CHARLES LAMBERT OCCASIONI DI MORTE VOLAND INTRECCI
Charles Lambert
Occasioni di morte traduzione di Isabella Zani
Voland
Titolo originale: The View From the Tower © Charles Lambert, 2014 © dell’edizione italiana Voland SRL Roma 2013 Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2014 ISBN 978-88-6243-159-0
Per Jane
Oggi l’incremento calcolato delle occasioni di morte, la consapevole assunzione della colpa di un omicidio necessario. W.H. AUDEN, Spain, Faber&Faber, Londra 1937
PRIMA PARTE
1
Roma, martedì 1° giugno 2004 L’ultima mattina del loro matrimonio Helen e Federico escono di casa insieme, poco prima delle nove. Lui ha detto all’autista di aspettarlo dal lato opposto della piazza perché le due vedove, le sorelle del primo piano, si lamentano per i gas di scarico dell’auto: gli sporcano il misero bucato di canottiere in flanella e calze grigie di lana, malgrado il caldo d’inizio giugno. Com’è triste, pensa Helen, lanciando un’occhiata al loro balcone mentre una goccia d’acqua le cade su un braccio: tutta una vita, un filo di panni gocciolanti. Così lei e Federico trascorrono questi ultimi momenti insieme, percorrendo le scale buie e poi la piazza, giusto il tempo di scambiare due parole e dirsi ciao prima dell’inizio delle rispettive giornate. Raggiunta la macchina già tacciono entrambi; e comunque hanno organizzato tutto prima di uscire di casa. Helen farà la spesa perché stasera viene a cena Giacomo, il loro più vecchio amico, con la moglie nuova di zecca. Ma la lista degli ingredienti da comprare l’ha compilata Federico perché il menu l’ha deciso lui, come sempre. Si è tenuto sul semplice: affettati, fegato di vitello coi carciofi, formaggi e frutta di stagione. Lungo il tragitto verso il ministero dirà all’autista di fermarsi un attimo in una viuzza nei pressi, dove prenderà un pezzo di Stilton; c’è una bottega, lo importano direttamente. In serata Helen apparecchierà e riempirà i bicchieri, mentre Federico prepara da mangiare e serve in tavola. Cucina sempre lui; lo rilassa, dopo il lavoro. Helen si siederà al tavolo a penisola con un bicchiere
14
CHARLES LAMBERT
di vino, mentre lui le racconta la sua giornata ministeriale, storie di persone intimamente collegate con il suo mondo e molto, molto meno con quello della moglie. Federico prende posto accanto all’autista infilandosi tra le gambe la valigetta, anzi la cartella con cui gira dai tempi dell’università e che si rifiuta di sostituire, ormai tutta macchiata, screpolata e ricucita con lo spago nautico: il marito compie da sé quest’operazione ogni estate con gran divertimento di Helen, la quale non ha mai rammendato nulla in vita sua. Sul sedile posteriore c’è una guardia del corpo: Federico se n’è visto assegnare quattro, due autisti e due uomini di scorta. Helen definisce il gruppo, in rotazione a turni quindicinali, la sua dotazione d’ordinanza. L’autista di oggi è Massimo, il suo preferito; l’altro non se la fila minimamente. Federico dovrebbe sedersi dietro, con la guardia, ma preferisce mettersi accanto all’autista, dove si rischia di più. Il rischio gli piace. Massimo alza una mano in un conciso saluto a Helen. – Cosa dici, quando possiamo tornare a trovare tua madre? – gli chiede lei. L’uomo allarga le braccia come a dirle, fissi lei la data. – Ha appena finito di imbottigliare la salsa degli ultimi pomodori. E non si preoccupi, non si è dimenticata, gliene ha messa da parte un po’. Federico ha già preso dal sedile la mazzetta dei quotidiani e li sta sfogliando. Helen esita accanto al finestrino aperto, poi distoglie lo sguardo al vedere una smorfia di lui per chissà quale notizia, mentre il viso scompare dietro una lastra di vetro fumé. Lei fa un passo indietro e osserva l’auto blu: attraversa la piazza e poi punta dritta su via Giulia e il traffico del lungotevere, con il passeggero ormai invisibile dietro il lunotto scuro. Per un istante Helen rimane dov’è, distratta da uno sfarfallio di bandiere arcobaleno della pace sulle finestre di fronte;
OCCASIONI DI MORTE
15
poi s’infila nel loro solito bar, ordina un cappuccino e lo beve dando uno sguardo ai titoli del “Messaggero” posato su un tavolino. Quello a nove colonne è dedicato ai video degli ostaggi in Iraq, ma lei lo ignora e passa alla cronaca di una possibile crisi di governo in prima pagina, confrontandola con quel che le ha raccontato Federico la sera precedente. Prova una sensazione familiare, quella di trovarsi al centro degli eventi, ed esserne tuttavia esclusa. È tentata di raccontare al barista come stanno davvero le cose, ma si trattiene: il barista, come il resto del mondo, preferirà sempre credere al giornale. E se pure i fatti dovessero dar ragione a lei, per allora la sua versione sarà dimenticata. La madre dell’uomo, avvolta in un grembiule e coi pochi capelli grigi raccolti in una cuffietta di nylon, è al lavoro nella cucina dietro il bancone; prepara i tramezzini per la tarda mattinata, prosciutto e formaggio, mozzarella e carciofini, tonno e pomodoro. Alza gli occhi in direzione del banco e, brandendo il gran coltello con cui spalma la maionese, grida a Helen: – Il mondo sta andando in vacca! – ma in un tono di smisurata allegria, per non dire ilarità. Lei si mostra d’accordo con un cenno del capo, e leva in alto la tazza vuota. Ha tre ore di tempo prima del lavoro. Il turno all’agenzia di stampa comincia a mezzogiorno: è quello leggero, dopo la carrellata della mattina. Esce dal bar, e nell’attraversare piazza Farnese e poi il mercato a Campo de’ Fiori le torna in mente com’era la prima volta in cui vide Roma: i chioschi di legno traballanti, i sacconi di legumi secchi come banconi polverosi, mentre adesso è tutto spianato, compattato e rassettato. Controlla cosa danno al cinema: un film giapponese mai sentito... ma ha vinto qualcosa a Venezia lo scorso settembre. Imbocca via dei Giubbonari, poi rallenta per dare un’occhiata ai volumi esposti davanti alla libreria dell’usato nella piazzetta a metà
16
CHARLES LAMBERT
strada; accanto alla porta il titolare, da lei segretamente soprannominato il Mesto, fa una cernita tra alcune vecchie riviste. Lui le sorride, lei ricambia; hanno amici in comune – oddio, in realtà solo Martin – però a lei non riesce mai di ricordare come si chiami, il libraio... un nome inglese, comunque. Anthony, o forse Andrew. Ha i capelli rossi ora striati di grigio, troppo lunghi e raccolti dietro con un elastico, e porta uno di quei gilet da pescatore tutti pieni di tasche. Helen dovrebbe scambiarci due parole, ha questa sensazione, ma stamani non le va di parlare con nessuno, è troppo presa dal pensiero della cena di stasera. E di Giacomo. Non conosce la sua nuova signora, Yvonne, e nemmeno ci tiene troppo a incontrarla. Si limita a un cenno del capo e si allontana. Decide di passare un’ora alla Biblioteca americana: in teoria starebbe scrivendo una tesi su Toni Morrison, per una seconda laurea in Moderne identità d’America di cui ha perso di vista lo scopo. È stata un’idea di suo marito, il quale teme lei possa sprofondare nell’inattività e le propone impegni intellettuali circoscritti ma tosti, perché si tenga il cervello in allenamento. Una volta in biblioteca, però, Helen ignora gli scaffali e prende l’“International Herald Tribune” di oggi. Pure qui due pagine sulla guerra in Iraq, ma Helen controlla i fatti dall’Italia; controlla se parlano di Federico. Fa un effetto strano, vedere la notizia della crisi di governo riferita ma ridotta a un battibecco fra partitini minori, una tempesta in un bicchier d’acqua; due trafiletti in terza pagina e un pizzico d’ironia, del tutto assente nel resoconto italiano. Sfoglia il resto del giornale, poi dà un’occhiata alla sala di lettura per vedere chi c’è. Un gruppo di studenti, ragazzi e ragazze delle superiori in maglietta e jeans a vita bassa, e due signore in abiti austeri, forse suore laiche, davanti alla sezione di Storia politica. Nessuna conoscenza. Helen è irrequieta, come in attesa di qualcosa in
OCCASIONI DI MORTE
17
procinto di accadere; si chiede se Giacomo sia già a Roma, si chiede cosa stia facendo. Poi si sorprende a cercare di immaginare come sarà fatta Yvonne e come dovrà comportarsi con lei, quanto garbo metterci: di studiare non è proprio in vena. Si lascia la biblioteca alle spalle per ritrovarsi nel cortile vuoto, già sbiancato di sole alle nove e venti del mattino; sopra di lei, un elicottero militare attraversa l’alto riquadro azzurro del cielo come un insetto furibondo. Il rumore le fa tornare in mente il cellulare. Fruga nella borsetta per trovarlo, poi guarda il display per vedere se ci sono chiamate, ma il telefonino è spento da ieri sera, il suo ultimo gesto prima di dormire mentre Federico, a letto accanto a lei, leggeva da una pila di fogli dall’aria ufficiale. Helen si appoggia al marmo tiepido di una colonna, chiude gli occhi contro la luce e di colpo ha un miraggio di Federico, la sagoma alta e ricurva, l’abito scuro tutto sgualcito, i capelli sottili a ricadergli sul viso, proprio come se lui le stesse di fronte scuotendo la testa, con un sorriso irritato e confuso insieme, eppure diretto a lei e a nessun altro. Arriva al punto di aprire bocca e tendere una mano verso di lui; tutto il corpo la sospinge in avanti verso il marito, a trattenerlo. E con la medesima rapidità lui scompare. Helen guarda l’orologio: sono le nove e ventisette. Poi pensa: A cena gli chiedo dov’è stato. Oppure no. Forse è meglio non dire niente. In questi ultimi mesi Federico è diventato molto superstizioso, pieno di idee assurde sul destino e le coincidenze, del concetto per cui ogni cosa è collegata e ha un suo significato. A lei tutto questo fa tornare in mente Jung, la sincronicità e la famosa faccenda del battito d’ali di una farfalla, e le sembra a un tempo adorabile e insensato. Il bisogno di santi e di miracoli, di un senso di connessione, l’ha sempre lasciata perplessa; non per cinismo, ma quasi per invidia, come di qualcosa oltre la sua capacità di comprensione.
18
CHARLES LAMBERT
Stringe in mano il telefonino e poi, con un ultimo brivido per quello che definirà , in mancanza di una parola piÚ adatta, proprio il miraggio di Federico, lo accende. Ha tre chiamate senza risposta e un messaggio di testo, tutti dallo stesso numero; un numero straniero che, come vede dal prefisso, è francese. Finalmente, pensa. Legge il messaggino. Solo e annoiato a Roma. Hai mezzora libera? Il tuo G.
2
Giacomo la fa entrare rapidamente nella stanza d’albergo, poi le prende tutte e due le mani e fa un passo indietro per guardarla meglio. Lei ride e cerca di ritrarsi un po’, per un disagio inatteso. – Helen, Helen! La mia cara, dolce Helen – dice. – È una gioia rivederti. Glielo dice in inglese, come ha sempre fatto, per quanto lei protestasse; ma in questi ultimi anni ha assunto pure una cadenza francese. Ed è ingrassato, dall’ultima volta in cui l’ha visto; questione di pochi mesi prima, sebbene pare sia passato molto più tempo. Lui l’abbraccia forte, il ventre caldo e sodo contro di lei. E immediatamente, come se fosse variata la luce nella stanza, lei vorrebbe non essere venuta. È una stupidaggine vederlo qui a Roma così, appena arrivato e senza Federico, in una camera d’albergo prenotata per lui proprio dagli assistenti di suo marito. Non è solo una mossa indiscreta: la sua presenza qui ora guasterà la sorpresa del loro ritrovarsi tutti e quattro, per la prima volta, questa sera. Per un istante si chiede se non sia meglio non dire a Federico dov’è stata; ma allora si sentirebbe come una bambina che ha scartato il suo regalo di compleanno la sera prima e poi deve fingersi contenta. Se è onesta rovinerà la serata a suo marito; se tace, rovinerà la propria. È un rischio in ogni caso, e ancor più grande è il rischio di venire sorpresa comunque. Sarà pure colpa di Giacomo – dopotutto lei è qui con la sua connivenza – ma si rende conto di aver fatto uno sbaglio. Si dibatte finché lui la la-
20
CHARLES LAMBERT
scia andare, ma solo per posarle le mani sulle spalle e guardarla negli occhi, con un sorriso tanto affettuoso e spavaldo da costringerla a voltarsi, di nuovo ridendo, per dissimulare una traccia d’ansia. E poi la sensazione passa rapida com’era arrivata, “certo però, se ti complichi la vita da sola,” pensa, e non c’è posto al mondo dove starebbe più volentieri rispetto a qui, con Giacomo. – Una gioia, davvero. – Lui la accompagna alle due poltrone in fondo alla stanza, vicino alla finestra. – Ordino un po’ di caffè? – continua indicando il telefono. – No, se non lo vuoi tu. Io per oggi ne ho preso anche troppo. – Helen dà un’occhiata circolare alla stanza. C’è una valigia aperta sul letto, con una rivista posata vicino. L’“Economist”. – Ma sei solo. E tua moglie? – Si chiede se abbia preso un tono sarcastico, oppure offeso, ma le pare di esser stata disinvolta e nient’altro. Lui fa un gesto qualunque. – Yvonne arriva oggi pomeriggio, non so bene quando. Tardi. Aveva da fare a Parigi. – Una cosa di moda? – Yvonne? Lei, sempre. – Giacomo ride. Ha equivocato di proposito, Helen ne è certa. Ma come se non si fossero mai lasciati, e se non ci fosse alcuna novella sposa tra loro, comincia a rilassarsi. – E tu non l’hai aspettata? Lui dà un’alzata di spalle. – Lo sai come sono fatto, non sto mai fermo. Lei aveva un pranzo di lavoro. – Guarda fuori dalla finestra, su via Veneto e sul traffico silenzioso. – Di chi è stata l’idea di alloggiarci qui? Nell’ombelico del lusso borghese? – Di qualcuno dello staff di Federico. Io lo avevo avvertito, secondo me non avresti apprezzato... – Ma figurati, è una meraviglia. Di questi tempi scendo solo in alberghi come questo. Ho una reputazione da difendere.
OCCASIONI DI MORTE
21
Lei non sa dire se scherza o dice sul serio. Lui tira fuori le sigarette, Gitanes leggere. A Torino fumava le Nazionali; è sempre stato un fautore del mimetismo. – Non hai ancora smesso? – Nessuno mi ci ha costretto, o almeno non ancora. Uno dei tanti motivi per preferire Parigi ad altre capitali meno civilizzate. – Se ne accende una, poi le offre il pacchetto. – Mentre tu resisti, giusto? – Sì. Giacomo fa un cenno col capo, poi dà un gran tiro alla sigaretta; nell’istante in cui chiude gli occhi, Helen se lo sbircia per bene. È invecchiato, imbolsito, sbiadita l’avvenenza giovanile, ma i capelli sale e pepe glieli ha tagliati uno, o una, che sapeva il fatto suo; e poi non l’ha mai visto così elegante, pieno di classe, né con scarpe tanto lucide, quasi da damerino. Federico non se lo metterebbe per motivi politici, un completo di gran taglio come questo. Helen già s’immagina la sua faccia, quando vedrà il suo vecchio amico vestito così: perplessa e sdegnosa. E quando farà quella faccia, si chiede da quale parte starà lei. Però è contenta di aver addosso una cosa decente, oggi. – Allora, raccontami di Yvonne, – gli dice. Lui si scrolla di nuovo nelle spalle. – No, non parliamo di lei, tanto la conoscerai pure troppo presto. Poi trarrai tu le tue conclusioni. – Spegne la sigaretta, e quasi non l’ha fumata; Federico rimarrebbe sconvolto da tanto spreco, come non fosse già uno spreco la sigaretta in sé, in un mondo di risorse scarse. Ma Helen non è qui per pensare a Federico. Giacomo si sporge in avanti, chinandosi fino a poterle sfiorare i ginocchi con tutte e due le mani. Lei indossa un abito tra i suoi preferiti, di lino, abbottonato davanti: l’orlo si è un po’ aperto, ma Helen non ha voglia di raccoglierlo. Se lo facesse, lui le darebbe dell’anglosassone, come se dai tempi di Jane Au-
22
CHARLES LAMBERT
sten non fosse cambiato niente: come se non la conoscesse, fin troppo bene. – Sono passati quasi tre anni, dall’ultima volta in cui ci siamo trovati da soli, – le dice, – in quel meraviglioso convento... l’avevi trovato tu, no? Lei conferma con un cenno del capo. Non devi ricordarmelo tu, pensa. Per evitare i suoi occhi, torna a guardare la stanza: le tende dalle mantovane e i cordoni pesanti, le stampe incorniciate di antiche vedute romane su cui rimbalzano riflessi scuri. – Certo non era un posto al livello di questo, se non ricordo male, – continua Giacomo, e di nuovo lei non riesce a capire se parli con sarcasmo o con soddisfazione dello sfarzo da cui è circondato. Non ci riesce mai, con lui. – Forse questo ti piace di più. – Non me n’è mai importato niente, del lusso, e tu lo sai. Lui tace per un istante, come ad accogliere il rabbuffo. – Sono stato a un passo dal non venire, sai. E ancora non capisco per quale motivo Fede mi abbia invitato. È davvero strano, sentirgli dire Fede. Nessuno lo chiama più così, o quasi, a parte i suoi genitori e lei; nessun altro ha tanta confidenza. E non sa se le fa piacere sentirlo in bocca a Giacomo, sebbene entrambi lo chiamassero così ai vecchi tempi: quando erano un terzetto, se così si può dire. Loro tre a Torino, quando raddrizzavano il mondo. Helen vorrebbe tanto che lui si ricomponesse: non ce la fa a parlare di convegni, né di conventi, col peso morto delle sue mani sulle gambe. Non è il momento giusto per rivelargli chi ha avuto l’idea di invitarlo: resterebbe mortificato, se sapesse quanta fatica ha dovuto fare per convincere Federico. – Pensava tu potessi dare un contributo importante, – dice. Giacomo scoppia a ridere. – Solo tu potresti dire una cosa
OCCASIONI DI MORTE
23
tanto assurda senza neppure accennare un sorriso. – Continua a stringerle i ginocchi, li accarezza all’interno con un moto lento e circolare dei pollici, scollegato dalla voce e dallo sguardo. – Forse non dovresti, – dice lei, però non sposta le gambe e non gli allontana le mani. Si volta per non guardarlo negli occhi e fuori della finestra vede un elicottero di sorveglianza, sospeso come un moscerino silenzioso, stagliato contro il sole; più indietro, sfocati dal caldo e dallo smog, ce ne sono altri due. L’ambasciata americana è a duecento metri da lì, sopra la testa devono averne a decine malgrado lei non li senta. Sta per dire qualcosa sui doppi vetri dell’albergo, sul prezzo da pagare per il silenzio, quando Giacomo si butta in ginocchio davanti a lei e affonda il viso tra le sue cosce. Helen ne sente l’alito sulla pelle, il tepore come un frullo d’ali; lui però, lei ha questa sensazione, sta cercando di parlarle, di dirle qualcosa di indispensabile. Helen vorrebbe sollevargli il capo, non per impedirgli di fare quanto va facendo, o non del tutto, ma per ascoltare, scoprire cosa lui voglia dirle. E invece divarica leggermente le gambe, per lasciarlo passare. Ci risiamo, pensa.
3
Helen raggiunge piazza Venezia e imbocca il Corso senza riuscire a togliersi Giacomo dalla testa. Avanza lungo il solito tragitto, quello lungo, evitando Fontana di Trevi e imboccando la salita verso il Quirinale, là dove più la strada si fa ripida, bianca di polvere nella calura, più la folla si dirada. L’ufficio di Federico è appena dietro l’angolo, rispetto a dove sono radunati lei e i colleghi della redazione inglese; cinque scrivanie pigiate in un’unica stanza. A sentire lui la distanza non supera i tre, massimo quattrocento metri, e certe volte lei s’immagina che i muri siano di vetro, e moglie e marito possano osservarsi vicendevolmente all’opera: Federico stravaccato dietro un’ampia scrivania scura, ingombra di carte e faldoni color pastello pieni zeppi, come se il computer non fosse mai stato inventato; Helen invece acquattata davanti al suo PC nella posa da uccellino inquieto di quando legge sul monitor, con gli occhiali un po’ lenti lungo il naso. Di norma la trova confortante, questa sensazione di averlo vicino, quasi a portata di mano; stamattina invece, con il retrogusto delle labbra di Giacomo ancora addosso, l’idea di un marito così prossimo le è meno gradita. A lui basterebbe vederla, per capire all’istante cos’ha fatto; verrebbe presa in castagna. Ma com’è dolce, pensa, trovarsi con Giacomo in quel modo, col suo bisogno di lei così evidente e del tutto privo di malizia: a ogni incontro, anche quando è lei a organizzarlo, viene colta di sorpresa. E com’è difficile impedire alla mente di passare dall’uno all’altro alla solita maniera, da Federico a Giacomo e ritorno, come se entrambi fossero parte integrante della stessa cosa.
OCCASIONI DI MORTE
25
Si ferma in un bar a bere un po’ d’acqua, premendosi il bicchiere vuoto contro la guancia per rinfrescarsi. È in ritardo di cinque minuti ma non se ne preoccupa, Martin la perdonerà e l’ha già coperta in passato, più di una volta. Supera la soglia ad arco, svolta nell’atrio e saluta il collega alla reception, il quale al vederla sbianca in volto come se avesse visto un fantasma. Poi si alza, viene verso di lei e le posa una mano sulla spalla per guidarla. – Siediti, – le dice con una calma innaturale, e la sospinge verso una delle basse poltroncine allineate lungo la parete, dove i visitatori attendono di essere ricevuti. Lei si siede, scossa ma nient’affatto curiosa, perché ha già capito. Lui prende il telefono, dandole le spalle, e lei non riesce a sentire cosa dice sebbene colga distintamente il proprio nome, e non una ma due volte. Non sa come faccia a sapere, ma sa; il suo sangue ha capito. Federico è morto. ROMA, Italia (CNN) – Questa mattina, intorno alle 9.30, nel centro di Roma è stato assassinato Federico Di Stasi, consulente del Ministero del Lavoro. Secondo i primi rilievi, due o forse tre uomini a bordo di motociclette lo hanno freddato a colpi di pistola in via Rasella, a meno di cento metri dal Quirinale, residenza ufficiale del presidente della Repubblica. Nell’attentato ha perso la vita anche l’autista, Massimo Monesi, 28 anni. Un terzo uomo di scorta sarà dimesso dall’ospedale entro pochi giorni. L’agguato mortale, quasi certamente di matrice politica, al momento non è stato rivendicato, ma gli inquirenti escludono qualsiasi collegamento con la festa della Repubblica di domani, e con la visita del presidente americano George W. Bush in programma per giovedì. Negli ultimi tempi il consulente si era trovato al centro di controversie legate al suo progetto di smantellamento e priva-
26
CHARLES LAMBERT
tizzazione delle ormai rare aziende italiane ancora di proprietà pubblica e situate per lo più nel Mezzogiorno del paese. Malgrado le pressioni esercitate in ambito governativo, pare che Di Stasi insistesse sulla necessità di salvaguardare i posti di lavoro all’interno delle imprese coinvolte mediante una serie di ammortizzatori sociali, misura al contrario aspramente contestata da alcuni ministri come “aiuto di Stato”. Di Stasi aveva inoltre recentemente espresso la propria contrarietà all’intervento militare in Iraq. “L’azione possiede tutti i crismi dell’avvertimento” ha dichiarato il ministro della Giustizia Lorenzo Gaeta ai cronisti riuniti in via Rasella poco dopo il fatto. “E la scelta del luogo non è casuale: in via Rasella durante l’ultima guerra i partigiani uccisero trentadue militari nazisti.” Alla domanda circa possibili legami tra questo omicidio e quello di Davide Porcu, consigliere del Ministero degli Interni ucciso tre anni fa, l’onorevole Gaeta ha opposto un no comment. Diversi portavoce ufficiali non esitano a parlare di recrudescenza eversiva e accusano il cosiddetto movimento no-global, oltre ai sindacati e ai partiti di sinistra, di condividere almeno in parte la responsabilità dell’attentato per il sostegno offerto alla protesta montante contro la politica economica del governo. Federico Di Stasi, sposato e senza figli, era nato a Roma nel 1952, figlio del giornalista Fausto e della senatrice a vita Giulia Paternò, membro della resistenza partigiana prima e dell’Assemblea costituente poi. Terminati gli studi fra Stati Uniti e Gran Bretagna, per un breve periodo alla fine degli anni ’70 Di Stasi aveva preso parte ad attività extraparlamentari, per poi intraprendere la collaborazione con il ministero nel 1982, con il primo governo italiano di centro-sinistra.
4
Non appena i poliziotti finiscono di interrogare Helen, Martin Frame rientra nella stanza e si accascia su una seggiolina tutta dorature, proprio di fronte a lei. Poi le prende le mani e le tiene per un istante senza dire nulla. Non sa bene cosa fare, cosa aspettarsi; in momenti come questi è veramente inetto. L’ultima volta in cui si sono visti, avevano parlato proprio delle chance di Federico di uscire vivo dal processo di riforme in atto; e l’amico aveva ribattuto qualcosa sul vivere ogni giorno pensando di essere immortali... opinione certo pregevolissima, come Martin aveva osservato a suo tempo, ma priva di efficacia di fronte a una possibile aggressione. Posizioni come questa, aveva pensato allora, sono uno dei nostri modi di tenere a bada le brutture della realtà; e Federico era impegnato con i vari governi da troppo tempo per non saperlo. Ma nulla di tutto questo ha più importanza, ormai. Martin è ancora scosso, scosso e inorridito per aver perso un amico in questo modo, nello spazio di un mattino. Dio solo sa come si sente Helen. Non è il tipo da scoppiare in lacrime, tuttavia dev’essere ben arduo mantenere la padronanza di sé. Lei alza gli occhi e azzarda un sorriso ma poi scuote la testa, come a dire, E chi se lo sarebbe aspettato? Martin sospira. Non fosse stato Federico, pensa, sarebbe stato qualcun altro, ma questo a Helen non lo dirà. Perché dovrebbe interessarle di qualcun altro? Abbassa lo sguardo sulle loro mani: quelle dell’amica, tenere e lievemente abbronzate, strette fra le sue, grandi e mac-
28
CHARLES LAMBERT
chiate di nicotina, simili a zampe d’animale, con le unghie mangiate allo spasimo come sempre negli ultimi cinquant’anni. Il pensiero di quanto lei debba sentirsi fragile lo spaventa, come se il minimo gesto potesse schiacciarla. E dovrebbe parlarle, gli sembra, dovrebbe dirle qualcosa di utile, ma non vuole apparire banale e tanto meno indifferente; però non gli viene in mente nulla che non sia una cosa, o l’altra, o peggio tutt’e due. – Oh, Martin, – dice infine lei rompendo il silenzio, e le parole sono poco più di un sospiro. Lui si muove e la seggiolina scricchiola sotto il suo peso. Per un attimo orrendo s’immagina di schiantarla del tutto, e si vede mentre arranca per rimettersi in piedi con la seggiola in frantumi sul pavimento; sarebbe davvero intollerabile, un momento farsesco. Di colpo lascia andare Helen. – Uno di noi due dovrebbe tornare in redazione, – dice lei, con la fronte d’improvviso aggrottata per l’ansia. – Tesoro, ti prego, lascia stare il lavoro. La redazione è l’ultima cosa di cui devi preoccuparti. A quello penserò io. – Però io torno, eh – dice lei, l’espressione tesa, bizzarramente risoluta. – Appena questa faccenda è sistemata. – Lui si chiede cosa intenda, quando dice “questa faccenda”. La specifica questione delle indagini e di tutto quel che si dovrà fare? O la questione infinita della morte di Federico? – Ma certo, torni – risponde. – Io su di te ci conto, lo sai. – Comunque non riesco proprio a crederci. – Lei adesso scruta il soffitto, e lui le osserva la gola mentre lei respira. – Lo so, in questi casi lo dicono sempre tutti, ma è vero: non mi era mai venuto in mente. La gente mi parla e io ho la sensazione che parlino di qualcun altro; mi hanno fatto una marea di domande, e io ero sempre sul punto di dire: “Non sono sicura, non ricordo, dovrei chiedere a Federico”. – Lo sguardo torna
OCCASIONI DI MORTE
29
su Martin, come a implorare una risposta; ma lui la risposta non ce l’ha. – Una possibilità devi dartela, però. – Di fare cosa? – Di digerire il tutto, – replica lui. E vorrebbe aver usato una frase meno banale, ma poi riesce a fare anche peggio, aggiungendo: – Devi farti forza. Lei distoglie nuovamente gli occhi e stavolta guarda fuori dalla finestra, oltre le tende di garza con i pesi nell’orlo, simili a un sudario. – Mi hanno detto che gli servirò più tardi, all’ospedale. – Si interrompe, scossa da un brivido, e poi si afferra un gomito come a proteggersi dal freddo. – Ma probabilmente intendevano all’obitorio. Si trovano in una delle sale riservate alle interviste; un lungo tavolo con intorno più di venti seggioline come quelle occupate da loro, dentro una stanza troppo e troppo poco curata al tempo stesso. Martin partecipa di rado agli incontri convocati qui; il suo lavoro si svolge nella redazione anglofona. I muri sono di un verdolino stile pubblica amministrazione e la fila di finestre è ammantata di pesanti panneggi in velluto color ruggine, fermati con un cordone dorato che leverebbe la pelle a un marinaio. Fuori, oltre il velo delle tendine-filtro, c’è il muro laterale del palazzo presidenziale. Su una mensola appesa alla parete dietro le spalle di Helen c’è invece una fila di monitor televisivi, i quali mandano lampi verdi e neri al susseguirsi delle notizie. Martin però non sta leggendo; già se lo immagina, cosa diranno. Un servizio, e un servizio di commento al servizio, e tutto il moloch autoalimentato delle notizie di stampa al quale lui, nel suo ruolo di giornalista freelance, contribuisce ogni giorno... adesso il moloch vorrebbe aggiungere Helen al suo fiero pasto, e lei certamente lo sa. Non si è voltata per controllare cosa si dice, almeno non da quando è qui, e lui non può
30
CHARLES LAMBERT
certo biasimarla. Più riesce a tenere lontani i resoconti della morte di Federico, più facile le risulterà fingere che non sia avvenuta. Ma Martin non può fare a meno di chiedersi a cosa stia pensando, perché sembra lontanissima. – Sono stati bruschi? – le chiede. – Chi, i poliziotti? – Helen scuote la testa. – Al contrario, mi hanno trattato coi guanti. – Ha un altro brivido. – L’ultima volta in cui ho subìto un interrogatorio mi avevano trattato di merda. – Dev’essere passato del tempo, però, – fa lui, cauto. – Scusami, Martin. – Helen apre la borsetta, con aria nervosa e assente, poi la richiude di scatto. – No, è andato tutto bene, mi hanno solo fatto tantissime domande, nient’altro. – Cosa volevano sapere? – chiede lui, leggermente meno fuor d’acqua. Ma lei a quanto pare non ha sentito. – Sai a cosa pensavo? – dice. – Le condoglianze. La parola in sé, intendo. È quella giusta, no? Solo che fa un effetto strano, detta ad alta voce. Tu mi stai porgendo le tue condoglianze, Martin? – Tesoro, ci sto provando. Senza grossi risultati, temo. – Vivo qui da troppo tempo, – conclude lei sospirando. – Non so più né l’italiano, né l’inglese. Martin conosce Helen da quando è sbarcata a Roma per la prima volta, più di venticinque anni fa. Lo avevano chiamato una mattina dalla reception, dicendogli: “C’è qui una ragazza, vorrebbe parlare con qualcuno della redazione inglese.” Mandatela su, aveva risposto lui. Il suo ultimo praticante, un laureato inglese appena arrivato, con la tendenza a bere troppo e a credersi un rivoluzionario, se n’era andato quella mattina stessa dopo essersi preso una lavata di capo per l’ultimo pezzo scritto. Questa cercherà lavoro, aveva pensato Martin, e a noi un po’ di sangue giovane farebbe comodo. Al vederla entrare
OCCASIONI DI MORTE
31
però era rimasto deluso: lei sembrava molto più giovane di quanto lui si era immaginato, e pure poco convinta, come se da quel colloquio non si aspettasse quasi niente. Per fortuna lui ci aveva messo poco a cambiare idea: fin lì aveva insegnato a Torino, gli aveva detto lei, ma detestava insegnare. Adesso si era trasferita a Roma e voleva scrivere; si era portata dietro alcuni pezzi suoi e poteva lasciarglieli, se lui era d’accordo, insieme al curriculum. Lui le aveva chiesto invece di cominciare il giorno dopo: se funzionava avrebbe poi sistemato le cose con la direzione, e se invece andava male, avrebbero fatto finta di niente tutti e due. Cosa ne pensava? Lei aveva sorriso, di un sorriso che le aveva illuminato tutto il viso; e lui ricordava di aver pensato, Ma allora non è un luogo comune, succede davvero, ci sono sorrisi in grado di accendere tutta una faccia. Al momento di salutarsi era già infatuato, e tale era rimasto per quasi due mesi, mentre lei imparava il mestiere, concedendogli ogni tanto una pausa caffè insieme; non proprio innamorato ma quasi, lì a baloccarsi con l’idea di come lei giocherellava con il cucchiaino e la bustina dello zucchero, per poi lasciarla intatta. Finché una sera lei lo aveva invitato a cena e gli aveva presentato un giovanotto biondo e serioso, il quale avrebbe benissimo potuto essere il fratello ma era invece il marito: l’economista Federico Di Stasi, aveva detto Helen con evidente orgoglio, e Martin gli aveva stretto la mano levando nel contempo un sopracciglio. Sì, aveva detto Federico prima di dar tempo agli altri di parlare, sono un uomo malfamato. Non credo si dica proprio così, aveva ribattuto lei, per poi sospingere rapidamente Martin nel loro piccolo soggiorno di allora, ancora tutto ingombro di cartoni e pile di libri dopo un trasloco presumibilmente avvenuto diversi mesi prima. A cucinare ci penserà Federico, aveva aggiunto, è la sua passione. – Cosa ci faceva Federico lì? – le chiede ora Martin.
32
CHARLES LAMBERT
– Cosa intendi? – Lì dov’è successo, – specifica lui, incapace di dire lì dove gli hanno sparato. – Comprava il formaggio, – risponde Helen. – Per stasera. – Pensavo facessi tu la spesa, di solito. – Infatti è così, – dice lei. Lo sta correggendo? Chi lo sa. Forse non si è ancora resa conto, non del tutto. Certe cose si sanno senza saperle, Martin ne è fin troppo consapevole. A volte pensa sia questa, la condizione umana. – ...il formaggio? – ripete, incalzandola. Con le domande, chissà perché, si trova più a suo agio. – Un pezzo di Stilton. In quel negozio lo importano da un caseificio vicino a Leicester. – Lo guarda, il viso stravolto dal dolore per la prima volta. – Tipico di Federico, scoprire certe cose. Lo sai com’è fatto, no? Pretende sempre l’autenticità. Martin si sporge a prenderle di nuovo le mani. – Ci serviva per stasera. – Lei le ritrae, con un gesto brusco e inatteso. – Ma ora non posso, – aggiunge, in preda al panico. – Non posso certo avere gente a cena. Non lei, quanto meno. – Lei chi? – La moglie di Giacomo. – Giacomo chi? Helen fa un cenno col capo. – Dài, lo conosci, – dice. – Sono sicura di avertelo presentato, anni fa. È un nostro vecchio amico dei tempi di Torino. È qui per il convegno. – Non starai parlando di Giacomo Mura? – Ma sì, – dice lei. – Giacomo Mura è a Roma? – Sì. – Sospira, un bizzarro sospiro rassegnato, come se si fosse appena rammentata di qualcosa di scomodo, e tuttavia immodificabile. – Il fatto è che Giacomo adora lo Stilton, gli è sempre piaciuto. Era tutto lì.
OCCASIONI DI MORTE
33
– E Mura lo sapeva, di Federico e dello Stilton per stasera? Lei si allarma. – No, – risponde. – Doveva essere una sorpresa. – E allora chi lo sapeva? – Questo me l’hanno domandato anche i poliziotti, – dice Helen. Quelli non erano certo poliziotti qualunque, pensa Martin. Federico era troppo vicino al cuore degli eventi; quelli erano dei servizi, agenti dell’antiterrorismo. Li ha visti mentre uscivano, due uomini e una giovane donna, attenti, cortesi, tutti e tre in giacca, uno spettacolo di premura e rettitudine quasi imbarazzante, e la donna in particolare con un atteggiamento affettuoso e solidale sicuramente previsto dal manuale, mentre Helen se ne stava là, rigida in quell’abbraccio come un manichino in fase di vestizione. Con tutte le loro premure però non sembrano soddisfatti, ha pensato Martin mentre i tre raccoglievano le loro carte e se ne andavano. È il minimo, aver chiesto a Helen chi altro sapesse dove sarebbe stato Federico quel mattino; e gli piacerebbe sapere se a loro ha dato una risposta, perché a lui non l’ha data; ma preferisce non insistere. Non l’ha mai vista così pallida, quasi grigiastra sotto la precoce abbronzatura estiva, e adesso si domanda cos’altro le avranno chiesto. – Sono stati bruschi? – ripete. – No, te l’ho detto. Sono stati molto gentili. Mi hanno solo chiesto di Federico, se aveva dei nemici, e io non sapevo cosa dire. Naturale che ne ha, è ovvio. Gira con una guardia armata, ho detto. A un certo punto credo di essermi addirittura spazientita. Ma non sarebbe mestiere vostro, ho detto, sapere chi sono i suoi nemici? E poi hanno continuato a chiedermi di stamattina, cosa faceva di solito lui, cosa facevo di solito io. – La voce prende a tremare. – Oddio, Martin, è stato tremendo. –
34
CHARLES LAMBERT
Apre di nuovo la borsetta, la richiude; lui si chiede cosa stia cercando; un fazzoletto, il telefonino; o forse è solo un modo di tenersi occupata, di distrarsi. – Era come se non riuscissi a ricordare, come se qualcuno avesse fatto tabula rasa. E loro non erano contenti, si vedeva. – Questo non importa, – dice lui per consolarla. – Cosa ti ricordavi? Prova a dirlo a me, magari serve. Lei gli racconta del cappuccino, della biblioteca americana, di essere passata dal mercato. – Ho visto quel tuo amico, – dice a un certo punto. – Il libraio. Se ne ricorda di sicuro, – e sembra un goffo tentativo di costruirsi un alibi. Mentre parla Helen lo guarda negli occhi, come se volesse convincerlo. Ma alla fine le manca la voce. – Ho fatto un giro e basta, – dice. – Guardavo le vetrine. Guardavo la gente. – E hai tenuto il cellulare spento? – dice lui. – Sì, – risponde lei, poi rettifica. – Cioè, non tutta la mattina. – Adesso sembra in ansia. – Queste per loro sono tutte cose verificabili, giusto? – Mura quand’è arrivato? – Chi, Giacomo? – Helen si sfrega gli occhi. – Non lo so. Oggi, credo. Lui si sposta sulla sedia, cauto, sentendola cedere sotto le cosce. Non riesce a capire perché lei non stia dicendo la verità ma spera, indipendentemente dai motivi, che davanti ai poliziotti l’abbia nascosta meglio. Decide di riprovarci, ma non riesce a chiederle nient’altro perché lei si è imbronciata come una bimba dopo uno schiaffo e sta tentando di ricacciare indietro le lacrime. – Non è morto subito, Martin, – dice. – Quando l’hanno portato in ospedale era ancora vivo. Se avessi avuto il telefonino acceso forse sarei riuscita ad arrivare in tempo. Lui era cosciente, hanno detto, e voleva sapere dov’ero. – Martin si è pe-
OCCASIONI DI MORTE
35
scato nella tasca un fazzoletto pulito e glielo porge, ma lei ha già teso la mano verso una scatola di fazzolettini di carta, racchiusa dallo stesso velluto scuro delle tende; le quali, Martin lo nota solo adesso, non sono tanto color ruggine, quanto della sfumatura cupa e farinosa del sangue secco sparso dai giardinieri sulle rose. Helen prende un fazzolettino, si asciuga gli occhi, poi si soffia il naso con un vigore sorprendente. – Non me lo perdonerò mai, – conclude. Lui però non riesce a consolarla perché lei sta già guardando l’orologio a parete. Ne segue lo sguardo: le tre meno un quarto. Per qualcuno è l’ora della siesta, pensa, ma gli inquirenti a vario titolo staranno parlando con i clienti del bar, con i vicini di casa, forse pure col libraio e gli addetti in biblioteca; staranno controllando i tempi rispetto a quanto ha dichiarato Helen. Una ricostruzione della sua mattinata, una mattina normale, normalissima, praticamente perfetta: una mattina che l’ha condotta, passo dopo passo, a un punto in cui Federico è morto e niente sarà più normale. A questo sta pensando, sicuramente. Quando lei torna a chiudere gli occhi e getta la testa indietro, nel vuoto alle sue spalle, Martin torna invece a domandarsi dov’è stata veramente stamani e perché non dice la verità. Farebbe qualunque cosa per aiutarla, se solo lei glielo permettesse, perché i bisogni di Helen in questo momento gli sembrano più importanti della verità. Sciocchina, pensa, in ansia per lei ma al tempo stesso offeso all’idea che pensi di non potersi confidare con lui. – È tardi, non me n’ero resa conto, – dice Helen. – Avrai fame. – Ma figurati. – Si porta una mano davanti alla bocca. – Se provo a mangiare adesso rischio di sentirmi male. – Magari qualcosa per calmarti lo stomaco? Non so, un tramezzino? Posso farlo portare su.
36
CHARLES LAMBERT
Lei scuote il capo. – Grazie, Martin, sto bene. Vai tu a mangiare qualcosa, dài. Io mi fermo un attimo qui. – Allora ti lascio sola? Vuoi che vada? – È questo che intende? Sta cercando di sbarazzarsi di lui? – Sì, lasciami sola un momento. – Sei sicura? Se credi posso anche aspettare fuori. Non mi va di lasciarti così. – Sì, per favore, – risponde lei, quasi seccamente. – Giusto una mezz’ora. Martin si alza in piedi, scostandosi i capelli dalla fronte e sorridendole con aria rassicurante, spera; non vuol dare a vedere quanto sia risentito per quel congedo. È ancora sulla porta, sul punto di voltarsi e chiederle per l’ultima volta se desidera qualcosa, quando si sente scansare da una parte: nella stanza ha fatto irruzione un uomo un po’ più basso di lui, corpulento, con un abito scuro in fresco di lana. Helen si è drizzata sulla seggiola, ha teso le braccia: e Martin non riesce a capire se sia contenta di vedere il nuovo arrivato oppure sconvolta oltre ogni dire, se si stia allontanando dal tavolo e abbia teso le braccia per accoglierlo, o per tenerlo a bada. – Ecco dov’eri venuta a nasconderti, – grida l’uomo con un accento che Martin non riesce a collocare. – Per entrare ho quasi dovuto fare a botte... Ti ho cercato per tutta Roma! – Poi la prende tra le braccia, e Martin prova una fitta di gelosia al vederla abbandonarsi contro l’altro e lasciarsi consolare, come forse si sarebbe lasciata consolare da lui, se solo ci avesse provato. Gli abbracci non sono mai stati il suo forte, e Helen non gli è mai sembrata un tipo da abbracci. L’altro intanto le sussurra qualcosa all’orecchio, mentre con una mano le ravvia i capelli. – Non posso crederci, – mormora, – dobbiamo farci forza, – e poi dice il nome di lei ma senza la H, alla greca. Quando scosta il viso dalla chioma di Helen per riprendere fiato,
OCCASIONI DI MORTE
37
Martin lo vede finalmente bene in faccia e riconosce Giacomo Mura, invecchiato ma senz’altro ancora l’uomo che ricordava, almeno dalle fotografie. Lo sguardo attento gli viene restituito, ma nell’espressione di Mura c’è solo una curiosità vagamente offesa, come a dire: “E tu cosa vuoi? Chi ti credi di essere?” Di nuovo Martin ha la sensazione di essere stato congedato e tiene il punto, in attesa di uno sguardo di Helen, di una presa d’atto della sua partenza. Finalmente lei si districa dall’abbraccio, rossa in volto. Poi lo guarda. – Io me ne posso andare, giusto? – dice Helen.
