. 7-8. 7 Cioran, a partire da Despre Franţa, sarà molto attento nella sua opera futura alle sfumature linguistiche che intercorrono tra la noia e la melanconia. Il termine romeno urât verrà talvolta autotradotto in francese da Cioran con il baudelairiano spleen e in altre situazioni con la parola cafard. Cafard viene dall’arabo kafir o da una radice caf-, dal latino cavus. “Nostro padre il cafard”: scrive nei Cahiers (E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, a cura di Simone Boué, Milano, Adelphi, 2001, p. 404). Il significato letterale è ‘blatta’, ‘scarafaggio’, ‘insetto nero’ da cui anche il senso di essere un “devoto ipocrita”. Avoir le cafard significa invece essere giù di morale, depresso, di umore nero, avere delle idee nere nella testa. Ennui, come indica anche la parola italiana noia, proverrebbe dal latino 101
tardo inodiare, cioè in odio (est mihi), ed è il termine che Cioran impiegherà per tradurre il romeno plictis o plictiseală. In romeno ură, urât, a urâ derivano dal latino horrire (horrere, horrescere), quindi si tratta in romeno di una noia più legata alla paura, alla solitudine, alla banalità della vita, alla mancanza di occupazione. Cfr. Giovanni Rotiroti, Il demone della lucidità. Il “caso Cioran” tra psicanalisi e filosofia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 121-130. 8 E.M. Cioran, Les secrets de l’âme roumaine. Le “dor” ou la nostalgie, in Exercices négatifs, a cura di Ingrid Astier, Paris, Gallimard, 2005, p. 120. 9 Dor è un sostantivo neutro che in romeno ha diversi significati che riguardano essenzialmente la mancanza. Si può provare del dor per l’amato o l’amata, per gli amici, dor per la famiglia, dor per il luogo natio. Si tratta di un potente desiderio, che si gioca sul registro nostalgico, come quello di vedere o rivedere qualcuno o qualcosa con un sentimento d’amore, oppure di ritornare a un’occupazione piacevole. È fondamentalmente uno stato dell’anima per cui chi lo prova tende, desidera ardentemente, aspira a qualcosa provando anche dolore. L’etimologia fa provenire la parola dor dal latino dolus e ha anche una forte connotazione erotica. Da dor deriva il verbo a dori che significa ‘desiderare’. 10 Cfr. Marta Petreu, Cioran sau un trecut deocheat, Bucarest, Polirom, 2011, pp. 190-212. 11 Emil Cioran, Il Nulla. Lettere a Marin Mincu (1987-1989), a cura e traduzione di Giovanni Rotiroti, postfazione di Mircea Ţuglea (traduzione di Irma Carannante), appendice di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014, pp. 53-55. 12 In francese nel testo originale romeno, ‘Collezioni di esagerazioni morbose’. 13 In francese nel testo originale romeno: ‘malinconia’, ‘tristezza’, ‘depressione’. Si veda anche la nota 7, relativa al cafard nell’Introduzione. 102
14 In francese nel testo originale romeno: ‘noia’, ‘vaga malinconia’, ma anche ‘nostalgia’. 15 In tedesco nel testo, ‘noia’. 16 Nel testo originale romeno ‘l’essere’. 17 In francese nel testo di Cioran, citazione tratta da una lettera della Marchesa du Deffand al conte Horace Walpole: ‘In me trovo solo il nulla, ed è così brutto trovare in sé il nulla, che sarebbe stata una gioia esserci rimasti.’ 18 In francese nel testo originale romeno, ‘sono nato ucciso’. 19 Nel testo originale romeno ‘sembra’. 20 Nel testo originale romeno ‘doratura’. 21 Nel testo originale romeno ‘mancanza di serietà’. 22 Nel testo originale romeno ‘incondizionato’. Con questa parola, Cioran sembra indicare ‘la facoltà dell’incondizionato’ a partire dalla Critica della ragion pura di Kant. Alain Paruit giustamente lo interpreta anche nei termini stabiliti dalla Critica della ragion pratica, riferendosi all’imperativo categorico kantiano, cioè al dovere che, in modo incondizionato, ordina a prescindere da qualsiasi fine o scopo. 23 Nel testo originale romeno ‘assente’. 24 In tedesco nel testo, ‘il paese del cattivo gusto’. 25 In corsivo nel testo originale romeno. 26 In francese nel testo originale romeno, ‘chiacchierone’. 27 Nel testo originale romeno ‘ha conosciuto’. 28 In corsivo nel testo originale romeno. 29 Nel testo originale romeno ‘adeguarsi alla causa di questi errori’. 30 In francese nel testo originale romeno, ‘maniero, piccolo castello di campagna’. 31 In corsivo nel testo originale romeno. 32 In francese nel testo originale romeno: ‘dolcezza angevina’, cioè d’Angers, dell’Anjou. 103
33 In tedesco nel testo: ‘nostalgia’, ‘desiderio’, ‘passione nostalgica’. 34 In francese nel testo, ‘ragione, esperienza, progresso’. 35 Nel testo originale romeno ‘finitudine’. 36 In corsivo nel testo originale romeno. 37 In francese nel testo romeno, ‘popolo’. 38 Nel testo originale romeno ‘orrore’. 39 In francese nel testo romeno: ‘malinconia’, ‘tristezza’, ‘depressione’. Si veda anche la nota 7, relativa al cafard nell’Introduzione. 40 In francese nel testo originale romeno, ‘ingannato’. 41 Nel testo originale romeno ‘Il deserto dei villaggi nelle campagne francesi’. 42 Nel testo originale romeno ‘di proiettare l’anima nella logica’. 43 Nel testo originale romeno ‘processo inverso’. 