5
Torino 1977 La loro prima casa torinese l’aveva trovata lei, mentre Federico si organizzava in facoltà. Qualunque altro posto sarà meglio di questa topaia, si era detta, dopo la seconda settimana trascorsa vicino alla stazione di Porta Nuova, in un alberghetto al terzo piano sotto i portici, con i corridoi sempre percorsi da un gemito di lavatrici. All’hotel Saturnia le stanze si potevano prendere anche a ore, e le signore in vestaglia in cui capitava d’imbattersi per le scale erano prostitute: Helen ci aveva messo tre giorni a capirlo. Ma quando un agente immobiliare le aveva mostrato il primo appartamento alla loro portata, un sottotetto con bagno alla turca in comune sul ballatoio e un fuggi-fuggi d’insetti a ogni apertura di porta, aveva dovuto cambiare idea. Almeno al Saturnia le lenzuola erano pulite; bastava allontanarsi dalla camera per dieci minuti, e una raffica di cameriere si abbatteva sul letto per cambiarle. Ci aveva messo tre settimane a trovare un posto accettabile, per il quale potessero permettersi la cauzione. Un appartamento al secondo piano di una palazzina a metà strada fra la stazione e il Valentino: vestibolo senza finestre, due stanzette con vista sulla strada, un bagno, cieco pure quello ma con una vasca bianchissima, e infine la cucina abitabile, con un balconcino in grado di ospitare qualche erba aromatica in vaso. Ovunque regnava l’odore di una cosa, a detta della proprietaria, assolutamente indispensabile: “Mi raccomando la candeggina,” insisteva la signora, “tutti i giorni.” Non appena versato il
OCCASIONI DI MORTE
39
primo mese di cauzione, ricevute le chiavi e rimasta sola nella semioscurità della casa vuota, Helen aveva consultato il suo dizionarietto tascabile in cerca della candeggina; ah, ecco. Poi si era precipitata nelle camere per aprire le persiane e guardarsi attorno, domandandosi cos’avrebbe pensato Federico. Il quale d’altro canto non sembrava preoccuparsi troppo di dove abitavano: “Qualcosa troverai,” le aveva detto, “mi fido ciecamente.” Le pareti erano beige, gli infissi di legno color cioccolato e il pavimento a marmette chiazzate, come fettine di salame grasso squadrate a forma di piastrella. Helen aveva deciso di comprare un po’ di pittura ma quel pomeriggio trovò solamente il bianco, in latte grandi quanto un bidone di benzina, e poi certi flaconcini di colore da spremere e diluire fino a ottenere la tinta desiderata. Da non credere, però, quanti flaconcini ci volevano per dare alla vernice bianca una sfumatura pur tenuissima. Quaggiù sembrava tutto assai primitivo, e Helen faticava moltissimo. Non si era immaginata un’Italia settentrionale ancora tanto, come dire, postbellica, e simile al ricordo della sua infanzia britannica negli strascichi del razionamento: al supermercato quasi si aspettava di trovare, vicino all’acqua minerale e al latte a lunga conservazione, il concentrato d’arancia dei tempi di scuola. Ma poi, quasi a mo’ di provocazione, ecco uno scorcio di autentico lusso tra i cioccolatini artigianali delle pasticcerie sotto i portici di via Roma e le signore intente ad acquistarli, con le loro acconciature elaborate e le pellicce lunghe fino ai piedi già in autunno: un lusso per lei inarrivabile e comunque – si diceva – indesiderato. Sola nella casa nuova, a dipingere le pareti di un azzurro più pallido di come lo aveva immaginato mentre Federico badava alle proprie faccende, le capitava di restare col pennello a mezz’aria e mettersi in ascolto, a occhi chiusi, dei vicini al di là del
40
CHARLES LAMBERT
muro. Da una parte c’era una famiglia napoletana, quattro ragazzi in età scolare, il padre operaio alla Fiat e la madre addetta alla spesa, alla cucina e al bucato, con la biancheria stesa come nei film di De Sica – il regista preferito di Helen – più una vecchia di cui sentiva la voce ma non vedeva mai la faccia; dall’altra tre giovanotti calabresi, operai Fiat pure loro, sempre a discutere di calcio e di politica e assolutamente inseparabili. Con Federico si era interrogata in merito all’assenza di vicini effettivamente nati a Torino: nemmeno fossero tutti in clandestinità, aveva detto. I torinesi non abitano in centro, aveva risposto lui, e certamente non da queste parti. Qui hanno preso piede gli immigrati. Però sono tutti italiani, giusto?, aveva detto lei, e lui l’aveva baciata sulla fronte dicendole “Ti adoro”, ma senza risponderle davvero. Helen non aveva previsto di vivere e lavorare a Torino, città della quale fino a sei mesi prima non aveva nemmeno mai sentito parlare. Per tutto il suo ultimo anno a Cambridge aveva sognato un vasto e caotico centro del Sud, con le palme e un porto di mare: Napoli, Palermo... e fantasticava di pizza e mozzarelle, non certo di grossi e fumanti tagli di bollito, sempre accompagnati da una poltiglia acre e verdognola all’aroma di acciughe. Però Federico aveva ottenuto qui un breve incarico come ricercatore all’università, e l’idea di separarsi era sembrata inconcepibile a entrambi. Non avevano mai vissuto insieme prima d’ora, la loro storia era sempre stata un po’ furtiva, a sgusciare dentro e fuori le rispettive stanze prima degli altrui risvegli. Per certi versi, piccoli ma significativi, non si conoscevano proprio. La prima sera, nella loro casa da finir di pitturare, mangiarono un pollo arrosto con patate senza toglierlo dalla vaschetta d’alluminio in cui lo avevano comprato, bevvero vino rosso da pochi soldi e andarono a letto troppo stanchi e ubriachi per
OCCASIONI DI MORTE
41
fare l’amore. Federico si addormentò nel medesimo istante in cui lei spense la luce ma Helen, per quanto esausta, era irrequieta e non riusciva a calmarsi. La finestra non aveva ancora scuri né tende, solo le persiane di legno da cui passava la luce della strada, e lei stava là accanto a Federico, sdraiata su un fianco e poggiata su un gomito a guardarlo respirare: il moto quasi impercettibile della bocca, le labbra dischiuse e premute per metà sul guanciale, i capelli biondi, morbidi e arricciati sul collo. Helen ne sollevò una ciocca ondulata e la lasciò ricadere, poi gli baciò l’orlo dell’orecchio con la massima delicatezza per non svegliarlo, finalmente in pace con sé stessa. Quest’istante non si ripeterà, pensò, la nostra prima sera nella nostra prima casa. Il mattino seguente, dopo un caffè e un’aspirina, fecero un giro per la zona della città più familiare per loro, i portici fatiscenti e miseramente esotici accanto alla stazione, sgomitando fra gli estranei con scatoloni e valigie legate con lo spago, i venditori di sigarette di contrabbando piazzati ogni pochi metri e il primo turno delle marchette, non tutte donne. Helen si teneva stretta al braccio di Federico. Poi si sedettero al tavolino di un bar in una piazzetta, nel punto in cui la strada si allargava, e presero un cappuccino per ciascuno e una brioche in due, intingendone i corni nella schiuma. Le prime settimane torinesi di Helen furono colme di novità e d’amore, con l’abitudine all’amore a sovrastare ogni altra novità. Certe volte, proseguendo nei suoi sforzi decorativi, si sorprendeva a sorridere; e si rendeva conto di non aver fatto nulla, nell’ultima mezz’ora o più, se non pensare a Federico. Ecco, questo ho sempre voluto, si diceva: abitare in Italia insieme al mio innamorato. Tuttavia non era facile conciliare quel che aveva sempre voluto dall’Italia con le notizie trasmesse dalla radio, sempre sin-
42
CHARLES LAMBERT
tonizzata su una stazione locale di sinistra vivamente consigliatale da Federico in quanto “diceva la verità”. E non era facile credere alle notizie stampate sui giornali, densi di caratteri e fotografie sgranate e, adesso, stesi a terra per proteggere i pavimenti dalla vernice. Omicidi, arresti, gambizzazioni, ostaggi, rapine in banca: quante parole nuove, e sconosciute al suo dizionarietto, come se qualcuno stesse riadattando la lingua all’occasione. Sarebbe mai tornata al passo, Helen? Per le vie sotto casa, nelle antiquate botteghe di panettieri e droghieri dove con grande agitazione e troppi gesti faceva la sua spesetta, all’edicola dove ogni giorno comprava “La Stampa”, il quotidiano cittadino letto da lei come da tutti... ovunque si girasse Helen vedeva scritte sui muri, politiche, violente, spesso spiritose per quanto lei era in grado di comprendere, come gli slogan coniati a Parigi nove anni prima; e simultaneamente capiva e non capiva cosa stesse succedendo. Le pareva di trovarsi nel bel mezzo di una guerra, una guerra civile con i suoi caduti, mentre in Inghilterra c’era chi s’infilava spille da balia nei lobi delle orecchie e lo riteneva un gesto rivoluzionario. Con zelo ansioso e crescente Helen leggeva gli articoli e ascoltava i notiziari, finendo però col trovarsi in un luogo incerto, talvolta noto e talaltra ignoto; sentiva di percepire i numeri, ma non le vite. La sera poi rientrava Federico e si metteva a cucinare, e a raccontare, mentre lei ascoltava. Le parlava d’altri, per esempio dei suoi genitori romani, a lei ancora sconosciuti; dei colleghi ricercatori in facoltà; di scrittori e intellettuali che ammirava; le parlava di chiunque escluso sé, l’unico di cui le importasse qualcosa, ed esclusa lei stessa. Soprattutto raccontava del suo migliore amico, Giacomo, al momento in viaggio per l’America meridionale; addirittura conservava nel portafogli una striscia di foto tessera, di quelle fatte alle macchinette, in
OCCASIONI DI MORTE
43
cui il viso di Giacomo esibiva un’italianità del tutto assente nel suo. Lineamenti ampi e forti, occhi incavati e una massa di riccioli neri: il volto romantico di un brigante, mentre Federico aveva una faccia classicamente bionda e delicata, un aspetto quasi pretesco e nordico al punto da farli sembrare fratelli, lui e Helen. E infatti quando si erano conosciuti, alla società Dante Alighieri, lei non aveva capito di avere davanti un italiano, e lo aveva preso per l’ennesimo dottorando inglese in cerca di conversazioni in lingua e di qualunque altra cosa fosse disponibile: fascino, sentimento, amore perfino, con un pizzico di fortuna. Ecco, su quello non si era sbagliata. Federico e Giacomo si erano conosciuti alla Normale di Pisa, e lì avevano preso la prima laurea. Poi avevano fatto il servizio militare insieme a Civitavecchia, quindi il dottorato a Yale; alla fine Federico era tornato in Europa, a Cambridge, mentre Giacomo era partito alla ventura per il Sud del continente. Te ne innamorerai, diceva invariabilmente Federico a ogni menzione di Giacomo. Lo so già. Succede a tutti. Helen allora scrutava le foto tessera sgualcite e le altre immagini di Giacomo – sempre circondato da una folla – tra i ricordi di Federico, e si domandava se davvero l’uno l’avrebbe colpita tanto quanto sosteneva l’altro. L’idea di fare come tutti, o di sentire come tutti, non le piaceva; e poi intuiva in Giacomo una certa boria ultramascolina non precisamente di suo gusto. Sempre in primo piano e sempre col sorriso più largo, mentre gli altri guardavano lui e non l’obiettivo, nel tentativo di capire cosa volesse da loro. Lei però non glielo avrebbe dato, si era detta, qualunque cosa fosse. Una mattina, non molte settimane dopo il suo arrivo, Helen si era sentita rivolgere la parola da una tizia in fila dietro di lei nel minimarket seminterrato più vicino a casa loro. – Tremen-
44
CHARLES LAMBERT
do, vero, questo cosiddetto supermercato? – le aveva detto la donna in inglese, dopo aver colto l’accento di Helen alla cassa. – Noi stranieri dobbiamo rimanere uniti. Helen detestava gli atteggiamenti di quel tipo, e in fatto di pronuncia italiana era già insicura di suo. Dunque avrebbe ignorato la cosa se non avesse inteso, nella r appena arrotata dell’altra, il senso fugace di una solitudine, acuto e invalidante come un crampo allo stomaco, deciso a tenderle un agguato per coglierla di sorpresa. L’estranea, che si chiamava Miriam, le offrì un caffè: Helen accettò. Miriam non era il suo tipo. Se non avesse aperto bocca, Helen nemmeno l’avrebbe riconosciuta come straniera; aveva i capelli nerissimi e cotonati, troppo trucco in faccia, un maglioncino d’angora rosa salmone annodato al collo sopra a un’elegante camicetta di seta. Poi c’erano le dita ricoperte di anelli, e i braccialetti portafortuna ai polsi. Uscirono dal minimarket e andarono nello stesso bar dove Helen aveva preso il caffè con Federico dopo la prima notte nella casa nuova, ma questo lei lo tenne per sé; non aveva voglia di una conversazione incentrata sui maschi. Miriam le disse di sedersi, quindi portò i caffè al tavolino; allungò il proprio con l’acqua e fece una faccia quando Helen rifiutò lo zucchero. – Come fai a berlo così? – disse. Miriam aveva iniziato da ragazza alla pari, ma adesso insegnava inglese nello stabilimento Fiat alla periferia della città; Helen però non riuscì a chiederle come ci fosse arrivata, perché già l’altra voleva sapere se aveva il ragazzo. Proprio l’argomento che aveva sperato di evitare: non aveva la minima voglia di parlare di Federico, o almeno non ancora, pur non essendo sicura del motivo. Un’innata forma di riservatezza, si diceva. Perciò disse di no, veramente no. Per Miriam fu un trauma.
OCCASIONI DI MORTE
45
– Ma come si fa? – replicò, – una fanciulla graziosa come te! Bisogna trovarti di corsa un cavaliere. – Se devo essere onesta, – disse Helen, – al momento mi servirebbe di più un lavoro. Ho fatto il giro delle scuole, ma nessuno sta cercando. – E perché non l’hai detto subito? – fece Miriam. Il giorno successivo Helen partì a bordo di una vetturetta sportiva a due posti per andare a conoscere il contatto della nuova amica, un elegante signore di mezza età dotato di un ufficio ampio e luminoso e con il quale Miriam andava chiaramente a letto; tre giorni dopo le presentarono il suo primo gruppo di allieve, segretarie di direzione ai piani alti della palazzina Fiat, il cuore dell’impero. Cominciò il lunedì seguente. Faceva lezione tutti i giorni a partire dalle otto; usciva di casa ogni mattina mentre Federico si faceva la barba, prendeva il tram al primo incrocio e rimaneva seduta sulle rigide panche di legno finché il tram usciva dal centro cittadino. Poi faceva l’ultimo pezzo del tragitto a piedi, giù per corso Agnelli e lungo la doppia carreggiata battuta dal vento di corso Settembrini, da cui sorgevano i grandi monoliti dello stabilimento di Mirafiori, e intanto ripassava la lezione del giorno. Le prime volte si era agitata moltissimo, tirando fuori in classe una vocetta tremula e troppo acuta: tutta la sicurezza teoricamente acquisita nel corso preparatorio di un mese l’aveva abbandonata al primo minuto. Tuttavia non era il caso di preoccuparsi: le sue allieve la trattavano come una bambina, malgrado alcune avessero solo due o tre anni più di lei. Forse facevano così perché erano già sposate, e madri: le prendevano il caffè alla macchinetta di destra, o biscottini e cioccolato a quella di sinistra, come se altrimenti rischiasse di morire di fame. Quando la scoprirono in debito di una lettera con i suoi genitori le cacciarono in mano un telefono azienda-
46
CHARLES LAMBERT
le, per poi mettersi a sospirare: “Sta parlando con la mamma,” incantate dalla sua vita da teleromanzo, mentre Helen si scusava con sua madre per non essersi fatta sentire. Tra le persone conosciute in quei primi mesi italiani, le sue allieve erano le uniche a non parlare mai di politica, che a sentire Miriam era una tara nazionale, come per la Scozia il calcio e la religione. “Io mi scollego,” diceva, “e aspetto finché smettono.” Una mattina Federico ricevette una cartolina di Giacomo, dal Río de la Plata. L’illustrazione, una foto in technicolor di una chiesa barocca, era sfregiata da una scritta a biro rossa, tanto calcata da bucare il cartoncino: Federico sollevò la cartolina per vedere meglio, poi rise. – Venceremos. Il Sudamerica gli ha dato alla testa. Vedrai come torna: grondante di teologia della liberazione. Un paio d’anni fa è stato due settimane in Turchia orientale e quando è tornato parlava solo della causa curda... al punto da voler adottare un curdo, uno qualunque: voleva proprio portarselo a casa. L’ho visto raccattare gattini per strada e convincere perfetti estranei ad adottarli. È molto persuasivo, capisci? Non si riesce a dirgli di no. Helen gli prese la cartolina di mano e la girò dall’altra parte: la calligrafia era linda e minuta, similissima a quella di Federico. – Mi pare un tipo eccentrico, – commentò quindi, in un tono sgradito a lei per prima. Le ricordava quello assunto da sua madre quando Helen le aveva annunciato il trasferimento in Italia: come se stesse buttando via la sua vita. Federico però non sembrava averlo notato. – In effetti sì. Non è certo il tipo, come dice lui, da starsene seduto in poltrona a teorizzare; e intende che invece lo sono io, mentre lui non può comportarsi come me. Poi non lo ammette esplicitamente, ovvio; anzi quando dice così finge sem-
OCCASIONI DI MORTE
47
pre di parlare di qualcun altro. Certo non di me. – Federico sorrise, con un affetto nel quale Helen non riusciva a riporre un briciolo di apprezzamento, né di fiducia. Giacomo fece irruzione in casa loro una mattina di fine ottobre, senza preavviso, mollando sul pavimento uno zaino e altre cinque o sei borse di varie misure e consistenze. Quindi si mise, senza dare a nessuno il tempo di proferire parola, a saltabeccare di stanza in stanza: apriva e chiudeva porte, si fiondava alle finestre, guardava di sotto in strada per poi balzare all’indietro come dovesse scansare un cecchino. Girò rubinetti, tastò materassi, si piazzò davanti allo specchio del guardaroba con l’aria sgomenta: – Oddio, faccio spavento! – e scoppiò a ridere, deliziato. – Questo è Giacomo, – disse Federico, ma Helen l’aveva capito da sé. L’ospite aveva ragione: faceva spavento. Gli abiti – un eskimo portato su una maglietta kaki e pantaloni di taglio militare – erano sbiaditi e luridi, le cuciture incrostate di terriccio. I calzoni gli pendevano addosso: Helen non se l’era immaginato così magro. Sapeva di sudore rancido ma pure di qualcos’altro, non facile a individuarsi, un aroma opaco, speziato e bizzarramente gradevole. Al primo sorriso largo, Helen si accorse di un canino mancante, a sinistra; e sopra la barba incolta gli occhi erano folli ed enormi, velati da matasse di capelli arruffati quasi come dreadlock. Le rughe sulla fronte, le pieghe agli angoli della bocca erano foderate di lerciume, eppure Giacomo non dava l’impressione di essere sporco. Anzi c’era in lui qualcosa di vivo e sussultante, pensò Helen, come in un cagnolone appena uscito dal mare; lo avesse visto scrollarsi ben bene, non se ne sarebbe stupita. Invece le prese il viso tra le mani e le diede un bacio sulla bocca, un bacio tiepido e asciutto; poi, con un altro gran balzo, andò da Federico e fece esattamente lo stesso con lui.
48
CHARLES LAMBERT
– Sono veramente felice di vedervi, – disse poi in un bizzarro inglese dall’accento ispanoamericano. – Proprio felice. – Li abbracciò entrambi e di nuovo fece un salto indietro, fregandosi le mani come un bambino. – Non devi parlare inglese per me – disse Helen; poi si riascoltò mentalmente e inorridì. Una frasetta proprio ammodo, da signora di mezza età: quel Giacomo le aveva di nuovo tirato fuori la voce di sua madre. Ma lui la ghermì alla vita e la trascinò in un ballo tutto barcolloni per la cucina. – Parli un italiano perfetto, – le disse, sempre con quel sorriso deliziato; tuttavia continuò in inglese. – Sei meravigliosa, Fede è stato fortunatissimo a trovarti. – La stringeva talmente da farle sentire il proprio alito sul volto, e sapeva di caffè e semi d’anice: lei aveva voglia di lasciarsi guidare, e anche di spingerlo via. Aveva già iniziato a spaventarla. Non c’era verso di capire cos’avrebbe fatto di lì a un attimo. Quella sera rimasero a casa e cenarono a base di pasta aglio e olio, pane e salame, Barbera scadente. Ascoltavano Giacomo, e lui sembrava posseduto dal demonio: si chinava in avanti, giungeva le mani zelante oppure le spalancava a palmi in su, come a soppesare il mondo; si dondolava all’indietro fino a far temere a Helen lo schianto definitivo della sedia; rideva a intervalli bizzarri, gli occhi lucidi di lacrime a cui non faceva nessun caso. Finito di mangiare svuotò tutte le borse, sul pavimento della cucina, per mostrare loro le sue trouvaille: musicassette, flauti dipinti, scampoli di stoffe tessute e ricamate, bamboline scacciapensieri del Guatemala, maglioni con nappine e motivi geometrici fatti di lane pesanti e odorose di stantio. Helen, delusa, pensò: ma questa è roba da turisti. Sei un turista come tutti gli altri. Ma poi Giacomo andò a frugare più in fondo, e da sotto le magliette e le mutande appallottolate uscirono pamphlet e manifestini ciclostilati su carta grigia e ruvi-
OCCASIONI DI MORTE
49
da, laceri e sgualciti; libri con le copertine strappate e le pagine piene di orecchie, disegnini, punti esclamativi e di domanda. Insomma lo tirò fuori tutto, lo straordinario casino dei suoi ultimi nove mesi, sventolandolo in faccia ai due amici finché Helen non ne poté più. – Potrebbero arrestarli da un momento all’altro, e loro lo sanno, e perciò ogni loro azione ha un significato; vivono, mangiano e respirano politicamente, amano politicamente. Hanno questa grazia straordinaria, e per crederci bisogna vederla, sentirla. Noi qui siamo morti. – Adesso aveva le guance rigate di lacrime, e un tremito nella voce. – Non sono soltanto gesti vani, Fede, – disse. Quindi si alzò, mettendosi a fare su e giù in cucina; allora Federico lo prese per un braccio. Giacomo sembrò volerlo scansare, giusto un attimo, poi si lasciò tenere; anzi tese l’altra mano verso Helen, e lei pure si alzò e si lasciò avvolgere dall’abbraccio dei due uomini. Giacomo traslocò nell’altra camera quella sera stessa. Il mattino seguente, entrando in cucina e trovandoci Helen e Federico davanti ai rispettivi caffè, con Helen sul punto di andare al lavoro, prese una tazza e si versò a sua volta un caffè, poi si sedette tra loro due, chiuse gli occhi e sospirò. – Casa dolce casa, – disse, le gambe allungate sotto il tavolo. Helen si voltò verso Federico, ma lui stava leggendo un volantino e non alzò gli occhi. Dieci minuti più tardi, quando lei uscì, Giacomo trafficava giocondo con un pacchetto di Nazionali che si era cavato di tasca. I primi giorni andava e veniva di casa, doveva sentire gente, era perennemente avvolto in un tintinnio di gettoni del telefono. Si lavava i vestiti, capo per capo, nel lavandino del bagno, per poi stenderli su un filo tirato sopra la vasca: Helen si offrì di farlo al posto suo, ma lui disse di no. – Comunque, non è perché sono una donna, – commentò lei, irritata. – Cioè, non te l’ho detto per quello.
50
CHARLES LAMBERT
Lui sorrise. – E chi lo pensava. Me l’hai detto perché sei gentile. Perché sei una brava persona. – Helen non riuscì a capire se la prendesse in giro, ma in ogni caso pensava avesse torto: lei cercava solo di riprendere possesso della casa dinanzi a quell’intruso. La destabilizzava trovarcelo dentro quando tornava dalla Fiat, con un po’ di pane e prosciutto destinati al proprio pranzo: non sapeva mai se dividerli con lui oppure no. Se lo faceva, si sentiva sfruttata; se evitava, si sentiva meschina. Lui pareva comunque non accorgersi di nulla, mai. Rincasava talvolta con buste piene di frutta, le mollava sul tavolo traboccanti di arance o di pere; lei ne prendeva una al volo e andava a mangiarsela in camera sua. Dove lui certe volte la seguiva, per appiopparle giornali da leggere: “Potere operaio”, “Lotta continua”. Lei buttava l’occhio alle pagine stampate fitte e alle foto sbaffate, arrancava per un paio di paragrafi di prosa irta di gergo e poi lasciava perdere, sconfitta. Non credeva ci si potesse tenere davvero così tanto da leggere quel tipo di pubblicazioni, fino al mattino in cui, mentre aspettava il tram per andare al lavoro, sentì due signore – con l’aria di essere coetanee di sua madre e le buste della spesa strette fra i piedi – intente a discutere la legittimità dell’uso di armi. Ecco, si disse, legittimo, uso, armi, queste sono parole facili, le capisco subito anch’io; e al tempo stesso si chiese in quale mondo assurdo fosse capitata, dove signore di una certa età chiacchieravano di cose diverse dal tempo atmosferico o dal prezzo di un fustino di detersivo, e parlavano invece del diritto a uccidere come fosse una cosa normale quanto mettersi in fila alla fermata dell’autobus... anzi, più normale, perché a Torino nessuno si metteva mai in fila per niente. Allora capì cosa intendeva Giacomo, e si domandò se lei stessa volesse far parte di quel mondo; se volesse essere viva com’erano, o per lo meno sembravano, vive loro, anziché guardare tutto da dietro
OCCASIONI DI MORTE
51
i vetri di una finestra. Quella sera a cena raccontò delle signore a Federico, sperando di divertirlo; ma lui non riuscì a capire come mai le avesse trovate tanto sorprendenti, tanto degne di nota. Non siamo più nella campagna inglese, le disse, e lei si sentì contemporaneamente imbarazzata ed euforica, come se avesse spalancato la finestra e preso una gran boccata d’aria fresca e pulita di quei monti non così lontani. Ma continuava a non avere una sua posizione, ed era contenta che Giacomo non fosse lì a sentire quella conversazione.
6
Usciti dall’agenzia, Giacomo ha riportato Helen in albergo da lui. Inutile perdere tempo qui, le ha detto; e non sapendo cos’altro fare, lei lo ha seguito giù per le scale e fin dentro il taxi in attesa. Ora si trova in camera sua, ed è già pentita. Appollaiata sul bracciolo di una poltrona accanto alla finestra c’è Yvonne, la moglie nuova di zecca, con l’espressione di chi si sente a disagio. È anche lei fuori posto, e lo sa, pensa Helen, e siccome non riesce a smettere di pensare, e nemmeno riesce a controllare i pensieri, s’immagina Yvonne lì in camera con loro questa mattina, a guardare lei e suo marito fare l’amore mentre il marito di Helen moriva in un ospedale a meno di un chilometro in linea d’aria. Sì, perché Helen ha fatto tutti i conti, ha misurato la distanza tra dov’era e dove avrebbe dovuto essere; questo faceva, mentre i poliziotti la interrogavano, calcolava quanto tempo le ci sarebbe voluto per arrivare da Federico prima della fine. Da quando ha fatto ingresso nella stanza, e dopo le presentazioni di rito, Yvonne non l’ha praticamente più guardata in faccia. Lì per lì le ha preso le mani tra le sue con un gesto un po’ clericale, o così è parso a Helen; come volesse impartirle una sorta di benedizione. Ma la stessa cosa, le torna in mente, ha fatto Giacomo quel mattino. Forse è un vezzo francese e l’ha adottato pure lui. Yvonne è alta e magra, diversa dal tipo normalmente prediletto da Giacomo. Per un istante Helen si chiede cosa ne penserà Federico, se la troverà di suo gusto, poi si ricorda che Federico è morto, e sussulta come se le avessero da-
OCCASIONI DI MORTE
53
to uno schiaffo. Dentro di lei torna a insinuarsi quella consapevolezza, quella sensazione di esserci e insieme di non esserci, come se si trovasse lì e simultaneamente in un luogo dove Federico è ancora vivo. Magari sapesse dove. Giacomo si era offerto di riaccompagnarla a casa, ma lei non sopportava l’idea di tornarci, non ancora, non da sola. E allora vieni a conoscere Yvonne, ha detto lui. Ti passa un po’ il tempo. Lo so, ha detto poi, hai ragione, quando lei gli ha fatto notare la frase “Ti passa un po’ il tempo.” In taxi si è seduta dietro, le mani schiacciate tra i ginocchi finché Giacomo le ha cinto le spalle con un braccio e l’ha stretta a sé. Sapeva del profumo indossato quella mattina, molto muschiato, quasi sgradevole. Lei teneva lo sguardo fisso in avanti, non proprio certissima di nutrire gratitudine nei suoi confronti, né di cosa volesse davvero. Certo, lui almeno non le ha chiesto cosa prova. E lei cosa risponderà, quando glielo chiederanno? Perché qualcuno lo farà. Alle vedove lo chiedono. Helen non ha mai visto Giacomo così taciturno, e adesso eccoli tornati nella sua stanza d’albergo con i doppi vetri antirumore su via Veneto e lo sguardo di sua moglie, un misto di pietà e risentimento. Poi Giacomo va ad aprire la porta e fa entrare il cameriere provvisto di linda giacca bianca e vassoio d’acciaio scintillante; Helen lo osserva posare tre tazzine e una zuccheriera sul tavolo e aspetta con discrezione mentre Giacomo firma la ricevuta, attenta a non guardare in faccia nessuno, gli occhi puntati sulle mani dell’amico. Lo sa perfino lui, si dice Helen d’un tratto pensando al cameriere, l’avranno detto al telegiornale dell’una, magari è passata pure un’edizione straordinaria, per fatti come questo di solito la mandano. Lo sapranno tutti, ormai. Si sente sbugiardata: quando il cameriere, uscendo, la guarda, lei inorridisce al pensiero che altri potrebbero averla già vista, stamattina, sola in questa stanza con Giacomo. Il personale degli
54
CHARLES LAMBERT
alberghi sa sempre tutto. Non riesce a credere di esser stata così stupida, di aver taciuto la verità alla polizia. Aveva paura, e si sentiva in colpa, e non le hanno dato il tempo di pensare... Non tanto una bugia quanto un’omissione, è altrettanto grave? Dovrà pur parlarne con Giacomo, non appena le sarà possibile. Lui intanto prende un quotidiano, piegato alla perfezione, dal tavolino accanto al televisore, fortunatamente spento. – Pronti per un bel rimpasto di governo, – dice. – A quanto pare. – Apre il giornale per scorrere seconda e terza pagina, poi lo butta sul letto, ormai a secco di pazienza. – A livello politico, da stamattina qualcuno ricaverà qualcosa, poco ma sicuro, ma vai a sapere adesso chi sarà. E alla fine tutti quanti, magari, in un modo o nell’altro. Tutti a litigarsi gli ossi come cani rognosi. Io non so come fai a viverci, Helen, in questo squallido teatrino. – E tace di colpo, come se si fosse reso conto di quanto sono crudeli queste parole. Helen però non se la prende, lo conosce da troppo tempo per aversene a male, e poi lo ascolta a malapena: sta guardando Yvonne, che apre la borsetta, sfila due compressine da un bel portapillole in filigrana e le mette nel caffè: devono essere quelle, a mantenerla tanto magra. Helen non riesce proprio a capire cosa ci trovi Giacomo in lei, e di certo non è neppure il tipo di Federico. Si volta e guarda Giacomo che invece mette nel caffè un cucchiaino di zucchero, lo mescola bene e lo butta giù d’un fiato. – Comunque il caffè è ancora buono, – dice tanto per dire. Ha sempre invidiato a Federico la possibilità di mangiare quanto gli pareva senza ingrassare. E non solo quello: pure la serietà, la determinazione. E la moglie. Lo ha sempre invidiato, punto e basta. Helen lo sa da sempre. Non dev’esser stato facile per lui convivere con tanta invidia, con la sensazione di aver fallito in confronto a Federico quando tutti pensano abbia mietuto solo successi. È uno dei motivi per cui Helen gli vuole ancora bene.
OCCASIONI DI MORTE
55
– Non ti avranno dato il tormento, spero, – dice intanto Giacomo. – Chi, scusa? – Quelli della polizia. Dalla finestra Yvonne scruta il viavai delle auto per strada, la tazzina vuota annidata fra le mani. – Qui guidano tutti come dei pazzi, – commenta. – Che intendi? Darmi il tormento per cosa? – Dai, lo sai, quella faccenda di allora. Non saranno andati a rivangarla. – Giacomo, sono passati trent’anni. Le cose sono cambiate, da quando te ne sei andato tu. – Il che non è del tutto vero, forse. Forse non è cambiato proprio niente. Se non che stavolta loro sono le vittime. Stavolta Federico le ha prese, le pallottole. – E la mia presenza qui oggi? – È una combinazione. – Helen lo guarda, e le torna in mente l’espressione sul viso di Martin quando le ha chiesto chi sapeva dello Stilton. – O no? Giacomo sospira. – Ma sì, certo. Il convegno era un’idea di Federico, lo sai bene quanto me, un altro tassello del suo piano grandioso per riabilitarmi qui in Italia. Come mi riguarda tutto questo?, pensa Helen. E Martin ha solo peggiorato la situazione, col suo silenzio, la sua solidarietà quando lei era in preda al senso di colpa, di orrore, di perdita. Certo però, Giacomo si è fatto assai vanesio. Un giorno gli racconterà della serata in cui Federico le parlò dei suoi progetti per il convegno e lei, tra il serio e il faceto, gli fece proprio il nome di Giacomo, “alla fin fine è un economista, malgrado tutto”, e suo marito diede un’alzata di spalle, ma non rispose; lei non capì neppure se avesse sentito, o no. Per quello aveva poi insistito perché lo invitasse, fino al punto in cui Federico aveva dovuto cedere; per quello, e poi per la prospettiva di trovar-
56
CHARLES LAMBERT
si per due o tre giorni a Roma con lui. In quel momento non sapeva nulla di Yvonne; l’avesse saputo, mai avrebbe caldeggiato quell’invito. E tra l’altro Federico aveva commentato: “Tanto non accetterà. Mura non si sporca certo le mani con una cosa tanto banale.” Invece Giacomo aveva detto sì. “E mi porto dietro la mia fresca mogliettina per sottoporla alla vostra approvazione,” aveva aggiunto, ed era la prima volta che sentivano parlare di lei. – Non penserai si faccia comunque? – dice Helen. Giacomo si guarda attorno, come se avesse perso qualcosa ma non riuscisse a ricordare cosa. – Il convegno? Non vedo perché no. L’Iraq andrà ricostruito, prima o poi. – E tu sei comunque pronto a fare il tuo intervento? Giacomo fa spallucce, e immediatamente lei capisce: ma certo, è pronto, parlerà. – Lui non sarebbe contento se rinunciassimo, dopo tutto il lavoro già fatto... – borbotta dopo un istante, però con gli occhi bassi. Helen ha la sensazione di un guscio tutto intorno a lei, che comincia a vibrare e a incrinarsi come messo sotto pressione, ma non dall’interno, bensì da fuori. Si porta le mani al viso e prende a sfregarsi gli occhi, asciutti e irritati per via dell’aria condizionata. E nemmeno avesse ricevuto un’imbeccata, Yvonne si alza e annuncia di aver bisogno di un po’ d’aria fresca. – Immagino di potermi allontanare, giusto? – dice a Helen, come se finora l’avessero trattenuta lì contro la sua volontà. Helen fa una smorfia. – Mi spiace tu sia rimasta coinvolta in questa situazione, – risponde. – Come si sono comportati? – chiede invece Giacomo. Per un attimo lei non capisce cosa intenda. – Quelli della polizia, Helen! – Il tono è esasperato. Yvonne è ancora ferma accanto alla porta: sembra timorosa all’idea di lasciarli lì insieme, da soli. Helen sospira. Se solo sapesse.
OCCASIONI DI MORTE
57
– Ah, certo, i poliziotti. Si sono comportati bene. – Decisamente diversi da quelli dei suoi ricordi torinesi, quando l’avevano portata in commissariato a forza, tenuta là per ore e infine rilasciata dopo averla minacciata di espellerla dall’Italia; la prepotenza, l’indifferenza, la cappa di fumo di sigaretta. E a quei tempi non c’erano donne; erano tutti uomini, senza giacca, lembi di camicia sfuggiti alla cinta dei pantaloni, colletto allentato, e sempre quel tanfo stantio di sudore maschile e quella tipica protervia sessuale degli uomini in posizione di autorità, come fossero convinti tu non volessi altro nella vita che farti scopare da loro, come se possedessero qualcosa a cui tu ambivi moltissimo. Stavolta, grazie a Dio, sono stati gentili. E solo adesso Helen si rammenta di non aver fatto, stavolta, nulla di male. Martin, le par di ricordare, le ha fatto la stessa domanda. Ma com’è, mi credono tutti colpevole? – Su chi è stato si sono fatti un’idea, hanno detto qualcosa? Lei scuote il capo. – Cosa volevano sapere? – Mi hanno chiesto se era successo qualcosa d’insolito stamattina, oppure ieri sera, o negli ultimi giorni. Se c’erano stati episodi strani, di qualunque tipo. – E ci sono stati? – Ovviamente no, sai com’è Federico, – risponde lei. – E se anche fosse accaduto qualcosa di sospetto in mia assenza, lui non me l’avrebbe riferito. Faceva sempre così. A loro ho detto lo stesso: lui mi teneva fuori da quell’aspetto del suo lavoro, riusciva a sopportare tutto l’ambaradan della sicurezza solo facendo finta di niente. Il rischio, la scorta: dopo un po’ diventa noioso, convivere con la paura. – Helen si interrompe. – E alcuni erano veramente amabili, con un paio avevamo fatto amicizia. Tu sai com’è Federico, quanto gli piace parlare con la gente, scoprire cose sulle persone. Massimo, l’autista di stamattina,
58
CHARLES LAMBERT
era il nostro preferito. Conosciamo la famiglia, la moglie, la madre: lui ha due bambine, e la mamma abita dalle parti di Latina. Un paio di mesi fa ci abbiamo passato la domenica, e lei ci manda sempre le olive, il formaggio, il vino. Federico apprezza moltissimo, e loro lo sanno. E ora per la prima volta, come fosse la morte di Massimo ad aver spezzato il guscio che la rinchiudeva, Helen si mette a piangere. Da quando le hanno riferito la notizia, cinque ore fa, ha parlato con la polizia, con Martin, con i famigliari di Federico; li ha chiamati dal taxi. – Sono con Giacomo Mura, – ha detto a Giulia, pentendosene immediatamente. – Quel vecchio amico di Federico, – ha aggiunto, peggiorando la situazione. Poi ha spento il cellulare perché non voleva più parlare con nessuno, non ora, o non ancora. E in tutto questo lasso di tempo non ha mai pianto, sentendosi distaccata e perplessa, un’osservatrice di quello che dovrebbe essere cordoglio e invece, chissà come, non lo è, ed è invece confusione, incredulità e infine, più di qualsiasi altra cosa, senso di colpa e di sporcizia. Si aspettava di piangere così, e ora finalmente è successo. Solo che non sa per chi. Però piange, chiassosa e scomposta, il respiro come il moto di una sega, il viso contorto, la bocca piegata all’ingiù e spalancata come quella di una maschera tragica. Yvonne si scosta dalla porta e si mette dietro di lei, una mano affusolata sulla spalla, il minimo contatto fisico necessario a farle capire che non è sola: Giacomo, accasciato sul letto, sembra incapace perfino di questo. Più tardi, quando si è calmata, Helen si chiederà se si sentisse impacciato dalla presenza di Yvonne. Lei ne è gelosa, sebbene non abbia diritto di esserlo e lo sappia. Perché vorrebbe solo stare fra le braccia di Giacomo, come quando erano in taxi, come quando erano soli. Sentirsi abbracciata e consolata da chi la conosce quasi come si conosce lei, da uno al quale non ha bisogno
OCCASIONI DI MORTE
59
di nascondere nulla. Ma questo non succede, ed Helen piange finché la gola le brucia per la fatica di vomitare singhiozzi da dentro, uno sforzo estenuante. Piange finché le lacrime si seccano, e poi continua senza, gli occhi a fissare nel vuoto di quell’inutile stanza d’albergo di lusso prenotata dalla segretaria di Federico per Giacomo e Yvonne, senza vedere nessuno dei due, senza vedere nulla. Yvonne si cava dalla borsetta un fazzolettino bianco e Helen lo scruta, nella propria mano, come se le avessero donato il favoloso manufatto di una cultura remotissima, poi lo accartoccia e lo butta per terra. Yvonne, con un gemito di disappunto quasi impercettibile, si china a raccoglierlo. – Mi dispiace tanto – dice Helen. Giacomo le si avvicina e la tira su dalla poltrona per stringerla a sé, in un abbraccio goffo e piuttosto formale. Allora Yvonne torna verso la porta a grandi passi, risentita, e se ne va. Helen resiste all’impulso di spingere via Giacomo, districandosi invece con la massima delicatezza. – Mi dispiace tanto, – ripete. – Lascia stare, hai bisogno di piangere, – dice lui. – Perché, tu hai pianto? – ribatte Helen, senza cattiveria ma rendendosi conto, appena finito di parlare, che sta confrontando il lutto di Giacomo con il proprio. – Hai pianto quando te l’hanno detto? Lui scuote il capo. – È morto, ma non riesco a crederci. Non lo vedevo da... quanto sarà, tre anni? Da quell’estate in Corsica, con Stefania così depressa. Quella cena spaventosa, te la ricordi? Certo lo vedevo sui giornali, ovvio, inevitabile. E alla televisione. Un paio di volte l’ho incrociato a Bruxelles, l’ultima forse sei mesi fa. Lui però era con delle persone, non so, il solito codazzo, funzionari ministeriali, non facevano per me. Mi sarei dovuto fermare comunque a parlargli. – Non potevi saperlo. – Fruga nella borsetta in cerca di un fazzolettino di carta risentendo la frase appena detta, repli-
60
CHARLES LAMBERT
candosela in testa. Non potevi sapere. Non potevo sapere. Non potevamo sapere. Sono le parole attese e collaudate, parole fatte per occasioni come questa, e Helen si chiede quante altre volte le pronuncerà nei prossimi giorni. Dopo aver pianto così a lungo si sente bizzarramente leggera, come potesse prendere il volo da un momento all’altro; leggera, ma senza la forza necessaria a camminare da sola. Della Corsica si era dimenticata. – Si era fermato a comprare lo Stilton, sai, per stasera. Per te, a dire il vero: si ricordava quanto ti piace. Io gli avevo detto, ci penso io, ma lui adora fare queste piccole commissioni, lo distraggono dal lavoro. E credo fosse un modo per dimostrare la sua gioia, perché tu venivi a trovarci a casa dopo tanto tempo: voleva comprarlo lui. Era davanti al negozio quando gli hanno sparato. Chissà che fine ha fatto. Volge lo sguardo a Giacomo, seduto su uno dei letti gemelli della stanza. E ancora una volta le torna in mente Martin, quando le ha chiesto se Giacomo potesse essere al corrente dell’itinerario di Federico quel mattino, e rabbrividisce pensando alle implicazioni. Giacomo adesso sta giocando col telefonino proprio come fanno tutti, adulti e bambini, e le femmine sono pure peggio dei maschi. All’inizio le sembra stia mandando un SMS ma poi, dal ritmo dei pollici sui tasti, capisce che sta giocando a Snake, il gioco del serpentello. Il cellulare fa bip. Helen aspetta che concluda la partita. – Che fine ha fatto cosa? – Lo Stilton. – Lei gli guarda le mani, grandi e forti, con ciuffi di peli ispidi tra le nocche; mani forti che però, malgrado questa forza, non hanno mai lavorato davvero. Sono strette intorno al telefono, piccolo, metallico, simile a un giocattolo: un giocattolo da ricchi, perché ormai Giacomo sarà ricco, ci avranno pensato i libri e i giri di conferenze. Ricchi lo sono diventati tutti, più o meno. Solo Federico ha resistito: almeno agli sta-
OCCASIONI DI MORTE
61
tus symbol. – Da qualche parte sarà. In una scatola. Probabilmente è un reperto di prova. – Suppongo di sì. – Adesso ha in mente questo, e non riesce a smettere di pensarci. Poteva andarci lei, sarebbe stato facile, stamani non aveva niente da fare. Sarebbe stato facile dire, mentre lui saliva in auto e prendeva i giornali, No, a prendere il formaggio vado io. E forse lui avrebbe detto sì, e adesso sarebbe ancora vivo. Ecco, un’altra cosa per cui sentirsi in colpa. – Mi dispiace, Helen, – dice Giacomo a voce così bassa da non sentirlo, quasi. – Ma perché dovresti dispiacerti? – Sta parlando di noi due, insieme, stamattina?, si domanda lei. – Lo sai cosa intendo, – fa lui. – Mi dispiace e basta. Per tutto. Per tutto l’accaduto. Anch’io gli volevo bene, e tu lo sai. Certo, ultimamente c’erano stati dei problemi, ma lui era il mio più vecchio amico. Il mio unico amico, a dire la verità. A parte te. A Giacomo parlare al passato viene naturale, nota lei, con quella nota di rimpianto e nostalgia. Forse ha fatto più pratica: tutto sommato Federico non è la sua prima perdita. Il tono è pieno di commiserazione, ma a Helen sembra rivolta più a sé stesso; Giacomo si va facendo una ragione di quanto ha perduto sul piano personale. E lei, senza dargli il tempo di dire altro, sull’amicizia e su lei stessa, cambia argomento. – Yvonne è mai stata a Roma prima d’ora? – Sì, certo, decine di volte. Faceva la modella. Si è programmata tutto un giro di shopping, come se a Parigi le opportunità scarseggiassero. Io le ho detto, “Non c’è bisogno che vieni a sentirmi”, e lei mi ha guardato come se fossi matto. – Ride debolmente. – Non le passava neppure per l’anticamera del cervello. Non credo abbia mai sentito parlare dell’Iraq, figuriamoci della guerra. – Quanti anni ha?
62
CHARLES LAMBERT
Lui alza lo sguardo dal telefonino. – Tu ti trovavi bene con Stefania, – dice, – ma era tutto molto difficile. – Fa una faccia imbarazzata, e Helen ripensa a loro due su quella spiaggia corsa, lei e Giacomo, a non più di cinquanta metri di distanza da Stefania e Federico, stesi fra due pedalò in secca, a scopare come se ne andasse della loro vita. Poi guarda l’orologio. – Devo andare all’ospedale. Vieni con me? – Certo. – Come se l’identità di Federico fosse ancora in dubbio. – Helen si alza. – A quanto pare è una formalità. E quindi, è obbligatoria. – Si interrompe. – Ma magari si sono sbagliati. Magari, invece, non è Federico. – È lacerata tra l’impulso nervoso di ridere dell’orrore che la attende e il ritorno delle lacrime, perché quasi le viene da credere a quel che ha appena detto: potrebbe trovarsi davanti una persona mai vista prima. “Non so se ridere o piangere”: altra espressione utile, da ricordare. Stavolta è lei a tendere le braccia, e Giacomo la raggiunge, come avrebbe già dovuto fare; e stavolta sono soli. Lui la stringe a sé, pancia e fianchi addosso ai suoi, il mento appoggiato alla sua tempia; si china un poco a baciarla sui capelli, un bacio consolatorio, e lei si rimette a piangere sulla spalla di lui in maniera più lieve, quasi rassegnata. Rimangono così, ad abbracciarsi per un paio di minuti, non da amanti ma da amici, fin quando lei si accorge che lui non la sta più baciando, tiene le braccia in una posa rigida. E si stacca. – Dobbiamo andare, ci aspettano. – Devo dirlo a Yvonne, però. – Puoi chiamarla dall’auto, capirà. – Sì, certo, – fa lui. – Capirà.
7
I giornalisti non se li aspettava, e figurarsi un’intera troupe televisiva accampata davanti all’albergo: Helen riconosce l’intervistatore più vicino, di un canale televisivo nazionale, nell’istante in cui lui riconosce lei. E a scoppio ritardato, spalancando la bocca in modo alquanto spassoso in altre circostanze, l’uomo riconosce anche Giacomo. Per un lungo momento d’incertezza, intuendo d’istinto una trama più ampia, sembra valutare la possibilità di porgere il microfono non a Helen Di Stasi, la vedova afflitta, bensì a Giacomo Mura, il terrorista redento; però si riprende, mentre lei va verso la portiera spalancata della macchina, e glielo piazza davanti alla faccia. Alle sue spalle altri si radunano, nemmeno l’avessero fiutata – ospiti dell’albergo o passanti, credeva lei – e allora Helen capisce: sta per essere aggredita dai cronisti, una scena che in televisione ha visto pure troppe volte ma le sembra impossibile vivere in prima persona. La ressa comincia dai registratori branditi verso di lei, seguiti da domande di fatto incomprensibili. Chissà come, Federico questa cosa riesce – riusciva – sempre a evitarla, pensa Helen, e prova un’ondata d’invidia e dolore così paralizzante da tendere un braccio per afferrarsi a Giacomo. In mezzo a quel vocio, l’unica domanda chiara e limpida viene da una tizia – erano sedute vicine a una cena, diversi mesi fa – con la voce tanto acuta e stridula da sovrastare tutte le altre. La signora vuol sapere cosa si prova a perdere il marito, una domanda talmente cretina da spingere Helen sull’orlo di una risata sbigottita. “Non so se ridere o
64
CHARLES LAMBERT
piangere”. Ma non ha il tempo di dire nulla perché si becca in faccia una microfonata che le taglia un labbro; al sentire il colpo e il rivolo di sangue prova un senso di sollievo. Giacomo spinge via il giornalista, e gli altri si fanno indietro a loro volta mentre lui tira un moccolo, spinge Helen dentro la macchina e nel giro di un secondo sale accanto a lei e chiude la portiera. Una videocamera si tuffa a filmarli entrambi mentre l’auto schizza via; Helen si accascia contro lo schienale con un sospiro lunghissimo, dal profondo dei polmoni, sorprendente per entrambi. L’autista si scusa. – Ecco fatto, – dice Giacomo. – Al momento io non sono il tuo accompagnatore ideale. Agli occhi del mondo, voglio dire. – Le stringe la mano, e lei si rilassa un po’; la mia pelle riconosce la sua, pensa. Giacomo è ancora mio. Ma dopo un istante, con garbo, ritrae la mano. – Prima o poi avrebbero saputo del tuo arrivo, non è un segreto di stato. Eri molto amico di Federico. – Certo, però noi due insieme, in questo modo... e proprio oggi. – Non sei mai stato tanto discreto. Sei proprio diventato un politico. – Si volta per guardarlo in faccia. – O sei preoccupato per Yvonne? – Sono preoccupato per te. – Giacomo accende una sigaretta ma senza offrirne una a lei. Di questi tempi Helen non ci pensa più, ma se le offrissero da fumare accetterebbe. Distoglie lo sguardo da lui e si mette a guardare Roma fuori dei finestrini, la gente nei negozi, i gruppi di turisti magari già incrociati ma non visti veramente stamattina, prima di venire a sapere; il normale affaccendarsi di una grande città. In effetti la morte di Federico non ha cambiato niente, pensa ora Helen, e per la prima volta si concentra – quanto tempo ci ha messo! – su chi gli ha fatto quel che gli hanno fatto. A lui, e a lei. Si chiede chi
OCCASIONI DI MORTE
65
possa essere stato, e cosa li abbia spinti. Federico era animato esclusivamente da buone intenzioni. Il filo dei pensieri viene spezzato da un fischio di sirene; il loro autista accosta per far passare due macchine della polizia, rispettivamente davanti e dietro a un’auto blu. Helen tenta di guardarci dentro pensando, per un attimo e fuori da ogni ragionevolezza, di vederci Federico. Il cristallo riflette invece l’auto in cui siede lei, e nel passaggio rapido Helen coglie uno scorcio del profilo di Giacomo e del proprio, ombroso e pallido prima di svanire. Le sirene le fanno tornare in mente quelle udite la mattina, non più di quindici minuti dopo i colpi contro Federico, dopo la morte di Massimo. A quel punto, mentre lei raggiungeva l’albergo di Giacomo, il mondo se ne stava già occupando; aveva già dispiegato tutti i meccanismi di difesa. E lei non ne sapeva niente. Dopo quasi trent’anni insieme, pensa Helen, come si fa a ignorare che a meno di un chilometro da te qualcuno ha sparato a tuo marito? – Senti, stavo pensando a una cosa. – Adesso è Giacomo a spezzarle il filo dei pensieri. – Quelli della polizia te l’avranno chiesta per forza. – Quale cosa? – Il formaggio. Quelli dovevano saperlo, della sosta in quel negozio. – Non è detto. Magari lo stavano seguendo e hanno colto l’occasione. Viuzza secondaria, poca gente. Giacomo scuote il capo. – Queste sono azioni premeditate, studiate nei minimi dettagli. Lui si fermava lì e loro lo sapevano. – Comunque sì, me l’hanno domandato. – E tu cos’hai risposto? – Che lo sapevo io. – E poi? Chi altro?
66
CHARLES LAMBERT
– Nessuno, per quanto ne so io. A parte il negoziante. Federico aveva chiamato per essere sicuro di trovarlo, lo Stilton. – E la polizia lo sa? – Sì. Anche se avrei preferito il contrario. – Perché? – Perché il negoziante non può essere implicato, nel modo più assoluto. Federico adora quella bottega. La frequenta da anni. Ci si serve pure sua madre, sant’Iddio. – Appena pronunciate queste parole, Helen capisce che sono ridicole. – Senti, dammi una sigaretta. Sto impazzendo. Si mette ad aspirare con rapidità, trattenendo il fumo nei polmoni il più a lungo possibile, e subito le gira la testa. È digiuna da dopo colazione, avendo rifiutato di pranzare, e ha preso troppi caffè, più di quanti ne beva di solito. Si sente lo stomaco vuoto e sottosopra allo stesso tempo. Giacomo ha ragione, naturalmente, ma lei non ha voglia di pensarci. Per cambiare atmosfera, fa una risatina breve e forzata. – Stamattina ho fatto una fesseria, – dice quindi. Lì per lì, lui non risponde. Poi, un momento dopo, dice: – A quello non devi pensare. – Non stavo pensando a quello. – Scusa. Ero preso da me stesso. – Ho mentito alla polizia, – prosegue lei. – Su di noi. O meglio, ho taciuto. – Alza gli occhi a guardarlo, poi gli dà la sigaretta fumata a mezzo, da buttar via. – Quando mi hanno chiesto cos’avevo fatto stamattina. Non gli ho detto del nostro incontro. Non so perché. Pensavo facesse una brutta impressione, credo. Lui si volta per spegnere la sigaretta, poi sospira. – Il silenzio fa un’impressione peggiore. Credo sia meglio tu gli dica la verità, Helen. – Il tono è irritato. – Ma come, tutta? – Lei è in tensione, adesso. Vorrebbe lui
OCCASIONI DI MORTE
67
le dicesse che non importa, pur consapevole del contrario. Vorrebbe lui si prendesse almeno una parte di responsabilità per il suo comportamento. – Pure a Yvonne? – Fra noi ci sono moltissime cose da dire, Helen, tesoro. – Adesso il tono di Giacomo è incalzante. – Io ho moltissime cose da dire. Moltissime cose da spiegare. – Su Yvonne? – Ma Dio santo, Helen, Yvonne non conta niente. Su te e me; su Federico.
8
Giacomo fuma poco lontano da Helen, i gomiti poggiati sul davanzale di una finestra, soffiando fuori il fumo nell’aria del tardo pomeriggio; si era scordato di come può essere piacevole la prima estate a Roma, quando ancora non è arrivata la canicola. Riesce appena a sentire Helen, tutta presa al cellulare pochi metri più in là: ha un tono agitato, con una mano si tiene i capelli lontani dalla faccia e con l’altra stringe il telefono, le nocche sbiancate. È ferma nel corridoio dell’ospedale, affiancata da due giovani poliziotti a cui la pazienza si legge in faccia e nel modo di tenere le mani incrociate dietro la schiena, in un atteggiamento indifeso. Giacomo dà un’occhiata all’orologio e poi al televisore montato a muro, giusto una spanna più su della testa, e inclinato verso una fila di sedie vuote. Aspetta il telegiornale. A quanto pare sono passati notiziari flash per tutto il pomeriggio, ma ora il palinsesto è tornato alla normalità: giochi a quiz, scintillio di luci, premi mirabolanti. Qualcuno si ritroverà presto nella merda, pensa, per questo sfoggio d’insensibilità. Poi guarda Helen e si chiede come se la stia cavando; vorrebbe tanto essere solo con lei. Di certo la trovano tutti freddissima; ma lei è sempre elegante, anzi a essere onesti mai come adesso, mentre una volta aveva l’aria troppo fragile, troppo modesta per sembrare davvero elegante. Quando l’aveva conosciuta, un po’ incerta dietro a Federico in quell’appartamentino torinese gelato e orrendo, si era domandato per quale motivo il suo amico fosse tanto fiero di lei: magra come chiodo, quasi anemica, lontanissima dal suo
OCCASIONI DI MORTE
69
tipo. E ora eccola qui, in abiti costosi e molto chic; potrebbe insegnare un paio di cose perfino a Yvonne, ma questo non lo direbbe certo né all’una né all’altra. Lui ha sempre adorato le donne dal corpo vasto e generoso, cioè ha sempre adorato farci l’amore, anzi farsele. Eppure, a restargli accanto sono sempre le altre, i tipini alla Audrey Hepburn, le vestali della moda. Di stamattina non si pente, qualunque cosa sia poi successa, come non si pente delle altre volte, tutte le altre volte, e ritiene sia lo stesso per lei, sebbene lei ci stia provando, poco ma sicuro. Quel che c’è tra loro, pensa, c’è ancora; se solo lui sapesse cos’è. Forse lo saprà Helen, se avrà occasione di parlarci. Forse andrà tutto bene. Lei gli ha chiesto di rimanere fin dopo il riconoscimento della salma, altrimenti lui sarebbe tornato in albergo. Ha già dovuto affrontare Yvonne al telefono, tutta lagne perché si sente trascurata; dipendesse da lei, ha scoperto, se lo terrebbe costantemente accanto, a portata di mano, per accarezzarlo, baciarlo, coccolarlo. All’inizio lui pensava lo vedesse come un cucciolo da viziare, cosa divertente perché lontanissima dalla realtà. In realtà, Yvonne senza di lui è niente, un’ex modella in disarmo con gusti troppo dispendiosi per poterli assecondare. E ora ne è consapevole anche lei, Giacomo lo sa. Lo sa perché l’ha costretta ad ammetterlo: tirandosi indietro, rifiutandosi di cedere a ogni pretesa. L’ha fatta piangere, e questo ai suoi occhi l’ha squalificata; lui se ne rende conto e non ne va fiero, ma cosa può farci? E ora, gli viene in mente, dovrà cercare Stefania e dirle cos’è successo a Federico. Ne resterà sconvolta. E per come stanno le cose tra loro, troverà senz’altro il modo di attribuirgli una parte di colpa. Helen lo chiama. – È pronto. Chissà poi cosa vuol dire. Magari lo fossi io. – Lo prende sottobraccio. – Stavo parlando con Giulia, mia suocera, – prosegue. – Pure a loro stanno dando il
70
CHARLES LAMBERT
tormento, quelli. – Fa scattare il telefonino per poterlo spegnere. – Quelli chi? – Tutti quanti. I giornali. La Rai. L’“Economist”. Federico lo dice sempre, riceve ben più attenzione all’estero che qui. Il “Financial Times”. Com’è quella frase, nessuno è profeta in patria? Povera Giulia, l’hanno chiamata perfino dei politici, ci crederesti? Non amici di Federico, quello sarebbe normale. Gente mai vista né conosciuta. Vogliono imbarcarlo, anzi, vogliono imbarcarci tutti quanti; lui dev’esser pur morto per qualcosa, alla fin fine. Non dicevi proprio lo stesso, in albergo, sul fatto di guadagnarci a livello politico? – Gli stringe forte il braccio. – Dio, Giacomo, – conclude, e il tono vacilla. – Vorrei tanto capire cosa sta succedendo. – Adesso non preoccuparti di niente, – dice lui per consolarla. Sta pensando ai resoconti sulla morte di Federico, alla delicatezza della frase usata dall’agenzia di stampa nel parlare di lui e delle sue “attività extraparlamentari”, come se ai bei tempi loro si fossero limitati ad appiccicare manifesti e a scrivere sui muri con le bombolette. Com’era esaltante la vita allora, malgrado tutto il resto, malgrado la vergogna e la devastazione. E com’è strano il tempo, nondimeno, per come si riavvolge su sé stesso, per come ci irride, facendoci sentire simultaneamente mortali e immortali. Giacomo non ha mai dimenticato quelle prime volte a Torino, quando si scopava Helen in cucina. Altro che unghie e denti, con lei erano artigli da gatta, e quella venatura di pericolo da lui sempre amata e temuta insieme; né ha scordato le altre volte, per lui mai abbastanza frequenti, poi però ci fu quel dissapore da superare, quel fraintendimento. Helen ci aveva messo degli anni a perdonarlo, o così diceva, e poi si erano frapposti i dettagli pratici, il matrimonio e tutto il resto. Lei avrebbe potuto lasciare Federico e mettersi con lui in
OCCASIONI DI MORTE
71
qualsiasi momento, lo ha sempre saputo; e come sempre, Giacomo si chiede cosa glielo abbia impedito. Helen non gliel’ha mai detto. La guarda adesso, lì vicino a lui, una signora di poco più di cinquant’anni, che una volta era un’età da vecchi ma ora non più. Hanno ancora tanta vita davanti, pensa lui, come se la morte di Federico lo avesse rinvigorito; come sentisse di essere stato risparmiato. Con Giacomo a seguirla dappresso, Helen si lascia accompagnare giù per due rampe di scale fino al piano seminterrato dell’ospedale, poi lungo un corridoio illuminato da neon ronzanti. I muri, pur passando dai reparti dei vivi alle celle frigorifere dei morti, restano del solito verdolino e beige. Giacomo non visita un obitorio da decenni ed è curioso di vedere come siano cambiati, sempre che lo siano; si tiene un passo dietro a Helen finché entrano in una stanza e si fermano davanti a un muro di porticine quadrate in acciaio inossidabile, simili ai loculi di un cimitero. Qui però, al posto della foto con le date di nascita e morte, c’è una tasca metallica con dentro un foglietto di carta; metà sepolcro, metà casellario. La burocrazia del morire. Giacomo non riesce a vedere Helen in faccia e gli va bene così, mentre l’addetto in camice verde e zoccoli ortopedici fa scattare la serratura ed estrae la lunga barella su cui giace Federico, racchiuso in un sacco di plastica. Poi l’uomo tira indietro la chiusura lampo e Giacomo fa un passo avanti, come a voler proteggere Helen, malgrado il suo primo impulso sia di quello di guardare il cadavere. Per un attimo gli salta in mente l’idea di un errore assurdo, per cui forse il morto non è Federico ma qualcun altro, e si rammenta che Helen in albergo ha formulato lo stesso pensiero; sembrano passate ore da quel momento. Poi si domanda se il disinganno, per lei, sia acuto come lo è per lui quando scorge il viso di Federico, senza più colore
72
CHARLES LAMBERT
e stranamente giovanile, spuntare dal sacco. No, di sicuro è più acuto, rettifica tra sé, loro due sono stati sposati per più di venticinque anni e sono ancora insieme dopo tutto quel che è successo, le delusioni e le bugie dell’una, i compromessi dell’altro; Helen è certamente distrutta. Giacomo guarda Federico, i capelli pettinati all’indietro, più radi rispetto a oltre trent’anni fa quando si sono conosciuti ma ancora senza un filo grigio, e gli occhi spalancati, di quell’azzurro freddo, quasi repulsivo, ma più penetrante che mai. E vede, come sempre in queste situazioni, l’assenza totale della persona e la presenza totale e annientante della morte, come se il corpo fisico fosse in realtà il ricettacolo di una sorta di fiamma vitale, di un’anima guizzante ed estinguibile. Forse vedremo tutti Dio un giorno, prima di morire. Aggrotta la fronte. Helen gli si accascia addosso, e lui le cinge la vita con un braccio e la stringe a sé, soprattutto per sostenerla; sembra sul punto di cadere. Finora è stata molto coraggiosa, e non può andare avanti così all’infinito: prima o poi dovrà pur crollare, avrà pur bisogno d’aiuto, e allora lui sarà lì. Quando l’addetto in camice verde ricomincia a far scorrere la cerniera verso il basso, volgendo lo sguardo alla parete come per vergogna o per una sensazione di complicità, e risulta evidente che Federico è nudo – ma è ovvio, nudo dev’essere – Helen emette un’esclamazione soffocata e si gira verso Giacomo, alzando il viso e puntando gli occhi, vacui e spalancati come quelli di Federico, dentro i suoi. Lui le posa una mano sulla nuca e le guida il capo contro la propria spalla. Avrebbe fatto qualunque cosa, capisce adesso, per risparmiarle tutto questo. Scuotendo il capo all’indirizzo dell’uomo in verde riaccompagna Helen, molle addosso a lui, dai poliziotti accanto alla porta. Ci sarà pure qualcuno più in alto di questi due, che sembrano ragazzini. Una volta mi faceva-
OCCASIONI DI MORTE
73
no paura, gli uomini in uniforme; adesso mi viene voglia di mandarli a casa dalla mamma. – Abbiamo visto abbastanza, – dice. Dieci minuti più tardi si ritrovano seduti insieme al tizio cui sembra li abbiano assegnati, pochi capelli, una faccetta magra e timorosa, stranamente male in arnese per un pubblico ufficiale: è il giudice incaricato del caso. Giacomo non è riuscito a coglierne il nome, ma lo sorprende che a Helen non tocchi qualcosa di meglio. Ha saputo del ricco sfoggio comunicativo da parte del guardasigilli sul luogo della sparatoria, e guarda qui ora questo poveraccio. Ha un’aria slavata e settentrionale, fatto confermato da una traccia di cadenza natia quando si mette a parlare. Ma non potevano mandarcene uno provvisto di scarpe decenti? Forse non è un giudice, manco per niente, pensa; questo puzza più di sbirro. Il tipo intanto fa una serie di domande a Helen, in un timbro smorzato e forse inteso a esprimerle solidarietà, il quale tuttavia sortisce l’effetto opposto. Lei si asciuga le lacrime con una mano, e con aria irritata dà uno sguardo circolare alla stanza, un ufficio sgomberato dei suoi normali occupanti. Poi dice a Giacomo, in inglese: – Questo mi tratta come una deficiente. Forse pensa che non capisca l’italiano. – Ma l’altro scuote immediatamente il capo. – Assolutamente no, signora Di Stasi, anzi mi perdoni, – dice, a sua volta in inglese, con un filo di voce dolente, o triste addirittura. Parla un inglese perfetto, con un accento non facilissimo da individuare, Giacomo ci mette un momento: del Sudafrica. – Le faccio le mie più sentite condoglianze. – Helen, con meraviglia di Giacomo, arrossisce per l’imbarazzo. L’interlocutore prosegue in inglese e comincia, con cauta insistenza, a interrogare Helen sui suoi movimenti della mattinata. Giacomo si accende una sigaretta e attende, curioso, di
74
CHARLES LAMBERT
sentire se lei dirà la verità. E perché non dovrebbe? Non ha fatto niente di male. Perché le vecchie abitudini sono dure a morire? Helen dice bugie da una vita, ne diceva a Federico, ne ha dette a me. E poi pensa, Ma santo cielo, cosa mi è venuto in mente di accettare quest’invito? Di tornare a Roma in questo modo, pubblicamente? Tanto valeva mettere un’inserzione su un giornale, Bersaglio facile nella capitale, centro garantito anche a tiratori mediocri. Perché ovviamente gli è passato per la testa un ulteriore, orrendo pensiero. Se quest’omicidio, per certi versi, fosse diretto a me? Se Federico rappresentasse solo un avvertimento? Quanti nemici ho ancora? – Ma è davvero necessario? Ho già spiegato tutto ai suoi colleghi, stamani. Qualcuno avrà pur preso appunti. – Poi Helen lancia un’occhiata di sbieco a Giacomo e fa un gesto con cui, lasciandolo attonito, sembra lo inviti a baciarla, due dita sottili a sfiorare le labbra; invece gli sta solo chiedendo una sigaretta. Lui gliela accende, attento al possibile effetto, sull’inquirente, di questo scorcio di intimità. Avrà fatto i compiti a casa, quest’ometto dal dozzinale completo grigio, convinto che le domande giuste produrranno le risposte giuste? Perché le risposte giuste ci sono, ci sono sempre; si tratta solo di sapere dove andare a cercarle. Quanto saprà, si chiede Giacomo mentre porge a Helen la sigaretta già accesa, quanto saprà su loro tre, anzi no, su loro quattro, perché poi c’era sempre Stefania, la cara, seria Stefania, e sui vecchi tempi di Torino, quando la politica era passione, l’unica cosa davvero importante. E sensuale, benché allora non se ne rendessero conto. O forse sì: forse lui e Helen sì. Stavolta però lei dovrebbe capire quand’è meglio dire la verità. L’ometto naturalmente non sa nulla, per ora. Di questo Giacomo è abbastanza sicuro. Helen dà un tiro alla sigaretta e poi cerca un posto dove posarla, già incerta su cosa fare con una sigaretta della quale non
OCCASIONI DI MORTE
75
ha davvero voglia. Lei aveva smesso prima di Federico, e perfino di Stefania; un feticcio tutto anglosassone per il benessere, aveva pensato Giacomo ai tempi, e adesso eccolo qui con il fiato di Yvonne sempre sul collo e la sensazione di essere costantemente perseguitato dai fascisti dell’aria pulita, e proprio in Francia per giunta. Grazie al cielo ancora non lo lasciano entrare negli Stati Uniti, è decisamente un vantaggio. Il magistrato sospinge sulla scrivania un posacenere grosso come un piatto – Giacomo non è mai stato in un ospedale italiano privo di una bella scorta di posacenere – e tossicchia discretamente come a dire, sottopelle siamo tutti uguali, siamo uomini, ci capiamo; e Giacomo lo guarda con inattesa ammirazione. In un certo senso è vero: avremo la stessa età, anno più anno meno, probabilmente abbiamo più cose in comune di quel che possiamo pensare, abbiamo attraversato gli stessi momenti, gli stessi sapori e le stesse paure, mica come quei due giovanotti in corridoio che non sanno niente. Ha ragione lui, ci capiamo, non è sempre così? Guardie e ladri. Helen spegne la sigaretta a malapena iniziata, esala una voluta di fumo, prosegue: – Ho salutato mio marito alla macchina, dove ci salutiamo sempre. Lui è partito – cioè, l’autista è partito, ovviamente – e io sono entrata nel bar dove vado sempre, quello all’angolo, non so come si chiami, non ho mai letto l’insegna, e ho preso un cappuccino e un, no, nient’altro: un cappuccino. Ho scambiato due parole con la titolare, due di numero, non ricordo a proposito di cosa... Usa il tono distaccato, per non dire sbrigativo, di chi è stato tormentato oltre ogni sopportazione, e in altre circostanze passerebbe per un’insolente; ma qui, in questo ufficio ospedaliero che si va man mano riempiendo di fumo, la sua voce denota qualcos’altro, una spossatezza a cui lei ha diritto più di chiunque altro. – Poi sono stata alla biblioteca americana, sta a due
76
CHARLES LAMBERT
passi da dove abitiamo. Volevo lavorare un po’ alla tesi. Sto prendendo una seconda laurea, soprattutto per passare il tempo. È stata un’idea di mio marito. Si interrompe e assume un’aria perplessa, come se pensasse, Perché gli sto dicendo tutte queste cose? Gliene importa qualcosa? O magari, Cosa ci faccio io qui? Sta succedendo davvero? Il suo interlocutore si volta, per delicatezza, e si mette a fissare il muro; Giacomo ne resta nuovamente impressionato. Ma dopo un istante e una lieve alzata di spalle, Helen riprende: – Ci sono rimasta per un po’ ma senza guardare l’orologio, forse venti minuti, mezz’ora. – Sospira. – Avevo un principio di emicrania, ho pensato che una camminata potesse farmi bene, perciò sono uscita dalla biblioteca e ho deciso di fare un giro in centro, di guardare qualche vetrina, per vedere se mi passava. Camminare mi aiuta, di solito. In ufficio non mi aspettavano fino a mezzogiorno, sa com’è... Tutto a un tratto il tono è cambiato, si è fatto mellifluo, quell’assurdo e superfluo “sa com’è” l’ha tradita: tutto a un tratto, Helen vuol essere creduta. Ma santo cielo, perché non ha detto la verità fin da subito? Giacomo non riusciva a crederci quando lei gliel’ha riferito, andando verso l’obitorio. Ho fatto una fesseria, ha detto. Ma tu reggimi il gioco, eh? In nome dei vecchi tempi. A quanto pare se n’è accorto pure l’uomo di fronte a lei, perché si accomoda sullo schienale della sedia con modi trasparenti quanto quelli di lei, e rimette il cappuccio alla penna. Servizi segreti, pensa Giacomo. E ora sono implicato anch’io, vaffanculo. – Lei è sicuramente stanca, signora Di Stasi, – dice l’inquirente senza dare a Giacomo il tempo d’intervenire. – Ora do istruzione di farla riaccompagnare a casa. – Apre un cassetto ed estrae un biglietto da visita, poi lo porge a Helen. – Mi rifarò vivo senz’altro, ma se lei volesse parlare di nuovo con me...
OCCASIONI DI MORTE
77
– Ti porto a casa io, – dice Giacomo mentre lei si mette il bigliettino in tasca. L’altro, però, scuote il capo. – Credo sia più opportuno che lei torni in albergo, dottor Mura. Giacomo, offeso, si volta per guardarlo in faccia. – Chiedo scusa? L’uomo si stringe nelle spalle. – Naturalmente lei è libero di fare come preferisce. Solo, mi permettevo di darle un consiglio. – Chiedo scusa? – insiste Giacomo. – Mi è sfuggito il suo nome. – Il signore ha ragione, – dice Helen. – Tu hai fatto già abbastanza. – Giacomo non capisce se lei lo sta ringraziando o liquidando, ma soffoca comunque il proprio risentimento. – Allora ti chiamo più tardi. – No, lascia perdere, – fa lei, ancora distante, ma con una bizzarra insistenza. – Tanto non mi troveresti, stacco il telefono. – Se proprio preferisci così, – dice lui. Le apre la porta, poi si fa da parte per lasciarla passare, ma lei gli prende la mano e lui la sente tremare. – Se sei sicura. – Ti chiamo io, – dice lei. – Più tardi, promesso. Poi, al volume necessario a escludere l’altro uomo, aggiunge: – Ti devo parlare, ma non so ancora dove. – Giacomo fa sì con la testa e le stringe la mano prima di lasciarla andare.
9
Casa vuota. Lentamente Helen si porta le mani al viso e le tiene lì ferme un attimo, pelle contro pelle, palmi contro guance, come ad accertarsi di essere davvero chi è, e non una qualsiasi altra donna a cui hanno ammazzato il marito. Per rientrare si è fatta le scale di corsa, inseguita da nulla se non l’orrore crescente per il mondo esterno, le auto, le luci, l’urtante intimità delle pretese terrene. Davanti all’ospedale, mentre una mano maschile le guidava la testa abbassata dentro l’auto, alzando la voce sulle altre qualcuno ha gridato “bravo Federico”, e lei ha sussultato ma non si è voltata. È rimasta seduta in auto con la schiena diritta e la poliziotta di stamani seduta accanto, a tenerle il braccio come avrebbe potuto fare un’amica, anche se lei non la vedeva come un’amica e avrebbe di gran lunga preferito non averla lì. Oggi ho risposto a troppe domande, pensava. Presto sarò a casa. Una parte di lei ha atteso di essere sola per quasi sette ore e adesso, la schiena contro la porta d’ingresso, Helen chiude gli occhi e si ascolta respirare come se non ci fosse più nulla da fare, come se – finalmente – ogni suo bisogno fosse stato esaudito. Si toglie le scarpe, il parquet a terra è liscio e tiepido sotto le piante dei piedi. Il primo pensiero sarebbe di farsi una doccia, ma si sente troppo stanca, a stento riesce a raggiungere il divano in fondo alla stanza prima di crollare. Afferra un cuscino e si mette in un angolo, le gambe ripiegate sotto il corpo, temendo di addormentarsi quando c’è ancora troppo da fare. Eppure non sa da dove iniziare, in testa ha una tabula rasa, tal-
OCCASIONI DI MORTE
79
mente vuota da farle provare di colpo un senso di panico, come se davvero qualcuno la stesse spazzando via. Lo squillo del telefono fisso all’altro capo della stanza la sorprende al punto che si morde la lingua. Con il sapore del sangue in bocca Helen prende la chiamata e sente una voce femminile a lei sconosciuta ripetere il suo nome in tono insistente, intimidatorio. Molla la cornetta, non al suo posto sul telefono bensì sopra il blocchetto degli appunti, accanto a un numero e a una data scritti da Federico, e a un disegnino. La voce prosegue imperterrita, il ronzio furibondo di un insetto intrappolato sotto un bicchiere. Il nome e la preghiera di una risposta, una preghiera al tempo stesso, così pare a Helen, simile a una minaccia. Sono le sette di sera: tra poco c’è il telegiornale, ora verranno a saperlo tutti. Amici e altri. Qualcuno, le viene in mente, sarà contento. Prende il blocchetto da sotto la cornetta e fissa il disegnino, un fiore dentro un vaso: Federico deve averlo fatto il giorno prima. Lei cosa faceva, mentre lui disegnava? E con chi parlava lui? Qualcuno di sua conoscenza? Il numero non lo riconosce, la data è della settimana prossima, il martedì successivo, sette giorni da oggi. Il disegnino si offusca e alla fine, con la mano un po’ tremante, Helen lo posa. E ora cosa faccio, si domanda. Ricomincia a piangere, a lacrime facili e lente. Nemmeno a casa è al sicuro; ha la sensazione di essere braccata da bestie selvagge, come se oltre la porta non ci fosse più il vestibolo familiare, le scale consunte, gli ombrelli chiusi in attesa della pioggia; come se si fosse staccata da tutto questo. Il mondo le sembra ignoto e ostile. Dovrebbe sentirsi tranquilla qui dentro, nel suo salotto, circondata da tutti gli oggetti scelti insieme, e invece com’è vuota la casa senza di lui, com’è silenziosa e indifferente. Sebbene lui a quest’ora non ci fosse mai, a casa. Lui non torna mai prima delle nove, lavora troppo. Di solito, quell’espressione orrenda. Helen accen-
80
CHARLES LAMBERT
de la televisione e si prepara uno spuntino, le olive della madre di Massimo, una manciata di anacardi; si versa un bicchiere di vino oppure una birra e si siede sul divano per vedere il telegiornale. Aspetta Federico. Di solito. Ma stasera non ha fame e non vuole versarsi da bere. Ha paura, se comincia, di non fermarsi più, perché di solito è il pensiero di farsi trovare ubriaca da Federico a fermarla dopo i primi due bicchieri. Ora non sarà più così, ma lei non riesce a crederci. Seduta in macchina, mentre veniva qui, pensava di chiamare Giacomo non appena arrivata, e chiedergli di raggiungerla. Ora però, sola nella sua casa di moglie, capisce che più di ogni altra cosa al mondo vorrebbe parlare non con Giacomo ma con Federico, e non potrà; capisce, come per la prima volta nel corso della giornata, che con Federico non potrà parlare mai più. Ma adesso è peggio. Fino a questo momento una voce dentro di lei le ripeteva, Lui torna, è via per lavoro ma poi torna, lui torna sempre. Ora quella voce si è zittita e Helen sente una vampa di rabbia e di dolore, tanto forte da mozzarle il fiato. Chi è stato a farmi questo? A farci questo? Guarda il telefono, il quale ha preso a fare un rumorino bizzarro, poi rimette a posto la cornetta. Lo squillo ricomincia all’istante. Helen risponde ed è Giulia, la madre di Federico. – Ti sto cercando da ore, – scatta immediatamente. – Hai il cellulare spento. – Scusa, Giulia, non lo sopportavo più. – Nel parlare Helen si sente di nuovo il sangue in bocca. – I giornalisti mi stavano addosso. – Sei appena arrivata? – Da dieci minuti. Alla fine mi hanno riaccompagnato quelli della polizia. Ho passato il pomeriggio in ospedale. Ho dovuto fare il riconoscimento, Giulia. – Tremendo. Non sarai ancora con quel Mura, spero?
OCCASIONI DI MORTE
81
– Ci siamo lasciati all’ospedale. Mi ha aiutato tantissimo. – Potevano chiederlo a me. – Sua suocera si interrompe. – A proposito, ha chiamato il presidente. Deve parlare con te. – A che proposito? – Per un istante Helen si domanda di chi stia parlando. Il presidente di cosa? – Fede era una figura importantissima, soprattutto in questo momento. – La voce di Giulia è colma d’orgoglio. E ora Helen capisce cosa succederà, almeno per sua madre: Federico diventerà un eroe, e poi un martire. Forse sta già succedendo. E lei riesce a trattenersi, appena in tempo, dal pronunciare le parole: Non è ancora morto. Senza posare il telefono si allunga per prendere il telecomando e accende la televisione per vedere un residuo di telegiornale, con l’audio spento. Giulia, sempre con un sottotono offeso nella voce, continua a parlare di Federico e dei suoi successi, ma adesso Helen sta vedendo sé stessa e Giacomo: salgono insieme su un’auto, e lei ha un sorriso in volto che non ricordava, e poi segue un’occhiata di complicità fra loro, ad accusarli entrambi. E ci sono altre immagini di Giacomo, a una manifestazione in Francia, e lui tiene un braccio attorno alle spalle del tizio coi baffi responsabile di un attentato dinamitardo in un McDonald’s, e poi una foto di lui moltissimi anni prima, quella della sua prima patente di guida, quella usata da tutti i giornali quando era latitante. Inorridita, tenta di dire a Giulia che ha mal di testa e non può più stare al telefono, ma la suocera non molla perché, sostiene, Fausto deve dirle qualcosa di importante. Helen si aspetta di sentire il suocero in lacrime, e pure a lei tremano le labbra. Finora lui non è riuscito a parlarle. E prima di poter rispondere, o schermirsi, ecco Fausto all’altro capo del filo. – Accendi la televisione, – le dice, e gli si spezza la voce. – Lo so, sto guardando. – Ma cosa diavolo ti è saltato in mente? – Aveva ragione, lui
82
CHARLES LAMBERT
sta per piangere. – Quale pensavi sarebbe stata la reazione, eh? Proprio oggi, proprio il giorno... – Si interrompe. – Fra tutti, proprio Giacomo Mura. Quella cosa tremenda se l’erano dimenticata tutti, e invece adesso... adesso che Fede... Il notiziario va avanti, la faccia sbiancata di un Giacomo con la barba viene rimpiazzata da calciatori in allenamento, poi dalle nozze di una coppia intravista sui giornali scandalistici. – Io davvero non capisco. – Helen l’ha interrotto, e a lei pure si spezza la voce. – Perché sono tutti arrabbiati con me? – Ne riparliamo domani, – dice Fausto. – Sì, – concorda lei. – Sarà meglio. Ci sentiamo domani. – Sente la voce di Giulia in sottofondo, poi Fausto che dice di sì. Mette giù il telefono, lasciando la cornetta staccata, e alza gli occhi al cielo. – Oddio, Federico, – sbotta a voce alta, e il tono è sorprendentemente forte, come se lo stesse chiamando da un’altra stanza. – Aiutami a superare questa cosa senza di te. Poi va in cucina, prende una bottiglia di vino dal frigo e torna a sedersi davanti al televisore, ancora senza audio, per bersela tutta.
SECONDA PARTE
1
Roma, mercoledì 2 giugno 2004 Helen si sveglia alle sei con la testa che scoppia. Dopo ore di agitato dormiveglia, il lenzuolo gettato via per il sudore e poi ripreso, ha fatto un sogno in cui lei e Federico si trovavano su un treno in corsa per le campagne intorno a Torino: case e colline basse, le montagne alle spalle, i bei boschi verdi. Rimane coricata dov’è, gli occhi ancora chiusi, la tempia premuta contro il guanciale, e lotta per ricordare quel che ha visto, come sempre, nell’interregno fra il sonno e la veglia. Per un istante, assorta nello sforzo di rammentare il sogno, è tranquilla e addirittura felice, nonostante il mal di testa sordo ma insistente; racconterà a Federico quel che ha visto, come sempre, quando lui esce dal bagno con lo spazzolino in mano. E poi, in un’ondata di vuoto, quasi a riempirla dentro, a soffocarla, si rende conto di dov’è lui. Apre gli occhi, il sogno spazzato via, e si sente gemere. Tende una mano verso il guanciale di lui, per accarezzarlo ma anche per controllare, perché non può essere vero. Quanto lei sa essere vero non può essere vero. Rimane coricata dov’è, sola dal suo lato del letto, e pensa, non mi alzerò mai più. Come faccio? Tre ore dopo sospira sentendo la voce di Fausto, attutita e incalzante, al citofono. Non si è ancora vestita; dopo essersi svegliata e ricordata, chissà come si è riaddormentata, e poi risvegliata, e ricordata di nuovo. Quando è suonato il citofono era sul punto di chiamare Giacomo, seduta col cellulare in mano e
86
CHARLES LAMBERT
il nome di lui a guardarla dal display, impaurita da quel che avrebbe potuto dire. Sta davanti alla porta aperta con addosso il vecchio accappatoio di Federico e sente il suocero rallentare il passo man mano che si avvicina al loro piano finché, all’angolo dell’ultimo pianerottolo, fa uno scatto e quasi corre sugli ultimi scalini ad abbracciarla. Ha con sé una borsa da ufficio. Scoppia a piangere e lo stesso fa lei, sentendosi colmare di riconoscenza perché di questo ha bisogno, di qualcuno la cui sofferenza sia semplice e visibile come dovrebbe essere la sua. Stringe il suocero a sé, una mano sulla nuca e la bocca premuta contro gli ispidi capelli grigi. Rimangono così sulla soglia, con la borsa presa nel mezzo, finché Fausto allontana delicatamente la nuora e la riaccompagna in casa. Poi si chiude la porta alle spalle e posa la borsa a terra, piegandosi con un sospiro. – Qui sotto c’è gente, giornalisti, ancora non moltissimi. Nei prossimi giorni si daranno il cambio nel tormentarci, mi sa. Tutti quanti con quei registratorini, come se carta e penna non fossero mai esistite. C’è pure gente della tivù. Polizia zero, invece. Un minimo di protezione, s’immagina uno... Ma forse sono tutti alla parata. – Quale parata? – Non ti ricordi? Ma certo, ovvio. Stamattina c’è la parata militare per la festa della Repubblica. Non hai sentito gli elicotteri? È pieno. Federico avrà avuto l’invito e magari nemmeno l’ha detto, in queste ultime settimane era molto preso. – Tanto non ci va mai, a questo tipo di cose. – Io ci sarei dovuto andare, – dice Fausto. – Secondo Giulia dovevamo andarci tutti, voi due compresi. Mostrare un fronte unito, a sentire lei. Contro cosa, non saprei: magari lo sapessi. Certe volte si è costretti a circondarsi di compagnie più sgradevoli di quella del nemico. Ma naturalmente Giulia non la
OCCASIONI DI MORTE
87
pensa così. – Scuote la testa. – Infatti lei c’è andata. – Si passa una mano tra i capelli. – Io l’avrei voluta con me, qui con me. Certe volte proprio non la capisco. Non volevo andasse alla parata, ma lei ha insistito. Qualcuno deve pur metterci la faccia, ha detto. Per lei è sempre tutto chiarissimo, perfino oggi, sa sempre qual è il suo dovere. – Si corruccia in volto, e Helen pensa stia per mettersi di nuovo a piangere. – No, ti prego, – gli dice posandogli per un istante la mano sul braccio. – Faccio il caffè. – Si volta per andare in cucina, pensando che lui la seguirà; ma Fausto si porta una mano al cuore. – Cara, per me no. – Tè, allora? Credo di avere del tè verde, per il cuore va bene. – No, lascia stare. – Ha un tono distratto, ma non per il dolore. Si sta fissando i piedi. – Quella borsa è di Federico, vero? – dice Helen, con le due metà umide della caffettiera in mano. Lui pare non sentirla. Si è spostato in fondo alla stanza e si è seduto sulla sedia girevole che usano per lavorare al computer. Lei ripete la domanda. – Sì, – dice lui dopo un istante. – È la custodia del suo portatile. Se l’è scordato ieri. – Si sfrega la fronte. – No, non ieri. L’altro ieri. – Non sapevo vi foste visti. Pensavo fosse stato in ufficio tutto il giorno. Al ministero, cioè. Non mi ha detto di averti visto. – Ah, no? – dice Fausto. – Federico non mi raccontava tutto, – risponde lei. Ci è rimasta male, ma non vuol dare a vedere quanto. – Stavamo lavorando per il convegno, lui preferiva non farlo quand’era al ministero. Era un’idea sua, nessun rapporto con il suo dipartimento. Nelle ultime settimane me l’avrà detto mille volte, che se era ancora sano di mente lo doveva solo al convegno.
88
CHARLES LAMBERT
– Come, sano di mente? – Lo sai, negli ultimi tempi l’atmosfera era pesante. Al ministero, intendo. Lo avevano caricato troppo. – Il tono è di rimprovero. Helen vorrebbe poter dire Sì, certo, lo so, ma in effetti non lo sa. Fino a un momento fa non sapeva nulla dei rischi per la salute mentale del marito e non riesce a capire perché nessuno si sia confidato con lei, Federico per primo; meno ancora, che abbia deciso di parlarne a suo padre. – Voleva discutere con noi di un documento a cui stava lavorando. Riguardava l’apertura dei lavori. – Con noi chi? – Con sua madre, Helen, e con me. – Come a dire: con chi altro, scusa? Fausto spinge via la sedia dalla scrivania con tutte e due le mani, in un gesto insofferente. Quando si ferma, i piedi quasi non toccano terra. Con un gemito di dolore, stirandosi i muscoli della schiena, torna da Helen e le prende dalle mani le due metà della caffettiera. Lei sussulta, come se si fosse scordata di averle ancora in mano, poi lo guarda mentre le risciacqua un’altra volta sotto il rubinetto. – Ci penso io, – gli dice, ma lui la zittisce con un gesto. Allora tacciono entrambi, neanche l’operazione caffè bastasse e avanzasse a distrarli. Quando Fausto torna a guardarla in faccia, il caffè sta venendo su. – Io non volevo dirtelo, ma se non lo faccio io lo farà Giulia, e allora penso sia meglio tu lo senta da me. Il presidente del Consiglio sta cercando di convincere Bush a prolungare la visita di un giorno, in modo da essere presente alle esequie. – Io non ce lo voglio, Bush, alle esequie, – dice Helen. – Fede lo disprezzava, non se ne parla nemmeno. Quali esequie, tra l’altro? Io non sono ancora riuscita a rivolgerci un pensiero. Perché nessuno mi ha chiesto niente? – Ci saranno pressioni, però. Per un funerale di Stato. – Fau-
OCCASIONI DI MORTE
89
sto esita. – A Giulia non dispiacerebbe affatto. Sta affrontando tutto con molto coraggio. Conoscendola, non mi sorprende, naturalmente. Non so proprio come regga all’idea di essere andata a questa cosa di stamattina, di trovarsi lì con tutti che la guardano per vedere come sta reagendo. – Federico non avrebbe mai accettato, – dice Helen con un fremito d’orrore. – Non so cosa le sia saltato in mente. – Adesso la vede, la suocera, il volto tirato e il tailleur di gran classe, i capelli stretti nello chignon eletto dalle ballerine in pensione per ostentare il collo, rigida come un palo mentre le truppe le sfilano davanti, troppo orgogliosa per mostrare emozione per la morte dell’unico figlio. Si starà già facendo tutto un film del funerale, pensa Helen in preda a una specie di furore. Federico, sano di mente? Quando il caffè trabocca e finisce sul fornello, scansa da parte Fausto per spegnere il fuoco. Prende uno strofinaccio e poi rimane lì, con la pezza in mano e la rabbia improvvisamente rivolta verso di lui, che si fa trascinare, che le ha dato quest’altra notizia su Federico. Vorrebbe dirgli di andarsene, ma non sa come fare. Lui le prende il canovaccio e poi le stringe la mano, più forte di quanto lei apprezzi, in una rigida morsa ossuta, ma lei non si ritrae. Con la stessa rapidità, e del tutto insensatamente, si sente colmare d’affetto per questo vecchio ansioso che ha perso il figlio e si trova qui con lei in questa stanza, con questo legame e questa barriera tra loro. Tu sai più di quel che mi hai detto, vorrebbe dirgli, Federico parlava sempre prima con te e poi con me, almeno di queste cose. Si lascia tenere finché lui allenta la presa, poi toglie con la massima delicatezza la mano dalla sua e lo abbraccia un’altra volta. – Con me puoi piangere, – gli dice, – mi serve, uno con cui piangere. – Gli preme la testa contro il collo, sfiorandone i ca-
90
CHARLES LAMBERT
pelli con le labbra. Con Giulia invece, pensa Helen, con la campionessa di coraggio non si può. Ditemi se questo è un matrimonio. Assapora un istante di trionfo; poi si chiede un istante cosa significhi, la parola matrimonio. Alle undici Helen è lavata, vestita e sola. Cerca nel frigo qualcosa da mangiare, perché si sente obbligata a mangiare; però trova solo una crosta di parmigiano e un sacchetto di carta avana con dentro tre pomodori ciliegini. Era compito suo fare la spesa ieri, compito suo comprare gli affettati, l’insalata e i carciofi per cena, e la frutta e la pizza bianca da mangiare con lo Stilton, ovunque sia finito: in un frigorifero d’acciaio inox della Scientifica, o dimenticato dentro una busta di plastica in chissà quale ufficio, dove comincia a puzzare. O magari è ancora in negozio, perché lei non sa ancora in quale istante hanno sparato a Federico, se quando entrava o quando usciva. Helen non sa ancora cos’è successo, o non nei particolari. Non sa ancora com’è morto, quanto ci ha messo l’ambulanza ad arrivare, quante volte lui avrà certamente chiesto di lei domandandosi dove fosse. Nessuno le ha detto niente dei suoi ultimi momenti all’ospedale, se fosse cosciente o meno, consapevole di esser stato lasciato a morire da solo. Cerca di immaginare la sensazione di sapere che stai per morire, la mano a premere forte sul foro d’entrata del proiettile per fermare il sangue, la guancia contro la segatura sul pavimento del negozio e sotto quella le mattonelle lisce. L’ultima sensazione il freddo del marmo, l’odore del formaggio, le urla man mano più fievoli finché ti senti tirar su e sballottare nuovamente in vita mentre ti caricano sull’ambulanza e poi senti la sirena, che si muove con te ed è lì per te. Non sa bene perché provi a immaginarsi tutto questo; forse per farsi più male possibile. – Darei qualunque cosa perché non fosse successo, – dice ad alta voce, e la sua stes-
OCCASIONI DI MORTE
91
sa voce le sembra estranea nella stanza silenziosa; poi attende, come se dovessero risponderle, come se dovessero prendere per buona la sua affermazione. Come se Federico potesse chiederle di Giacomo e lei non sapesse cosa dirgli. Alla fine chiude lo sportello del frigo e scova in un armadietto un mezzo pacco di biscotti, lievemente raffermi. Si fa un tè leggero all’italiana, senza latte né limone, per intingerli. Una volta mangiati i biscotti rimane a sedere con i gomiti poggiati sul piano di cucina, la tazza stretta fra le mani, e lascia vagare lo sguardo per la stanza: il pianoforte, i quadri che ha comprato e appeso, i libri nuovi impilati sopra il cassettone di legno verniciato; più vicino invece, nello spazio di cucina, una treccia d’aglio, la lavagnetta con la fila di chiavi appese e l’ultima parola scritta da Federico, OLIVE, scarabocchiata solo un attimo prima di uscire di casa; lei le avrebbe certo dimenticate, pensa ora, e lui si sarebbe stizzito e l’avrebbe mandata fuori a cercarle. Lo sguardo finisce col posarsi sul coltellino col manico d’osso di Federico, il suo preferito. Quante volte ha invidiato l’abilità con cui lo usa per affettare zucchine, aprire confezioni, schiacciare l’aglio; ce l’ha da quando lo conosce, da quand’erano insieme a Cambridge. Lo prende in mano con il filo della lama rivolto contro il palmo e poi più su, all’altezza del polso. Sta pensando, come spesso le capita con i coltelli, “basterebbe un minimo di pressione”, benché non abbia mai seriamente pensato di togliersi la vita; si è limitata a domandarsi che effetto farebbe volerlo, e poi farlo. Non ci è mai andata così vicino come ora, le viene in mente; il suicidio dev’essere una specie di stordimento. Anni fa una sua amica, convinta sostenitrice di spiritismo e divinazione, le ha raccontato che nel medioevo un palmo di mano con sopra un’unica linea, a riunire quella della testa e quella del cuore, bastava a condannare un uomo per omicidio. La mano non mente, diceva, e spesso He-
92
CHARLES LAMBERT
len osserva i palmi altrui in cerca di quell’unica linea, ma l’ha vista una volta sola, sulla mano di un mendicante per strada; e in quell’occasione fece un salto indietro, sconcertata, nemmeno avesse visto un fantasma. Magari bastasse quello, pensa ora, a individuare un assassino; una bella mostra di mani per vedere chi è il colpevole. Come quando a scuola dopo l’adunata ci facevano alzare le mani per vedere se erano tutte lavate: file di ragazzine con le braccia tese, i palmi all’insù e le maniche arrotolate fino al gomito, in attesa di vedere quale di noi sarebbe stata presa per i polsi e trascinata in bagno. Quando squilla il citofono Helen sussulta per la sorpresa e si fa un taglietto sul polso con la lama del coltellino; se lo porta alla bocca per leccare via il sangue mentre va a rispondere. L’ultima parola scritta da Federico in vita era OLIVE: noi non restiamo mai senza olive, pensa lei, devo comprare le olive, poi scaccia il pensiero perché è troppo doloroso. Forse stavolta sarà gente che ha voglia di vedere e non un giornalista, e li farà salire. Prende la cornetta del citofono; lì a terra, ai suoi piedi, come a volerla provocare, c’è il portatile di Federico nella sua linda custodia nera.