44 L’amok, patologia studiata in ambito etno-psichiatrico, è una furia omicida che trae origine da un’offesa ricevuta e vissuta come inaccettabile. Il soggetto, dopo aver fatto strage prima dei familiari e poi degli estranei, corre come un ossesso per le strade e tra i campi e, infine, crolla a terra privo di forze. 45 Nel testo originale romeno ‘per cui lottare’. 46 Nel testo originale romeno ‘servirà da monito per i loro entusiasmi’. 47 Nel testo originale romeno non in corsivo. 48 In francese nel testo originale romeno, ‘il benessere’. 49 In francese nel testo originale romeno: ‘grande’ – ‘grande nazione, grande esercito, la grandezza della Francia’. 50 In francese nel testo: ‘il francese medio’, ‘il piccolo-borghese’. 51 Alain Paruit traduce giustamente priveliștea lumii con le paysage du monde (‘il paesaggio del mondo’) cogliendo il riferimento implicito di Cioran al libro di poesie di Benjamin Fondane Fundoianu, intitolato Priveliști, tradotto in francese con Paysages. In 104
Italia, il volume fondaniano è stato tradotto con il titolo Vedute, più vicino al significato originale del romeno. Inoltre, Cioran aveva letto La Conscience malheureuse (La Coscienza infelice) di Fondane, pubblicato in Francia nel 1936, per cui ha messo in corsivo coscienza immediatamente prima di “veduta”, indicandone così allusivamente la provenienza. 52 Nel testo originale romeno in corsivo. 53 Nel testo originale romeno ‘La raffinatezza colpisce la loro sostanza’. 54 Nel testo originale romeno ‘una veduta’. Cfr. la nota 51. 55 Nel testo originale romeno ‘non aspettassero altro che scivolare fino in fondo’. 56 Nel testo originale romeno ‘scoperto’. 57 Nel testo originale romeno ‘Nella calma priva di onde della Senna’. 58 Nel testo originale romeno ‘e lascio al fiume vuoto e indifferente’. 59 Cioran si riferisce qui all’anonimo pastore (cioban) protagonista del canto popolare romeno intitolato Mioriţa. L’intreccio è il seguente: un’agnella avverte il proprio pastore che i suoi due compagni lo vogliono uccidere per rubargli le greggi. Invece di difendersi, il pastore sembra accettare il destino come inevitabile e detta all’agnella veggente le sue ultime volontà, di essere cioè seppellito vicino al suo gregge con gli oggetti caratteristici del suo lavoro. La prega soprattutto di tacere dell’assassinio e di dire invece a tutti, e in particolare alla madre che lo cercherà, di aver sposato la regina del mondo (sublimazione e trasfigurazione lirica della morte) all’interno di un quadro liturgico e cosmico. L’idea centrale del testamento del pastore è che l’uomo non scompare definitivamente, ma si fonde unendosi eternamente con la natura attraverso i differenti gradi di metamorfosi degli stessi elementi naturali in una dimensione cosmica pacificata. Cioran, nel suo libro 105
La Trasfigurazione della Romania prenderà polemicamente le distanze dalla vulgata esegetica della Mioriţa – soprattutto dall’impostazione metafisica che ne aveva dato il grande filosofo e poeta transilvano Lucian Blaga, il quale aveva dedicato uno studio al problema identitario della romenità, intitolato appunto Lo spazio mioritico (1936), che rappresenta l’orizzonte specifico nel quale si sarebbe formata l’anima del popolo romeno – affermando nel 1936 che la Mioriţa costituisce ancora una ferita aperta dell’anima romena e rappresenta una maledizione poetica e nazionale, soprattutto a causa dell’atteggiamento passivo e fatalistico del pastore che si abbandona alla morte. 60 Nel testo originale romeno ‘Il divenire’. 61 In francese nel testo originale romeno: ‘Non c’è più la Francia’, ‘Siamo finiti’, ‘Non abbiamo più futuro’, ‘Siamo un paese in decadenza’. 62 Nel testo originale romeno ‘dolcezza misurata di Montaigne’. 63 In francese nel testo originale romeno: ‘la plebaglia’, ‘il popolaccio’. 64 In francese nel testo originale romeno, ‘periferia’. 65 Nel testo originale romeno ‘costituiscono la spinta’. 66 Nel testo originale romeno ‘incatenati al gioco fatale’. 67 Nel testo originale romeno ‘incurabile’. 68 Nell’edizione francese Alain Paruit non riesce a leggere la parola e dichiara, tra parentesi quadre: “Parola illeggibile nel manoscritto.” Nell’edizione di Constantin Zaharia è invece riportata la lezione îngemănândă. 69 Anche in questo caso il traduttore francese Alain Paruit non riesce a leggere la parola e dichiara, tra parentesi quadre: “Parola indecifrabile nel manoscritto.” Nell’edizione di Zaharia è invece riportata la lezione extaze-n tip. 70 In francese nel testo originale romeno: ‘la civiltà francese’, ‘La Francia nel mondo’. 106
71 In francese nel testo originale romeno, ‘La Francia eterna’. 72 In francese nel testo originale romeno, ‘La Francia mortale’. 73 In francese nel testo originale romeno, ‘nostalgia’.
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INDICE
La conversione di Cioran sulla via della Francia al tramonto di Giovanni Rotiroti
PAG.
7
Nota alla traduzione
PAG.
19
Sulla Francia
PAG.
21
Note del curatore
PAG.
101
In redazione Katia Colantoni Grafica Progetto: Alberto Lecaldano Font: Voland, Luciano Perondi, 2010 Stampa Grafiche del Liri via Napoli, 85 03036 Isola del Liri (FR) Finito di stampare: settembre 2014 Edizioni Voland 00185 Roma, via Napoleone III 12 tel. 06 4461946 www.voland.it e-mail: redazione@voland.it