2
Giacomo viene svegliato alle sette dal rumore del traffico e dal rombo degli elicotteri in cielo. Alza la testa dal cuscino e vede Yvonne davanti alla finestra aperta, lo sguardo puntato di sotto, su via Veneto. Lei indossa una vestaglietta chiara e trasparente, mai vista prima, che a malapena le copre il sedere, e lui ha un fremito d’eccitazione finché, con una sensazione non lontana dal panico, gli torna in mente Federico, il suo migliore amico, ucciso a colpi di pistola e adesso cadavere in un ospedale a meno di due chilometri dal suo albergo. E siccome non sopporta il pensiero di Federico sdraiato di fronte a lui su una barella d’acciaio, sotto un telo di plastica, si ributta giù e si lascia percorrere nuovamente dalle immagini dei notiziari della sera precedente. Tra uno speciale di qui e un’edizione flash di là è rimasto alzato fino alle due, sebbene non ci fossero novità da riferire. Ma i commenti sono a modo loro notizie, anzi ne prendono il posto, e tutto a un tratto i fatti cessano di esistere e se ne vede solo il riverbero. Non male come idea, pensa, di colpo rallegrato, e sta per annotarsela sul taccuino quando Yvonne si gira verso di lui, e lui le vede i piccoli seni sotto il tessuto fluido e le sussurra di avvicinarsi, con quel tono rauco da primo mattino. Lei fa no con la testa. – Chi sei? – gli dice quindi, con un broncio che potrebbe essere autentico oppure giocoso; lui non è sicuro perché non la conosce abbastanza. – Chiedo scusa? – La sera prima ha cercato di trattenerla con sé davanti alla tivù, in modo da farle capire di cosa si stes-
94
CHARLES LAMBERT
se parlando: di Federico ma non solo adesso, anche allora. E non solo di Federico, ma di tutti loro. Strati di verità e bugie talmente ben miscelati da diventare del tutto indistinguibili. – Guarda, – le diceva, e intanto pensava “Dovrai pur imparare un po’ d’italiano prima o poi, dovrai fare lo sforzo”, se non altro per lui, che non può passare il resto della vita a farle da interprete. Ma lei si era girata dall’altra parte, dormiva o faceva finta, il risultato era lo stesso. – Cosa dicevano di te ieri alla tivù? – gli chiede ora. – C’erano le tue foto e facevano continuamente il tuo nome. Giacomo Mura di qua e Giacomo Mura di là. Li ho sentiti, l’avranno ripetuto cento volte, come se avessero ammazzato te invece del tuo amico. Se poi era tuo amico. – Ti ho già spiegato tutto. – Lui ha solo voglia di riaverla nel letto. Si mette a sedere scostando il lenzuolo per scoprirsi i fianchi, e allunga un braccio a prenderla per la vestaglietta. Ma lei si allontana con un pigolio sdegnoso. – Non so se mi va di fare l’amore con te, – dice, e lui si accorge della propria totale incapacità di interpretarne i toni. Sta civettando? Lo respinge? – Sapendo adesso che razza di cattivo sei stato. Perfido e violento. – Helen non se n’è mai preoccupata, pensa lui, dei nomi in codice, dei sotterfugi. Si esaltava perfino nei momenti più noiosi, tipo le lungaggini dei film a cui assistevano con tanta passione, grattacieli, uomini addormentati, cestelli di lavatrici in muta e silenziosa rotazione, la noia avvincente delle azioni ripetute all’infinito. Lei una volta lo seguì, da un capo all’altro di Torino, pensando che lui non l’avesse vista, guizzando di portone in portone come in un noir da quattro soldi; lui se la portò a spasso per bene, ma Helen se l’era cercata. Chissà se lo ricorda ancora, oppure ha preferito dimenticare la violenza e l’euforia di quei tempi, come se il mondo potesse effettivamente cambiare per mano loro. Era il
OCCASIONI DI MORTE
95
periodo in cui lei gli aveva riferito una frase sentita a Cambridge: A crank is a little thing that makes revolutions. Lui lì per lì non aveva capito: se giri una manovella parte una rivoluzione, e allora? Ma poi Helen si era spiegata, crank significava pure “matto”, e allora lui s’era innamorato della citazione e la ripeteva incessantemente, convinto della sua verità, convinto che la follia, la sua personale o quella di tutti, tutti quanti loro, avrebbe cambiato il mondo. Un folle a girare la manovella, o cento, o centomila. Forse lo pensa ancora; è solo la sua idea di follia a essere cambiata. Adesso, quando pensa al potere, vede solo un borioso demagogo in doppiopetto col suo seguito di imbecilli, e si domanda cosa muova lui e gli altri come lui, sparsi per tutti i palazzi del mondo. Follia, pure questa? E se invece non lo è, la follia sarà davvero meglio? Dieci minuti dopo, seduto sulla tazza mentre Yvonne, canticchiando, si trucca in camera, con un misto di schifo e soddisfazione Giacomo legge un articolo sulla copia di giornata del “Foglio”: parla di lui. L’autore è uno che ricorda non con il suo vero nome, Adriano Testa, bensì col nomignolo di “Criceto”, inavvertitamente fornito dalla sua ragazza di allora. In quei termini ne aveva parlato lei una mattina, riferendosi agli attributi del fidanzato, benché il titolare ne fosse ovviamente ignaro. E lei, come si chiamava? Anna Qualcosa. Mortificatissima quando poi se n’era accorta, ricorda Giacomo ora, divertito. Dai, non potete chiamarlo così, aveva detto. Se ne accorge. Quant’è ingenua questa, si era detto lui ai tempi. Certo adesso varrebbe la pena di raccontarglielo, a quel tronfio pezzo di merda. L’articolo, va detto, non è male. Gran parte dei fatti citati rispondono all’incirca a verità, per come lui la ricorda. I sei mesi trascorsi senza processo a San Vittore dopo la morte di Mo-
96
CHARLES LAMBERT
ro, seguiti dal rilascio per mancanza di prove; la pubblica campagna contro le leggi speciali antiterrorismo, basata proprio sul suo caso personale; nuove inimicizie, eccetera. Un elenco dei potenti odierni con passato analogo al suo. Il successivo arresto come mente dietro una serie di rapine in banca, assalti a furgoni portavalori ed effrazioni con movente ideologico. Senza sporcarsi le mani di sangue, senza sparare incautamente, senza fare morti. Nessuno lo ha mai direttamente accusato di omicidio, ma d’altro canto perché rubavano i soldi, se non per le armi? E a cosa servivano le armi, se non per uccidere? Il processo, le dichiarazioni, i proclami, il silenzio. La condanna a otto anni, aumentata in corte d’appello. L’elezione alla Camera con i radicali, il rilascio per entrare in Parlamento. Il Criceto fa sembrare il tutto una specie di gioco dell’oca, però con dolo, come se sotto la superficie si nascondesse qualcosa d’infinitamente orrendo. La revoca dell’immunità, ma a quel punto lui si era dimesso e trasferito in Francia, a farsi la fama dell’uomo investito di una missione intellettuale. Infine, l’allora presidente della Repubblica convinto dalle pressioni dell’opinione pubblica (cioè da una manciata di giornalisti tra cui il padre di Federico) a concedere la grazia; e adesso, l’enfant terrible sul viale del tramonto parigino. Giacomo si mette più comodo sul cesso e scorre il pezzo un’altra volta. Nulla si afferma esplicitamente, tutto si implica, con le foto a fare la loro parte nell’effetto generale: accanto a quella classica di Aldo Moro con il giornale in mano e la stella delle Brigate Rosse dietro le spalle, ce n’è una di Giacomo ritto sotto a uno striscione con la stessa rozza stella a cinque punte, il basco alla Che Guevara impeccabilmente inclinato a sinistra e la mano destra alzata a fare il pugno chiuso. Meschino, ma efficace. E non basta ancora. Giacomo che sogghigna in tribunale dietro le sbarre della gabbia, come una bestia incatenata. Giacomo che entra a Montecitorio
OCCASIONI DI MORTE
97
per occupare lo scranno, col medesimo ghigno beffardo e un abito preso a prestito – da Federico? Non se lo ricorda – e non proprio della sua taglia, troppo attillato sul torace; sta già mettendo su peso, agli albori della sua dolce vita. E infine rieccolo più maturo, lindo e agiato insieme a François Mitterrand, in una foto scelta per pura malevolenza: per chissà quale fatalità fisiognomica i due, completamente soli, si sorridono trasognati come se avessero appena finito di scopare. E gli altri dove sono finiti? Magie del bianchetto o del fotoritocco? E chi è stato? Si vede, però, la vecchia scuola stalinista. Tutto sommato, pensa Giacomo, una competentissima stroncatura, niente di diffamatorio, niente per cui valga la pena di mettere in mezzo avvocati. Rosicava da anni, il Criceto, penoso a letto e giustamente amareggiato. Decenni passati a odiarlo, e non c’è da meravigliarsi vista la carriera decisamente meno spettacolare della sua. Da pseudo-maoista nel 1976 a scribacchino sul libro paga dell’autoproclamatosi re della televisione per cretini, della politica per cretini, dell’Italia per cretini. No, certo, non mi ama, pensa Giacomo mentre si alza dalla tazza per guardare cos’ha prodotto e poi posa il giornale, soddisfatto, perché deve pulirsi il culo. Potevo prendere due piccioni con una fava, gli viene in mente un attimo dopo, nel raddrizzarsi per tirare lo sciacquone. Potevo pulirmi il culo direttamente con l’articolo... la cui lettura lo ha proprio fatto sentire a casa, in Italia. Quest’uso della morte di un brav’uomo per regolare un conto vecchissimo. Una rapida sciacquata sul bidet e si rimette in piedi, ma la lunga seduta gli ha intorpidito le gambe. Barcolla in direzione del letto e ci si butta sopra, con Yvonne che distoglie lo sguardo dallo specchio per guardarlo così, disteso a X. Lui ripensa a quel sonetto di Shelley, quello su Ozymandias: “Guardate alle mie opere, o Potenti, e disperate!” declama, ma Yvonne arriccia
98
CHARLES LAMBERT
il naso e torna alle sue faccende, spazzolino del mascara alla mano, spalle curve per la concentrazione, le spalline del reggiseno tese sul décolleté. Meglio se non coglie il riferimento, pensa, potrebbe usarlo contro di me. E comunque avrà molte occasioni di farlo, finché dura questa storia. Nient’altro resta. Attorno alle rovine di quell’enorme relitto... Mentre il sangue riprende a scorrergli nelle gambe, Giacomo si sente stranamente rinvigorito dalla lettura. Quale miglior viatico alla colazione del mattino di una buona evacuazione, e di un articolo interamente dedicato a sé stessi? Quelli, e i primi labili fremiti di un’erezione. Madonna quant’è magra, però. Sarà la metà di Stefania. Ma non era proprio quello il punto? – Immagino tu non voglia sciuparti il rossetto, giusto? – dice. Lei non sente, o finge di non sentire. Lui è ancora sdraiato a gambe e braccia divaricate, e giocherella svogliatamente con il proprio affare, tentato di tirarsi semplicemente una sega davanti a lei e finirla così. Helen invece ci starebbe, pensa, e si sente indurire malgrado sappia perfettamente, con un angolo del cervello, che Helen non è mai stata disponibile quanto lui avrebbe voluto; nemmeno fosse consapevole da sempre di quella piccola dose di divertimento – perché si sono divertiti, perfino ieri mattina – slegata da lei e da quanto lei abbia da offrirgli, e legata invece per Giacomo all’idea di far cornuto il suo migliore amico e rivale, ormai infilato in un armadietto d’acciaio per cadaveri a poca distanza da lì. Si guarda attorno nella sua stanza d’albergo, le mani immobili, come un guscio sui genitali. Niente male, tutti i confort come dicono loro, il massimo del provincialismo. Una scelta ridicola, però, via Veneto, come se Roma non avesse fatto un passo avanti da quando Tyrone Power prendeva a pugni i paparazzi. Adesso restano solo le turiste culone, i negozi di guanti e un Hard Rock Cafe particolarmente squallido.
OCCASIONI DI MORTE
99
In queste ultime settimane ha ricevuto diversi messaggi da Federico, e-mail, fax, ogni tanto un SMS sul telefonino. Non sa se lo riferirà a Helen, né a nessun altro, quasi non lo ha confessato neppure a sé stesso, ma quei messaggi gli hanno dato l’impressione di un uomo sull’orlo di uno stato... se non proprio di pazzia, di esaltazione. Aveva i toni di un unto dal Signore, o di uno convinto di esserlo. Assolutamente non in linea con Federico. Messaggi pieni di riferimenti che Giacomo non si è preso la briga di approfondire, a questo o quell’abbracciatore di alberi, al taoismo, a Dio sa cos’altro: fondamentalisti della Terra piatta, talebani fulminati nell’intelletto o nello spirito e comunque matti da legare. Con trepidazione, sia pure non del tutto scevra dal piacere indotto dalle disgrazie altrui, non vedeva l’ora di ascoltare il contributo di Federico al convegno e adesso, nell’assenza di qualunque contributo se non dall’oltretomba, si sente ugualmente frustrato e sollevato. L’erezione è svanita, ed è quindi decisamente irritante da parte di Yvonne scegliere proprio questo momento per venire a sedersi sul letto sfatto in reggiseno e mutandine e posargli una mano affusolata e idratata su una coscia. Flette le dita, fa scorrere le unghie tra i peli e la carne ancora soda, ancora muscolosa a sufficienza, e intanto gli sbircia il pene ormai arretrato a fondo nel prepuzio e simile a uno di quei mulinelli di sabbia che si vedono in spiaggia. Chi li farà?, si chiede Giacomo. Vermetti? Arenicole? Lei arriccia le labbra lucide e rosate, poi si alza, prende una gonna dall’armadio e se la infila senza smettere di canticchiare la stessa melodia stonata di prima. – Amore, senti... – Sì? – Perché non possiamo tornare subito a Parigi? – gli chiede. Gli volta la schiena, nuda a parte le spalline del reggiseno, con un tono discorsivo, non incalzante. Ma la domanda ce l’ha in
100
CHARLES LAMBERT
canna fin dal mattino presto, Giacomo lo sa, e forse già dalla sera prima. Yvonne è capace di vera e propria concentrazione, pensa: al centro della sua mente c’è sempre e soltanto un pensiero alla volta, un unico pensiero da affrontare e circoscrivere in maniera soddisfacente, così da poter quindi procedere e osservare il prossimo pensiero ad affacciarsi. – Come, a Parigi? – fa lui. La testa di Yvonne sparisce e rispunta subito dopo da una camicetta di seta chiara, mentre il tono si fa piagnucoloso, da gattina. – A questo punto non dobbiamo restare, no? – È ancora girata di spalle, e lui s’immagina la sua espressione tirata, assassina; nessuna meraviglia che preferisca non farsi vedere. – Io pensavo volessi girare un po’ per negozi. – Ma no, amore, a Parigi mi trovo molto meglio. Anzi a dirti la verità, Roma mi delude sempre. È bellissima, piena di storia e tutto quanto, lo so, ma è pure parecchio provinciale. – Si interrompe, il viso distolto. – Per non dire un filino volgare. – Fa scivolare i piedi nelle scarpe, due cosette bianche a striscioline, niente calze, a lui piace quella sensazione della sua pelle sempre a portata di mano. – Povera Helen, non so come fa a sopportarlo. – Helen? – Questa è una sorpresa: Yvonne arruola persino Helen per ottenere il suo scopo. Ieri era gelosa, lui se n’era accorto, e gli ha pure fatto una scenata la sera al ristorante. A quanto pareva lui l’aveva baciata troppo a lungo e con troppo trasporto. Ora invece siamo a povera Helen, e lui dovrebbe pure condividere. – Secondo te cosa farà, adesso? – Cosa farà? Non ne ho idea. Yvonne si slancia verso di lui, sulla spessa moquette beige che potrebbe trovarsi ovunque, e si ferma accanto al letto, il broncio sulle labbra. Lui butta giù le gambe per mettersi a se-
OCCASIONI DI MORTE
101
dere, e ora rimpiange di essere svestito. La pancetta gli nasconde il pene. Forse gli eunuchi sono così: obesi e senza uccello. Ti stai sciupando, pensa. Sei finito. – Ti prego, torniamo a Parigi. Lui assume il suo tono più conciliante. – Tesoro, amor mio, non si può, dobbiamo fermarci per il convegno. Inoltre la polizia potrebbe volermi interrogare di nuovo. Ci hanno chiesto di non partire, non ti ricordi? E in ogni caso non posso abbandonare Helen, anzi stamattina dovremmo andare a trovarla, gliel’ho promesso. – Mi sembra di stare in una commedia dell’assurdo, – fa lei, indignata. – Ci trattengono contro la nostra volontà. – Fa una giravolta e si allontana, per andare in bagno. – Non ci sarà più nessun convegno, Giacomo. Il tuo amico è morto. – Lui sente il fruscio del tessuto sul tessuto e poi il sibilo del tessuto contro la pelle mentre lei si tira su la gonna e si tira giù le mutande, seguito dal fruscio della carta quando prende il giornale che prima leggeva lui. La ascolta far pipì e intanto sfogliare rapidamente le pagine. – Adesso ho capito perché non vuoi andartene da Roma, – gli grida quando ha finito, con una sfumatura di trionfo. – Bel movimento, grande attenzione. Due pagine dedicate esclusivamente a te, con tanto di foto. Mitterrand! Giacomo Mura è un signore importante, altroché. – Il figliol prodigo. – Lei però è rimasta colpita, si sente dalla voce. Com’è giusto che sia. – C’è scritto così? Sei come il figliol prodigo? – Non esattamente. A essere onesti mi descrivono come un discreto pezzo di merda, se non peggio. I giornalisti sono sempre acrimoniosi, lo sai. – E dove sono le foto della tua povera Helen? – Strascica il nome al massimo, in maniera totalmente ridicola. Ma non ha
102
CHARLES LAMBERT
torto a sentirsi gelosa. Lui entra in bagno, si accuccia sul bidet accanto a lei e le prende la mano, staccandola dal “Foglio” e portandosela alle labbra, per poi coprire di bacetti il palmo soffice e tiepido e le dita lievemente odorose di urina. Lei molla il giornale e gli accarezza la testa con l’altra mano, poi se la sospinge verso l’inguine. Lui allunga goffamente un braccio all’indietro per scaricare e si prende uno spruzzo d’acqua lievissimo in faccia. Lei sospira. – Povera Helen, – ripete, e in quella suona il telefono dell’albergo. – Questa è lei, – dice Yvonne alzandosi e scansando Giacomo così bruscamente che lui finisce col culo a terra e va a sbattere con l’anca contro lo spigolo della vasca da bagno. Si affanna a rimettersi in piedi per rispondere al telefono, e ancora una volta rimpiange di essere svestito, conscio di fare una figura ridicola, lì accanto al letto con la cornetta in mano, nudo come un baco. All’inizio non riconosce né la voce, né il nome dell’interlocutore. Non finché non gli vengono rammentati. – Sto indagando sull’omicidio di Federico Di Stasi. Lei era con la vedova, ieri, quando l’ho interrogata. All’ospedale. – Sì, infatti, – dice Giacomo. – C’ero. – Si guarda attorno per vedere cosa fa Yvonne e invece ecco là lui, pingue e giallastro in uno dei troppi specchi di quella stanza, come se negli alberghi la gente venisse colta da un insopprimibile desiderio di rimirarsi. – Mi perdoni, – dice, – temo di non ricordare il suo nome. – Cotugno, – dice l’altro, – Piero Cotugno. – Ma certo, – dice Giacomo tirando dentro la pancia per vedere se fa differenza, e poi ributtandola fuori con una smorfia di disappunto. – Volevo sapere se poteva passare in ufficio da me. Credo sia in grado di aiutarmi, ci sono un paio di cose che ritengo di poter chiarire insieme a lei.
OCCASIONI DI MORTE
103
– Senz’altro, – dice Giacomo, ora incuriosito e indifferente al proprio riflesso. Yvonne è ferma accanto alla porta e tamburella con le dita sulla tessera magnetica dentro l’apposita fessura. – Mi dica solo quando. – Passerà un’auto a prenderla fra un quarto d’ora. Spero di averle dato abbastanza tempo. Giacomo guarda l’orologio, l’unico oggetto che indossi al momento e il più costoso fra quelli di sua proprietà, tolte le case e le macchine. E senza contare Yvonne. Non sono ancora le otto. – Certo, – risponde. – Va benissimo. Stamattina Cotugno è più elegante, in camicia bianca, cravatta grigia e completo azzurro; la giacca è abbottonata in vita e gli va un po’ larga, deve essere dimagrito di recente. Non ha una bella cera. Gli stringe la mano e manda a prendere due caffè, poi gli fa cenno di accomodarsi. – Mi spiace averla fatta venire così presto, – dice, poi alza lo sguardo. – Pressioni dall’alto, – aggiunge, e il sottinteso per cui sta parlando con un suo pari per un attimo manda Giacomo in confusione. Accavalla le gambe e si incrocia le mani sullo stinco. Porta le scarpe senza calze, cosa che in Francia non farebbe mai, e la sua caviglia ha un’aria pallida e malsana contro la morbida pelle nera del mocassino. – Dà fastidio se fumo? – dice quindi. Cotugno fa no con la testa e gli avvicina un posacenere. La scrivania è ampia e zeppa di faldoni. Ma dal suo ambiente naturale si evince l’importanza del soggetto: ieri, all’ospedale, era più difficile da cogliere. Giacomo gli offre una sigaretta, poi accende la propria. Cotugno lo osserva in silenzio. Preso alla sprovvista, Giacomo è sul punto di chiedere come possa essergli utile quando ecco arrivare i due caffè.
104
CHARLES LAMBERT
– Di questo sentirà la mancanza, abitando a Parigi, – gli dice Cotugno porgendogli la tazzina.
3
Martin esce dall’agenzia e si fa un panino e un bicchiere di vino al bar di sotto perché non ha certo il tempo di tornare a casa per pranzo. Prima di uscire per ultima cosa ha telefonato a un suo amico, o per essere più precisi a un suo conoscente di così lunga data, e con il quale tratta così di frequente, non sempre in modo piacevole, che la familiarità ha generato un restio affetto. L’amico si chiama Corti. Oltre al cognome ha pure un nome, ma a Martin proprio non riesce di ricordarselo. I nomi propri sono importanti, gliel’hanno insegnato a scuola, implicano un’intimità da non prendere alla leggera, e uno dei motivi per cui è rimasto in Italia tanto a lungo, si ripete spesso, è questo: gli italiani la pensano allo stesso modo, e usano i cognomi per marcare il territorio, proprio come usano le strette di mano per stabilire un contatto. È qui da talmente tanto tempo, ormai, da sentirsi a disagio in Inghilterra, dove gente che a malapena conosce lo chiama Martin e poi si rifiuta di toccarlo, oppure lo copre di baci. Mondo bizzarro, pensa, uscendo dal bar e riavviandosi giù per il colle. Sta per fare un favore a Helen, sebbene lei ne sia ignara. O almeno spera sia un favore. È ancora un po’ scosso dai suoi modi di ieri: certo era stordita dal dolore, lui non si sarebbe aspettato nulla di diverso, ma al tempo stesso piuttosto evasiva. Ora è convinto lei abbia qualcosa da nascondere, ed è irritato e offeso perché non ha ritenuto di potersi confidare con lui. Non ha forse già avuto occasione di mostrare la sua lealtà, sia a lei, sia a Federico?
106
CHARLES LAMBERT
E poi c’è Giacomo Mura, a saltar fuori proprio il giorno in cui ammazzano il suo più vecchio amico, con tutto il cattivo sangue certamente corso tra loro, per quante volte si siano riappacificati. In passato lo ha visto diverse volte e ci ha pure parlato, una volta a Roma a un ricevimento organizzato, a quanto ricorda, da Federico, un’altra volta alla presentazione di un libro a Milano, dove si trovava in visita ad alcuni amici. E poi a Parigi, ma lì era stato subito dopo il rilascio, quando Giacomo era ancora carne fresca per il circo delle cene e qualcuno aveva pensato potesse essere divertente presentare Martin all’enfant maudit di turno. In determinate cerchie parigine resiste un certo affetto, verso i terroristi che non si sono mai veramente dissociati e si presentano bene in società. Martin però non riesce a dimenticare il modo in cui Giacomo e Helen si abbracciavano, e i sussurri scambiati tra loro; e soprattutto la sensazione, davvero cocente, di essere diventato importuno. Stamattina, leggendo il pezzo del “Foglio” su Mura, si è chiesto da quanto tempo suppurasse in chissà quale cassetto, perché nemmeno il più rancoroso degli uomini riuscirebbe a mettere tanto vetriolo su carta in così poco tempo. Conosce l’autore, non intimamente ma quanto basta per dargli un colpo di telefono e bere una cosa insieme in nome dei vecchi tempi. Martin non vuol più bene a Mura di quanto gliene voglia Adriano Testa, e quest’ultimo potrebbe aver da dire cose che vale la pena ascoltare. Vedere Helen tra le braccia di quell’uomo gli ha dato troppo sui nervi. La giornata è calda, e una volta raggiunta piazza della Rotonda Martin è un bagno di sudore. Si toglie il panama e se lo arrotola fra le mani, poi se lo rimette in testa e attraversa la piazza ripromettendosi, se Corti non fosse ancora arrivato, di fare un salto dentro il Pantheon e rinfrescarsi lo spirito nel tempio dedicato a tutti gli dei, l’unico in cui potrebbe mai pra-
OCCASIONI DI MORTE
107
ticare. Si metterà al centro e alzerà lo sguardo verso l’oculo della volta, il cui mistero è un prodotto dell’ingegneria umana e nient’altro. Il solito tavolo però è già occupato: Martin si leva il cappello e lo sventola in aria. Corti si alza a fatica, spostando la sedia all’indietro nel poco spazio disponibile, e si volta goffamente per tendergli la mano. È basso di statura, con troppi capelli striati dal sole e un abito di lino grigio perla. I piedi divaricati segnano le dieci e dieci. – Buon giorno, – dice. – Buon giorno, – ripete Martin, poi gli lascia la mano e si siede. Parlano in italiano, dandosi rigorosamente del lei. Fare affari così è una meraviglia, pensa Martin, posando il cappello sul tavolino e chiamando un cameriere. – Posso offrirle qualcosa? – Un caffè, – dice Corti. – Decaffeinato, ahimè. – Si porta una mano sul taschino della giacca e ci dà un colpetto. – Il cuore. – Mi spiace, – dice Martin. Corti si stringe nelle spalle. – Cosa posso fare per lei, Frame? Ottimo, pensa Martin, dritti al punto. – Di Stasi. L’altro sorride. – Immaginavo, – commenta. – La moglie è una sua collega, giusto? – Però, – dice Martin, impressionato. – Lei sa sempre tutto, vedo. Poi, non che sia un segreto di stato. – Questo lo lasci decidere allo Stato, – dice Corti, col medesimo sorrisetto presuntuoso. – Senta, ha ancora accesso ai tabulati telefonici dei cellulari? – chiede Martin, impaziente tutto a un tratto. Corti annuisce. – Ma naturalmente. – La signora Di Stasi, – prosegue Martin. – Secondo me nasconde qualcosa. Nulla di penalmente rilevante, ovvio, – aggiunge disinvolto. – Ma se posso vorrei darle una mano.
108
CHARLES LAMBERT
– Sempre cavaliere, lei, – dice l’altro. Arriva il caffè. Corti ci versa tre bustine di zucchero e poi lo butta giù d’un fiato. – Le serve subito, quest’informazione? – Le informazioni mi servono sempre subito, – dice Martin. – Non sarà facile – replica Corti. Martin richiama il cameriere e paga. – E sua moglie invece come sta? – dice mentre Corti si allaccia il bottone centrale della giacca. La camicia è bianca, la cravatta di un punto di grigio più scuro rispetto all’abito; e come sempre, Martin si sente sciatto e vulnerabile riguardo ai propri indumenti, infilati la mattina come capitava, ancora stazzonati dal lavaggio. Corti, infatti, lo guarda un po’ schifato. – Bene, grazie, – risponde. – Sta bene. – Si sistema i polsini, armeggia un momento con i gemelli d’oro, grossi e luccicanti, con una pietra rossa al centro. – Le dirò che ha chiesto di lei. – Non ce n’è bisogno. – Martin si alza e mette in forma la tesa del cappello, poi tende la mano. – Appena riesce, d’accordo? Pure quelli di Di Stasi, se capita. Senza diventare matto, naturalmente. Domani va benissimo. Corti fa sì con la testa, poi gli sfiora una mano con la punta delle dita. – Noi ci capiamo, Frame. Ci siamo sempre capiti, vero? – Sì, certo, – dice Martin. D’un tratto gli si para davanti l’immagine della moglie di Corti caricata di corsa su un taxi, il cappotto mezzo sceso, in un torrente di lacrime. Cose successe più di trent’anni fa, ormai, ma un favore è un favore, e Martin è ancora in credito. Stanno per liberare il tavolo quando Corti si volta. – Certo, per com’è messo è strano, – dice. – Quest’omicidio. – Sono queste le voci al ministero?
OCCASIONI DI MORTE
109
– E non solo al ministero. – Corti scuote il capo. – Ipotesi? – Nessuna, per quanto ne so. E certo nessuna di cui voglia parlare. Temo però lei sbagli bersaglio, con la vedova. O almeno lo spero per il bene della signora. L’ultima cosa di cui ha bisogno è sentirsi dare il tormento per una cosa di questo genere. Le infedeltà sono sempre faccende squallide. Salendo le scale di casa Martin ripensa a una chiamata ricevuta stamattina, da parte di una certa Martha Weinberg. La conosce, sia pure superficialmente. È americana, di New York, in Italia da anni. Faceva l’attrice, a quanto ricorda Martin, è arrivata con la prima tournée di Hair, o così sostiene. Genere ex hippy, qualche sortita nel cinema d’avanguardia, gruppuscoli radicali, no all’atomica, femminismi assortiti. Di questi tempi si definisce giornalista, ma su questo Martin avrebbe da ridire, malgrado la signora sostenga altresì di essere proprietaria di una rivista. Ha blaterato per un po’ della situazione in Iraq, della manifestazione antimilitarista in programma per sabato, dello stato del mondo, ma erano solo convenevoli per spianare la strada verso il reale obiettivo della telefonata: Helen. Sta provando a contattarla, gli ha detto la Weinberg, da quando ha saputo dell’attentato, ma Helen ha sempre il telefono staccato. E per quale motivo vuoi parlarle?, le ha chiesto Martin. Non sapevo vi conosceste. Qui l’americana ha scantonato un po’, Helen aveva accettato di dare una mano con la manifestazione, ha detto, è essenziale che la gente scenda in piazza, è un altro Vietnam e via discorrendo. Martin l’ha lasciata sfogare, poi ha atteso finché il silenzio per la signora si è fatto troppo pesante. E poi devo parlarle del marito, ha detto alla fine. Di suo marito? Ma tu conosci proprio tutti, a Roma?, l’ha stuzzicata lui. Lei ha riso, una risata di gola, e per un momento lui l’ha quasi trova-
110
CHARLES LAMBERT
ta simpatica. Senti, tu dille di chiamarmi. Ho delle cose da riferirle, per il suo bene. Martin entra in casa e mette su il caffè, poi lo beve nella tazza ancora sporca dalla mattina, ritto accanto al lavello, tamponandosi con l’altra mano un vago mal di stomaco. Quando ancora viveva con qualcuno, cioè la sua seconda moglie, lei lo aveva addestrato a consumare cibi e bevande a tavola, ma già allora gli sembrava uno spreco di tempo. Poi lei lo ha lasciato e lui è tornato con sollievo alle vecchie abitudini, riducendo al minimo l’uso di piatti e posate. Certe volte arriva in fondo alla giornata solo con una forchetta e una tazza risciacquata. A questo punto telefonerebbe a Helen per sentire come sta, ma sa che lei non risponderebbe. Oggi ci ha già provato almeno dieci volte, trovando sempre il cellulare spento e il fisso staccato. Non può darle torto, ma sarebbe contento se lo chiamasse lei, se gli desse la possibilità di aiutarla un pochino. Ieri pomeriggio, in agenzia, sembrava davvero paralizzata dal dolore. Già allora lui avrebbe potuto fare di più, lo sa, ma l’immagine di lei tra le braccia di Giacomo Mura gli brucia ancora. D’altro canto, si può dare una mano in tanti modi. Martin ripensa a Corti, alla sera in cui gli recuperò la moglie in casa dell’amante, impiccato al filo della luce in bagno; gli aveva dato una mano risistemando il casino, parlando con gente che conosceva all’ambasciata britannica, dove il suicida lavorava, minimizzando l’accaduto fino a disinnescare il rischio di uno scandalo e dei conseguenti danni alla carriera di Corti; la quale, alla fin fine, non era stata poi così strepitosa. Ora darà una mano a Helen. Percorre il misero appartamento buio fino alla stanza adibita a “ufficio” e si mette a frugare in un cassetto pieno di biglietti da visita fino a trovare quello che cercava.
4
Helen osserva Giacomo e Yvonne venire su per le scale. Madame sta due gradini dietro al marito e strascica i piedi, mentre Giacomo procede a grandi balzi, ansante per lo sforzo. Stamattina indossa un abito in fresco di lana e una camicia di lino appena stirata, sbottonata al colletto, costosa, fatta su misura. A Helen torna in mente la prima volta che l’ha visto, in maglietta e calzoni militari lerci, ridotti in brandelli, e il modo in cui si era semplicemente trasferito da loro. Ha sempre trattato casa mia come fosse sua; ha sempre trattato me come se gli appartenessi, per certi versi. E io non gliel’ho mai impedito. Preferirebbe di gran lunga fosse venuto da solo. – Qui sotto c’è una folla di giornalisti da far fatica a passare, – dice lui. Lei annuisce. Lo prende per i polsini della giacca, quasi avesse paura di stringergli le mani, poi lo lascia andare. – Vogliono sapere se sei pronta a uscire e parlare con loro. – Yvonne le porge la guancia per farsi baciare, col solito broncetto sulle labbra. – Non sarò mai pronta a parlare con i giornalisti. Citofonano da stamattina per farsi aprire. Quanto vorrei che se ne andassero e mi lasciassero stare. – Il tono è rabbioso, ma Helen è soprattutto stanca. Vorrebbe dormire e non riesce: appena chiude gli occhi vede Federico. A un certo punto si dev’essere addormentata, perché in effetti l’ha visto, le stava davanti e le chiedeva cosa stesse aspettando, e lei si è svegliata urlando che non sapeva cosa doveva fare.
112
CHARLES LAMBERT
Giacomo nota la traccia di sangue sul polso e ha un sussulto preoccupato, ma Helen scuote il capo. – Non è niente. – Fa una smorfia. – Mi sono messa a giocare coi coltelli. – Giacomo esagera, come al solito. Sono due in tutto, ragazzi in jeans e felpa. – Yvonne è divertita. – Sembrano gemelli identici. Innocentissimi, stanno seduti vicini sul gradino d’ingresso e leggono due diversi romanzi di Grisham, mi pare, in italiano. Volevano sapere chi ero, gli ho dovuto compitare il nome lettera per lettera, e comunque non credo lo abbiano capito. Ma è possibile? Vuoi fare il giornalista e non sai l’alfabeto inglese? Teneri, però. Saranno... com’è che dite voi? Quell’espressione americana così buffa... ah, sì, cronisti cuccioli. Come animaletti appena nati. Ignorando del tutto Yvonne, Giacomo prende la mano di Helen e la rigira per esaminare il taglietto, poi la lascia andare. – Dovresti stare più attenta. – Non ce la faccio più, – dice lei allontanandosi, e ignorando a sua volta Yvonne. Prende la borsa del computer portatile e fa scorrere la cerniera. Le tremano le mani. – Federico l’ha lasciato dai suoi lunedì, è venuto prima Fausto a riportarmelo. Fede era passato da loro per discutere del convegno. Io pensavo fosse stato tutto il giorno al lavoro. – Fa scattare il coperchio del pc e lo accende. – Non mi ha detto la verità, non riesco a crederci. – Perché, cosa ti aveva detto? Helen non risponde subito. – Niente, – dice infine. – E forse io non gli avevo chiesto niente. – Gli porge il computer con modi apparentemente rassegnati. Sto usando la rabbia per proteggere me stessa, pensa, ma non è vero. Non si è mai sentita tanto offesa. – Allora, come ti senti stamattina? – dice Yvonne in tono ilare, sfilandosi lo spolverino azzurro di lino; sotto porta un abi-
OCCASIONI DI MORTE
113
to di magistrale semplicità fatto del medesimo tessuto, mentre la fodera del soprabito è di un lucente grigio scuro, quasi nero. Yvonne lo lascia cadere sul divano, sfiora appena un braccio di Helen ancora in attesa che Giacomo prenda in mano il portatile, poi si allontana. – E se facessi un po’ di caffè, cosa ne dite? – chiede quindi, carezzandosi i braccialetti attorno ai polsi, come se per la prima volta in vita sua si fosse offerta di rimboccarsi le maniche e lustrare un pavimento. – No, lascia stare, fallo per te se vuoi, – dice Helen, poi si rende conto di essere stata alquanto sgarbata. Non ho motivo di trattare male Yvonne, la conosco appena, pensa, ma è un’assurdità; ne avrebbe tutti i motivi. Darebbe qualunque cosa perché Yvonne non fosse lì, piazzata fra lei e Giacomo come un inconsapevole chaperon. – Scusami, – dice. – Non volevo essere scortese. Mentre Yvonne vaga in direzione della cucina, Giacomo prende finalmente il computer e poi la guarda con aria perplessa. – L’italiano non lo parla – dice, accennando col capo alla moglie. – Non capisce niente. Possiamo parlare in tranquillità. Helen è scandalizzata. – Ma dai, non si fa così – gli dice. – Sarebbe tremendo. Lui dà un’alzata di spalle. – Allora, con questo cosa dovrei farci? – dice, brandendo il portatile con una mano sola e sventolandolo qua e là, come fosse una creatura poco gradita che gli si è appiccicata addosso e non intende mollare la presa. Irritata, Helen se lo riprende e si siede alla scrivania. – Volevo sapere se potevi entrarci tu e controllare a cosa stava lavorando Federico. Io sono rimasta qui a guardarlo tutta la mattina, ma da sola non ce la faccio. Ieri sera tornando ho visto un suo disegnino ed è stato terribile, come sentirlo ancora vivo per un attimo. Ho continuato a svegliarmi e ricordare per tutta la notte.
114
CHARLES LAMBERT
– Guarda Giacomo, ora seduto di fronte a lei con le mani posate sulla scrivania e in mezzo una sigaretta non ancora accesa. – Non so se riuscirei ad affrontarlo, fosse ancora vivo. Se entrasse in quest’istante e vedesse te qui, e Yvonne in cucina, non saprei cosa dire. – Non sarò mica un trauma così devastante? – dice l’interessata. Ha fatto il caffè e trovato un vassoio su cui servirlo, dentro certe tazzine che Helen non usa mai. – Hai fatto il caffè, – dice lei, senza alcuna necessità. – Grazie. Giacomo ha girato il portatile verso di sé e l’ha aperto. – Cosa pensi di trovare qui dentro? – le chiede, mentre insieme aspettano l’avvio. – Non ne ho idea – dice Helen, ed è la verità. A spaventarla è soprattutto questo, non sapere di cosa si stesse occupando Federico nelle scorse settimane. Parlavano talmente poco, in questi ultimi mesi... se non anni, addirittura. Vivevano in un silenzio cordiale, a suo modo di vedere, ma ora si domanda se fosse davvero così. Lui parlava, lei parlava, ma a quale scopo? Non è solo il convegno; da questo punto di vista lei non è mai stata la moglie che lui avrebbe voluto, Helen lo sa. Non ha mai ritenuto il lavoro, di Fede o di altri, qualcosa di fondamentale, e questo è uno dei tanti aspetti per cui Giulia è delusa di lei. – Bene, vediamo. – Giacomo apre la cartella Documenti; il più recente è un file Word di nome Juggernaut. Apre pure quello e si trova davanti una pagina bianca. – Strano, – dice. – La parola juggernaut ti dice niente? – Come? Nel senso dei camion, dei TIR? – Non saprei, Fede interessato a scrivere di TIR non me lo vedo. Ma scusa, non significa pure un’altra cosa? Quella specie di carro indiano che spiana qualunque cosa gli si pari davanti? – Lieto di avere qualcosa da fare, Giacomo si toglie la giacca,
OCCASIONI DI MORTE
115
chiude il file e lo riapre subito dopo. La stessa pagina bianca. – Juggernaut. – Fischietta. – Dove sarà? – Quindi non c’è scritto niente? – No, – risponde lui. – Curioso, però, cancellare il contenuto ma non il file. Perché non buttare via tutto? Fra l’altro, a recuperare il contenuto non penso ci voglia molto. – Fa clic su Incolla per vedere cosa succede. Niente. – Come se volessero farci trovare qualcosa. – Tamburella sul touchpad. – D’altro canto, potrebbe trattarsi di gente incapace con i computer. – Lancia un’occhiata a Yvonne. – È il tipo di cosa che potresti fare tu, – dice. Helen si alza in piedi, le braccia conserte sul petto. Ha il fiato corto, teme di stare per svenire. Giacomo, sbuffando, si avvicina alla porta d’ingresso, accanto alla quale ha lasciato la pila dei giornali di oggi. – Tu non li hai ancora visti, giusto? – dice a Helen. Lei conferma con un cenno del capo. – A quanto pare c’è una rivendicazione da parte di un fantomatico “Nucleo Comunisti Armati”. Mai sentiti nominare. Getta i quotidiani sul tavolino di fronte al divano, proprio come faceva Federico rientrando dal lavoro, così Helen poteva darci un’occhiata mentre lui cucinava e chiacchierava. Questi gesti così dolorosi, così ripetitivi, pensa Helen, si susseguono per conto proprio; e tutto sommato non significano nulla. È tutta una reiterazione. Si siede, improvvisamente malferma. – Sembra fossero coinvolti nell’omicidio di Porcu, – prosegue Giacomo. – Si dichiarano eredi delle Brigate Rosse, esattamente come ci si aspetterebbe. In macchina ho provato a leggere il comunicato: è il solito cumulo di astruse fesserie, immancabile in queste occasioni. Dio solo sa cosa credevamo di ottenere con quel gergo, eppure va detto, una volta lo trovavamo convincente, eh? Ti ricordi?
116
CHARLES LAMBERT
Helen non risponde, a malapena ascolta. Vorrebbe tanto che Yvonne se ne andasse, in modo da poter parlare con Giacomo di cose realmente importanti. Senza rendersene conto, lui sospira. – Lotta di classe. Governo egemonico del capitalismo globale. Imperialismo finanziario. Come dargli torto, per carità, ma è tutto così stantio... La cosa fantastica è avere usato il font delle vecchie Olivetti, come si chiama, Courier? Aggiunge un tocco di credibilità, direi: se sembra il tipo di roba che sfornavamo noi ai bei tempi di Torino, allora è quel tipo di roba... Non mi sorprenderebbe se fosse opera dei servizi, per confondere le idee alla gente. – Si interrompe e si guarda attorno, come in cerca di solidarietà. – E vabbè, – conclude. – La vita continua. – Sei di una crudeltà incredibile, – dice Yvonne, – a dire così. Siamo venuti per stare vicino a Helen, non per parlare di questa gentaglia che... – Si ferma e guarda Helen. – Non so come fai a sopportarlo, – aggiunge. – Ha sempre in testa la politica. – Insomma nessuno sa chi siano questi, – mormora Helen, senza rispondere a Yvonne e senza sapere cos’altro dire. Finché non riuscirà a imporsi di crederci, non solo col cervello ma col cuore, la morte di Federico non sarà accaduta. E quindi, come può esserci un colpevole? Come può esistere un omicida senza omicidio, senza vittima? – Da noi in Francia c’è stato il Sessantotto e poi, voilà, tutto è tornato normale, – prosegue Yvonne. – Evita di sembrare ancor più cretina di come sei, – dice Giacomo, talmente piano che Helen si domanda se non abbia voluto farsi sentire solo da lei. Di certo Yvonne non dà segno di essersene accorta, mentre vagola per la stanza con la schiena inarcata e una mano sulla nuca, l’immagine della noia e dell’insofferenza. Giacomo intanto, sotto gli occhi di Helen, rimette la cornetta del telefono al suo posto; Helen, in un acces-
OCCASIONI DI MORTE
117
so di stizza infantile, pensa “Bene, se però si mette a suonare rispondi tu, cazzo.” Poi le viene in mente che abbia ricevuto istruzioni di fare così, e per un attimo si chiede da chi – non può fidarsi proprio di nessuno? – ma subito se ne dimentica. Yvonne invece crolla sul divano con un sospiro esausto, prende il primo giornale del mucchio e dà uno sguardo alla foto in prima pagina. – Hai proprio un’aria triste, – dice, corrugando le labbra in un’espressione forse solidale, mostrando il foglio a Helen. Ma Helen non ha bisogno di prenderlo in mano per vedere la foto: occupa quasi metà della pagina. E pur senza volere, lancia un’occhiata a quella sua immagine rubata e brutale. Ho l’aria triste, ovvio. Mi hanno appena ammazzato il marito. Poi però, guardandola con maggiore attenzione, si rende conto dello sbaglio di Yvonne: più che triste, la Helen della foto sembra perplessa, come se le avessero fatto una domanda incomprensibile, alla quale non sa rispondere. È ferma accanto a una grossa auto blu, una mano sulla gola, il viso distolto dall’obiettivo, e l’immagine è lievemente sfocata. Uno sconosciuto le sta aprendo la portiera, e nell’avvicinarsi e prendere, finalmente, il giornale dalle mani di Yvonne per osservarlo più da vicino, perché la sua curiosità ha prevalso, prova una sensazione di estraneità rispetto a quel che vede, come se la donna della fotografia fosse una tizia che indossa i suoi abiti, che ha imparato i suoi gesti e si muove come si muove perché le hanno detto di fare così; e per un istante s’immagina di non essere lei, quella della foto, ma piuttosto una controfigura. Lascia cadere il giornale a terra, ne prende un altro e ci vede sopra la stessa donna, e a quel punto non prova più un senso di sconcerto, o di violazione, ma una sorta di invidia impossibile da capire, come se quella donna così somigliante a lei possedesse, malgrado la propria confusione, una certezza a lei preclusa. No, non una certezza,
118
CHARLES LAMBERT
forse l’opposto: un margine di libertà, la sensazione di poter ancora rimettere tutto a posto. La foto gliel’hanno scattata prima che vedesse il corpo di Federico, di questo è certa, quando c’era ancora una possibilità, per quanto minima, di un errore di persona. Ora le piacerebbe proprio mettersi a sedere con tutti questi quotidiani, e queste fotografie, e tentare di capire quel che è successo, e ancor di più capire cosa ci si aspetta da lei, ma per farlo dev’essere sola. Il senso di nausea, tenuto a bada per tutta la mattina, ricomincia a montare; è strano come la sofferenza incida sullo stomaco, non se lo aspettava. Ma nemmeno si aspettava di soffrire. – Non glielo dici, a Helen, che stamattina sei stato dal giudice? – dice Yvonne. Giacomo rivolge un’occhiata furibonda a Yvonne, la quale ricambia con un sorrisetto genere “ben ti sta” mentre si liscia la gonna; quindi guarda Helen che lo sta fissando a bocca aperta, come fosse sotto choc. Ma lo squillo del telefono fisso toglie a chiunque la possibilità di parlare. Helen arretra e alza le mani, come a difendersi; Giacomo, senza guardarla in faccia, mette una mano sulla cornetta. – No, – grida lei con voce rotta, ma lui ha già tirato su e risponde dando le spalle sia a lei, sia a Yvonne, sollevato all’idea di un diversivo per entrambe, o almeno per Helen. Gli dicono di restare in linea e lui lo detesta, infatti di norma metterebbe giù. Oggi però fa quel che gli dicono di fare. Un momento dopo, una voce fin troppo riconoscibile dice: – Signora Di Stasi... Colpito suo malgrado, Giacomo fa una faccia, poi copre il microfono con la mano e si volta per guardare Helen. – È il tuo adorato premier, – dice, porgendole il ricevitore senza riuscire a dissimulare un sogghigno. – Convinto di parlare con te, a quanto pare.
OCCASIONI DI MORTE
119
– No, ti prego, – dice Helen scuotendo la testa. – Non ce la faccio. – Mi spiace, al momento non è possibile, – dice Giacomo, aggiungendo, per pura birbanteria personale: – Magari posso riferire un messaggio, chi la desidera? Dall’altra parte c’è un istante di silenzio, poi torna in linea la prima voce, maschile, per chiedere quando sarà possibile trovare la signora Di Stasi. Giacomo riferisce, ma Helen si mette a gesticolare, impotente. – Non lo so. Mai, – dice. – Dai, non puoi fare così, – dice Giacomo. – Prima o poi dovrai parlarci. – Helen lo guarda con un’espressione afflitta, quindi si avvicina, rassegnata. – Dammi. – Gli prende la cornetta di mano e si volta di scatto, furibonda. Immediatamente Giacomo si pente della bravata. – Pronto. Giacomo si sposta. Helen tace, la postura rigida. Dice sì, no e grazie; lì per lì potrebbe parlare con chiunque, in quel tono garbato e cauto insieme. Per un secondo Giacomo si chiede se non abbia capito male, se l’uomo all’altro capo del filo non sia affatto il presidente del Consiglio ma un giornalista, o peggio un macabro burlone. Ma quella voce si riconoscerebbe tra mille. In quel momento, Helen comincia a scuotere la testa. – Mi dispiace, è fuori discussione. Giacomo traduce rapidamente per Yvonne, la quale non pare aver capito cos’è successo e si sta ancora godendo la zizzania seminata un momento prima. – È il premier, – ripete lui, e stavolta lei fa sì con la testa, ma è perplessa. È una bambina, pensa Giacomo, è fortunata a sapere tanto poco. Dio santo, cosa me ne farò di lei? Helen allontana leggermente la cornetta dall’orecchio.
120
CHARLES LAMBERT
– Mi spiace, ma lei non può sapere cosa sarebbe piaciuto o meno a mio marito, – dice, a voce troppo alta e un po’ tremante. Giacomo traduce nuovamente per Yvonne, la quale peraltro non dà segno di voler sapere cosa stia dicendo Helen. Certo ha del fegato a parlargli così, pensa Giacomo. Quello non è abituato a sentirsi dire no. Mi piacerebbe proprio vederlo in faccia. Helen gira sui tacchi e gli porge la cornetta facendo un verso stranissimo, quasi un uggiolio. Lui si fa avanti e la prende ma sente solo silenzio, e poi un clic. L’ha posata da nemmeno un istante che il telefono riprende a squillare; Giacomo esita un attimo e lo rialza. Stavolta è una donna a chiedere di Helen, con un tono brusco e impaziente, abituato all’obbedienza. Le dica che è Giulia, aggiunge la donna senza dargli tempo di parlare. – È Giulia, – dice lui a Helen, ferma lì accanto, distrutta dalla brutalità degli eventi. – Ma non devi parlarci per forza, – aggiunge, e sta per fornire un pretesto. Helen invece gli prende la cornetta di mano con un’asprezza sorprendente e si mette subito a parlare. – Sei stata tu a dirgli di chiamarmi, vero? – dice. – Gliel’hai detto tu che ero a casa, tu gli hai detto di chiamarmi qui. – E dopo un attimo in cui guarda Giacomo inorridita e incredula, prosegue. – Non credo proprio. Federico non appartiene a nessuno, Giulia. Non ha già fatto abbastanza per questo cazzo di paese? – Un altro silenzio. Le nocche di Helen sono impallidite. Poi: – Ma ti prego, tu non sai cosa stai dicendo. E io non so come fai a parlare della sua morte in questo modo. – Adesso sta urlando. – Giulia! Federico non voleva morire! – Ah, ecco com’è, pensa Giacomo, la vecchia signora vuol fare del figliolo un martire, come una di quelle matrone romane che per il bene della repubblica si tagliavano le vene nella vasca da bagno e
OCCASIONI DI MORTE
121
avrebbero dato la cicuta pure ai figli, sangue del loro sangue. Poi Helen si accascia sulla poltroncina da ufficio e si afferra al bordo della scrivania perché le rotelle slittano sotto il suo peso. – Facesse come gli pare, – grida, – io non ho più intenzione di ascoltarti. – Però ascolta, il telefono stretto fra le dita, in lacrime. E ascolterà finché l’altra avrà detto quel che ha da dire, pensa Giacomo. Conosce il tipo: è come il premier, non accetta di sentirsi dire no. Richiamerà, e se trova il telefono staccato si presenterà di persona dieci minuti dopo e si metterà a picchiare sulla porta finché non le aprono. – Io devo andare, – dice Yvonne alle sue spalle. – Mi ha sempre odiato, – dice Helen coprendo il microfono. – Non ora, – scatta lui. – Ma io devo andare, – insiste Yvonne. – E io ho sempre odiato lei, – dichiara Helen. Giacomo accenna bruscamente al corridoio con la testa. – Di là c’è un bagno. – Non in quel senso, – dice Yvonne. – Devo andare via di qui. – Noi non andiamo da nessuna parte, – dice lui. – Non ancora, almeno. Helen mette giù. Lui coglie appena la voce della madre di Federico intrappolata nell’apparecchio. – Ma sì, invece – dice Helen, – esci pure, ti prego. Io sto bene, non preoccuparti. Giacomo scuote la testa ma non cerca di fermare Yvonne, anzi è sollevato quando sente la porta d’ingresso sbattere alle sue spalle, e non solamente perché non può abbandonare Helen in questo modo. Insieme ne hanno passate tante, qualunque cosa lei abbia detto a Federico: e ora eccolo qui, a casa di Federico, nella città di Federico, su richiesta di Federico, con Federico morto. Sarebbe stato così facile, declinare l’invito al con-
122
CHARLES LAMBERT
vegno: l’ultima cosa di cui ha bisogno è un atto di riabilitazione, secondo la definizione di Helen, tipicamente refrattaria alle sfumature della politica. Anzi, in determinati ambienti gli farà più male che bene. Ma quando ha accettato di venire non aveva in mente la propria reputazione; ad attirarlo era il pensiero di Helen, bisogna ammetterlo. Poi, certo, c’era Federico e c’era la loro amicizia, la quale era ovviamente una rivalità ma non soltanto, ed è nata prima di Helen e, potendo, le sarebbe sopravvissuta. E adesso si ritrova qui, nel bel mezzo di quest’omicidio vano e anacronistico che più di tutto gli ricorda quei sequel infiniti tipo Superman III o Rocky 9, in cui dell’originale è rimasta giusto una dose omeopatica. – Sono contenta di averti qui, – dice Helen. Sta di nuovo piangendo. Quando gli tende le braccia lui la stringe a sé e la tiene come si terrebbe un ferito, la vittima di un incidente stradale, magari, di cui ancora non si conosce l’entità delle lesioni, sussurrando parole di conforto mentre si aspetta l’arrivo di soccorsi più efficaci.
5
Torino, 1978 Ai primi di gennaio, con la neve ancora sui monti che parevano racchiudere la città come barricate, Helen fu convocata nell’ufficio dell’amante di Miriam, su al piano direzionale. Lui le offrì il caffè e le chiese se si fosse ambientata, in un inglese venato della cadenza scozzese di Miriam. Lei rispose di essere molto contenta, ed era vero; cominciava ad apprezzare il suo ruolo d’insegnante e la compagnia dei suoi allievi, non solo le segretarie con le quali aveva iniziato ma anche tutti gli altri, dai dirigenti agli operai. Le avevano permesso di avvicinarsi all’Italia vera, disse. Bene, disse lui, lei era molto apprezzata e gli faceva piacere se aveva questa sensazione; su di lei aveva sentito solo pareri positivi. Helen arrossì, era contenta di saperlo, rispose. Ma a quelle parole, lui prese subito un altro tono, spiccio e concreto, mettendo da parte l’amabilità quasi galante di prima. Aveva bisogno di un favore, le disse, e lei era proprio la persona giusta per farglielo, l’unica veramente adatta. Lei tenne gli occhi sulla tazzina del caffè, troppo ansiosa per rispondere o solo per alzare gli occhi, e diffidente della parola “favore”. Lui le chiese se fosse disponibile a dare lezioni individuali a un collega per cui la Fiat prevedeva il trasferimento nella filiale sudafricana; naturalmente per un compenso a parte, più alto della norma. Sollevata, incuriosita e bisognosa di soldi extra, Helen disse di sì. Il giorno dopo, al termine delle normali lezioni, l’accompagnarono in una stanza posta in una zona della palazzina a lei
124
CHARLES LAMBERT
sconosciuta, talmente vicina alla fabbrica vera e propria da lasciar passare il frastuono smorzato dei macchinari. La stanza era vuota, se non per un tavolino in legno, due sedie e uno sgabello; l’allievo era seduto con una gamba distesa davanti a sé sullo sgabello e il ginocchio fasciato. Helen lo riconobbe, era già stato a lezione da lei fino a un paio di settimane prima di Natale e anzi era uno dei migliori, un delegato sindacale di nome Eduardo. Aveva parlato di lui anche con Federico, in toni così entusiastici da renderlo prima geloso o quasi, e non era da lui, e poi fin troppo curioso, come se volesse sapere con chi doveva misurarsi. Lei ne era rimasta divertita. Ma no, è solo il tipo di persona che non puoi fare a meno di ammirare, solo questo, protestava poi quando Federico le chiedeva, un po’ per provocarla, come se la cavava il suo alunno preferito. L’ammirazione non è amore, aveva voluto suggerire lei; certo però, si era detta ripensandoci, dovrebbe almeno farne parte. Potrei mai amare un uomo che non ammiro?, si era domandata. Alla fine Federico aveva lasciato perdere, quando Eduardo era uscito dal gruppo e lei aveva smesso di nominarlo. Pensava fosse stato trasferito; il perché non glielo avevano detto, e pareva non lo sapesse nessuno. Ora però, con Eduardo lì davanti a tentare di alzarsi in piedi malgrado la gamba fasciata, Helen capì cos’era successo: lo avevano gambizzato. Era sconvolta, gli manifestò il suo dispiacere. Il suo accompagnatore arretrò fino a uscire, poi si chiuse la porta alle spalle. Rimasti soli, Eduardo inarcò le sopracciglia e la salutò con un cenno col capo, poi provò a sorridere. – Grazie per la solidarietà, Helen. Di certo ti sembrerà strana, questa violenza, questa lotta armata. – Le ultime due parole erano venate d’ironia; il suo inglese era migliorato, dopo l’aggressione. – Dovrebbe sembrare strana a tutti, – disse lei. Seguì un silenzio imbarazzato. Helen non era abituata a fare lezione indi-
OCCASIONI DI MORTE
125
vidualmente, ed era troppo affezionata a Eduardo, e troppo turbata da ciò che gli era successo, per sapere da dove cominciare: partire dall’ultima volta che si erano visti le pareva inappropriato. Lei aveva fatto la sua solita vita, mentre a lui avevano sparato, era stato in ospedale e in convalescenza, aveva vissuto nella paura di cosa potesse capitargli poi. E per questo non c’erano parole. Alla fine, siccome non le veniva in mente nient’altro, gli chiese cosa si aspettasse di dover imparare in vista del Sudafrica. A frenare la lingua, rispose lui. In inglese, replicò lei, l’espressione è “tenere la lingua ferma”. Lui sospirò, scuotendo il capo. – Come faccio a vivere in Sudafrica? L’apartheid è uno schifo, – disse. – Devi proprio andarci? – chiese Helen. – Non puoi cambiare posto di lavoro? Magari in un’altra città, per dire? – Lui la guardò con compassione, o forse peggio, con disprezzo, quasi lei avesse voluto fare la figura della scema. – Ho famiglia, – le disse. – Moglie e due figli all’università, uno della tua età. In Italia sono un uomo segnato. E in ogni caso, il mio mestiere posso farlo solo a Torino. Nessun altro fabbrica macchine a livello della Fiat, in Italia. – Ma tu rappresenti il sindacato. Pensavo lottassi per difendere i lavoratori, – sbottò lei. – Non capisco perché quelli abbiano voluto farti del male. – Quelli chi? – disse lui. – Chi sono quelli, secondo te? – Cosa vuoi dire, scusa? – Tu la fai facile, Helen, quando dici “quelli”. Come se ci fosse un confine netto, tagliato con l’accetta, tra una persona e un’altra, tra un’idea e un’altra. Invece non è facile. Io potrei passare quel confine e farmi sparare, oppure sparare. Stavolta “quelli” mi hanno sparato, ma io non so chi sono. Tu chi pensi che siano?
126
CHARLES LAMBERT
– Non lo so, – disse lei. – Non so nemmeno per cosa lottino. – Lo guardò. – Tu lo sapresti, vero? Se dovessi sparare a qualcuno? Lui alzò le spalle e poi fece una smorfia, tenendosi il ginocchio. – Ho famiglia, – ripeté. – Per loro sparerei. Sparerei per uccidere. E adesso, per il loro bene, mi toccherà vivere da bianco in un paese razzista. Preferirei sparare, credo, ma non è possibile. – Sorrise, acceso in volto: sembrava un ragazzino, eppure aveva l’età per essere il padre di Helen. Aprì le braccia in un gesto inatteso, e più accogliente che rassegnato. Ti amo, pensò lei, benché non fosse quello che intendeva. Ma in quel preciso istante avrebbe dato la vita per poterla trascorrere accanto a quest’uomo lindo e minuto, con le mani grandi e una testa di capelli sale e pepe, corti e ispidi. Le pareva l’unico al mondo. – E ora devi insegnarmi le parole necessarie a spiegare ai miei futuri colleghi, bianchi dal primo all’ultimo, perché non sono razzista e non posso condividere la loro posizione. Quella sera Helen ascoltò Giacomo discutere con Federico, una volta finito di cenare, quando i maschi davano per scontato che avrebbe sparecchiato lei, come peraltro di solito faceva. Ascoltò le loro chiacchiere su egemonia e autonomia, sul controllo dei lavoratori e sull’etica dell’autoriduzione, concetto nel quale facevano apparentemente rientrare i viaggi in tram senza biglietto e il furto di alimentari nei supermercati. Poi smisero tutto a un tratto e cominciarono a prendere in giro un professore odiatissimo in dipartimento, dove ora lavorava pure Giacomo sebbene, a quanto aveva capito Helen, senza paga. L’unica salariata in casa era lei; la borsa di studio di Federico era ancora bloccata da chissà quali inghippi burocratici, per lei insondabili. Vivevano di pasta e fagioli, verdura e rosette,
OCCASIONI DI MORTE
127
quei bei panini tondi con un capezzolo croccante in cima, che Helen staccava e mangiava sempre per primo, e bevevano un Barbera locale, comprato sfuso dal vinaio di zona. Giacomo ingrassava, e a malapena si era spuntato barba e capelli; somigliava a un capo brigatista, gli disse lei quella sera, quello arrestato l’anno prima e ancora in carcere in attesa di processo. Poi si scoprì a paragonarli, Giacomo e Federico, a Eduardo: accanto a quel piccolo eroe, con la gamba ferita poggiata sullo sgabello, le sembravano due ragazzini. Chissà se è “imberbi” la parola giusta in italiano, si chiese mentre loro spazzolavano gli ultimi resti di sugo facendo la scarpetta. Il mattino dopo Giacomo non aveva più la barba, nel pomeriggio andò dal barbiere e si fece tagliare i capelli corti e la sera rincasò per cena in pantaloni grigi e maglione con il collo a V sopra una camicia sintetica. Quasi non lo riconoscevano. – Sembri travestito, – gli disse Helen, senza sapere se mettersi a ridere o sentirsi a disagio. – Finalmente rinunci ai fronzoli dell’intellettualismo borghese, – lo stuzzicò Federico. – Però stai attento, perché in università potrebbero non farti entrare, conciato così. – Il nuovo Giacomo, pensò Helen, somigliava a un personaggio di Turgenev, l’anarchico pallido e poco appariscente che in un oscuro ufficio attende il suo momento: sembrava più pericoloso di prima, non meno. E lei non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Si chiese cosa ne avrebbe pensato Miriam. La vedeva ancora, un paio di volte la settimana. Si facevano un panino insieme per pranzo in un bar del centro, o si vedevano in un pub inglese per bere qualcosa. Helen stava con qualcuno, Miriam l’aveva capito, ma non insisteva per saperne di più. – Noi ragazze dobbiamo cavarcela con quel che c’è, – aveva detto, e poi le aveva presentato altre ragazze del suo paesino nelle Highlands, tutte au-pair presso ricche famiglie tori-
128
CHARLES LAMBERT
nesi. Faceva uno strano effetto vederle tutte insieme, sempre troppo in ghingheri, ubriache e chiassose, il trucco sbaffato di sudore e lacrime per il gran ridere, e immaginarle il giorno successivo nelle ville stile Liberty dei loro datori di lavoro, a preparare i piccoli di cui si occupavano per le loro scuole private mentre gli autisti attendevano di sotto dentro automobili costose e blindate per paura dei sequestri. Avevano i loro giorni liberi, e pareva li trascorressero nei saloni di bellezza; ogni tanto Helen si era chiesta cosa accadesse in quei posti, ma se le proponevano di accompagnarcela declinava con un sorrisetto nervoso. Poi una di loro, di solito Miriam, la riaccompagnava a casa in macchina e stava di guardia finché lei non era entrata nel portone; si preoccupavano perché era senza soldi e le servivano abiti nuovi. A parte Federico, chiunque vuol farmi da mamma, pensava. E non era certa di apprezzarlo. Non fu lei a raccontare a Giacomo di Eduardo, bensì Federico. A quel punto lei ne sapeva abbastanza, delle opinioni di Giacomo, da poterne anticipare la reazione, e aveva visto giusto. Lui le diede della sentimentale per aver ritenuto la rabbia, la repulsione o la capacità di accoglimento di Eduardo più importanti rispetto a quelle di altri, cosa a cui lei ribatté dicendo che naturalmente, lo sapeva, nessuno valeva più di nessun altro, sebbene di fatto non lo credesse. E capiva gli altri proprio tramite Eduardo, disse. Questo disse, ma mentre si ascoltava parlare si domandò cosa intendesse. Temeva forse di confessare la sua vera opinione, e cioè che tutta quella violenza le pareva insensata? Aveva sentito Giacomo parlare di “ferita” per riferirsi a una gambizzazione, e le era parso un termine scialbo ed esangue, come se beccarsi una pallottola in una gamba fosse una fatalità, uno scivolone dal marciapiede. Certo, la scelta di quella parola poteva essere solo una svista del suo inglese
OCCASIONI DI MORTE
129
altrimenti perfetto, ma Helen non lo credeva. Pensava riflettesse il suo stato d’animo. Su come la pensasse Federico non era certa, invece. Quando gli raccontò delle lezioni individuali a Eduardo, e del motivo per cui gliele dava, lui l’ascoltò con un’espressione apparentemente comprensiva. Non sembrava più geloso, e per questo lei rimase perplessa e turbata, anche se non avrebbe saputo dire il perché; lui le fece alcune domande a cui non seppe rispondere, sull’attività sindacale di Eduardo e sui suoi rapporti con la dirigenza. Lo vedevano come un collaborazionista?, voleva sapere. E la sua gambizzazione aveva influenzato il morale generale?, le chiese, come se importasse qualcosa. Lui voleva il meglio per tutti, aveva risposto, è una brava persona, benché questo lei non potesse saperlo; era solo una sensazione. Federico ascoltava e annuiva, in silenzio. E lei rimase con l’impressione, assai sgradevole, di essersi persa un passaggio, un quadro più ampio.
6
In cima a via del Tritone, con gli elicotteri a girargli in tondo sopra la testa, Martin esce in strada. Si è fatto un pisolino e adesso suda leggermente nel caldo del tardo pomeriggio, meravigliandosi davanti all’effetto-bazar dei negozi per turisti, alle vetrine allestite da dilettanti, ai bar scuri e poco invitanti, ai cartelli scritti a mano in precario inglese o giapponese, alle esposizioni ormai démodé di cravatte, borsette e guanti. Strano il modo in cui è sopravvissuta questa zona di Roma, pensa, come se la gente ancora visitasse la città per le sete e i pellami, sperando nell’affarone. Si ferma subito prima di raggiungere la sede del “Messaggero”, chiedendosi se i cecchini lo tengano sotto mira, perché i cecchini sono sempre appostati in giornate come queste, di parate e festività civili, disseminati come puntini decorativi sulle grondaie dei palazzi, visibili gli uni agli altri e ai piloti sospesi in aria. L’ombra di un elicottero corre sopra di lui come una nube; Martin alza lo sguardo, tentato di salutare col braccio, e afferra il cappello che scivola via. Quando l’impulso è passato, vede Adriano Testa ritto accanto all’edicola in polo azzurra e calzoni di lino, ed è lieto di trovarlo ancor più calvo e ancor meno in forma di lui. Si fa avanti con un balzo soddisfatto e la mano tesa. – Niente da fare, quest’aggeggio non prende – dice Adriano sventolando il cellulare in aria. – Sono questi cazzo di elicotteri dappertutto. Uno zanzarone grigio canna di fucile appare, come evocato, sopra le due teste. Martin sospira e annuisce. – È il prezzo da pagare per la sicurezza, – dice.
OCCASIONI DI MORTE
131
Adriano lo guarda con diffidenza, incerto sul tono usato da Martin. Lui apre le braccia e le mani, nel tipico gesto di chi non ha nulla da nascondere. – Scherzavo, – precisa. Adriano fa spallucce. – Ho casa qui dietro l’angolo, – dice. – Andiamo lì. Si avvia nell’ombra con passo dinoccolato, e Martin lo segue. Cinque minuti dopo sono seduti uno di fronte all’altro a un tavolino di legno quadrato, di quelli usati nelle trattorie, nel cucinino di un appartamento scarsamente ammobiliato. – Il mio piccolo rifugio, – spiega Adriano. – Mica posso tornare a casa tutte le sere, – sogghigna. – Se salta fuori qualcosa... – Certo, qualcosa può sempre saltar fuori, – dice Martin. – Forza, allora, – riprende Adriano. – Vuota il sacco. Non ti fai vivo per anni e adesso ti va di “fare una chiacchierata”. Cosa succede? – Io non ho sacchi da vuotare, – dice Martin, – speravo li avessi tu. – Su cosa? – Ho letto il tuo pezzo di stamattina. Adriano fa un sorrisetto furbesco. – E quindi? – Ce l’avevi in canna da un po’, mi sa. – Tutto viene a colui che sa aspettare. – Sì, direi. – Insomma, t’interessa Mura? Martin scuote il capo. – No, non Mura. Quello si atteggia e basta. A me interessa Di Stasi. – L’uomo del momento. – Adriano esala un fischio basso, e con gran sorpresa di Martin ecco una gatta spuntare dal nulla e andare a strusciarsi contro la gamba del padrone di casa. – Non è mia, – dice Adriano, – entra dalla finestra. Abita sul tetto, e come si nutra è un mistero.
132
CHARLES LAMBERT
– Tu conoscevi pure lui. – Martin lo dice lentamente, come ad avvertire il suo interlocutore che fingere il contrario non servirà a nulla. Prima di uscire ha fatto i compiti e lo sa: Adriano e Federico sono stati compagni di scuola, prima di venir separati dal servizio militare e dall’università. E poi l’onda di marea degli scontri, della lotta armata, a quanto pare rapì Federico ma lasciò indietro Adriano, sebbene Martin non ne sia del tutto convinto. Poi Adriano è rispuntato fuori nella veste di esperto di servizi segreti, sovente citato e di rado contraddetto. In passato ha avuto modo di stuzzicare Martin, in un paio di occasioni, riguardo a episodi che lui preferirebbe dimenticare, come se sapesse più di quel che lascia intendere. – Davvero? – dice Adriano, poi fa un cenno col capo. – Ma sì, direi di sì. Per quanto, in questi ultimi anni, lui non mi abbia proprio cercato allo spasimo. Immagino frequentasse pesci più grossi di me. – Per questo è morto? – Non chiederlo a me. Pesci grossi, stagno grosso, – dice Adriano. Si alza e raggiunge il frigorifero, poi torna con due lattine di birra. Martin apre la propria e poi si china ad accarezzare la micia, la quale salta sul tavolo e si struscia contro la mano che regge la birra. Adriano beve, poi si guarda attorno come se avesse perso qualcosa, e si slaccia i tre bottoni della maglia. – Ti starai domandando chi lo ha ucciso, – dice. Martin fa sì con la testa. – In effetti me lo sono chiesto. – Non sei il solo. – Davvero? Adriano si gratta il torace. – Maledette zanzare, mi si mangiano vivo. Te, non ti pungono? Martin scuote il capo. – A quanto pare il mio sangue non le attira. Sarà troppo raffinato.
OCCASIONI DI MORTE
133
Adriano ignora la battuta. – In questa storia c’è qualcosa di strano. Di molto, molto strano. – Si scola la birra, il capo rovesciato all’indietro, il gozzo palpitante, poi va a prendersene un’altra mentre Martin continua ad accarezzare la gatta, che ora gli si è piazzata in grembo. – Ti ricordi la faccenda di Porcu, quand’è stato? Tre anni fa. Ucciso mentre andava al lavoro. Naturalmente era senza scorta, quelle sono venute dopo. Ancora non si sa esattamente chi è stato, chi ha premuto il grilletto, voglio dire, ma non è questo il punto: sulla provenienza della pallottola non c’è mai stato nessun dubbio, non so se mi spiego. C’era dietro uno degli ultimi cinque o sei trotzkisti rimasti in Europa, e questo si sapeva pure troppo bene. – Beve e poi fa una faccia sorpresa, come se la birra si fosse guastata all’improvviso, oppure non gli andasse più. – Stavolta però la faccenda puzza, ma puzza davvero. Non torna niente. Nessuno si è assunto la responsabilità. – Ma come, pensavo... Adriano sbuffa. – Frame, per piacere, non sei mica nato ieri. Schegge impazzite di cui nessuno ha mai sentito parlare? E quel comunicato? Puzza più di tutto il resto messo insieme. Ammazzare uno con la scorta? Non succedeva più dai tempi di Moro, perché non ne vale la pena. Qui invece ammazzano un uomo di scorta, ma risparmiano l’altro, così poi la racconta? È tutto sbagliato. Se avesse senso direi che sono stati i servizi, ma Di Stasi non era così importante. Certo, se si votasse tra due settimane... – E quindi? – E quindi. – Adriano si dà una botta sull’avambraccio. – Fanculo. Mancata. Martin ha la sensazione di un tassello mancante, di qualcosa ancora da dire. Di dover solo aspettare. – Un nome ce l’ha? – dice.
134
CHARLES LAMBERT
– Chi? – La gatta. Adriano ignora la domanda. – Tu lavori con la moglie di Di Stasi. O meglio, la vedova, adesso. – Sì. – Tipico di Roma, cazzo. Tutti conoscono tutti. Ecco perché puzza tanto, quest’affare, – dice Adriano. – Tutti con la faccia nella merda altrui. La gatta salta giù e corre verso la porta; un istante dopo, i due sentono una chiave girare nella toppa, ed ecco entrare una donna con una busta della spesa. La donna guarda Martin e poi, con aria sorpresa e vagamente irritata, Adriano, mentre la gatta le si attorciglia intorno alle caviglie. – Questa è Alina, – dice Adriano. Alina posa la busta della spesa sul tavolo, tra i due. – Mi pareva avessi detto che oggi mi chiamavi, – dice quindi, ignorando Martin, il quale allontana la lattina di birra intatta dalla busta floscia e dal contenuto ora sparso sul tavolo. La stanza si riempie del profumo di pane fresco, e di salumi: mortadella, o forse prosciutto crudo. A un tratto affamato, Martin si domanda se lo inviteranno a fermarsi per cena, e cosa risponderà se dovessero farlo; altri programmi non ne ha. Poi guarda la donna, per farsi un’idea. Rispetto ad Adriano è tanto giovane da poter essere la figlia; e magari lo è, sebbene Martin ne dubiti. È pallida e magra, con il seno troppo grosso per la corporatura; la maglietta, color lilla con paillettes, è macchiata di sudore sotto le ascelle. Gli ricorda un po’ Helen, una Helen impoverita e compromessa. Fiuta discretamente per vedere se riesce a coglierne il profumo nell’aria; cosa diceva Adriano prima? Se salta fuori qualcosa... – Niente campo. Giuro. Ho un testimone, – dice Adriano, ma è difficile capire se la spiegazione sia necessaria o mera-
OCCASIONI DI MORTE
135
mente dimostrativa. Poi prende il cellulare dalla tasca e lo punta contro Martin, il quale china il capo in una specie di salamelecco, a titolo di conferma, e azzarda un sorriso ironico per prendere le distanze da Adriano. – Sì, come no, – dice lei. Si raccoglie i capelli biondi dietro la nuca con una mano e infila l’altra nella tasca della gonna cavandone un elastico per farsi la coda. – Martin stava giusto andando, – dice Adriano. Quindi si sporge verso di lei, ancora seduto, e se la tira contro finché lei appoggia il fianco nell’incavo della sua spalla. È ancora tesa, Martin lo vede benissimo, e ha notato dall’accento che non è italiana. Slava? Magari polacca? Lei lo guarda in un modo strano, come se si aspettasse qualcosa da lui ma non avesse ancora deciso cosa. Pure in questo somiglia a Helen, pensa lui, con lei non sai mai come stanno le cose. Si accorge di averle puntato gli occhi addosso, e distoglie lo sguardo. – Bene, allora io vado, – dice. – Se ti viene in mente qualcos’altro di utile, sai dove trovarmi. – Parla come gli investigatori delle serie tivù. Si fruga in tasca e posa sul tavolo un biglietto da visita, a beneficio di Alina. Più tardi, quando avrà dimenticato la presenza di lei e il suo effetto su di lui, si chiederà cosa gli fosse preso. – Caso mai, – dice, tendendole la mano. – Alina, è stato un piacere. Lei guarda il bigliettino e poi lo guarda in faccia, quasi a valutare l’evenienza che lui le stia giocando un tiro, tendendo una trappola, come guarderebbe un cliente di cui non si fida, perché a questo punto Martin è convinto lei faccia la vita, e al tempo stesso la vorrebbe e vorrebbe non fosse vero, almeno non per lui. Lei prende il bigliettino e sorride, cauta. – Piacere mio – dice.
136
CHARLES LAMBERT
Diverse ore dopo a casa, con una bottiglia di rosso già per gran parte bevuta e null’altro sul piatto se non una crosta di formaggio e qualche nocciolo d’oliva, Martin sta pensando a Federico e all’ultima volta in cui hanno trascorso una serata insieme. Helen era andata a letto presto mentre loro due erano rimasti a tavola, avevano finito il vino, ne avevano aperto un’altra bottiglia e si erano finiti pure quella. La parte del leone l’aveva fatta Martin, ma Federico aveva bevuto ben più del consueto e gli stava di fronte con i gomiti appoggiati al tavolo, la voce un po’ strascicata, loquace e insolitamente in vena di confidenze. Di norma avrebbero parlato del lavoro di Federico, ma in senso lato, di questioni aperte e non di personalità; pettegolezzi da iniziati, per così dire, ma con un atteggiamento probo che li salvava dalla volgarità, aveva pensato Martin con un vago senso di rammarico, perché un pizzico di fango dall’interno non va mai sprecato. Lui comunque se la godeva, quella sensazione di fare da interlocutore a Federico, come un attore più anziano ed esperto sulla scena degli orientamenti e delle convenienze politiche; si divertiva a interpretare il ruolo assegnatogli dall’amico, adottando modi laconici e paterni, se necessario esprimendo pareri come rappresentante della stampa, come osservatore esterno ma intimo, come straniero bene informato. Ben più di quanto Federico supponesse. Ma quell’ultima sera, sporgendosi verso di lui e spazzando col polsino della camicia un resto di sugo dal piatto, Federico abbassò la voce e gli chiese se Helen gli sembrasse strana, se avesse notato qualcosa di fuori posto in lei. “No, perché?” disse Martin, pensando Dio ti prego, dimmi che non è malata, che non sta per morire. Secondo me si vede con un altro, disse Federico, in tono rassegnato e al tempo stesso sollevato per averlo detto apertamente, aveva pensato Martin più tardi. Al momento però gli era parso non fossero le parole pronunciate ma
OCCASIONI DI MORTE
137
l’idea stessa, a rincuorare Federico. Imbarazzato, ma sollevato a sua volta, Martin rispose, Ma dai, un altro uomo, cosa te lo fa pensare?, io proprio non ce la vedo, Helen. Federico si pulì il sugo dal polsino con un tovagliolo e si scrollò nelle spalle alla tipica maniera italiana, coi gomiti stretti contro il corpo. È diversa. È come se avesse, non so, un interesse esterno. Be’, sta studiando, disse Martin. Federico scosse il capo, con aria divertita. No, si comporta come un’innamorata, disse. È innamorata di te, disse Martin, lo è sempre stata. Questo lo so, ribatté Federico impaziente, come se Martin avesse detto una cosa tanto ovvia da risultare offensiva. Non sto dicendo che non mi ama più, però è distratta. Non lo so, ha la testa fra le nuvole. Di nuovo abbassò la voce e si sporse in avanti, stavolta evitando il piatto. È pure meglio a letto, disse, piena di energia, come se si fosse caricata altrove e avesse bisogno di scaricarsi con me. Non sono i tipici segni del tradimento? Martin non aveva risposto, non sapendo cosa dire. Imbarazzato, a testa bassa, aveva lanciato un’occhiata allo scaffale di cucina dove tenevano il vino ed era stato sul punto di alzarsi per andarne a prendere un’altra bottiglia, ma Federico lo aveva fermato prendendolo per un braccio e aveva ripreso a parlare. Non credo sia più di un’infatuazione, disse, sai come si diceva una volta, un’avventuretta. Martin sorrise. Chiamala come vuoi, soggiunse Federico stringendogli il braccio nudo. Io non ho notato nessun cambiamento, disse Martin, pur chiedendosi se fosse proprio così. Helen era davvero la stessa di sempre? L’idea di Helen coinvolta in una relazione extraconiugale sembrava ferocemente assurda, ma forse meno a Federico che a lui, il quale con Helen aveva spesso sondato il terreno, con enorme tatto e delicatezza, forse troppa. Forse lei non aveva nemmeno mai notato i suoi tentativi di corteggiarla... e corteggiare era proprio la parola giusta, di questo si rendeva conto, con quella sua di-
138
CHARLES LAMBERT
screzione uscita dritta da un altro secolo. Ma io sono di un’altra epoca, pensava Martin, il secolo scorso mi ha fatto e cresciuto, e potevo anche morire prima dell’inizio di questo nuovo millennio, tutto sommato le probabilità erano a favore della morte, tra il mio cuore, i miei problemi con l’alcol, le sigarette, tutto il corredo del giornalista cinico e incallito; sono vivo per miracolo. Ma sto di nuovo pensando a me, mi sto intromettendo come al solito, e invece dovrei pensare a Helen. È la stessa o è diversa?, si era chiesto. E si era domandato, con un brivido di piacere inatteso e inopportuno, se Federico avesse pensato, sia pure per un istante, che proprio lui, Martin, potesse aver rappresentato un tempo la doppia vita, l’avventuretta, e gli stesse facendo quelle domande solo per valutare la sua reazione. Le ultime parole di Federico erano state “Non m’importerebbe, sai. Non m’importerebbe se avesse una storia. Solo, vorrei saperlo.” Cos’era, una specie di assoluzione rivolta a lui? E adesso, come se fosse logico, si sorprende a pensare alla ragazza incontrata oggi pomeriggio a casa di Adriano. Alina, con il suo biglietto da visita. Se in quest’istante sapesse come fare a contattarla, la chiamerebbe.
7
Giacomo guarda Helen riempire una pentola d’acqua e metterla sul fuoco, poi osservare il coltellino con il manico d’osso che ha in mano come fosse sul punto di dire qualcosa e poi ci ripensasse, prendere uno spicchio d’aglio dalla testa per pelarlo e tritarlo, poi prenderne un altro, il capo chino come se volesse evitare il suo sguardo. – Fai una pastasciutta, – le dice, per segnalare la propria presenza. – Con quel che c’è, e purtroppo non è molto. Avrei dovuto fare la spesa, in teoria. – Si interrompe. – Grazie per essere rimasto, – aggiunge, aprendo un peperoncino per svuotarlo dei semi. – Non sopporto l’idea di stare qui da sola. Giacomo gratta il formaggio in una ciotolina profonda, verde, con un sottile decoro in smalto bianco; a metterla controluce scintilla. Poi vede Helen mordersi un labbro mentre versa dell’olio d’oliva, da una bottiglia senza etichetta, dentro un padellino di rame, e dice: – Io non ti ho mai vista cucinare, sai? In tutti questi anni, – e quando si rende conto della crudeltà di rammentarle Federico in questo modo, le parole sono già sfuggite. Lei fa sì con la testa e poi lo guarda veramente per la prima volta da quando lui ha telefonato a Yvonne per dirle che avrebbe dovuto pranzare da sola. – È strano, – dice con una calma innaturale, – io stavo pensando esattamente la stessa cosa, – e intanto versa il trito d’aglio e peperoncino dal tagliere al padellino. – Te lo ricordi questo coltello? Ce l’aveva già a Torino.
140
CHARLES LAMBERT
E poi, con grande sorpresa di Giacomo, Helen lascia perdere tutto e viene ad abbracciarlo, in una maniera goffa e sgraziata, chinandosi sopra di lui che un po’ cerca di alzarsi dalla sedia e un po’ prova a girarsi verso di lei per restituirle l’abbraccio. Lei però gli ha intrappolato entrambe le braccia nelle proprie, e lui per sfuggirle dovrebbe divincolarsi o spezzare la sua stretta e questo sarebbe imperdonabile, pensa, mentre lei si mette a respirare forte contro la sua testa, ad ansiti bruschi, e allora Giacomo si lascia tenere così e attende il suo pianto come si attende la pioggia. Ma Helen non vuole piangere, e alla fine si calma. – Non riesco a perdonarlo, – dice, con la bocca tenera e tiepida contro l’orecchio di Giacomo. – Ci sto provando da stamattina, ma non ci riesco. È stato molto egoistico, da parte sua, rischiare così tanto. – Le sue labbra non gli sono mai state così vicine, pensa Giacomo, sebbene lei l’abbia baciato mille volte, baci appassionati o di circostanza, ma senza alcun rapporto con questa intimità, quest’inclusione al prezzo dell’esclusione altrui. – Non è stata colpa sua, continuo a ripetermi, era solo il suo lavoro. – Adesso si ritrae. – Però lui l’ha scelto, quel lavoro, Giacomo. Sapeva quant’era pericoloso, quant’era facile che accadesse una cosa del genere, ma è andato avanti lo stesso. Non ha pensato a me nemmeno per un attimo, a cosa avrei fatto se lui fosse morto. – Lo guarda con gli occhi lucidi, ma è troppo arrabbiata per piangere. – Io pensavo di essere al sicuro con lui, tu lo sai, vero? Pensavo fosse lui quello con la testa a posto. – Gli dà dei colpi sul torace, leggeri dapprima e poi più forti. – Tu, pensavo saresti stato tu a finire ammazzato, non lui. – Lui le afferra i polsi, la blocca prima che gli faccia davvero male. – Ho sbagliato tutto. Tutto quanto, dall’inizio. Lui è un cadavere all’obitorio, – dice allontanandosi da lui, con un’espressione accusatoria. – E tu invece
OCCASIONI DI MORTE
141
sei vivo. Tranquillo, a Parigi, e tutto ti scorre addosso. – Lo fissa negli occhi, come se si aspettasse una risposta, un’autodifesa, poi riprende a parlare, in un tono per lui quasi irriconoscibile, tanto è carico di rabbia e di biasimo. – Magari fosse stato più simile a te! – Mi dispiace, – dice Giacomo, e lo pensa. In questo momento, nel profondo, preferirebbe davvero avessero preso lui. Non si è mai sentito così indegno. – Cosa posso fare? – Come, fare? Non lo so, cosa puoi fare? – Per aiutarti, intendo. – Ce l’ho troppo con lui, – fa lei, ma il tono adesso è più lieve, quasi meditabondo, come se stesse pensando a voce alta e Giacomo non fosse neppure lì. – Continuano a tornarmi in mente tutte le volte in cui mi sono sentita esclusa, trascurata. Come se fossi solo un accessorio della sua preziosa vita. Non sai quante volte ho pensato di lasciarlo. – Gli lancia un’occhiata. – Non solo per te, benché pensassi anche a quello. – E senza dargli il tempo di reagire, prosegue. – Ma ho sempre cambiato idea, non è mai durata. Certe volte ho desiderato di perderlo, che Dio m’aiuti, così non avrei dovuto decidere. Non volevo la sua morte, Giacomo... solo la sua assenza. – Helen si guarda attorno. – È strano, no? Di solito, quando sono con te, è come se Fede non esistesse, per quanto sia brutto da dire, eh? Ma è vero, in un certo senso tu lo annulli. E adesso lui non esiste più davvero, è morto, ma io non riesco a staccarmi da lui, non sono mai stata tanto consapevole della sua presenza. È ovunque io guardi, i suoi libri, le sue pentole, il suo coltellino. Il suo migliore amico. Lui è qui in mezzo a noi, e io non riesco a vedere dall’altra parte. – Tende la mano a Giacomo e lui, dopo un attimo di esitazione, la prende, conduce Helen al tavolo e si siedono insieme. – Adesso siamo rimasti noi due soli, – dice lei, – e io non lo sopporto.
142
CHARLES LAMBERT
Dai fornelli viene un odore acre, di bruciato. Giacomo salta in piedi e corre a togliere dal fuoco il padellino con l’aglio e il peperoncino. Nella pentola l’acqua ormai bolle da un pezzo, ma lui non se n’era accorto. Non sa cosa fare. Non ha mai amato Helen così incondizionatamente come ora, in questo preciso istante. – Ho fame, – dice lei. Lo raggiunge e lo cinge alla vita, da dietro. Giacomo la sente posare il capo contro la sua spalla. – In pratica non mangio da lunedì sera. – Butta un po’ di pasta nell’acqua bollente residua, prende due piatti fondi da uno scaffale, raduna l’aglio e il peperoncino ormai carbonizzati e butta tutto nel lavello. – Tocca ricominciare da capo, – dice, e sorride tra sé. – Apro un po’ di vino, – dice Giacomo. – La vita continua, no? – dice lei, riprendendo in mano il coltello, tritando altro aglio e peperoncino, versando altro olio nel medesimo padellino. Il coltello di Fede, pensa Giacomo, i suoi tegami. – Come se niente fosse. Questo però l’ho già detto, vero? Non mi ricordo più cos’ho detto e cosa no. Cervello di gallina, mi dice sempre Giulia. – Però, gentile. – Giacomo versa il vino rosso in due bicchieri. Helen sospira. – Mi ha sempre ritenuta un’incapace, sempre. E non ha mai perdonato a Federico di avere scelto me, quando aveva solo l’imbarazzo della scelta tra le figlie delle sue amiche. Le figlie della rivoluzione: rivoluzione sua e di nessun altro. È tutta colpa sua, – conclude, sorprendentemente velenosa. Poi scuote il padellino. – Cerchiamo di non bruciare pure questo. – Quando Giacomo le porge il bicchiere lo prende, poi lo guarda in faccia. – Cos’era quella cosa che diceva Yvonne? Sei stato dal giudice?
OCCASIONI DI MORTE
143
Lui sperava se ne fosse scordata. Prende un sorso di vino. – Voleva chiedermi cosa sapevo di Federico, – dice, – e negli ultimi tempi, vale a dire quasi nulla. Gliel’ho riferito tal quale. Poi mi ha chiesto dei vecchi tempi, a Torino. Secondo me era una cosa sua personale. – Ma va’? – Sì, ci è nato e cresciuto. Ieri non te ne sei accorta perché avete parlato inglese, ma in italiano ha un accento torinese da manuale. – Ti ha chiesto di me? – No, – risponde Giacomo. – Mi ha sorpreso, ma non l’ha fatto. Lei sfila uno spaghetto dalla pentola. – Al dente va bene? – dice. Quando hanno finito, sia la pasta che la bottiglia, lei gli chiede cosa intenda fare. Lui ride. – In che senso? – dice. – Della mia vita? – No, pensavo alla serata, – dice lei. – Yvonne si chiederà dove sei finito. Lui alza le spalle. – Di Yvonne mi preoccuperò più tardi, – dice. Giochicchia per un attimo con il bicchiere vuoto. – Io lo so, cos’ho voglia di fare. – Già. – Lei alza lo sguardo dalla sua mano e gli punta gli occhi negli occhi. Ha l’aria stanca, leggermente spaventata, e più giovanile rispetto ad anni addietro, malgrado la spossatezza; come le fosse caduta di dosso una patina, lasciandola esposta. Ha la stessa espressione che aveva a Torino, pensa lui, cauta, disadorna, priva di risorse e di malizia, bisognosa d’affetto ma in maniera velata e antagonistica. Come potrebbe non amarla. – Se tu me lo lasci fare.
8
Mezz’ora dopo Helen è a letto nuda, sotto il lenzuolo rimboccato. Di norma leggerebbe un romanzo preso dalla pila sul comodino, sapendo che Federico non verrà a letto finché non avrà terminato il lavoro portato a casa dall’ufficio. Stasera invece se ne sta lì ad ascoltare le abluzioni di Giacomo in bagno, strigliata ai denti e sputo, pipì e scarico, come faceva Federico, come fanno tutti i maschi. Se ne sta lì pensando che non si è mai sentita così sola, così lontana da sé stessa, quando le torna in mente il sogno del mattino e allora se ne rammenta l’origine, come se la scena si svolgesse ora davanti ai suoi occhi. Era una domenica mattina di quasi trent’anni fa: lei e Federico erano andati a Porta Nuova e avevano preso il primo treno in uscita dalla città. Il treno attraversava una zona di colline basse e filari d’alberi frangivento, forse pioppi, e poi c’erano fattorie a un piano con portici e arcate da un lato, alcune in mattoni a vista e altre intonacate di ocra, rosa e giallo limone. Era uscito il sole e faceva caldo abbastanza da levarsi i giacconi, benché si fosse appena sul far della primavera. Federico aveva il colletto della camicia che sporgeva da una parte, e a lei veniva voglia di allungare una mano a rimboccarglielo; un fiocco d’imbottitura del giaccone gli si era impigliato tra i peletti ispidi sul collo. Lo scompartimento era tutto per loro, e la luce del sole entrava a fiotti mentre correvano verso una cittadina di cui ha scordato il nome, e poi una galleria, alquanto inaspettata in quel paesaggio, come se qualcuno avesse piazzato di proposito una collina proprio in quel punto per creare un effetto sce-
OCCASIONI DI MORTE
145
nografico, forse di distacco. Uscirono dalla galleria, sul treno che aveva rallentato come nell’avvicinarsi a una stazione, ed ecco lì la casa più bella mai vista fino a quel momento, con alte finestre simmetriche e una torretta bassa al centro e un arco amplissimo a tagliare l’intera struttura, cosicché si scorgevano i campi dall’altra parte. Helen e Federico erano seduti uno di fronte all’altra, a guardare dal finestrino come bambini, e poi lui si era voltato verso di lei, il viso radioso di sole, e le aveva detto: – Potremmo comprarcela, e vivere lì, solo noi due, – e lei aveva fatto di sì con la testa, troppo colma di felicità per parlare, senza osare nemmeno più guardare Federico ma anzi distogliendo lo sguardo a bella posta, seguitando a guardare mentre la casa pian piano andava via. Quando la gente dice “Pensavo mi scoppiasse il cuore dalla felicità”, Helen pensa a quella casa che spariva dietro ai pioppi, e a una sagoma di donna intravista dietro a una finestra, le braccia tese a serrare le persiane contro il sole inatteso del tardo inverno, la camicetta bianca e le braccia nude rinchiuse d’un tratto, avvolte dall’oscurità della stanza alle sue spalle. Quello ho sognato, pensa, quel giorno, quel viaggio, quella casa, quella felicità. Ma nel sogno non c’è Federico e lei, per quanto si sforzi, non riesce a ricordare con chi era. Durante la notte si sveglia con Giacomo accanto, nel letto, al posto di Federico. Per un istante, sentendo il calore di un altro corpo, pensa sia proprio Federico e gli si stringe addosso, dimentica che lui è morto; subito dopo caccia un urlo, con un brivido di paura e repulsione, e si scansa con tutta la sua forza. Giacomo la prende per una spalla e le si avvicina, il petto nudo contro il suo braccio, la pancia a sfiorare quella di lei. – È tutto a posto, – le sussurra, – sono io, sei con me. Andrà tutto bene. – E lei ricade sul guanciale, senza opporre resistenza. – Che
146
CHARLES LAMBERT
ore sono? – chiede. – Lui le sfiora le labbra con un dito. – Ssst, tranquilla, – le dice. – Aiutami, – fa lei, senza sapere cosa intenda. Come potrà mai aiutarla, Giacomo? Ci mette una vita a riaddormentarsi.
TERZA PARTE
1
Roma, giovedì 3 giugno 2004 Alla redazione inglese, Martin tiene a bada un doposbornia quasi sopportabile e intanto cerca di chiudere la rassegna quotidiana della stampa nazionale. L’omicidio di Federico è ormai notizia di ieri, sostituita su gran parte delle prime pagine da immagini tratte dall’ultimo video degli ostaggi italiani in Iraq e dal comunicato delle relative famiglie, le quali non andranno al corteo pacifista di sabato malgrado i sequestratori abbiano richiesto la loro partecipazione come gesto di solidarietà verso il popolo iracheno. Eh già, proprio. Come se interessasse a qualcuno, pensa Martin, ma batte comunque una frasetta per rimpolpare il pezzo. Tanto a nessuno importa nulla degli ostaggi di altri paesi; i giapponesi muoiono a vagonate, come pure i filippini, ma i media occidentali non fanno né ai né bai. La parata di ieri è filata via liscia, come previsto; su alcuni giornali ci sono le foto della madre di Federico ritta accanto al ministro della Difesa, con commenti che vanno dall’ammirato all’indignato, ma grazie al cielo nemmeno una parola su Helen. Quindici adolescenti fermate per aver scavalcato una transenna; palloncini vietati nello spazio aereo romano. Giusto un accenno? Aria calda, o forse fritta, contro imponente dimostrazione di forza militare? No, meglio non esagerare. Chiacchiere governative sul ritiro delle truppe da Nassiriya, subito contraddette da altre chiacchiere governative su una forte presenza italiana nella provincia, la solita strategia cerchiobottista che scontenta tutti, ma richiama comunque più attenzione mediatica del
150
CHARLES LAMBERT
silenzio. Cos’altro c’è? Secondo uno studio, in Italia si verificano meno casi di depressione clinica rispetto agli altri paesi europei. Secondo uno studio, gli italiani sono innamorati degli sportelli Bancomat. Si può forse ipotizzare un legame? Martin scrive, cancella, riscrive. E la spazzatura aumenta. Comunicati d’agenzia da parte di deputati mai sentiti nominare per ripagare debiti personali verso questo o quel lobbista. Screzi tra leader in carica e aspiranti leader del centrosinistra. Martin sospira e continua a leggere. Su un canale televisivo di proprietà del presidente del Consiglio, un burattino ora candidato alle europee per il partito del capo si dichiara “omoaffettivo”, qualunque cosa voglia dire. Afferma di soffrire della sindrome di Alessandro Magno. Troppo “locale” come notizia? L’angolazione vaticana, però? E perché no? Ma sì, dai. Tutto a un tratto Martin si sente meglio; dopo un accesso di vigore anticlericale chiama il bar di sotto per farsi mandare su il caffè. Espresso doppio. Scrive il paragrafo conclusivo, la sua Italia in due parole, nel bene e nel male. Dà una botta al tasto Invio, ed ecco la rassegna partire come tutte le mattine per raggiungere mille o forse centomila altri monitor accesi. La verità. Le notizie. Finalmente Martin tira su il telefono: è ora di chiedere un altro favore. Per Helen. Alina invece non ha chiamato.
2
Giacomo viene svegliato da un suono come di campanello. Rimane supino, trattenendo il fiato, in attesa che Helen si muova. Ma Helen dorme della grossa, con la bocca socchiusa per via della posizione della testa sul guanciale a darle un’aria vulnerabile e lievemente puerile, la boccuccia a ciliegina di una bambola di porcellana, così diversa rispetto a quando è sveglia. Ha i capelli umidi di sudore, a ciocche sfilate sulla fronte e sulla guancia. Giacomo si drizza su un gomito e sta per scostarglieli via dal viso con la punta di un dito quando sente provenire un rumore da un altro punto dell’appartamento. Una voce femminile chiama, in italiano: – Helen, Helen! Ci sei? – Poi, più piano, ma a un volume ancora percettibile: – Ma dove si sarà cacciata, quella deficiente? Accanto a lui Helen si muove, borbotta qualcosa. Giacomo la scuote delicatamente per una spalla. – C’è qualcuno in casa, – dice, a voce più bassa possibile. Helen spalanca gli occhi con un’espressione di terrore assoluto, e per un istante Giacomo si chiede se si era dimenticata di lui. – Tranquilla. È una donna, – dice, e a mo’ di rassicurazione aggiunge: – Ti conosce, e ti ritiene una deficiente. – Allo spalancarsi della porta in camera da letto sono entrambi ritti a sedere, Helen con il lenzuolo stretto al petto come un’eroina vittoriana, Giacomo a torso nudo, le mani in grembo. Una smilza e anziana signora, i capelli grigi tirati in cima al capo in uno chignon da ballerina classica, con indosso un filo di perle e un bell’abito nero, entra nella stanza facendo risuonare i tacchi sul parquet. Io ti conosco, pensa Giacomo.
152
CHARLES LAMBERT
– Buongiorno, Giulia, – dice Helen. – Qualcosa mi aspettavo, devo ammetterlo, ma non questo, – replica la signora. – Non quest’umiliazione. – Non so di cosa parli. – Il tono di Helen è glaciale. Giacomo trattiene l’impulso di ridere. Fa scivolare una mano sotto le lenzuola e afferra la coscia di Helen. – Non sei mai stata adatta a far da moglie a Federico. Questo lo sapevo. – Giulia è rigida di sprezzo. – Non ti sei mai sforzata di fargli da moglie. E adesso questo... questo schifo. – Come osi, – dice Helen, scacciando la mano di Giacomo e lasciando andare il lenzuolo. Per un attimo il tessuto le resta appiccicato alla pelle umida dei seni, poi le scivola in grembo, e lei lo lascia dov’è. Con un fremito disgustato, Giulia si volta per uscire. – Aspetta un secondo, – dice Helen, – dove pensi di andare? Chi ti ha dato il permesso di presentarti qui così? Non sei a casa tua. Chi ti credi di essere? Giulia ha cambiato idea. Raggiunge il cassettone e prende in mano l’accendino di Giacomo, ci gioca, lo soppesa, con un’aria di tetra soddisfazione in volto. Per un istante Giacomo teme voglia incenerirli entrambi. – Non penserai di farla franca, vero? – È stato Federico a darti le chiavi? A me non ha mai detto nulla. Giulia posa l’accendino con una manata spiccia e si volta nuovamente per uscire. – Ne parliamo quando sarai presentabile. – E come a sottolineare l’inadeguatezza del termine, lo ripete: – Presentabile. – Poi aggiunge ad alta voce, quando non è più visibile dal letto: – Perché io non me ne vado finché non ho finito. Ti sarai pure liberata di mio figlio, ma non ti libererai di me tanto facilmente. – Sarà meglio affrontarla, – dice Giacomo. – Cosa vuoi che faccia? Vado via?
OCCASIONI DI MORTE
153
– Oddio no, ma l’hai sentita? Fa’ come ti pare, ma non lasciarmi sola con lei. Io vado a parlarci, tu intanto metti su il caffè. – Si trascina fuori dal letto portandosi dietro il lenzuolo, la schiena e il culo ben visibili mentre si dirige verso una poltrona. Giacomo è ancora nudo sul materasso, il pene semieretto; se potesse la riporterebbe a letto. – È meglio se ti metti qualcosa addosso, – gli dice lei. – Hai già dato abbastanza scandalo. – S’infila una maglietta e una gonnellina di cotone, poi prende un accappatoio da un appendino e glielo tira. – Usa questo, – dice. – Io vado e me la sbrigo. Giulia attende seduta al tavolo, la chiave di casa posata davanti a sé; Helen le si siede di fronte, trattenendo l’impulso ad allungare la mano e ficcarsi la chiave in tasca. La cornice di legno laccato sul bordo anteriore della sedia è dura e fresca sotto le cosce. Ha deciso di sentire cosa Giulia abbia da dirle prima di parlare a sua volta; non intende prevenirla né sviarla. Prova un perverso senso di gratitudine: dopo gli anni di elusione e patrizia indifferenza da parte dell’anziana signora, dopo tutte le parole non dette o non propriamente dette, i silenzi altezzosi e le battutine ciniche, Giulia le dirà finalmente cosa pensa di lei. E poi Helen farà esattamente lo stesso. – Il telefono è staccato. Il cellulare è spento. Non rispondi nemmeno al campanello di casa. Non gradisco particolarmente dover entrare in questo modo, come una ladruncola, ma tu devi renderti conto che non puoi semplicemente sparire, Helen, – dice Giulia. Il tono è inaspettatamente conciliante. – Ci sono troppe cose da fare, e non so nemmeno da dove cominciare. Helen tende una mano verso la chiave, ma Giulia la batte sul tempo. – Questa non è roba tua, – dice infilandosi la chiave in una tasca del vestito.
154
CHARLES LAMBERT
– Di certo nemmeno tua. – Non intendo fingere di apprezzarti, – riprende Giulia dopo una pausa meditabonda, come se qualcuno glielo avesse chiesto e lei si fosse presa un istante per valutare la possibilità. Be’, Federico glielo avrà chiesto, pensa Helen, e Federico è lì di fronte a lei, la sua brusca e terribile assenza, per la prima volta stamani. Solo Federico può aver dato la chiave alla madre. Helen ha la sensazione di essere stata svegliata da uno schiaffo in piena faccia. – Non l’hai mai fatto. Giulia fa spallucce, insofferente. – Tutto quel che ho fatto per voi l’ho fatto per Federico, e tu lo sai. Come se noi non avessimo già sofferto abbastanza. Helen non sopporta di sentire la suocera impossessarsi di quel noi. – Di certo non sei qui per stare vicino a me, questo lo so, – dice. – Se avessi voluto starmi vicina saresti venuta ieri con Fausto, invece di andare a quella ridicola parata. E non so perché tu sia qui oggi, non so cosa vuoi. Però io qui non ti ci voglio, questo lo so. – L’ha detto, pensa. Finalmente l’ha detto. E ora forse la vecchia se ne andrà. Invece Giulia si fa avanti con un’urgenza, una violenza tale da sconcertare la nuora. – Lo sai benissimo perché sono qui, – dice. – Non possiamo lasciar passare sotto silenzio il sacrificio di Federico. – Ne parli come se si trattasse di un animale. Federico non è stato sacrificato, – dice Helen. – È stato assassinato. Giulia la irride con uno sbuffo. – Tu non hai idea di quanto fosse strano nelle ultime settimane, vero? Pensava avessi una storia con un altro, almeno questo lo sai? E tu qui, a crederti tanto furba. Infatti aveva ragione, sebbene nemmeno lui potesse immaginare tu gli fossi infedele con uno che considerava un amico.
OCCASIONI DI MORTE
155
– Federico ha parlato di me con te? Giulia fa un sorriso torvo. – Ne ha parlato con suo padre, ovviamente. Ha parlato con Fausto, e Fausto ha parlato con me. Le coppie sposate lo fanno, sai com’è. Parlano tra loro delle cose importanti. Non dovrò mica dirtelo io. Non venirmi a dire cosa fanno le coppie sposate, pensa Helen. Ho visto la faccia che fa tuo marito, quando parti per una delle tue tirate. Lo annoi. Perché pensi tenga sempre la tivù accesa, saltando da un canale all’altro? Ma prima di esprimere questo pensiero, ne formula un altro più importante. – Ti ci hanno mandata, vero? Giulia fa finta di niente, si alza e va dall’altra parte della stanza. E prima che Helen capisca cosa sta facendo, sua suocera ha rimesso a posto la cornetta del telefono. Poi la rialza per controllare il segnale di linea libera e infine la rimette giù, con un sospiro e un’occhiata circolare alla stanza. – Il cellulare? – dice. – Dove ce l’hai? – Come? – Dove l’hai messo? Devi accenderlo, Helen. Non puoi continuare a fingere di non esserci. Hai già fatto abbastanza sciocchezze, e mi pare tu abbia dimenticato le tue responsabilità. Federico non era un signor Nessuno, te ne rendi conto o no? La sua segretaria personale ti cerca fin da stamattina presto, e sono già le dieci passate. – Cercava me? Giulia fa una smorfia impaziente, come se Helen si stesse comportando da bambina cocciuta. – Non puoi mettere la testa sotto la sabbia. Ci sono delle decisioni da prendere e devi prenderle tu, benché ne sia chiaramente incapace. – Perché non la lascia in pace? – dice Giacomo, dopo aver finalmente fatto la sua comparsa, appena coperto dall’accappatoio di Federico, troppo piccolo per lui. No, pensa Helen, ti pre-
156
CHARLES LAMBERT
go, così peggiori la situazione. Giulia però non lo degna di uno sguardo e si avvicina invece a Helen, col suo solito passo spedito, per poi metterle una mano rigida e fredda sulla spalla. Helen lotta contro l’impulso di scacciarla. – Federico ha lavorato tantissimo, – dice Giulia. – Ha dedicato tutta la vita al suo lavoro, questo lo capisci perfino tu, benché non te ne sia mai importato nulla. Eri la scelta peggiore per lui, io l’ho sempre saputo, perché Federico aveva bisogno di una persona da cui ricevere sostegno, di qualcuno a cui importasse dell’Italia. – Mica una forestiera con una vita propria, pensa Helen, sperando che il suo silenzio spinga Giulia a proseguire. A Helen fa bene essere trattata così, sapendo di poter ferire atrocemente la suocera, se solo volesse. Ma su quello ha cambiato idea, almeno per oggi. Federico non parlava mai di sua madre: faceva sempre il massimo per esaudirne le pretese, le feste comandate, i pranzi, gli amici di famiglia da intrattenere, eppure non ha mai detto a Helen di volerle bene. Non ha mai detto, nemmeno una volta, Io voglio molto bene a mia madre. Federico era bravo con il dovere, lo aveva imparato da Giulia; ma il dovere non è amore. Com’è pesante quella mano sulla spalla, nemmeno la suocera le gravasse effettivamente addosso, la tenesse giù con la forza. Helen si dimena per liberarsi, ma la morsa delle dita si stringe. – Di una donna che gli desse un figlio, – conclude Giulia. Allo squillo del telefono Giacomo fa per andare a rispondere, ma si trova il passo sbarrato da Giulia, schizzata all’altro capo della stanza con una rapidità inattesa. Lei a sua volta viene fermata da Helen. Dobbiamo sembrare proprio grotteschi, pensa tirando su la cornetta. È Fausto. – Posso parlare con Giulia? – Allora lo sapevi, che veniva qui. – Tu come stai?
OCCASIONI DI MORTE
157
– Tutto a posto, – dice lei. – E tu? – Non ho dormito, – risponde Fausto. – Non ci riesco. – E dopo un istante di silenzio: – Me la passi? – Voi due siete in combutta. – Non so cosa intendi, – dice lui. – Mi dispiace. – Ha un tono inerme e risoluto insieme. Questo non è Fausto, pensa Helen. Fausto è sempre stato dalla mia parte. Giulia è lì accanto, più vicina che può, a battere sul parquet con la punta del piede. Helen percepisce il calore corporeo della vecchia e fiuta una nota acida, forse è sudore. Vorrebbe dire a Giacomo di levargliela di torno, ma ci ripensa. La blocca invece dandole le spalle e stringe il ricevitore. – Dille di lasciarmi in pace, – grida al telefono, mentre Giulia la tira per un braccio con le mani ossute. – In nome di Federico. – Passamelo – dice Giulia. – Fausto, dimmelo, cosa vuole da me? – Helen è prossima alle lacrime, mentre le vecchie grinfie di Giulia forzano le sue dita ad aprirsi, prima un dito, poi due insieme. Helen si dibatte, colpendola in faccia; Giulia arretra barcollando, poi le strappa il telefono di mano. Paralizzata per lo choc, Helen scorge un rivolo di sangue sulla gota della suocera, nel punto in cui forse l’ha graffiata con l’anello di fidanzamento, e si mette a tremare. Giulia dice rapidamente al telefono: – Ti richiamo, – ma poi non abbassa la cornetta. Fausto deve averlo detto qualcosa per farsi ascoltare. Giacomo è andato ad abbracciare Helen; lei tiene gli occhi serrati ma sente la sua mano sui capelli, ad accarezzarla ripetutamente, mentre cerca di riprendere fiato, dopo avergli moccicato sull’accappatoio. – Mi spiace, – dice, – mi spiace. – Poi lascia che Giacomo la porti fino in bagno e chiuda loro la porta alle spalle. – Non ce la faccio più, – dice. Sta di fronte al lavabo come una bambina mentre lui le spruzza il viso con l’acqua fredda e poi glielo asciuga.
158
CHARLES LAMBERT
– Qui non conta solo il tuo parere, Helen, – dice Giulia dall’altro lato della porta. – Vaffanculo e lasciami sola, – grida Helen in inglese, poi si mette in ascolto, con una mano sulla bocca, mentre Giulia si allontana. – Non posso uscire, – dice poi a Giacomo, e lui vorrebbe abbracciarla; ma un secondo dopo, come in un sogno, lei lo ha scansato ed è di nuovo davanti a Giulia, seduta al tavolo come se attendesse di essere servita. – Io veramente non ti capisco, – dice Giulia, apparentemente ignara della propria guancia insanguinata. – Fino adesso hai sbagliato tutto, renditi conto. Hai ignorato la stampa, quando bastava dire una parola, quando un’unica parola sarebbe stata sufficiente, e ti sei chiusa dentro casa come se avessi qualcosa da nascondere. Ti sei rifiutata di collaborare col governo, col presidente del Consiglio, con chiunque. Ti sei comportata come una bambina viziata, ed è assolutamente inaccettabile. – Rivolge a Helen uno sguardo truce, senza dissimulare il suo biasimo. – E ora guardati, – prosegue, sprezzante. – Già a letto con un altro, la seconda sera. E per giunta si tratta di quell’uomo, di quell’essere spregevole. – S’interrompe di colpo, come per un pensiero improvviso. E infatti è così. Helen la vede sbiancare in volto; alle sue spalle Giacomo sogghigna, ma lei non ci bada. – Eri con lui, vero? Tu eri con lui quando Federico è morto. Le bugie che hai detto alla polizia servivano a proteggere lui. Ma tu guarda, pensa Helen, questo semplice fatto, questa coincidenza irrilevante, riesce finalmente a scuoterla un po’. Perché Giulia non ha alcun diritto di parlare di cordoglio. Cosa ne sa, di come si senta Helen? Cosa ne sa, delle bugie dette alla polizia? – Cosa ti fa pensare che io abbia mentito?
OCCASIONI DI MORTE
159
– Non fare la furba con me. – Certo, avrai le tue spie, – dice Helen. – Il lupo perde il pelo... Giulia si alza in piedi. – Questo paese è casa mia, com’era per Federico. E come per te non sarà mai. – Ne sono ben contenta. – Helen è furibonda. – Non me ne frega un tubo del vostro cazzo di paese. Giulia ride, altezzosa. – Ma tu davvero credi di poter prendere decisioni riguardo a mio figlio? Una che nemmeno quarantott’ore dopo l’omicidio del marito si fa beccare a letto con un terrorista pregiudicato? – Per la prima volta si porta una mano a sfiorare il graffio sulla guancia, e se lo accarezza pensosa. Forse si è appena accorta del dolore. – Certo, – dice dopo un istante, – se solo tu fossi disposta a ragionare. – A ragionare? – Aspettano solo di mandarti a prendere con una macchina, dice Fausto. – Come, con una macchina? – Devi vedere il presidente del Consiglio, – prosegue Giulia. – Il quale non accetterà un rifiuto, e tu lo sai benissimo. Io lo disprezzo esattamente come te, come tutti, ma non è quello il punto. Entro certi limiti ci si può parlare. Ascoltalo e fatti dire cosa vuole. Senza rendersene conto, perché non ha capito appieno – è concentrata su Giacomo, tornato in bagno – Helen fa un cenno col capo che potrebbe essere di assenso. Giulia si china a darle un buffetto su una mano. – Lascia fare a me, – dice, come se avesse portato a casa il punto e potesse permettersi di essere magnanima. Poi corre al telefono e forma un numero evidentemente mandato a memoria, voltandosi indietro per vedere come la sta prendendo la nuora. Helen però desidera solo camminare. Ha voglia uscire di casa, se ne rende conto solo ora, per la prima volta da quando
160
CHARLES LAMBERT
hanno sparato a Federico, e già sembra passata una vita. Il tempo è una cosa strana e dipende solo dalle emozioni, pazienza per gli orologi e i calendari. Vorrebbe uscire di casa e incamminarsi senza pensare a niente, attraversare via Giulia e imboccare gli scalini verso il fiume, passeggiare lungo l’argine prima stretto e poi più largo, lasciarsi dietro l’ospedale dell’Isola Tiberina e la sinagoga e procedere verso Testaccio. Vorrebbe uscire dalla città vecchia, vedere il gazometro e dopo, molto dopo, quando il sole è nella posizione giusta, i riflessi della luce sull’oro del mosaico di San Paolo fuori le Mura. Vorrebbe oltrepassare con calma il campo nomadi e l’ex cinodromo e lasciarsi il fiume alle spalle per poi arrampicarsi tra l’erba alta e secca della scarpata e raggiungere il punto in cui si comincia ad avere una sensazione di aperta campagna, malgrado vi siano costruzioni ovunque, basse e brutte, in ogni direzione, per gran parte recenti, case e officine di questo o quel tipo, fabbrichette, capanni d’orti, magazzini. Con Federico andavano fin laggiù in bicicletta, i primi tempi a Roma, e lui si fermava a chiacchierare coi passanti, con la sincera curiosità che sempre dimostra, o dimostrava, perché la curiosità è una caratteristica dei vivi, forse la più importante. Federico ascoltava e più tardi, quando si ritrovavano loro due soli, si annotava quel che aveva sentito. Parte tutto da qui, gli piaceva dire, tamburellando sul taccuino, da queste parole scritte qui. Lo faceva già a Torino, con Giacomo a ridergli dietro. Sempre loro tre, e poi Stefania e ancora, a una certa distanza, tutti gli altri. Helen vorrebbe camminare finché non rimane più nessuno e più niente se non la sabbia scura e scabra della costa e il cielo vuoto, e poi, dopo tutto questo, respirare. Ci prova adesso, nell’aria avvelenata di casa sua, un’inspirazione profonda, un’espirazione forzata, mentre sua suocera bisbiglia al telefono a pochi passi da lei e abbassa la voce ogni volta facendo il suo nome.
OCCASIONI DI MORTE
161
– Cos’è questa faccenda della macchina? – Più tardi, – dice Giulia, – ne riparliamo più tardi. – Prende la borsetta e sembra sul punto di andarsene ma qualcosa, un pensiero improvviso, la ferma. Guarda Helen con un’espressione addolorata in volto. – Non dobbiamo litigare, sai. Non possiamo farci prendere dal rancore, non adesso. Dobbiamo occuparci del retaggio di Federico. – Lancia un’occhiata alla porta del bagno e poi, avvicinandosi a Helen, aggiunge, in tono intimo, confidenziale: – Lui non conta niente. Questo lo sai, vero? – Le dà un colpetto su un polso: forse lo ritiene un gesto affettuoso, pensa Helen. – E non preoccuparti del cellulare. Nessuno ti darà il tormento, ci ho pensato io. Giulia se n’è andata da cinque minuti quando Helen si accorge che, alla fine, si è dimenticata la chiave. Va ad appenderla alla lavagnetta in cucina e guarda la parola OLIVE scritta con la calligrafia di Federico, poi raggiunge il bagno e apre la porta. Davvero è stato Federico a dare a sua madre le chiavi di casa? Senza dire una parola a lei? Certe volte Helen si domanda se erano davvero sposati: forse ha ragione Giulia. Rimane sulla soglia, le braccia tese in alto ad afferrare lo stipite, e resiste fino a sentir male alle spalle. Giacomo è stravaccato sulla tazza, la testa poggiata all’indietro contro il muro, l’accappatoio di Federico ben legato addosso, teso sullo stomaco. Ha gli occhi chiusi, ma li apre immediatamente. – Se viene una macchina la mandi via, vero? – fa lei. – Certo. – Non è meglio se chiami Yvonne? – No, non c’è bisogno, – dice lui. Ci ha pensato, a come gestire tutta la situazione. Yvonne non rappresenta un problema: si è rotta le scatole di lui quasi quan-
162
CHARLES LAMBERT
to lui di lei. Anzi, potrebbe pure aver già fatto i bagagli ed essere ripartita, come minacciava di fare ieri sera. E io come mi sentirei?, si domanda. Ma non ci vuole molto a trovare la risposta. Sollevato. Non ha intenzione di negarlo. Perché dovrebbe? È sempre stato pronto ad ammettere i propri errori e andare avanti. Presto o tardi lei lo lascerà, la cosa è ovvia ormai da qualche tempo, e presto sarebbe un regalo del destino. Lo denuncerà per indifferenza o crudeltà mentale e lui dovrà passarle dei soldi, s’immagina, più di quanti lei ne meriti e più di quanti lui possa tirarne fuori senza problemi. Perciò dovrà rientrare nel giro delle conferenze, rimandando il libro, e vedere se negli Stati Uniti si decidono a riceverlo. In alcuni atenei, gli hanno detto, è oggetto di un culto di appassionati. Gli è venuto in mente di scrivere qualcosa su Federico: nulla di teorico, un bozzetto, ricordi, osservazioni sagge e paradossali. Una cosina succosa, per smuovere un po’ le acque. Al momento giusto ne parlerà con Helen, sentirà cosa ne pensa lei. Avranno tempo, per questo e per tutto il resto. Solo adesso capisce quanto lei sia giusta per lui: vederla tener testa a quella vecchia odiosa è stato bellissimo. Certo nel suo progettino dovrà mettere anche Giulia, l’influenza materna, il ruolo delle donne nella vita di Federico... Pure Stefania, magari, potrebbe aver qualcosa di interessante da dire al riguardo. A proposito: deve dire a Helen che Stefania ha chiamato, ieri mattina. Era rientrata da poco da una delle sue spedizioni in Africa e aveva appena saputo dell’omicidio. Piangeva, inconsolabile, senza riuscire a smettere, e lui ha aspettato finché lei ha dato fondo alle lacrime. Voleva venire al funerale. Quale funerale?, le ha chiesto. Non si sa ancora niente. Deve decidere Helen. Helen, ha detto lei, e si è messa a piangere da capo. La chiamo, ha detto, devi darmi il suo numero. L’impatto seguiterà così per un pezzo, ha pensato lui, a fare le onde sulla super-
OCCASIONI DI MORTE
163
ficie; non appena qualcuno si abitua alla perdita di Federico, qualcun altro intraprenderà il cammino per comprenderla. E quanto sarà lungo quel cammino, si chiede, guardandosi dentro mentre Helen sospira e si siede accanto a lui sull’orlo della vasca, prendendogli una mano tra le sue, a capo chino. Giacomo pensa che stia per piangere, ed è pronto: è felice della possibilità di consolarla. E dopo Stefania, a chi toccherà?
3
Sono passati anni dall’ultima volta in cui ha giocato al piccolo detective: Martin stenta a credere di essere nuovamente seduto in macchina, coi finestrini chiusi, davanti alle migliaia di metri quadri abbandonati dei vecchi Mercati Generali, in attesa di uno sconosciuto. Quando la Bravo blu metallizzato gli si accosta, lui getta un’occhiata di sbieco e vede un giovanotto con diversi chili o muscoli di troppo, non si capisce bene, la testa rasata stile palla da biliardo come la portano tutti oggigiorno, il più bel popolo d’Europa trasformato in una razza di skinhead. Il ragazzone indossa una maglia bianca con il collo alto, tesa sui bicipiti, e un paio di quegli occhiali scuri da mosca, con le lenti a specchio aranciate. In un mondo normale, pensa Martin, sarebbe un pugno in un occhio. Il tipo fa un cenno col capo e riparte su via Ostiense, in direzione della basilica di San Paolo; Martin lo segue. Si attende di essere condotto verso Ostia, e infatti l’auto davanti alla sua svolta a destra su viale Marconi, poi di nuovo a destra sulla via del Mare. Martin ha sempre evitato questo percorso, nelle rare occasioni in cui gli è toccato andare a Ostia in questi ultimi anni; non è certo un appassionato della tintarella, basta la minima esposizione al sole e si copre di chiazze livide. La via del Mare è nota come una delle strade più pericolose d’Italia, per quanto sia difficile crederlo di questo vialone screziato di sole e pini marittimi, dritto come un fuso, con le rovine di Ostia Antica a spuntare sulla destra dopo che si sono lasciati la città alle spalle e sono passati sotto il raccordo anulare, ingolfato di traffico come sempre.
OCCASIONI DI MORTE
165
Il tizio davanti a lui tiene una velocità ragionevole, al limite del consentito, e Martin si diverte a vedere quanto spesso entrambi vengano superati. C’è un verso in una canzone di Dylan che gli è sempre piaciuto, bisogna essere onesti per vivere da fuorilegge. Quant’è vero, pensa Martin con l’occhio al tachimetro: la lancetta sfiora appena i settanta. L’invisibilità è la miglior vendetta, e lui tiene una distanza appena sufficiente perché un’altra auto si insinui tra loro, ma non di più. Non è la prima occasione in cui segue qualcuno, oppure viene seguito, se è per quello, e come al solito si sta divertendo. Vede tutto come un gioco e gli è sempre piaciuto, anzi gli sembra strano non averne poi sentito così la mancanza negli ultimi quindici anni. Prima di raggiungere Ostia l’altra macchina svolta a sinistra e s’infila nella pineta estesa parallelamente alla costa, dal punto in cui si trovano ora fin giù alla tenuta presidenziale, fra Ostia e Torvaianica. Martin continua a seguire la Bravo lungo una strada sterrata, sempre più divertito dall’atmosfera furtiva, dall’idea che una semplice telefonata, una semplice richiesta di informazioni, debba portare a tutto questo. Siamo fatti così, pensa, ci si riconosce lui per primo: perché farla semplice, quando si può giocare un po’? L’altra auto lo precede di venti metri quando entra in una zona attrezzata per picnic, una decina di tavoli in legno completi di panche, e accenna a fermarsi. Quello è il segnale. Martin accosta, guarda la Bravo andar via e solo adesso si rende conto che forse la scelta del modello non era casuale... è stato un bravo a scortarlo fin qui? Smonta dalla macchina con una smorfia, soffre di artrite alle anche e ai ginocchi e sa benissimo di essere in sovrappeso, ma quali altri piaceri gli restano? La sua vita sessuale, già non rutilante, si è ridotta a nulla da quando il medico gli ha prescritto un farmaco per la pressione alta; bel paradosso, pensa
166
CHARLES LAMBERT
Martin. Pressione alta dappertutto tranne dove serve. Ripensa ad Alina: forse lei conosce tecniche particolari per quelli come lui, si dice, e poi se ne vergogna. Si scosta i pantaloni di lino dall’inguine e ci rimbocca dentro la camicia, posandosi per un attimo la mano sulla pancia. Il sole di giugno gli picchia dritto sulla testa e forse, si rende conto ora, non avrebbe dovuto preoccuparsi di dare nell’occhio al punto da uscire senza il suo panama – autentico, un vezzo da anziano – a proteggergli la pelata. Stasera gli pruderà, quel prurito minimo ma costante che non lo fa dormire se non ha bevuto abbastanza, e pure in quel caso si sveglia alle prime ore dell’alba e deve spalmarsi in testa una certa pomatina rosa, la quale a volte funziona, a volte no. Di questi tempi, però, i cappelli attirano troppo l’attenzione. Tamponandosi la fronte con un fazzoletto, Martin si avvia verso la panca più vicina e si siede con le spalle al tavolo. Non guarda l’orologio; già pensava di dover aspettare e infatti eccolo qui, solo in una desolata area picnic nel cuore della pineta di Ostia, in attesa di una persona che non vede da più di dieci anni. Un uomo, gli sovviene ora, mai visto in luoghi diversi da parchi, stazioni ferroviarie e boschi: sempre all’aria aperta, pure d’inverno, sempre in posti dove nessuno guarda né ascolta, sebbene di questo non si possa mai essere certi, e lo sanno tutti e due. Ma santo cielo, cosa mi è saltato in mente, mettermi a fare giochini... pensa di colpo, e deve rammentare a sé stesso che è qui per Helen, per aiutarla a capire perché suo marito è morto. – Non possiamo parlare così, al telefono, – gli ha detto Picotti quando Martin ha chiesto il suo aiuto, stuzzicando la sua curiosità pur nella piena consapevolezza che magari quest’atteggiamento non significa niente, è solo il riflesso di un muscolo trascurato e atrofizzato. Quindi hanno preso accordi.
OCCASIONI DI MORTE
167
Picotti non arriva in auto oppure, se l’ha fatto, l’ha lasciata più lontano, perciò Martin sussulta quando una pigna gli rimbalza a poca distanza da un piede e un’altra lo becca sulla spalla. Balza in piedi, si volta di scatto ed eccolo là, il suo uomo, sempre uguale, brioso e smilzo da dar fastidio, la testa calva lucida sotto il sole. Martin tira dentro la pancia, tristemente conscio degli scarsissimi risultati, se non per la pressione appena ridotta della fibbia della cintura contro la carne. Picotti sfreccia per l’area picnic, la mano tesa, il sorriso tondo e luminoso come una falce di luna. È vestito da vacanza, con quegli strani pantaloni a mezz’asta, adorni di tasche superflue attorno ai ginocchi e di bottoncini di gomma a penzolare dagli orli, della foggia nota come pinocchietto, almeno secondo un ragazzo della redazione di lingua francese il quale, una volta, se n’è messi un paio color cachi per venire al lavoro. Un piccolo Pinocchio, aveva pensato Martin in quell’occasione trattenendo una smorfia, e poi? Come se dovessimo vestirci bene, per questo viaggio di sola andata che è la vita. Sulla maglietta di Picotti c’è scritto qualcosa in inglese, ma l’uomo è ancora troppo lontano perché Martin riesca a leggere senza occhiali. Gli era parso fossero le sconcezze in spagnolo, la voga di questa stagione, ma potrebbe essersi sbagliato. Ultimamente gli capita spesso. In fatto di mode, ha scoperto, è alquanto fallibile; dovrà sentire Jean-Paul. Tende la mano a sua volta e Picotti la prende, stringendola più forte di quanto Martin apprezzi, poi con la stessa mano gli dà una botta sulla pancia, un colpo duro, cattivo quasi. – Ehi, Martino, – gli dice, – ci siamo un po’ lasciati andare in questi ultimi anni, eh? – Non è colpa mia, – dice Martin con un sorriso forzato. – E di chi, mia? – Picotti simula sorpresa, arretra di un passo, si porta le mani al petto; il sorriso si piega all’ingiù come quello di un pagliaccio tragico.
168
CHARLES LAMBERT
– Vostra, amico mio, della vostra dolce vita. – Se potesse preferirebbe non condurre la conversazione in inglese, ma non spetta a lui decidere. Il favore glielo fa Picotti, e non è Martin a poter stabilire le regole. Deve ingoiare perfino quel “Martino” senza battere ciglio. Picotti ha sempre fatto così, deve ridurlo a uno stato d’impotente irritazione prima di tirar fuori quel che gli si chiede. Della qual cosa, fra l’altro, non c’è nessuna garanzia e non ce n’è mai stata. Le carte che più ci stringiamo al petto sono, molto spesso, quelle del tutto insignificanti. – Chi non muore si rivede, – dice Picotti accennando con la mano alla panca. – Noi invecchiamo e il mondo è sempre più pieno di merda. Non è più il nostro mondo, caro il mio Martino, ormai siamo due vecchi. – Fa spallucce e si siede, tirandosi su i pinocchietti quasi al ginocchio, in attesa di essere imitato. Quando Martin prende posto accanto a lui, Picotti gli piazza una mano dura e abbronzata su una gamba; Martin finge di non vedere la mano e al contrario lo guarda in faccia, con l’espressione più gradevole che gli riesca di ostentare. Ora è abbastanza vicino da vedere il disegno sulla maglietta: due occhi verdi da felino su fondo nero. La scritta recita “Al buio tutti i gatti sono leopardi”, e più sotto: proverbio etiope. – Adesso comandano i ragazzini, Martino. Com’è quella frase vostra, eh? I matti dirigono il manicomio. – Picotti si mette a ridere, poi tossisce, e intanto gli serra la ciccia sopra il ginocchio in una morsa tale che Martin, ancora con quel sorriso appiccicato in faccia, non vede l’ora di levarselo di dosso. – Humour inglese, delizioso. Qui non abbiamo il vostro senso dell’umorismo, vero? Dobbiamo accontentarci di essere i migliori amanti d’Europa, se non del mondo. È dura, ma ce lo facciamo bastare. – Martin fa sì con la testa, sollevato dall’attenuazione della stretta sulla gamba. – Mi sei mancato, Martino, –
OCCASIONI DI MORTE
169
dice Picotti. E Martin, suo malgrado, è commosso dalla sincerità del suo tono. – Anche tu mi sei mancato, – dice, sebbene non lo pensi, o almeno non con l’apparente intensità di Picotti. Si era scordato come la presenza di quest’uomo lo abbia sempre riempito di un’imprecisata vergogna; ed è già la seconda volta che si vergogna, oggi. Picotti si appoggia all’indietro, con i gomiti sul tavolo. – E adesso questa cazzo di guerra, ma dimmi tu, a cosa serve? – dice. Sfila una sigaretta dal pacchetto morbido e la offre a Martin, il quale però declina, e allora Picotti leva un sopracciglio, poi la accende per sé. Fuma ancora le MS, nota Martin. “Morte Sicura”. Picotti è invecchiato almeno quanto lui, adesso Martin se ne rende conto. Il viso è solcato di rughe, la carnagione sotto l’abbronzatura è stanca e fragile. Quando sorride, e sorride di continuo, i denti sembrano più grossi e più distanziati che mai, dandogli il sorriso minaccioso di un cavallo. Cavalli, pensa Martin, privi di senso dell’umorismo pure loro. – Il tuo amico Di Stasi la pensava come me, giusto? Quando ha telefonato Martin non ha accennato a Federico, e adesso è sorpreso e allarmato. – Di Stasi? – dice, in tono volutamente perplesso. – Ma sì, Di Stasi. Non la voleva, questa cazzo di guerra. Chi la vuole, del resto? – Picotti osserva la brace della sigaretta accesa, poi si scuote la cenere nella mano e la soffia via, come una donna manderebbe un bacio dal palmo. – Petrolio e soldi, soldi e petrolio. Mentre là muoiono delle brave persone. – Schiaccia la cenere sul terriccio con la punta di un sandalo, un aggeggio luccicante tutto cinghietti e fibbie. Ha i piedi bruni, le unghie un filino troppo lunghe, le dita ricurve dopo decenni di scarpe troppo strette. – Così. – dice, poi guarda Martin. – Brave persone come noi.
170
CHARLES LAMBERT
– La gente muore sempre, in guerra, – dice Martin. – Allora, cosa vuoi sapere? – dice Picotti, impaziente tutto a un tratto. – Di Stasi, – dice adagio Martin. – Il mio amico. L’hanno ammazzato. Gli hanno sparato per strada, senza un motivo evidente. Mi chiedevo se per caso sapevi chi potesse volere una cosa del genere, e perché. Picotti butta indietro la testa e ride. – Ah, Martino, – dice. – Mi fai una domanda così, e io cosa posso fare? Cosa pensi che possa fare, ora? – Si passa il dito di taglio sulla gola. – Vuoi vedere il sangue? – Voglio una mano, – dice Martin. Picotti si fa serio e alza lo sguardo al cielo, dove un elicottero si dirige verso la costa. Entrambi lo guardano virare a sinistra, verso Castel Porziano e la tenuta presidenziale. – È un momento impegnativo. Troppa gente importante da sorvegliare. Troppi matti. I manicomi sono diventati uno solo, sai? Un unico grande manicomio yankee, con un solo grande capo. E io non ho più il coraggio di immischiarmici. Mi manca lo stomaco, voi dite così, giusto? – Sorride. – Diversamente da te, Martino. Si alza, e le gambe dei pinocchietti tornano sotto il ginocchio. – Mi sono appena risposato, e lei è giovane. Non lo sapevi, vero? Mantengono giovani, no? – Il sorriso si allarga. – I vestiti da ragazzi, voglio dire. Come questi. Mi stanno bene, dice lei, mi rendono sexy, io però non sono così sicuro. È facile prendere per il culo i vecchi. Non preoccuparti, Martino, non ti chiederò cosa ne pensi tu. Quando Martin è in piedi accanto a lui, e di nuovo si scosta i pantaloni dall’inguine, Picotti lo cinge intorno alle spalle e lo attira a sé in un goffo abbraccio, dal quale Martin rimane tan-
OCCASIONI DI MORTE
171
to sconcertato da irrigidirsi. Poi si rilassa, e se non avesse le braccia bloccate contro i fianchi, pensa, forse abbraccerebbe Picotti di rimando. Vorrebbe chiedergli della sua prima moglie, sebbene non la conoscesse, ma teme la risposta, quale che sia; non sarebbero belle notizie, questo è certo. Vedovanza o divorzio, malattia o astio. Qualunque cosa fosse, sarebbe dura da mandar giù. Sì, Picotti, noi diciamo così, mi mancherebbe lo stomaco. Picotti si ritrae. – Quello sulla Bravo era mio figlio, il mio bambino, ti ha portato fin qui. Bel ragazzone, eh? Coi tatuaggi e tutto quanto. Martin conferma con un cenno. – Tutto in famiglia. Sempre stato saggio, tu. – Ehi, Martino. Se non ti puoi fidare della famiglia... – risponde l’altro. Poi prende Martin sottobraccio e lo avvia, gentile ma fermo, verso la macchina. Martin ha già aperto lo sportello, e sta per accasciarsi nel caldo soffocante dell’abitacolo, deluso ma non meravigliato che da Picotti non gli sia venuto alcun aiuto, quando l’altro gli passa un pezzetto di carta con scarabocchiato sopra un numero di telefono. – Ci penso io, Martin. Vedo cosa posso fare.
4
Helen porta la caffettiera al tavolo e versa il caffè per tutti e due, osservando il rivolo glutinoso fare una pozza e poi riempire le tazzine. – È pazzesco come mi ha trattato Giulia, non riesco a crederci, – dice. – Tu però con lei sei stata meravigliosa, – dice Giacomo. – Ma figurati. Ero inorridita. Secondo me è diventata matta. Vuol vedere il figlio riportato a casa sullo scudo, non pensa ad altro, e farà qualsiasi cosa per ottenerlo. La sua amata repubblica. Non sopporto l’idea di Federico usato per puntellare una cosa che odiava. – Ma per la quale lavorava, o no? Helen scuote il capo. – No, Giacomo, lui remava contro. Da dentro. – Non credo sia possibile. – Io neppure. Lui sì, però. Giacomo posa una mano sulla mano di Helen. Lei le guarda, poi alza gli occhi per sorridere. – Sono contenta di averti qui. – Anch’io sono contento di esserci. Tacciono entrambi. Non hanno mangiato, ma Helen non ha fame e comunque in casa non c’è niente. In questa maniera non si può andare avanti, pensa lei. Se continuo così ci muoio, qui dentro. La mano di Giacomo è tiepida e pesante sulla sua. Per un secondo vorrebbe ritrarla. Si sente addosso lo sguardo di lui: cauto, ansioso, quasi soffocante. È contenta di averlo qui, o no? Non lo sa. In vita sua è la prima volta in cui si trova con
OCCASIONI DI MORTE
173
Giacomo senza tradire nessuno. Immagina di poter uscire di casa insieme a lui, sottobraccio, e andare verso il fiume. È questo che vuole? Perdere un uomo e prenderne un altro? Alla fine tira via la mano. Si sente oppressa, irrequieta. – Sarà meglio accendere il telefonino, – dice. – Giulia ha ragione, non posso nascondermi così. – Se lo accendi, dopo dovrai rispondere. – Lo so. – Helen si alza, accende il cellulare, fissa il display con sguardo vacuo tentando di ricordarne il codice di sicurezza, lo inserisce, sospira. – Chi se ne frega. Se devo andare a parlarci, ci vado. Perché non dovrei? Non mi fa paura. Non significa dover fare quel che mi dice, poi. Il cellulare si mette a squillare immediatamente. Helen risponde senza nemmeno guardare il numero. La prima telefonata è di una giornalista, una con la quale ha collaborato una volta per l’inserto culturale dell’“Unità”. Adesso lavora da freelance, le dice con malcelata disperazione. Naturalmente si rende conto della situazione di Helen, certamente terribile, e dell’inopportunità della chiamata, ma... In effetti sì, la interrompe Helen, è un momento terribile. Davvero, mi rendo conto, dice l’altra. Grazie, mormora Helen, ma preferisco non parlare, almeno per adesso. Sì, sì, davvero mi rendo conto, ripete la giornalista, ma Helen sta attaccando. E subito il telefonino emette quel verso che annuncia l’arrivo di un messaggio di testo, o una chiamata non presa. Helen controlla, Martin ha chiamato una volta, ma senza lasciare messaggi; l’ha cercata pure un’altra collega, Martha Weinberg, per la terza o quarta volta negli ultimi giorni. Il cellulare continua a tossirle in mano. Le altre chiamate senza risposta – sette in tutto – vengono da numeri sconosciuti. Uno con il prefisso dell’Inghilterra, e questo la incuriosisce, ma non abbastanza da voler richiamare. Da Giulia niente, ma è normale; lei usa la li-
174
CHARLES LAMBERT
nea fissa, ora sotto attenta sorveglianza, grazie ai suoi buoni uffici. Helen è meravigliata dal fatto che la suocera eserciti ancora tanta influenza da ottenere una cosa del genere, e sconvolta all’idea che qualcuno intercetti le telefonate sulla sua linea privata; la quale era comunque sotto controllo da anni, Federico lo diceva sempre, faceva tutto parte del lavoro. – Ma le mie telefonate non fanno parte del tuo lavoro, – gli diceva lei, e intendeva, Io non faccio parte del tuo lavoro. – Lo so, lo so, – rispondeva lui stancamente, – non fa piacere nemmeno a me. – Il senso di colpa le aveva impedito di insistere. La seconda chiamata è di Martin. – Scusa, l’ho appena acceso. Ho visto, mi avevi già cercato. – Non preoccuparti, tesoro. Sto lavorando per te, volevo solo dirti questo. – Come, per me? – Chiedo un po’ in giro. – Ma sì, certo, – dice lei. – Scusa, Martin, ho la testa da un’altra parte. – Come va? – Passa a trovarmi, – dice lei. – È meglio, detesto il telefono. – Sei sola? – No, – risponde Helen. – C’è qui Giacomo. Ma sarei davvero contenta di vederti. – Già, a proposito. Mi ha chiamato Martha Weinberg. – Cosa voleva? Ha cercato varie volte anche me. – Sì, me l’ha detto. Vuole parlarti di Federico. – Ma se non lo conosceva! – Forse dovresti farle uno squillo e sentire cos’ha da dirti. – Va bene, – dice Helen. Ed esegue. – Ciao, Martha, sono Helen. – Oh, tesoro, come stai? – Bene, – dice Helen facendo una faccia, come a dire, Cosa
OCCASIONI DI MORTE
175
vuoi rispondere a una domanda così? – Ho visto che mi cercavi, scusa, ho tenuto il telefonino spento. – Non mi sorprende, chissà quanta gente ti ha dato il tormento dopo quel che è successo. Io avrei evitato di disturbarti, ma sentivo di doverti parlare. Si tratta di tuo marito. – Sì, Martin me l’ha accennato, – dice Helen. – Per quello ti ho richiamato. – Federico mi aveva contattata, non te l’aveva detto? – No, – fa Helen. – Nelle ultime settimane era molto preso. – Perché mi sto scusando al posto suo?, pensa tra sé. – E cosa voleva? – Be’, voleva informazioni. – Come, informazioni? – Helen è sorpresa. – Sì, all’inizio era confuso, divagava, allora gli ho detto di venire al punto: voleva il contatto, diceva, di chi aveva fatto un certo pezzo, pubblicato da noi, sulla chiesa e il movimento antiglobalizzazione. – E tu cosa gli hai detto? Martha ride, una risata rauca da fumatrice, poi ci ripensa. – Gli ho detto di usare uno dei suoi ricercatori, voglio dire, per lui erano gratis, no? Lui l’ha trovato molto divertente. Poi gli ho detto di guardare sul nostro sito. – Ed è finita lì? – Ebbene, no. Circa due settimane dopo, quindi parliamo di... aspetta, meno di un mese fa, mi richiama. Voleva vedermi. Io gli ho detto che non avevo tempo. – Voleva vederti di persona? – Esatto. Nemmeno io ci credevo. Cioè, lui sta riformando il mercato del lavoro in Italia e vuole vedere me? Mi sono addirittura chiesta se non fosse qualcun altro, tipo uno scherzo assurdo, ma due giorni dopo l’ho visto in televisione e la voce era la sua, senza dubbio.
176
CHARLES LAMBERT
– Per un pezzo sulla chiesa, dicevi? – Sì. – Martha s’interrompe, poi riprende in tono più cauto: – Senti, non so se sei pronta a sentirlo... – A sentire cosa? – Ci ha offerto dei soldi, – dice Martha. – Se suoi o di qualcun altro non so, non me l’ha voluto dire, o almeno credo. Comunque io non gliel’ho chiesto. – Cioè, aspetta, – Helen è incredula, – Federico ti ha offerto dei soldi? – Be’, li ha offerti alla rivista, ovviamente. E non si arrendeva. – Cosa intendi? – Continuava a chiamarmi. Tre, quattro volte al giorno. Io gli ho chiesto cosa si aspettasse di ottenere in cambio: magari stava cercando di comprare il nostro silenzio, che ne so. Niente, ha detto lui. – E tu cos’hai risposto? – Che poteva abbonarsi alla rivista, perché noi non prendiamo bustarelle. – E lui? – Mi ha mandato un assegno quel giorno stesso. – Di quanto? – Mettiamola così: di abbonamenti ne ha sottoscritti parecchi. Helen tace. – Senti, – prosegue Martha, – mi dispiace tantissimo doverti raccontare questa cosa, ma potrebbe essere importante, credo. Non volevo continuassi a ignorarla e poi lo scoprissi più avanti. – No, infatti, – dice Helen, – grazie. – Sta per riattaccare, ma Martha dice qualcos’altro e lei non capisce. – Come? – Per sabato? – ripete Martha.
OCCASIONI DI MORTE
177
– Per sabato cosa? – L’Iraq, la manifestazione contro la guerra... Lo so, il momento non è dei più adatti, ma niente, così, pensavo. Se vuoi venirci, al limite pure per Federico, saremmo felicissimi di averti con noi. Raduneremo le forze in redazione, sai dove siamo, vicino al gazometro. Non devi avvisarmi, vieni e basta. Ci riempirebbe d’orgoglio. – Ci penso su, – promette Helen, senza quasi sapere cosa dice, e chiude la telefonata. Giacomo è seduto su una poltroncina bassa in un angolo della stanza, a trafficare con il computer portatile di Federico, e alza gli occhi incuriosito. Il cellulare di Helen squilla un’altra volta. Un numero privato, che lei non conosce. Lo lascia suonare un po’, e poi risponde quand’è troppo tardi. – La pazienza è una virtù, – dice. – Ma in italiano non si dice, giusto? Cioè, non come lo diciamo noi inglesi, come se lo pensassimo veramente. – Forse perché secondo noi la pazienza non è una virtù. – Cosa stai facendo? Lui le fa segno di avvicinarsi. – Vieni a vedere. – Nel raggiungerlo Helen viene colpita dall’anomalia di questo senso di normalità, come se lei e Giacomo fossero sempre stati qui, e al tempo stesso di stranezza, con l’assenza di Federico come un aroma rimasto nell’aria. Perché davi dei soldi a quella donna?, si chiede. Ci deve pur essere un modo per parlargli, Helen ha questa sensazione, eppure sa quanto sia assurdo pensare di poter entrare in contatto con lui. Giacomo è seduto dove di solito si sedeva Federico per allacciarsi le scarpe, e controllare la valigetta prima di uscire di casa. Con una fitta d’angoscia Helen pensa, già, la valigetta, dov’è? Devo chiederlo al giudice, lui lo saprà, mi darà una mano. Le è parso uno di cui potersi fidare. Non sopporto l’idea della sua cartella abbandonata chissà do-
178
CHARLES LAMBERT
ve. Oh, Federico, vorrebbe poter dire. Perché mi hai raccontato delle bugie? Chi eri veramente? È come se dentro la perdita grande ce ne fosse un’altra, più piccola, più mirata. Giacomo indica una finestra aperta sul monitor. – Volevo dare un’occhiata al famoso file Juggernaut, – dice. – Dentro continua a non esserci nulla, ovviamente, ma guarda qui. – Indica un altro punto, e Helen legge le parole “Ultima stampa” e poi una data e un orario: lunedì 1 giugno 2004 14.43. – È impossibile, – dice. – Fede era già morto. – No, non è impossibile. Però significa una cosa: non è stato Federico. Il computer era rimasto dai suoi, mi dicevi? – Sì. – Bene, allora qualcosa da stampare c’era. E guarda qui, ora. – Indica un’altra volta. – L’orario dell’ultima modifica è un quarto d’ora dopo. E qui dev’essere stato quando hanno cancellato il contenuto. – Sai le cose che ha detto Giulia, tutta quella faccenda di Federico strano, – dice Helen. – Sì? – Martha Weinberg mi ha appena raccontato una cosa stranissima. – Chi è Martha Weinberg? – Dirige una rivista, la testata è “Futuri prossimi”. Lei è americana ma sta qui da anni, anzi abitava a due passi, dall’altro lato di piazza Farnese, poi però l’hanno sfrattata perché teneva troppi gatti. Io non la conosco molto bene e Federico detestava la rivista, non sopportava i gruppuscoli come il suo. Rovinavano tutto, diceva, come i bambini viziati alle feste quando cercano di attirare l’attenzione dei grandi. – Helen si ascolta parlare e pensa, Sto divagando. Cerca di concentrarti, Helen. – Insomma, cosa ti ha detto? Helen glielo racconta.
OCCASIONI DI MORTE
179
– Be’, da un certo punto di vista mi torna. Non pensavo di dirtelo, o almeno non subito, ma Federico nelle ultime settimane aveva mandato dei messaggi abbastanza strani anche a me. – Giacomo esita, preferirebbe non aver toccato l’argomento e si vede. – Roba molto new age, proprio non da lui. – Quindi, secondo te dentro quel file, Juggernaut, c’è della roba così? – fa lei, accennando col capo al portatile. – Questo dovresti chiederlo a Giulia, – dice Giacomo. Helen ride, senza allegria. – Già, forse dovrei. – Si passa una mano tra i capelli. – Vado a sdraiarmi un momento, – dice, ma non si muove. – Cosa faccio, vengo con te? – dice lui, il tono esitante e speranzoso. Non l’ha mai visto così, insicuro di sé riguardo a lei. E non sa come prenderla. – No, – dice. – Però puoi rispondere al telefono al posto mio. Di’ che sto dormendo. – S’interrompe. – E secondo me faresti bene a chiamare Yvonne. Mi sento molto in colpa per lei. – Una volta ti ho pedinato, sai, – dice Helen un’oretta più tardi, dopo aver dormito ben più profondamente di quanto credesse o sperasse. – Quando abitavamo tutti a Torino. – Davvero? – Sì, un pomeriggio. Stavo guardando una vetrina di scarpe e ti ho visto uscire da un bar pochi metri più avanti, e poi avviarti verso la stazione. Stavo per chiamarti ma qualcosa me l’ha impedito, come un impulso – non so cosa fosse, imbarazzo? Vergogna? Ma forse soprattutto curiosità – e ho pensato, vediamo dove va. È stato piuttosto emozionante, a dire la verità; ricordo di aver pensato, Ecco perché la gente lo fa, per il brivido. Pareva si giustificasse da solo. Poi ti sei visto con altre due persone, e io vi ho seguiti tutti e tre in una zona di Torino che non conoscevo, verso il cimitero. In giro non c’era nessuno, so-
180
CHARLES LAMBERT
lo noi. A un certo punto ti saresti voltato, ne ero certa, e mi avresti vista, e io non avrei saputo cosa fare. Poi hai varcato un cancello; io ho aspettato per vedere se uscivi, ma tu non sei uscito, e una ventina di minuti dopo mi sono avvicinata al cancello e ho sbirciato dentro. Ed è finita lì. Tu eri scomparso e io non ho aspettato più. Quando sono tornata a casa già mi pareva non fosse successo nulla. – A Federico l’hai raccontato? Helen scuote la testa. – Santo cielo, no. Non l’ho mai detto a nessuno. In effetti è stata una scemenza, ma al momento non mi sembrava. Anzi mi sembrava quasi normale. Voi lo facevate, no? Seguivate la gente, sospettavate di questo e di quello. Dev’esser stata quella cosa della pazienza a farmelo tornare in mente. Chiude gli occhi. – Tu non te lo ricordi, vero? Quando sono tornata Federico non c’era, invece tu eri in cucina. E probabilmente si vedeva fino a che punto mi sentivo sconcertata, anzi colta in flagrante, perché tu mi prendesti le mani e mi baciasti. E per come lo facesti, per come mi guardasti negli occhi, pensai: Tu mi hai vista. Tu sai esattamente cosa ho fatto. “Cos’è? Hai visto un fantasma?”, dicesti. Helen non dice cosa successe dopo. Non dice che si stava togliendo il cappotto quando Giacomo le venne alle spalle per aiutarla a sfilarselo dalle spalle. Non dice che si lasciò cadere contro di lui, e sollevare finché sentì la sua barba contro il collo, e poi le sue labbra. Che si voltò adagio, lasciando scivolare il cappotto a terra, e lo baciò, e poi si ritrasse mentre lui si accigliava e faceva un sorriso mesto, come a dire Sei sicura?, e lei fece di sì con la testa, e lo baciò di nuovo, attirandogli il capo verso di sé. Le mani di lui che si muovevano attorno alla lampo dei suoi jeans e la tiravano giù con lei ad allontanarsi appena per fargli spazio, senza spezzare il bacio, premendogli la
OCCASIONI DI MORTE
181
bocca contro la bocca, le braccia attorno a lui, le mani dietro di lui, ad afferrare l’aria come se stesse per annegare. Lui sapeva il fatto suo, c’era già passato. Non rammenta a Giacomo di quando fece un respiro profondo e poi gli morse l’interno del labbro, piano, mentre lui le infilava le dita nelle mutandine e la spingeva contro il muro, e lei si staccava da lui, la testa gettata all’indietro, e intanto lui si buttava in ginocchio e cominciava a leccarla, lentamente e con forza. Non dice che lo prese per i capelli con i pugni stretti per muovergli la testa come piaceva a lei, come ha fatto giusto due giorni fa, nella camera d’albergo, con Federico morto. Non dice che il suo sentimento più forte, quando torna col pensiero a questa scena, a parte l’ondata di eccitazione sessuale quasi insopportabile, è la vergogna. – Non l’ho mai detto a nessuno, davvero, – prosegue. Non sa dire cosa ricordi lui, ma è meglio così, pensa. – Certo, – dice Giacomo. – Non pensavo lo avresti fatto. Nemmeno io. Tacciono per un istante, poi Giacomo si alza e si mette a passeggiare per la stanza, scostandosi i capelli dalla fronte con tutte e due le mani. Allo squillo di un cellulare, sobbalzano tutti e due. – È il mio, – dice Giacomo. – Tranquilla. – Si porta il telefonino in corridoio, per non farsi sentire. Questa è Yvonne, pensa Helen, vorrà sapere dove cavolo è finito. E invece si sbaglia: Giacomo rientra un minuto dopo, sorridendo e scuotendo la testa. – Non ci posso credere. Era tuo suocero. Deve parlarmi, dice. E non riesco a immaginare il motivo, a meno che voglia sgridarmi perché sono qui con te. – Sta venendo qui? – No, ci vediamo tra mezz’ora in albergo da me. Se ti va puoi venire anche tu, gli facciamo una sorpresa.
182
CHARLES LAMBERT
Helen fa una smorfia. – No, – dice. – Ho da fare. – Allora ti chiamo più tardi? – Sì, per piacere. – Lui le rivolge un’occhiata perplessa, e lei aggrotta la fronte. – Dico sul serio, – ribadisce. – Non deludermi. Non appena lui se n’è andato Helen va in bagno, apre il rubinetto della doccia e poi regola la temperatura finché l’acqua è praticamente fredda. Si spoglia ed entra nel box trattenendo il respiro quando il getto le arriva sulla pelle, poi drizza la schiena e si lascia inondare la testa dalla sua forza, godendosi il sollievo dell’acqua fresca mentre i capelli man mano si appiattiscono e le si appiccicano sul collo e sulle spalle come una cuffia. Se li toglie dalla faccia, poi prende la spugna, la bagna sotto il getto, ci spruzza sopra un po’ di bagnoschiuma e si pulisce tutta, braccia, spalle e seni, fino a sentirsi la pelle liscia. Lascia che la doccia sciacqui via la schiuma profumata e intanto tiene gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro per farsi scorrere l’acqua sulla faccia, senza pensare, per la prima volta nella giornata, a niente. Solo quando esce dalla cabina e allunga il braccio a prendere l’asciugamano le torna in mente l’immagine di Federico, come se fosse tornata a terra. Ripensa alle sue dita rapide e nervose nello sbottonarle o abbottonarle la camicetta, impaziente, goffo quasi, e al modo in cui la guardava negli occhi nei momenti più strani, come per essere rassicurato. La pelle ancora umida, indossa l’accappatoio appeso dietro la porta e va in cucina scalza. Apre il frigorifero e tira fuori una bottiglia di vino bianco, la apre, prende un bicchiere e porta tutto in salotto, sul tavolino accanto al divano. Poi va alla finestra e scosta con cautela la tenda leggera finché riesce a vedere la piazza di sotto. Sembra non ci sia nessuno, a parte un grappolo di turisti e di gente presa nelle proprie faccende. Il bar è
OCCASIONI DI MORTE
183
aperto, come al solito, con due tavolini sul selciato antistante. Niente furgoni di canali televisivi, niente auto di giornalisti, a quanto può vedere. Pare che nessuno s’interessi più a lei. Helen apre la finestra di uno spiraglio, per far entrare un po’ d’aria, e sente il ronzio da insetto di un elicottero in cielo, lo stesso ormai da giorni o forse un altro, quasi stesse seguendo ogni sua mossa. Si allontana dalla finestra e chiama Giacomo, in preda a un improvviso bisogno di sentirlo, ma lui ha inserito la segreteria. Lei esita un momento, dice “Sono io” e poi chiude la telefonata. Detesta le caselle vocali. Certo, lui ha spento il telefono, ora è con Fausto. In un accesso di stizza verso sé stessa per aver chiamato, getta il telefono sul divano; l’apparecchio rimbalza su un cuscino, poi cade a terra. Oddio, pensa lei, l’ho rotto. Lo raccoglie e compone il numero fisso di Giulia, senza sapere bene cosa dirà, ma sollevata al sentire lo squillo perché il telefono funziona, e ancor più sollevata perché Giulia non risponde. Pure lei sarà presa nelle sue faccende, come sempre. Helen scruta il proprio, di telefono fisso, silenzioso, le chiamate filtrate a suo beneficio. Prima di uscire Giacomo aveva chiuso finestre e imposte per non far entrare il caldo, e in quella semioscurità la casa non è mai sembrata tanto vuota. Helen si siede sul divano, poi si rannicchia in un angolo, le gambe raccolte al petto come chi attenda, spaventato. Mezz’ora più tardi si sveglia di soprassalto, con la testa piena di immagini difficili da afferrare, Giulia e Federico, Martha in livrea da autista, i grigi capelli scarmigliati che sfuggono dal berretto. Si veste, poi apre un cassetto in cui Federico conservava cose e cosette, carte d’imbarco, monete straniere, passaporti scaduti. Di certo avrà messo qui le chiavi di casa dei suoi genitori. A questo gioco possiamo giocare in due, pensa. Trova tre
184
CHARLES LAMBERT
mazzi, il duplicato delle chiavi dell’auto, quelle della casa al mare dove vanno il fine settimana, infine un mazzo attaccato a un semplice anello e composto da una chiave grande di portone, una chiave di sicurezza e una Yale. Quando se le infila nella tasca della giacca sfiora con le dita il biglietto da visita passatole dal giudice. Si siede con il telefono accanto e compone il numero: vediamo cosa farà Giulia adesso, pensa, immaginandosi un funzionario annoiato, chissà dove, che si rianima e accende i dispositivi per la registrazione. – Sono Helen Di Stasi, – dice quando le rispondono. – Devo porgere le mie scuse.
5
Torino, 1978 Giacomo se ne andò da casa loro ai primi di febbraio. Adesso aveva una ragazza, Stefania, una fiorentina dall’aria tetra, con i capelli scuri; lavorava pure lei all’università, con mansioni poco chiare. Stefania aveva chiesto a Giacomo di andare a vivere con lei, e lui aveva cacciato tutti i libri e i vestiti nello zaino ed era uscito dalla loro vita con la stessa rapidità con cui vi era entrato, come un uccello che plana in casa da una finestra e se ne va per un’altra. A Helen mancava, era risentita per la sua assenza e chiedeva sempre notizie del dipartimento e di lui, ansiosa di saperne di più su Stefania, che aveva visto per non più di mezz’ora senza riuscire a capire se le fosse simpatica o meno. Federico però non aveva né il dono né l’indole di spettegolare. Restava fuori casa per gran parte della giornata, e dopo la cena preparata da lui, si mettevano a leggere insieme, oppure scendevano sotto casa a prendere un gelato. Si sentiva sola, capì all’improvviso: terminate le lezioni e mangiato un boccone in casa, oppure un tramezzino in un bar della zona, di pomeriggio prese l’abitudine di vagabondare per il centro; guardava le vetrine, immaginava vite diverse, ciondolava attorno agli scaffali della libreria inglese nella speranza che qualcuno attaccasse discorso, salvo poi trasalire e irritarsi se qualcuno lo faceva. Era quello il periodo in cui aveva notato Giacomo per strada e lo aveva seguito, e poi lui aveva seguito lei di rimando fino a casa, e avevano fatto l’amore, dopo di che lui era sparito una seconda volta lasciandole addosso il proprio marchio, pen-
186
CHARLES LAMBERT
sava Helen, come un gatto di strada. Si sentiva eccitata, e sporca: non aveva mai tradito nessuno prima d’allora, ed era contenta che lui non si facesse quasi più vedere a casa loro. Si domandava talvolta come facesse Giacomo a lavorare con Federico tutti i giorni, nella medesima stanzetta, sapendo cos’aveva fatto; ma magari lui a Federico l’aveva detto, le venne in mente una volta. Non fanno forse così, gli uomini, tra loro? Non si confidano le rispettive conquiste? La cosa brutta era riuscire a immaginarsi Giacomo che raccontava tutto a Federico, magari per spavalderia, come se non significasse nulla, ma non la reazione di Federico. Helen non aveva proprio idea di cosa avrebbe potuto fare. Una sera lo raccontò lei a Miriam, al pub; aveva bevuto troppo. Miriam si fece una risata. – Meglio avere due frecce al proprio arco, anziché una sola, – disse tutta allegra. – Specie se sono belle dritte. – Helen si pentì subito di averglielo detto. Un giorno della stessa settimana lei era mezza addormentata in cucina, con tutti i suoi libri di testo sparsi attorno, quando Federico tornò dal lavoro con Giacomo e Stefania. Aveva comprato il pollo arrosto con le patate alla tavola calda all’angolo, come la loro prima sera insieme; Giacomo invece aveva portato il vino, e Stefania un tiramisù fatto da lei. La cenetta era stata evidentemente decisa in precedenza. Helen spinse i libri da una parte, a disagio, lasciandosi baciare da tutti e tre mentre lottava per svegliarsi completamente; ma a fine serata, quando erano ormai piuttosto brilli e parlavano, come sempre, di quella che nelle sue lettere a casa lei definiva “la situazione italiana”, riuscì a rilassarsi abbastanza da prendere Stefania in simpatia e perfino provare un filo di compassione per lei. Essere innamorata di Giacomo non doveva essere facile, pensò. Si chiese quante altre donne lui si fosse scopato, in quali altre cucine, mentre i loro fidanzati erano fuori; e sentì una punta di
OCCASIONI DI MORTE
187
gelosia, non nei confronti di Stefania, ma verso tutte quelle altre possibili amanti. Un giorno, poco tempo dopo, Helen stava facendo la spesa al supermercato quando dagli altoparlanti prese a crepitare una voce. Lei quegli annunci non li ascoltava mai; di solito non li capiva per l’eccesso di interferenza, e anche quando li capiva, erano sempre chiamate al telefono per i dipendenti. Mentre la voce tuonava, lei era in fila per pagare il pane, il vino e le cipolle, calcolando mentalmente quanto sarebbero venuti a costare e contandosi i soldi in tasca; l’annuncio durò più del consueto. Ma prima ancora del termine, la cassiera si alzò in piedi e sbatté forte il cassetto del registratore, con una risata amara e un cenno del capo a significare “io l’avevo detto”. Helen borbottò qualcosa, cestino alla mano; la donna intanto prendeva la borsetta da sotto la cassa. Poi la guardò con un’aria incredula. – Non hai capito niente? – le disse. – Hanno rapito Moro. – Come? – Cosa non aveva capito? Chi o cos’era, questo Moro? E cosa voleva dire rapito? C’entravano le rapine? La donna sospirò, esasperata, e prese a sbottonarsi il camice da lavoro. La maglietta che portava sotto era screziata di fili d’argento, un capo più adatto alla discoteca, pensò Helen; la signora poteva avere l’età di sua madre. – Sciopero, – disse. – Lo capisci, sciopero? Sì, questo Helen lo capiva. Alla Fiat lo sentiva dire tutti i giorni; vedeva “sciopero” scritto sulle locandine dei giornalai e appiccicato sulle fermate degli autobus, tra l’esasperazione generale; il direttore del personale, responsabile del suo contratto, sosteneva che agli scioperanti bisognava sparare. Si guardò attorno e vide gli altri clienti abbandonare cesti e carrelli e avviarsi verso le porte. La scena le fece venire in mente i film di fantascienza degli anni ’50, dove gli alieni calano
188
CHARLES LAMBERT
sull’America rurale in un’invasione di ultracorpi, aizzati da una voce registrata a impossessarsi di organismi umani da colonizzare; lei era stata salvata solo dalla sua ignoranza della lingua. Si affrettò comunque a unirsi agli altri, a rendersi invisibile tra la folla che serpeggiava tra gli scaffali, riempiva i corridoi e infine si riversava verso l’uscita. Mezz’ora più tardi, l’intera città sembrava paralizzata. Helen andò a casa ad aspettare Federico. Nel frattempo cercò rapito sul dizionario, e in effetti una vaga parentela con la rapina c’era, nel senso di prendere qualcosa con la forza. Ma cos’era questo Moro? Secondo il suo dizionario, un “saraceno”, e poi come aggettivo significava “scuro”. Quando fece irruzione Federico lei era a casa ormai da più di un’ora, incapace di concentrarsi su alcunché, ferma ad ascoltare la radio senza capire più di una manciata di parole per volta, come se fosse appena arrivata, e a desiderare di possedere un televisore. Troppi nomi a lei ignoti, troppe sigle, troppa rabbia. Federico aveva con sé un giornale, così fresco di stampa da aver sbaffato i titoli tenendolo in mano; lo mollò sul tavolo. – È cominciata, – disse. – Prendi il cappotto. – Cosa, è cominciata? E chi è questo Moro? – Aldo Moro, uno dei massimi dirigenti democristiani, – disse Federico. Poi fece un fischio, riprese il giornale e lo sbatté contro il tavolo. – Sono state le Brigate Rosse, dicono. – Mio Dio, – fece Helen, sconvolta. – Hanno ammazzato tutti gli uomini della scorta. – Stava guardando una fila di immagini bordate di nero, foto tessera di giovanotti corredate di grado ed età, oltre ai nomi, visi identici a quelli che vedeva ogni giorno davanti ai cancelli della Fiat. Trascorsero il resto della giornata da colleghi di Federico dotati di televisore, a guardare interviste con sodali di Moro, con membri dell’opposizione, con esponenti del clero e dei tre
OCCASIONI DI MORTE
189
sindacati maggiori, i quali avevano proclamato lo sciopero generale. Helen vide in faccia Aldo Moro per la prima volta; sin lì non ci aveva mai fatto caso. Non capiva ancora bene chi fosse, e neppure perché la questione fosse così importante. Davanti a sé vedeva il volto di un borghese cinico ed esausto, ascetico e dolente, non certo uno sciocco: il viso di un uomo troppo abituato alle umane debolezze per potersene stupire, a dargli un’aria più da cardinale che da politicante. Era detenuto in un carcere del popolo, annunciò il giornalista. Una prigione gestita dal popolo, pensò Helen; fuori dalla Cina è una novità. Del popolo e per il popolo. Ma quale popolo? Chi lo decide? E nemmeno capiva lo stato d’animo di quanti la circondavano: esaltati da quel che accadeva, in certi momenti addirittura in preda al giubilo; se qualcuno mostrava collera o disprezzo, questo sembrava rivolto meno ai sequestratori assassini, come li vedeva lei, e più al governo. Non aveva il coraggio di mettere in discussione questo atteggiamento, e piuttosto metteva in discussione sé stessa... forse si era persa qualcosa. Giacomo e Stefania non erano lì; se li immaginò seduti davanti a un altro televisore, in un’altra stanza, nella medesima città inesplicabile. A letto con Federico, quella sera, senza riuscire a dormire, Helen gli chiese dov’era stato quella mattina. Lui alzò le mani, lasciando cadere il libro sul lenzuolo, e sogghignò. – Non sono stato io, – disse. Quando arrivò alla Fiat il giorno successivo, le dissero di andare a ritirare una lettera all’ufficio sicurezza. Sulla lettera c’era scritto di non accettare più passaggi in auto da dipendenti Fiat, considerati particolarmente a rischio nel clima di turbolenza politica: se le fosse accaduto qualcosa, l’azienda avrebbe declinato ogni responsabilità. Il linguaggio della missiva era formale, oscuro; Helen la lesse ad alta voce alle sue allieve per es-
190
CHARLES LAMBERT
ser certa di aver capito bene. Loro fecero qualche risatina nervosa; era solo per precauzione, le dissero. Non c’era nulla di cui preoccuparsi. Poi la mostrò a Eduardo, più tardi, e lui sospirò. – Perché Aldo Moro è stato rapito? – gli chiese lei. Lui era sul punto di rispondere, ma ci ripensò, poi fece spallucce. – Questa non è la tua lotta, – le disse. – Faresti meglio ad andar via. Pochi giorni più tardi Helen ebbe da Miriam notizie di un’altra ragazza scozzese con cui aveva fatto amicizia, insegnante in una delle scuole di lingue dalle quali era passata anche lei quand’era appena arrivata, in cerca di lavoro. Il coinquilino dell’amica era stato arrestato per terrorismo, ed era in attesa di processo; la ragazza, Katy, era entrata in camera sua e aveva bruciato tutti i libri e i volantini potenzialmente pericolosi per lui, spillette di Che Guevara, Libretti Rossi... tutte cianfrusaglie, in effetti, cotillon della rivoluzione. In seguito fu arrestata pure lei, per aver prestato la macchina a uno che l’aveva usata per una rapina in banca. Federico e Helen tentarono di andare a trovarla in commissariato, ma non ci fu verso: Federico montò su tutte le furie, diede dei cani e dei fascisti ai poliziotti e fu portato via, per poi essere rilasciato nel pomeriggio. Stefania passò loro il nome di un avvocato, donna e femminista, la quale avrebbe fatto il possibile, disse; Federico le promise denaro, tutto il denaro necessario, e la legale lo guardò come a dire, Be’, certo, non penserai mica di tirarla fuori senza i soldi, mentre Helen si domandava di cosa parlasse Federico: soldi, loro, non ne avevano. Nel frattempo Katy negò qualsiasi collegamento con la rapina in banca, come avrebbe fatto in ogni caso, fosse o meno la verità; rilasciata senza imputazioni, ma coi capelli tagliati, affermò di essere stata violentata dai poliziotti.
OCCASIONI DI MORTE
191
Le avevano strappato ogni briciola di allegria e di desiderio; al solo sfiorarla, o tentare di consolarla, aveva un sussulto, e parlava di andarsene, di tornare in Gran Bretagna almeno finché le acque non si fossero calmate. Due giorni dopo Stefania l’accompagnò alla stazione, poi tornò a casa di Helen, senza riuscire a tranquillizzarsi. Il caso Moro la spaventava, disse: era troppo, e troppo presto. Il sequestro era una scelta settaria, divisiva: le masse non l’appoggiavano. Anzi, le masse se ne fregavano. Helen si chiese come facesse Stefania a sapere tutte queste cose, e poi cosa significasse “troppo presto”. Cos’era, solo un problema di tempi? La sua amica sedeva in cucina, china davanti alla radio come per scaldarsi, ad ascoltare i notiziari con lo sprezzo dipinto in volto. Helen non credeva assolutamente al coinvolgimento di Katy, ma il conoscente che le aveva raccontato del suo arresto, un collega incrociato per caso mentre faceva la spesa nel solito supermercato, quello dell’annuncio, le disse di non esserne troppo certa. Un altro amico più anziano, di un’altra scuola di lingue, uno di cui lei aveva sentito parlare benché non lo conoscesse, era semplicemente scomparso, le disse il ragazzo. Nessuno è al sicuro, aggiunse, come se le spore della violenza fossero nell’aria e potessero posarsi su chiunque. Helen si sentiva come se ciò che all’inizio aveva visto come un semplice insieme di numeri si stesse sfasciando, per poi assumere una forma fisica a lei incomprensibile, e diventare facce, nomi, affetti: adesso conosceva gente da entrambi i lati della barriera, ovunque la barriera fosse tracciata. Moro, affermò una signora dal droghiere, è prigioniero del governo in uno scantinato vicino a casa mia; e nessuno parve stupirsi, come se fosse ormai ammessa qualunque assurdità. Una mattina si svegliò dopo aver visto la faccia di Moro in sogno, quel viso mesto e tirato, spossato dalla sofferenza e dal-
192
CHARLES LAMBERT
l’incredulità. Le venne voglia di dire: “Questo non può essere giusto”, ma non sapeva bene chi l’avrebbe ascoltata. Non raccontò il sogno a Federico. Era il giorno in cui i giornali avevano ricevuto la fotografia del rapito in maniche di camicia, in condizioni brutali, col simbolo delle Brigate Rosse alle spalle, a riprova del fatto che era ancora in vita. Ecco il volto del suo sogno, in prima pagina su tutti i giornali italiani. Una settimana più tardi Helen si ritrovò a un corteo contro la repressione poliziesca, in prima fila a gridare slogan. Una sera in cui i due amici erano passati a trovarli, Helen disse a Giacomo che a suo avviso l’intera faccenda era vergognosa. Federico e Stefania si erano spostati dalla cucina per parlare di lavoro e si erano messi nella ex stanza di Giacomo, ora trasformata in studio per Federico; Helen e Giacomo avevano aperto un’ultima bottiglia di vino. – Non capisco perché il governo non li paga e basta, – disse Helen mentre lo versava. – Per salvargli la vita. Più avanti possono sempre negare. – D’accordo, Helen, allora ti dico una cosa che non sai. In Italia, a parte sua moglie e i suoi figli, nessuno rivuole Moro vivo. Anzi, probabilmente i suoi sequestratori si preoccupano del suo stato di salute più dei suoi compagni di partito: se morisse, per loro sarebbe molto meglio. È un problema, non una risorsa. – Come fai a saperlo? – ribatté Helen, ma aveva vinto Giacomo e lei doveva ammetterlo. Non solo perché ne sapeva di più, sebbene pure quello contasse, ma perché sapeva ciò che sapeva, né più né meno. Secondo lei un atteggiamento così categorico poteva rivelarsi meschino, se lui si sbagliava, ma Helen temeva avesse ragione; e nulla di quanto pensava la faceva sentire meglio, o magari solo meno confusa. – Non avrebbe mai guidato il partito, se non lo avessero ritenuto l’uomo giusto per farlo.
OCCASIONI DI MORTE
193
– Helen, non essere ingenua. – Ma perché dev’essere ingenua qualunque opinione diversa dalla tua? – Era arrabbiata, ed esaltata al tempo stesso. Discutere con Giacomo non era come discutere con Federico, il quale l’ascoltava e poi correggeva qualche errore marginale, così alla fine lei si era scordata cosa voleva dire. Con Giacomo erano tutte pennellate teatrali. – Be’, è evidente, – disse lui con un sorriso sarcastico. – Perché non è la mia. – E qual è la tua opinione? – Su cosa? – Secondo te? – fece lei. – Su Aldo Moro. – Ah, vuoi sapere la mia opinione? – Detto così, sembrava un calcolo. – Va bene, te la dico. A mio avviso Aldo Moro non è un uomo, per nessun significato del termine. Non è niente. Forza, Barthes l’hai letto pure tu. Moro è solo un vuoto significante, una scatola a cui puoi cambiare l’etichetta a seconda di cosa ci vuoi mettere dentro, o secondo cosa vuoi far credere a un potenziale acquirente. È un martire, e allora ci appiccichi l’etichetta del martire, è l’inventore del compromesso storico, e allora chiamiamolo statista. È un costruttore di ponti, un santo, un peccatore, uno stratega, una fiche da scambiare, un cadavere. È qualunque cosa tu voglia. È questo a rendere il suo sequestro così affascinante, a modo suo, e così ambivalente. – E il Moro persona, marito, padre? – È insignificante. Come te e come me. Non penserai davvero che contiamo qualcosa, vero? – S’interruppe per accendere una sigaretta. – La vita continua, Helen. – Per un istante, mentre tratteneva il fumo a fondo nei polmoni, il suo viso assunse un’espressione tragica, molto adatta a lui. – Ovviamente saranno costretti ad ammazzarlo.
6
Fatta la sua telefonata, Helen esce di casa. La sua macchina, una Smart gialla, è parcheggiata sul lungotevere. L’ultima volta in cui l’ha usata, le viene in mente, Federico era al lavoro e le aveva chiesto di portargli alcuni fascicoli dimenticati sulla scrivania del soggiorno, poco più di una settimana fa. Lei si era arrabbiata, non capiva perché lui non mandasse qualcuno a prenderli; non poteva, le aveva spiegato, i fascicoli non erano strettamente legati alla sua attività ministeriale. Sarebbe stato un abuso di potere, sfruttare il tempo di una persona pagata dallo Stato per una questione personale. A lei sarebbe piaciuto rispondere che aveva da fare, che la sua era una vita pienissima, ma in realtà stava guardando un DVD prestatole da Martin, di cortometraggi di Buster Keaton, bella comoda sul divano con una caraffa di tè freddo e biscottini allo zenzero d’importazione. Helen detesta guidare nel centro di Roma, e aveva odiato ogni metro del percorso. Adesso, in preda a qualcosa di simile alla rabbia, si domanda perché non avesse aperto i fascicoli per guardarci dentro. Non le era nemmeno passato per la testa, come se nulla, nel loro contenuto, potesse mai fornirle un combustibile per sciogliere il gelo che il lavoro di Federico, e il suo distacco, avevano provocato in lei. Come se non avesse alcun diritto di sapere, e neppure di chiedere; il suo ruolo era prendere e portare, e semmai aprire il vino mentre il mondo transitava per la vita di suo marito, nella quale lei era puramente un accessorio. O forse ha ragione Giulia, del lavoro di Federico non le è mai importato nulla. È stato così
OCCASIONI DI MORTE
195
facile, in questi ultimi anni, farsi tagliare fuori. A Federico bastavano due parole, Ti annoieresti, e lei annuiva e poi cercava altri modi di svagarsi: pacchetti di biscotti carissimi, da nascondere nei cassetti della scrivania, puntate di CSI, comiche mute. Giacomo. E tutto questo, quando avrebbe potuto trovare le risposte ai suoi interrogativi in quattro cartellette verdi formato A4 gettate sul sedile accanto a lei. Se solo si fosse presa la briga. Helen si fa dettare la velocità dalle automobili tutto intorno a lei, le spalle curve in avanti come se si portasse in grembo un involto di segreti. Procede con il flusso sul lungotevere verso Ponte Milvio, gli occhi fissi sulla macchina che le sta davanti, una Panda verdina. Ma ora acquista velocità, le arcate arretrate di Ponte Milvio alla sua sinistra, lo scintillio di luci della collina Fleming a non più di un quarto d’ora di strada se il traffico non peggiora. Presto sarà arrivata. Per un istante si chiede cosa pensi di trovare, sempre ammesso che nessuno sia in casa; se non è così, dovrà affrontare Giulia. Ora se potesse farebbe inversione e tornerebbe a casa, ma quando ha ormai quasi raggiunto il ponte e l’inversione sarebbe possibile, ha già cambiato idea un’altra volta. Percepisce l’assillo di un mal di testa incombente. La Panda ha lasciato il posto a un gruppo di adolescenti in motorino, allegri e imprevedibili, i cinghietti dei caschi a sventolare in aria mentre loro sterzano avvicinandosi e poi si allontanano di nuovo. Sarà meglio concentrarsi, ma quando lei rallenta e poi svolta a destra gli scooter se ne vanno. Un attimo dopo sta attraversando il Tevere, poi gira di nuovo a destra e comincia a salire. Detesta questa zona di Roma, con quei palazzoni anni ’60 acquattati come rospi sui fianchi della collina e le vie strette e tortuose piene di auto di lusso. Non abiterei qui nemmeno morto, diceva sempre Federico, circondato da questa mono-
196
CHARLES LAMBERT
cultura della rispettabilità. Però lo diceva quando i suoi non erano lì a sentire. Ecco, le è tornato in mente. Cinque minuti dopo Helen trova parcheggio, a cinquanta metri dal palazzo dove vivono i suoceri. Richiama dall’auto il loro numero fisso, con le unghie a tamburellare impazienti sul volante mentre il telefono squilla a vuoto. Fausto sarà ancora con Giacomo, pensa; il rischio è Giulia. Helen afferra un lembo della giacca e tira fuori il mazzo di chiavi, poi infila un dito nell’anello e se le stringe contro il palmo come se dovesse nasconderle, o proteggerle. Meglio non attirare l’attenzione mettendosi a frugare in tasca in mezzo alla strada. L’androne è vuoto. Helen aspetta l’ascensore, lo sguardo fisso come sempre sull’affresco a tutta parete, un’ottocentesca e assai bucolica veduta del Tevere. Accanto a lei, in una fioriera in ferro battuto, c’è una fila di piante a foglia larga, ingiallite per l’eccesso d’innaffiature. L’appartamento è semibuio, le persiane chiuse a tener fuori la calura estiva. Helen va diretta in camera di Giulia, in fondo al corridoio. La scrivania è del tutto sgombra se non per un computer portatile e un apparecchio fax; Helen accende subito il laptop e attende l’avvio, le mani sul piano lucido di pelle verde e lo sguardo prima alla porta, poi tutto attorno alle pareti, sulle librerie e le foto incorniciate di nero, di Giulia con persone famose che ha conosciuto o incontrato. Chruščëv; Picasso; Jimmy Carter con la moglie. E i papi, Wojtyła, Luciani. Stranissima, quest’abitudine degli italiani di chiamare sempre i papi per cognome, come se parlassero del loro macellaio. Altre personalità ignote a Helen. Giulia compare in tutte la immagini e non sorride mai, salvo in una foto fatta insieme a Federico, quando lo nominarono Cavaliere del Lavoro; è l’unica con il figlio. Lei però è esaltatissima, si vede bene. Nella fotografia c’è pure Helen, dietro il marito e i suoceri, lo sguardo lieve-
OCCASIONI DI MORTE
197
mente distolto dall’obiettivo, come se passasse di lì per andare altrove. Il portatile di Giulia gira sotto Windows 95. Giulia disprezza notoriamente la tecnologia, ma a quanto pare si è molto affezionata a questo computerino ormai vecchiotto, e sorprendentemente pesante quando Helen lo sposta per vedere meglio il monitor. Apre la cartella di Word. I vari documenti portano nomi e date che a lei non dicono niente, e alcuni documenti pesano talmente poco da indurla a chiedersi cosa possano contenere. Ne apre uno a caso, e si trova davanti una pagina bianca. Ne apre un altro, e ottiene il medesimo risultato. Juggernaut, pensa. Il file di testo svuotato. Ma certo. Cosa diceva Giacomo, a proposito di chi aveva eliminato manualmente il contenuto del documento per pura incompetenza? Giulia non è capace di cancellare i file, e Helen s’immagina la vecchia signora seduta lì, rigida, col dito sul tasto Canc, a guardare paziente le parole del figlio che vengono divorate una per una. Apre il cassetto centrale della scrivania: un paio di forbici, una spillatrice, un flacone di bianchetto, puntine da disegno in un vasetto di vetro. Una pila di biglietti da visita a nome di Giulia, sopra la scritta Senato della Repubblica. Helen passa a un cassetto laterale, e questo è pieno di fascicoli: cartellette verdi in formato A4 come quelle trasportate da lei a suo tempo in giro per Roma. Helen tira fuori la prima e scopre che contiene ritagli di quotidiani, come quella successiva. Ma sotto quest’ultima c’è un fascio di fogli tenuti insieme da una graffetta, e Helen trattiene il fiato al vedere il font Courier, tipico di Federico. Prende i fogli e comincia a leggere. La prima menzione del juggernaut si ritrova nei diari di Odorico da Pordenone. “Nella ricorrenza annua di colui al quale è dedicato questo idolo,
198
CHARLES LAMBERT
arrivano il re e la regina insieme all’intero popolo di quella regione, e i pellegrini. E collocano il simulacro su un carro riccamente decorato e lo portano fuori dal tempio tra canti fragorosi e musicanti di tutti i tipi. In questa occasione sfilano in processione davanti al carro, in fila per due, molte vergini, cantando meravigliosamente. Accorrono poi i pellegrini, e si prosternano in terra e il carro ne stritola i corpi, spaccandone e sminuzzandone le ossa; in questo modo ne muoiono moltissimi. I cadaveri vengono portati via e cremati, e definiti santi, dato che si sono lasciati morire spontaneamente per il loro dio.” Oggi definiamo juggernaut qualunque forza, letterale o metaforica, considerata inarrestabile; qualunque forza che spiani ogni cosa al suo passaggio. Se si ricerca il termine su Google, si scoprirà che è associato a un’entità, in ultima analisi, incapace di ascoltare quel che si estende sotto di lei. Ma la parola in sé deriva dal sanscrito Jagannātha, “Signore dell’Universo”, uno fra i molti nomi di Krishna. Esistono in diverse lingue parole caratterizzate dal fenomeno dell’enantiosemia, processo per cui acquisiscono significati opposti tra loro. “Storia” è uno di questi, in quanto può indicare sia un racconto veridico, sia uno menzognero; altri sono “ospite”, o “feriale”. Anche juggernaut è parola per certi versi enantiosemica, come forza non solo distruttiva, ma operante anche per il bene; come immagine di Krishna, sotto le cui ruote vanno a gettarsi i suoi accoliti, ma pure in quanto nome di
OCCASIONI DI MORTE
199
Krishna, signore e custode del mondo. Il juggernaut è il potere, e insieme il sacrificio. Forse nulla esiste senza la propria contraddizione: missioni militari di pace, fuoco amico. E “sacrificio” è in sé parola inquietante: ci pone domande alle quali non siamo preparati a rispondere. Tuttavia non va denigrata, la vita ultraterrena del martire.
Mentre legge, a Helen tremano le mani. Possibile sia questo, il testo scritto per il convegno? Lo stile è lontanissimo da quello di Federico. Helen salta un paio di pagine e riprende a leggere. non sentirsi in colpa per tutto. Una volta pensavo l’avrei confessato, a Giacomo, che lo avevano incarcerato al posto mio, e che sarebbe bastata una mia parola, un gesto, per farlo rilasciare. Ma non ne avevo il coraggio. E poi, quando il coraggio è arrivato, ho capito che così facendo gli avrei portato via la cosa per lui più preziosa, la sua cattiva fama. Avrei fatto di lui una vittima, e peggio ancora, una mia vittima. Non l’ho mai detto a Helen per lo stesso motivo; aveva troppo bisogno di un pretesto per rispettare Giacomo. Mio padre lo sapeva, altrimenti non si sarebbe mai battuto per fargli ottenere la grazia. Ma a quel punto mio padre smise di venerarmi. Lui pensa sia accaduto prima, quando ero dall’altra parte, ma non è andata così. A quell’epoca mi stimava ancora. E ora ho confessato a mia madre ciò che ho in animo di fare, in un momento di debolezza, perché avevo paura; e so cosa pensa, perché non ci può es-
200
CHARLES LAMBERT
sere altra spiegazione: farnetico, sono impazzito. Lei pensa che sia la malattia a parlare, non suo figlio. Forse ha ragione.
Quanti sono i segreti?, si chiede Helen, inorridita. È davvero così, io ho bisogno di un pretesto per stimare Giacomo? Cosa intendeva Fede quando l’ha scritto? Lei ha nutrito spesso più ammirazione per Giacomo che per Federico. Ne ha sempre apprezzato l’eleganza e l’energia, e poi la grande generosità, vedendole come una critica implicita allo stile di Federico, cauto e scrupoloso; vedeva un Giacomo munifico contro un Federico taccagno, e ha continuato a desiderare il primo dopo che il suo desiderio per il secondo si era ridotto quasi a nulla. E poi questa faccenda della malattia. Quale malattia? Gira un’altra pagina. giorni, guardo Helen mentre mi parla, e vedo le sue labbra muoversi, e forse sta ridendo o è in preda all’ansia o arrabbiata per qualcosa; e vorrei confidarle cosa sento, ma non ho parole per farglielo capire. Perché di lei non mi fido più, e lei non si fida più di me; non so quale delle due cose sia successa prima, ma abbiamo perso le parole. Tra noi ci sono solo chiacchiere. Quando diciamo che ci fidiamo di qualcuno, intendiamo dire che condividiamo un linguaggio, che abbiamo una lingua in comune e possiamo usarla; non sempre o non necessariamente per dire la verità, perché la fiducia può anche racchiudere segreti, ma per stare con quel qualcuno, tanto per comunicare quanto per mettersi in comunione. Di conseguenza, la perdita della fiducia è la perdita di
OCCASIONI DI MORTE
201
quel linguaggio condiviso. Guardiamo l’altra persona parlare, ne vediamo il movimento delle labbra, forse con amore, con perplessità, con rabbia o irritazione. Ma chi o cosa l’altro sia, le sue convinzioni e i suoi bisogni, tutto questo è al di là di noi, ci rimane misterioso, e alla fine neppure quello; diventa indifferente. È una sorta di afasia dell’anima. Dopo un po’ si cessa di ascoltare il rumore emesso da quella persona. Ma non riesco a credere che per Helen sia andata così. E se invece è andata così, fino a che punto è colpa mia? O colpa del mio silenzio? L’altra sera, parlando con Martin, gliel’ho quasi detto, ma qualcosa mi ha fermato. Una forma di rispetto per mia moglie? Forse. Sono pieno di dubbi. Inoltre, Martin
Questa è la cosa peggiore, pensa Helen, la cosa peggiore da quando è morto. Peggio di così non può andare. Perché sentirlo parlare così, e non avere modo di dirgli che le dispiace, e che non capisce, e che qualunque cosa lui avesse voluto dirle lei l’avrebbe ascoltata, se solo avesse saputo. Se solo avesse saputo. Questa è la cosa peggiore.
7
Giacomo e Fausto sono seduti nel bar dell’albergo, mentre Yvonne tiene il broncio sotto il condizionatore della stanza al quinto piano, col suo bel NON DISTURBARE in cinque lingue, arabo e giapponese compresi, a penzolare dalla porta. Giacomo non si aspettava di ritrovarla lì e le ha suggerito di tornare a Parigi per conto suo, non solo perché non vuole lasciare Roma, né Helen, ma per vedere se lei sarebbe partita veramente senza essere accompagnata. Come viaggiatrice è un disastro, o tale si finge: ogni volta c’è un piccolo capo d’abbigliamento perso che va recuperato, ogni volta le mancano gli spiccioli nella valuta necessaria... per quanto l’euro, sempre sia lodato seppure solo per questo, abbia posto fine al problema; per lo meno tra Parigi e Roma. Ma Yvonne ha fatto spallucce, e poi la faccina corrucciata, e lo ha accusato di volersi solo sbarazzare di lei. Giacomo è rimasto sorpreso dalla chiamata del padre di Federico, ma non per molto. Ha sempre rispettato Fausto, e la netta consapevolezza di non essere ricambiato ha conferito al suo stesso rispetto un’aura etica, altruistica, che lo mette in buona luce e gli concede una specie di vantaggio; inoltre gli è grato per il modo in cui si schierò a suo favore dal pulpito di più di un quotidiano, per non parlare delle pressioni certamente esercitate dietro le quinte. Rivedere il vecchio mi fa piacere, riconosce Giacomo tra sé, magnanimo nella vittoria e curioso di sapere quale ruolo Fausto potrebbe ancora rivestire. Nulla è più triste dell’uomo a cui hanno strappato il potere di
OCCASIONI DI MORTE
203
influenzare gli eventi, pensa, ed è un tragico destino che lui può solo immaginare. Naturalmente c’è modo e modo, Giacomo lo sa; spesso si cita la sua affermazione secondo la quale, in politica, o si è bucanieri o si è ragionieri. E Giacomo, malgrado i suoi modi sempre più tranquilli e assennati, le scarpe fatte a mano e i completi di alta sartoria, le ore sprecate in riunioni e sale d’aspetto aeroportuali, è convinto di essere ancora un bucaniere. Anche Fausto, a modo suo, ha giocato a giochi avventati, quando non pericolosi: la lotta partigiana, il carcere, l’esilio interno. E adesso, seduto di fronte a lui nel bar di quest’albergo di lusso, sta parlando della questione morale; espressione che Giacomo aveva quasi dimenticato, perciò prova a concentrarsi. – Federico sapeva di correre dei rischi, naturalmente, – dice Fausto scuotendo il capo. – Ma questo, questo deserto morale, non ce lo saremmo mai immaginato. – Dei rischi, – ripete Giacomo, il filo perso per un attimo. – Il suo non era un incarico politico. Però su di lui c’erano aspettative importanti: non solo da parte del ministro, ma anche da parte di chi lo conosceva, di chi sapeva cosa lui voleva fare davvero. – Quindi il ministro spingeva da una parte e Federico da un’altra? Se è così, era inevitabile, no? E tu avevi capito il senso di quel che andava facendo? – Voglio dire, – risponde Fausto, rigido, – che ogni suo tentativo era vano. L’arte di governare, in questo paese, è tutela sfrontata dell’interesse personale e nient’altro. Sì, è vero, pensa Giacomo, ma non è esattamente una sorpresa, e nemmeno una novità. I tuoi sono riusciti a rimanere all’opposizione per quarant’anni e poi, non appena hanno avuto la possibilità di governare, tu e un gruppetto d’altri siete saliti sul vostro bel piedistallo ideologico, e via di massimi siste-
204
CHARLES LAMBERT
mi. Tu ti sei chiamato fuori in tempo, e adesso ti lamenti della scarsa moralità altrui: ma non hai mai avuto l’opportunità di farti corrompere, non hai mai avuto niente da vendere. E questo è, l’arte di governare; e questo è il motivo per cui io ne sono sempre rimasto fuori, di proposito. Tuttavia non dice nulla di tutto ciò, un po’ per compassione, ma soprattutto perché è già stato detto e ridetto. E anche il suo interlocutore, Giacomo ha questa sensazione, parla tanto per dire, e andrà avanti così fino a lasciarsi sfuggire, en passant, qualcosa di veramente importante. Fausto s’interrompe, posando le tozze mani fegatose sul tavolino tra loro; due mani da operaio, sebbene il vecchio signore, per quanto ne sappia Giacomo, dalla fine della guerra non abbia imbracciato nulla di più pesante della penna. Mani piccole e forti, come zampe, sul legno lucidissimo. – Secondo me stava impazzendo, – prosegue Fausto, ed è quasi un sussurro, – in questi ultimi mesi. – Sì, – dice Giacomo, sollevato perché finalmente si svela lo scopo di questa conversazione. – Lo penso anch’io. – A te cosa diceva? – domanda Fausto. – Ogni sorta di cose. In effetti non parlavamo, ma lui mi mandava e-mail, o messaggi sul cellulare. Eravamo dominati, secondo lui, da forze che non c’entravano niente con la politica, e che non sarebbero mai state comprese, ed era una follia pensare di poterle controllare in un qualsiasi modo razionale. Fausto annuisce, apparentemente rassicurato, e ansioso di confidarsi con Giacomo ora che i suoi dubbi hanno trovato conferma. – Sì, sì, a me diceva esattamente lo stesso. Forze. Forze oscure, le chiamava forze oscure. All’inizio non capivo cosa intendesse: l’avevo presa per una specie di metafora, non so, della globalizzazione, del mercato libero. Mai, neanche per un istante, ho pensato che alludesse a forze reali. Sembrava malato, negli ultimi mesi era dimagrito; secondo me non mangiava
OCCASIONI DI MORTE
205
più, per quanto Helen sembrasse non accorgersene. Parlava della necessità del sacrificio... ma chissà cosa intendeva, un qualche sacrificio estremo. Il servizio al paese non è già un bel sacrificio? Non poteva fare un passo senza scorta. – Fausto scuote la testa, smarrito. – Un giorno sono passato a salutarlo in ufficio e l’ho trovato alle prese con una ciotola di cristalli. Ci immergeva le mani, ci giocava. Io non credevo ai miei occhi. Lui mi ha guardato e mi ha detto che ne stava assorbendo l’aura. Ero esterrefatto. “Sei sicuro di stare bene?”, gli ho chiesto, e lui si è messo a ridere. “Non preoccuparti, papà. Non sono ancora diventato matto”. Poi ha spinto la ciotola da una parte e si è messo a parlare d’altro, di qualcosa di serio. Io non sapevo cosa pensare, e non lo so ancora adesso. – Si china in avanti e guarda Giacomo negli occhi, con grande intensità. – A te ha parlato dei cristalli? – No, – risponde Giacomo. Prende la tazzina vuota del caffè e con il cucchiaino raschia la crosta bruna di zucchero dal fondo. – Non ci giocava anche Nerone, coi cristalli? – dice. – Cristalli, pietre preziose... lo rilassavano, diceva. Qualcuno sostiene abbiano proprietà terapeutiche, no? Forse Federico lo faceva per quello. Per rilassarsi. – Ha mai accennato al convegno, nei messaggi che ti mandava? – A dire la verità, no. – Preparava una cosa, mi ha detto, che avrebbe sorpreso tutti. Che avrebbe messo fine alla guerra, diceva. – Ma tu non sai cosa, giusto? Fausto conferma con un cenno sconsolato, esausto. Ma guarda quest’ometto bizzarro, sincero, adorabile, pensa Giacomo, che ha sprecato tutta la vita nel vano inseguimento di un’utopia, e che ancora, fin nelle ossa, crede in Marx e nel suo sogno, sebbene abbia imparato a non dirlo e preferisca parla-
206
CHARLES LAMBERT
re, come tutti gli altri, di socialdemocrazia. Quest’ometto dignitoso, con le sue zampe da operaio e la corporatura pugnace di un torello, continua a venerare l’idea della perfettibilità sociale, malgrado Auschwitz e Buchenwald, i gulag e l’Ungheria, e Gaza e l’Undici settembre e i fatti di Madrid, malgrado il fatto che più grande è il sogno, più pesante il tributo di vittime; continua a venerare il raziocinio e le reti di sicurezza per i lavoratori in mobilità e le campagne per mettere fine alla guerra, mentre il paese per il quale ha combattuto e si è fatto la galera, e per il quale era pronto a morire, va in malora. E ora, mentre Giacomo lo guarda passarsi le dita tra i capelli bianchi e folti, con un gesto disperato, repentino e sconvolgente al punto che lui vorrebbe poterlo consolare in qualche modo, Fausto esclama con voce rotta: – Perché lo hanno ammazzato? Perché proprio Federico? Tu lo sai, il perché? Non ha senso. – Lo guarda in faccia, gli occhi umidi di lacrime. – Tu non lo sai, vero? Me lo diresti, se lo sapessi? Giacomo scuote il capo. – Io so solo che questa faccenda puzza, e non poco. – Davanti a Fausto sul punto di piangere, non riesce a pronunciare la parola omicidio. – È il tipo di cosa che succedeva negli anni ’70, ai miei tempi, non adesso. Il mondo è cambiato. Eppure qualcuno l’ha fatta qui e ora, questa cosa stupida e brutale, e non giova a nessuno: è inutile, anacronistica. Non risolve niente. – Giacomo alza le mani vuote, esasperato. – Non è neppure terrorismo. Chi hanno terrorizzato? Chi si sente minacciato, a parte una manciata di pubblici funzionari e accademici? Hanno solo distrutto una vita per chissà quale futile vendetta politica. Pure il terrorismo è cambiato. Colpisce gli innocenti, così funziona ora. Non gliel’ha detto nessuno, a questi? – Si interrompe. – Non chiedermi chi è stato. Vorrei saperlo anch’io. Fausto è troppo scosso per rispondere.
OCCASIONI DI MORTE
207
– Mi spiace, – continua Giacomo, impietosito. Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. – Non c’è giustificazione per quanto è successo. Stanno per alzarsi in piedi tutti e due, quando Giacomo tende una mano a sfiorare il braccio di Fausto. – Posso farti una domanda? Una sola, che mi tormenta da anni. Fausto si riaccomoda contro lo schienale. – Il modo in cui ti sei adoperato per farmi uscire di prigione, e ottenere la grazia. Tu non mi stimavi, l’ho sempre saputo, e non avevi motivo di aiutarmi. Mi ritenevi un’influenza negativa su Federico, so anche questo. Ma allora non sapevo fino a che punto ti fossi speso per me. L’ho scoperto dopo, quando la grazia è arrivata, ma io ero già in Francia. E te ne sono grato, – dice, mentre il viso dell’anziano assume un’espressione irritata, se non rabbiosa. – Solo, non so perché ti sia preso tanto disturbo. – Nessuno dovrebbe andare in carcere per reati d’opinione, chiunque sia – dice Fausto, rigido, con enfasi poco lusinghiera sul chiunque. Giacomo sorride. – Un sentimento nobile. Ma io non sono stato in carcere per quello. – Si sporge in avanti, di colpo serio, la mano di nuovo sul braccio di Fausto. – Non ti ricordi? Ero accusato di concorso in omicidio. Possesso di armi da fuoco. Mi accusavano di aver preso parte a una rapina in banca in cui morirono due persone. Avevo rubato un’auto, dicevano, usata poi per una gambizzazione. Il paradosso di fatto è che non era vero niente. E intendo dire che potrei aver fatto tutte queste cose, o altre simili, in altre occasioni; ma non in quelle. Non so chi sia stato; ma non ero stato io. – Al processo però non l’hai detto. – Al processo non ho detto niente. Ero un prigioniero poli-
208
CHARLES LAMBERT
tico, ricordi? Nessuno di noi disse nulla. Eravamo votati al silenzio. Dev’essere stato alquanto irritante. – Fosti trattato ingiustamente, – insiste Fausto, rosso in volto, inspiegabilmente furibondo. Giacomo annuisce. Non hai intenzione di dirmelo, pensa. Osserva il vecchio signore uscire dall’albergo, poi torna a sedersi e gli viene in mente Helen. Vorrebbe chiamarla, sentire la sua voce, ma qualcosa gli impone di aspettare. Lo chiamerà lei, quando avrà bisogno di lui. Yvonne trova Giacomo nella hall, i piedi sul tavolino basso di fronte a lui, le scarpe abbandonate lì accanto. Sta guardando la televisione. È rimasto solo per quasi due ore, ma questo lei non lo sa, e s’infurierebbe se lo sapesse. Le sorride e alza una mano, come a volersela far baciare. In realtà la sta invitando a sedersi vicino a lui, ma è un gesto così arrogante e inopportuno, data l’evidente rabbia di lei, che Giacomo la lascia ricadere immediatamente. Tira giù i piedi dal tavolino, si rinfila le scarpe e dà un colpetto al piccolo cuscino gonfio accanto alla propria gamba; poi fa la faccia da bimbo sorpreso in una marachella, simulando rammarico, ma Yvonne non è affatto divertita e rimane in piedi accanto al divano troppo imbottito, col piedino a tamburellare sul marmo, finché lui parla. – Calmati, – le dice. – Sono calmissima. Io mollo. – Cosa molli? – fa lui. Non può farci niente, adora il rischio. – Non tentarmi, Jacques. – Lei usa la versione francese del suo nome, cosa che lui detesta, e intanto giocherella con la fibbia della borsetta, la apre e la richiude con uno scatto. – Ho detto al portiere di mandare qualcuno a prendere i miei bagagli e farli portare all’aeroporto. E adesso pretendo che tu o qualcun altro, non m’importa chi, mi cambiate il volo.
OCCASIONI DI MORTE
209
– Non puoi partire adesso, – dice Giacomo con un sogghigno. – Ti perderai il ricevimento. Non dimenticare quanto ti piacerebbe vedere il signor Bush in carne e ossa. E poi, il divertimento comincia ora. – Indica lo schermo televisivo. Con evidente riluttanza Yvonne si gira, e vede una donna in abito nero, oltre la soglia della mezza età, urlare e agitare i pugni davanti a una telecamera che arretra. Arriccia il naso, schifata. – Lo sai chi è quella, vero? – Una cafona, – dice Yvonne, sprezzante. – Al contrario, è la madre dell’autista di Federico, quello a cui hanno sparato. E accusa il governo per la morte di suo figlio. È tutto un complotto, dice: il figlio l’aveva avvisata che poteva succedere una cosa del genere. Al ministero giravano chiacchiere. Voci di corridoio, e probabilmente anche di parcheggio. – Solo in Italia, – commenta Yvonne. – Be’, certo, un governo irreprensibile come il vostro in Francia non si sporcherebbe mai le mani con cose sordide e degradanti come l’omicidio. – Rabbrividisce. – La Francia è un paese civile, – dice Yvonne in tono iroso. – A te sembrerà poco, Jacques, in quanto italiano, ma chi ci è nato e cresciuto è in grado di apprezzarlo. È nell’aria che respiriamo. – Non ci posso credere. – Giacomo si frega le mani, in una parodia di giubilo. – A quanto pare stiamo per litigare sulla politica! O qualcosa del genere. – Ti diverti solo tu, – dice Yvonne, altezzosa. – E nessun altro. Sullo schermo la donna urlante ha ceduto il passo a un uomo con l’aria di un pagliaccio melanconico. – Quello, adesso, è uno degli uomini più vicini al primo ministro, – dice Giacomo. – Ex comunista, per giunta. Impagabile, vero?
210
CHARLES LAMBERT
Venti minuti dopo, quando Yvonne scende con la valigia, Giacomo è ancora sul divano e dorme della grossa. Qualcuno ha tolto l’audio ma il notiziario prosegue, e Yvonne vede il volto dell’amico morto di suo marito, con i capelli troppo lunghi, ripreso a chissà quale riunione. Si chiede cosa mai vedesse in Helen. Il taxi arriva prima che abbia la possibilità di svegliare Giacomo e dirgli esattamente cosa pensa di lui, ma forse è meglio così.
8
Helen ha lasciato la macchina in via Giulia e cammina senza alcun scopo preciso, con l’andatura più vicina alla corsa che riesca a tenere senza attirare l’attenzione su di sé. Passa davanti al suo palazzo, ma non entra; sotto non c’è nessuno ad aspettare, né giornalisti né telecamere, e questo la sorprende, ma le insinua dentro anche un senso di perdita che non riesce a spiegarsi senza disagio, come se avesse bisogno dell’attenzione del mondo perché Federico possa ancora appartenerle; senza quella, è completamente sola. Nota un gruppo di adolescenti presi a digitare messaggi sui cellulari una decina di metri avanti a lei, mentre percorre a grandi passi la piazza e poi scende verso il lungotevere, sudando un po’ perché l’aria, malgrado l’ora tarda, è ancora tiepida, e lei si muove più rapida di quanto faccia normalmente da sola; da sola le piace indugiare, scrutare, origliare. Talvolta si sorprende a sincronizzare il proprio passo con quello di due che chiacchierano mezzo metro più avanti, per sentire cosa si dicono, senza quasi rendersene conto. In questo modo le è capitato di udire cose straordinarie, molto intime, e le ha riferite a Federico la sera stessa, divertendosi per il suo sconcerto. – Ma dai, la gente non parla in pubblico di queste cose, – le aveva detto una volta, quando lei gli aveva raccontato di una conversazione carpita a due amanti su quel che avrebbero fatto alla moglie di lui, al marito di lei, se solo ne avessero avuto la possibilità; torture orrende, che li avevano fatti ridere a crepapelle finché non si erano accorti di Helen, intenta a guardare una vetrina, una
212
CHARLES LAMBERT
spalla quasi attaccata alla spalla dell’uomo; di Helen che rideva a sua volta. – Tu non hai idea di cosa dice la gente, – gli aveva risposto. – Passi troppo tempo dietro la tua scrivania. – Avrà mai una conversazione del genere con Giacomo, si chiede. Ogni volta che entra nei suoi pensieri, lui è in compagnia; ci entra insieme a un senso di colpa di cui lei non riesce a liberarsi. Si ferma in cima agli scalini per l’argine del fiume, esitando. È una passeggiata fatta mille volte con Federico, a ovest verso il mare proprio come il fiume, non soltanto in serate estive come questa ma ogni volta che sentivano il bisogno di uscire, perché il lavoro di lui andava male oppure lei doveva consolarsi di qualche delusione: la slealtà di un’amica, un contratto non concluso. Di sera non c’era mai nessuno, e questo adorava Federico: il silenzio rotto solo dallo sciabordio lieve dell’acqua, le chiazze di oscurità, la sensazione del lastrico e dell’erba corta e trascurata sotto i piedi. Camminavano senza parlare finché tutto tornava a posto. Ora però, sola, Helen non desidera star sola. Ha le carte in borsa, ma non sopporta l’idea di riprenderle in mano, o non ancora; forse non ci riuscirà mai più. Prosegue per un centinaio di metri, poi fa dietrofront verso il centro, lungo via Arenula, direzione largo Argentina. Sta cercando di non pensare, ma non ci riesce, e provarci serve solo a peggiorare le cose. Non può non pensare a quel che ha letto, e a cosa intendesse dire Federico. Perché non è più sicura di niente. Al passaggio di un’auto della polizia, a sirene spiegate, seguita da un furgone blu e da un’altra macchina, si ritrova sull’orlo delle lacrime. In largo Argentina attende un varco nel traffico e poi si ferma accanto al muretto. Guarda in basso, ai ruderi ben illuminati, per vedere i gatti che si lisciano oppure dormono, più vicini possibile al calore dei faretti. – Ciao.
OCCASIONI DI MORTE
213
Sorpresa, guardinga, pronta a ignorare chiunque le abbia fatto perdere il filo dei pensieri, si volta e si trova accanto Martin, col solito completo color crema e il panama in testa, come fosse appena balzato fuori da un film. È con quel suo amico libraio, quello che lei chiama il Mesto. – Ciao, – risponde, sollevata. Si china per farsi baciare dall’amico, poi tende la mano all’altro uomo. Lui la prende e la stringe appena, con l’aria di sentirsi un po’ a disagio. – Mi spiace per tuo marito, – dice, poi guarda Martin. – È meglio se vado. – E scompare senza dar loro il tempo di proferire parola. – Credo sia l’ultima persona con cui ho parlato mentre Federico era ancora vivo, – dice Helen guardando il libraio allontanarsi in fretta. Non riesce a superare questo senso di frattura, di un prima e un dopo tutto quanto. – Ti fidi a star fuori così? – In casa impazzirei. – Non sarai rimasta sola? – No, c’era Giacomo. – Racconterà a Martin cos’ha scoperto, decide, ma non subito. Prima vorrebbe bere qualcosa. – Tu non sei passato, poi. Pensavo venissi. Martin scuote il capo. – Stamattina Giulia ci ha trovato a letto, – dice. Con sua grande sorpresa, la voce è troppo alta e prossima a spezzarsi, ma Helen non sa se ha voglia di ridere o di piangere. Sono in preda all’isteria, pensa. Non posso andare avanti così. – Come, a letto? – Insieme. Non avevamo fatto niente, giuro, ma lei non lo sa. E adesso, in aggiunta a tutto il resto, pensa che sono una troia. Martin la prende per un gomito. – Tu devi bere qualcosa, tesoro, – le dice. Il tono è già un po’ strascicato, e Helen si chiede da quanto tempo stia bevendo lui. Poi si rende conto di aver-
214
CHARLES LAMBERT
gli appena detto che lei e Giacomo hanno dormito insieme, e prova un senso di sollievo. Martin è il suo più vecchio amico romano, e quindi il suo più vecchio amico al mondo tolto Giacomo, per quanto “amico” non sia la parola giusta per definirlo; solo, Helen non riesce a farsene venire in mente un’altra, quale che possa essere la parola eventualmente scelta da Giulia. Si lascia ricondurre indietro verso il fiume, per poi svoltare a destra sulla strada che la riporterà a casa. In un angolo c’è un gruppetto di uomini in uniforme; carabinieri, stavolta. Helen vorrebbe indicarli a Martin, per vedere se ha notato quanti uomini armati ci siano in giro stasera. Lui però l’ha già portata fin sul retro di un bar dove chiaramente è un habitué, e lei invece non è mai entrata. Si siedono a un tavolino d’angolo, con Martin che si toglie il cappello e lo posa sulla sedia accanto a sé e Helen a domandarsi se quella sera tornerà fino a casa sua, vicino a Latina, o si fermerà a dormire a Roma. Non è in condizione di guidare, pensa, mentre lui ordina una bottiglia di prosecco per tutti e due. Forse dovrebbe offrirgli un letto, così poi Giulia può sorprenderla con un altro uomo. – Come ti senti? – le chiede Martin, dandole un buffetto sulla mano. In altre occasioni la domanda l’ha irritata, ma con lui è diverso. Riflette un istante prima di parlare. – Vorrei saperlo. È difficile capire cosa rispondere, senza voler sembrare né troppo coraggiosa né eccessivamente patetica. Per lo più mi sento stordita, e questo rende tutto più difficile quando ripenso a lui e il dolore ritorna. – Fa una smorfia e lo guarda riempire i due bicchieri. – Sopravviverò. – Non sarà facile. Ma non hai bisogno che te lo dica io. – La cosa peggiore è la sensazione di aver perso Federico un’altra volta. – In che senso?
OCCASIONI DI MORTE
215
– L’ultima sera, – dice Helen, – quando sei venuto a cena e io mi sono ritirata presto, ti ricordi? Voi due siete rimasti alzati una vita, dopo che io me ne sono andata. Ero a letto e sentivo le vostre voci, ma non quel che dicevate. Il mattino dopo ho chiesto a Federico di cosa avevate parlato, ma non me l’ha voluto dire, e non era da lui. Certe volte mi sveglia, sai, per raccontarmi questo e quest’altro. Invece era strano, non so... circospetto. – Ma figurati, – dice Martin. Lei però non gli crede. Non dice la verità, nemmeno lui. – Che cosa sai di questo convegno? – gli chiede. – Si tratta di questo? È questo che nascondeva? Stava tramando qualcosa, vero? – Si interrompe. – Ho trovato questa cosa, l’ha scritta lui, si chiama Juggernaut. Martin assume un’espressione sollevata – Helen si chiede perché – e scuote la testa. – Non ne ho idea, Helen. Quella sera non mi ha parlato del convegno. Non so cos’avesse in mente. Ma era un convegno come tanti altri, direi. – Dopo un attimo d’impaccio, aggiunge: – Juggernaut, dicevi? A sentirlo, non sembra cosa da Federico. – Infatti, vero? – dice lei. – Fausto sostiene che Federico preparasse un intervento-sorpresa. E forse è vero. A me non ha mai detto niente. – Percepisce il tono ferito della propria voce e si ferma lì, poi si scola il bicchiere. Dopo un istante, mentre Martin li riempie di nuovo tutti e due, riprende a parlare. – Secondo te è mai andato a letto con qualcun’altra? – gli chiede. – A parte me? Martin sventola la bottiglia, con aria mesta, all’indirizzo del bancone. – Non saprei, – dice adagio. – Io non ho motivo di pensare che lo abbia fatto. – Gli uomini parlano di queste cose tra loro, lo so, – dice Helen, per quanto non riesca a figurarsi Martin e Federico giun-
216
CHARLES LAMBERT
gere a quel livello di intimità, se di questo si tratta. Non sa perché, ma non riesce a immaginarsi l’intimità fra maschi. Federico è mai stato intimo di Giacomo? Parlavano di me? E cosa mai avrebbero potuto dirsi? – Perché io l’ho fatto, invece, – prosegue. È sul punto di piangere, per la vergogna e il sollievo, e distoglie lo sguardo quando il barman porta la seconda bottiglia, per poi aprirla con uno svolazzo ironico; Martin lo liquida con un gesto prima che possa riempir loro i bicchieri. – Come moglie sono stata tremenda, – dice Helen. Martin tende una mano ad accarezzarle il braccio, imbarazzato, e le rovescia il bicchiere. Sta spazzando via il prosecco dal tavolino con il dorso della mano quando lei riprende: – Ho la sensazione di aver deluso tutti. Ho sempre cercato di fare la mia parte, ma senza mai avere la minima idea di quale fosse, limitandomi a saltabeccare da un ruolo all’altro… mai davvero convinta di fare la cosa giusta. Ti sembra normale, non essere mai convinta? Mi sono sempre fatta dire dagli altri come comportarmi, e poi quando lo facevo erano sempre tutti insoddisfatti. Non era mai abbastanza. Io non sono mai stata abbastanza. Helen tace. Ora vorrebbe sentire Martin, vorrebbe essere contraddetta in qualche modo, ma lui continua a tamponare il vino versato con i tovagliolini di carta presi dal dispenser metallico sul tavolino accanto, e allora dopo un istante riprende. Le sembra di parlare da sola, e questo le dà forza. – Federico mi faceva sempre sentire come se non avessi capito. Anni fa, subito dopo le nozze, andammo a cena a casa di una certa coppia, e la moglie stava seduta ai piedi del marito mentre lui pontificava, non ricordo più a proposito di cosa. A un certo punto lei lo interruppe, con un filo di voce, per dirgli che non era d’accordo, secondo lei si sbagliava. Era chiaro che per contraddirlo si era fatta forza, e penso lo avesse fatto solo perché c’ero io, perché davanti a me si vergognava di lui. Un
OCCASIONI DI MORTE
217
uomo noiosissimo, terribilmente pieno di sé, atroce. E sai lui cosa fece? Le diede un buffetto sulla testa, una cosa da non credere. Dicendole che non ne sapeva abbastanza per dissentire, e che poi le avrebbe spiegato meglio. E lei si disintegrò, una cosa orribile, con un sorrisetto tirato, ma si vedeva bene che era sul punto di piangere. Lui era veramente convinto di fare il suo bene, capisci, e lei lo sapeva, giuro, e non c’era modo di uscirne. Era in trappola. E io provai disprezzo per lei, perché Federico non mi aveva mai trattata così; non glielo avrei permesso. Ero assolutamente sicura di me. Sfiora con l’anulare la traccia di prosecco rimasta sul tavolino, se lo lecca via dal dito e poi stringe la mano calda e umida di Martin nella propria. – Mentre adesso mi chiedo se sono davvero tanto meglio di lei. – Lo guarda negli occhi, per costringerlo a fare lo stesso. – Secondo te Federico lo sapeva? Di me? Martin distoglie lo sguardo. – Sono certo di no. – Capisco, – dice Helen. – Non sopporterei di sentire che lo sapeva. Non più. Perché ora non posso più spiegarglielo. – Lui però capirebbe. – Che cosa? Che mi scopavo il suo migliore amico per dare un senso alla mia vita? – Non può essere tutto qui. – Vado a letto con Giacomo, a sprazzi, da anni. È cominciata secoli fa, ma quando è cominciata stavo già con Federico. No, non ci vado a letto: ci scopo. Scopavamo ogni volta che potevamo, in cucina, in macchina. Non so perché, o almeno non lo sapevo allora. Adesso credo di sì. Ero con lui, sai, subito dopo che hanno ammazzato Federico. Non l’ho detto a nessuno. – Tolto il giudice, pensa con sollievo, il quale peraltro sembrava averlo già capito. E poi c’è Giulia, che l’ha indovinato. Lascia la mano di Martin e si appoggia alla spalliera della sedia.
218
CHARLES LAMBERT
– Domani vado dal premier. – Mi pareva avessi deciso di no. Lei ricaccia indietro le lacrime. – Non posso esimermi. Devo affrontare le cose. Oggi pomeriggio ho parlato col giudice, sai, quello che indaga sulla morte di Federico. Gli ho detto la verità, ma sabato vuole risentirmi, dice. È stato ben più garbato di quanto immaginassi. Ma del resto chi non lo sarebbe, in confronto a Giulia. – Be’, pure lei ne ha passate di tutti i colori. Esiliata in tempo di guerra, incarcerata, – dice Martin. – Torturata, per quanto se ne sa. – Santa Giulia martire, – ribatte Helen. – Non volevo dire quello. – Anche Martin ritrae la mano. – Lei si vede così, come una martire? – No, si vede come servitrice della Costituzione, nemmeno l’avessero scritta col sangue. Il suo. Certo, per qualche verso è così; un po’ di sangue lo avrà pure lei. – Nonché un figlio martirizzato. Helen annuisce. – Già, il martire adesso è Federico. – Il suo sguardo viene attirato dall’ingresso di qualcuno, un uomo corpulento dalla testa rasata, che lancia un’occhiata a tutti e due. Per un istante Helen teme possa trattarsi di un giornalista e vorrebbe andarsene, allunga la mano a prendere la borsetta con un breve fremito involontario. Martin si gira a sua volta per vedere chi è arrivato, ma il tizio è già scomparso. Helen scuote la testa, non era niente. – Anch’io ho fatto qualche indagine qua e là, – dice allora Martin. Lei si chiede se davvero voglia sapere altro. – Un mio amico ha dato un’occhiata ai tabulati del cellulare di Federico. – Si interrompe, drizza le spalle, fa sporgere il labbro inferiore. Non ha una bella cera, pensa Helen. La car-
OCCASIONI DI MORTE
219
nagione è molliccia e pastosa, come la plastilina con cui giocano i bambini quando gli assorbe la sporcizia dalle mani. Dovrebbe darsi una pettinata e cambiarsi la camicia. Fuori dell’agenzia di stampa, lontano dalla scrivania, comincia a sembrare un vecchietto sperduto. Le piange il cuore a vederlo ridotto così, le dita che giochicchiano con il pacchetto di sigarette nella tasca della giacca come con un rosario. E si chiede cosa abbia fatto per ottenere queste informazioni, non solo oggi ma in passato. – Cosa dicono? – gli chiede. – Chiamava la segretaria, gli assistenti. Suo padre, due o tre volte al giorno. Sua madre molto più di rado. Te, naturalmente. E un prete. – Un prete? Martin se l’era chiesto, come avrebbe reagito lei a questa notizia. – Sì, ma non il vostro. – Come, il nostro? – Scusa, tesoro. Dimenticavo che tu non hai mai frequentato parrocchie. Il vostro parroco di zona. – Non credo Federico facesse riferimento a una parrocchia. – Infatti non si tratta della vostra. Questo tizio sta in Abruzzo, e a quanto pare è una specie di cane sciolto. Si chiama don Giusini. Genere movimenti antiglobalizzazione, decisamente un attivista. Si è messo nei guai durante il G8, quando hanno mandato la polizia a pestare quei ragazzini. – La guarda in faccia. – Mi sorprende non ci fossi anche tu. – Magari ci fossi stata. Avrei dovuto andarci. – Alquanto masochistico, tesoro. – No, Martin, non hai capito. Mi stavo facendo un fine settimana a luci rosse con Giacomo, – precisa lei. – In un convento, per giunta. – Sospira.
220
CHARLES LAMBERT
– Un paio di giorni ben spesi, direi, – fa lui dandole un’occhiata guardinga. – Per lui fu imbarazzante, – dice lei. – Quando scoppiarono i casini gli chiesero di scriverci un pezzo, con le sue impressioni, eccetera. Lui però non ne aveva, e non poteva certo scrivere un pezzo su quel che aveva fatto veramente. In quella le suona il cellulare; Helen ficca una mano in borsa, sotto la sedia, e spinge da parte la stampata per prenderlo. Controlla il display. – Lupus in fabula, – dice. – Sei sola? – chiede Giacomo. – No, – risponde lei. – Sono con Martin Frame. E tu? – Io sì, – fa lui. – Sono stato abbandonato. – Santo cielo. – Pensavo di venire da te, magari. – Sì, – dice lei. – Mi farebbe piacere. Si alza. – Devo andare, – dice a Martin. Poi si mette a cercare il portafogli, ma lui la ferma. – Sei sicura di star bene? – le chiede. – No, – dice lei. – Per niente. – Sorride. – Se ti va puoi accompagnarmi a casa. – Gli sfiora una guancia. – L’aria fresca ti schiarirà le idee.
QUARTA PARTE
1
Roma, venerdì 4 giugno 2004 Giulia e Helen siedono insieme sul sedile posteriore dell’auto di servizio che Giulia pare aver acquisito il diritto di usare, una macchina in tutto e per tutto identica a quella contro cui si è accasciato Federico, se non per il colore, perché questa è nera. Tutte e due stanno sedute il più vicino possibile ai rispettivi finestrini fumé, intente a guardare in silenzio, oltre il vetro, le strade deserte se non per i gruppetti di turisti in bermuda e cappellini da sole, i negozi chiusi e sbarrati di via del Corso, l’erba gialla e riarsa man mano che l’autista percorre adagio il perimetro del Galoppatoio di villa Borghese. Seduto accanto al conducente, al posto che sarebbe toccato al figlio, Fausto si getta ogni tanto un’occhiata alle spalle, ma Giulia non se ne accorge oppure ha deciso di ignorarlo, lasciando a Helen il compito di sorridergli con una riconoscenza, per lui, difficile da cogliere. Vanno a vedere la salma di Federico, esposta in un locale definito da Fausto “camera ardente”, una sala secondaria all’interno del ministero: Helen e Giulia, una volta tanto d’accordo malgrado le remore di Fausto, si sono rifiutate di prendere in considerazione luoghi con connotazioni religiose. La camera ardente, cioè una stanza che brucia: – Temo di non sapere come si chiama in inglese, non ne ho mai vista una prima d’ora, – ha detto Helen in tono rammaricato, commossa all’idea che Fausto voglia parlarle nella sua lingua, come se lei fosse una bambina da mettere a proprio agio fra adulti. – Immagino sia
224
CHARLES LAMBERT
una parola imparentata con morte, tipo camera mortuaria, o morgue. Una cosa del genere. – Cappella mortuaria, – ha precisato Giulia in tono di rimprovero. – Ricordo di aver avuto il privilegio di assistere all’esposizione solenne di Churchill, per porgere l’ultimo omaggio, mio e del mio paese, a un eroe nazionale. – Ha anche passato in rassegna il guardaroba di Helen in cerca di qualcosa di adatto e deciso infine per un abito nero che lei non indossa da quando ha cantato a un concerto, oltre dieci anni prima, un vestito di lino che adesso le pende floscio addosso, dandole uno sgradevole aspetto smunto e rattrappito il quale, tuttavia, sembra gratificare Giulia, a sua volta vestita di nero, sebbene con maggiore eleganza. Ormai avrà tutta una collezione di capi adatti al lutto, pensa Helen, tailleur di buon taglio come questo; i suoi amici e colleghi, la vecchia guardia repubblicana, negli ultimi anni hanno preso a morire come mosche. Strano che l’aggettivo sia “ardente”, però: di certo non c’è nulla di più gelido e apatico di questa sfilata davanti a un corpo morto. Perché la sua sensazione più forte, seduta lì in macchina con la suocera, è l’apatia; non verso Federico, non in sostanza, ma verso questa ostensione, questo spettacolo, al quale ha permesso a Giulia di strapparle un assenso. Adesso, mentre l’auto sfila a passo d’uomo accanto a schiere di dolenti e si ferma dentro il cortile del ministero, l’impulso di Helen sarebbe quello di chiedere al conducente di lasciar scendere gli altri e riportarla a casa. Ma questa non è la sua macchina, con il suo autista, e lei non ne ha il coraggio, né il diritto. La portiera gliela apre un signore di mezz’età di cui riconosce il viso ansioso e tormentato, il quale le offre il braccio e le dice, a bassa voce, come a rammentarglielo: – Remondini. – Lei conferma col capo. Naturalmente lo conosce, lavorava con Fe-
OCCASIONI DI MORTE
225
derico. L’ha visto a casa loro almeno dieci volte, a cena, e si fermava anche dopo che lei era andata a letto e stava là sdraiata al buio, senza dormire, a chiedersi quando sarebbe venuto a letto Federico e se valeva la pena di rimanere sveglia, sapendo che lui l’avrebbe svegliata comunque per raccontarle di cosa si era parlato, le importasse o meno. Gli posa le dita sul braccio e sta per ringraziarlo quando le suona il cellulare. Lo aveva acceso in macchina, per chiamare Giacomo che se n’è andato da casa sua stamattina presto, ma poi le è mancato il coraggio. – Spegni quell’affare, – sibila Giulia alle sue spalle, ma Helen, pur consapevole che sta facendo la bambina, apre la borsetta, tira fuori il telefonino e controlla la chiamata: è Giacomo. Con fare protettivo, Remondini s’infila rapido tra lei e un gruppo di persone all’ingresso della stanza dove evidentemente aspetta Federico. Ma Federico non aspetta, è ovvio. I morti non aspettano. – Ora non posso parlare, – dice Helen, dando a Giacomo giusto il tempo di dirle che la ama prima di spegnere il cellulare e rimetterlo in borsa. Si guarda indietro in cerca di Fausto, il quale la raggiunge a passi veloci e la prende per mano. La conduce oltre le persone in attesa, non esattamente una folla, dieci o dodici al massimo, che mormorano e si allontanano al suo passaggio, evitando il suo sguardo; anche Fausto si fa da parte per lasciar entrare prima lei. Lo hanno messo al centro della stanza, su un tavolo drappeggiato di pesante stoffa rosso scuro. Non è più nel sacco di plastica e giace vestito di tutto punto in una bara e Helen si domanda da dove venga il completo, avvicinandosi con Fausto un passo dietro, mentre Giulia scambia due parole accanto alla porta con un uomo a lei ignoto. L’abito è nuovo e non è dei suoi, è molto più costoso. Helen guarda quest’uomo nella cassa foderata di raso, il quale è Federico tanto quanto può esserlo il
226
CHARLES LAMBERT
tavolo, o un qualunque pezzo di legno o di marmo o di polpa artificiale, la carne di una bestia macellata. Guarda gli sforzi profusi per farlo sembrare vivo e umano, il completo nero che Federico non si sarebbe mai sognato di indossare e che qualcuno deve aver comprato per suo conto, la cravatta, le scarpe lucide e più appuntite di come le avrebbe scelte lui, quasi fosse lui il dolente e non il compianto, i capelli biondi e di norma arruffati spazzolati all’indietro e sistemati con il gel, le labbra e le guance con giusto un velo di rosso ma comunque clownesche. Oh no, pensa Helen, quest’ultimo oltraggio, quest’assenza, almeno non è qui a vederla, perché in questo momento le diviene chiaro che di Federico non è rimasto niente, nessuna traccia, pure meno di ieri, si rende conto ora, o è stato l’altro ieri? Due giorni fa all’obitorio, con Giacomo accanto a lei e Federico sul piano di metallo, come un arrosto pronto confezionato a metà. Non gli ha ancora visto la ferita. Forse questo la convincerebbe, un danno visibile a carne e ossa. Ha letto di donne straziate dal lutto che si gettano sulle bare per sdraiarsi di fianco ai cadaveri dei mariti e si chiede che cosa le spinga. In macchina c’è stato un momento in cui ha fantasticato di vederlo che si muoveva e gridare: – È ancora vivo! – Oppure di baciarlo e sentirne la bocca muoversi contro la sua, reagire. Non era tanto un pensiero, e nemmeno una speranza, quanto una specie di vuoto di pensiero e di speranza, un’estinzione di quel che era successo, come quando i bambini chiedono di sentire due volte la stessa storia perché non ci sono garanzie che non possa cambiare, la seconda volta. Solo le mani sembrano vere, indenni, sue. Pensando di essere fermata da qualcuno, da un’altra mano – quella di Giulia – che si allunghi a schiaffeggiarla, Helen si protende ad accarezzare una mano di Federico e la trova fredda, talmente fredda da farla sussultare, con un grido intrappolato sulle labbra.
OCCASIONI DI MORTE
227
Non è cambiato niente. Fausto le è abbastanza vicino da sussurrarle che possono andare, si sono fermati abbastanza, e ancora una volta Helen torna consapevole del prossimo attorno a sé. – Dov’è Massimo? – chiede guardandosi intorno. – Massimo chi? – dice Fausto lanciandosi un’occhiata alle spalle. A poca distanza dal gruppo famigliare comincia a formarsi una coda, per vedere Federico. – L’autista di Federico, – dice lei a voce più alta. – Perché non è qui con lui? – Portala fuori di qui, – dice Giulia, sprezzante. – Hanno ammazzato anche lui, sì o no? – insiste Helen, in tono isterico, ed era l’ultima cosa che voleva. Si era ripromessa di mantenere la calma. – Va tutto bene, cara, – dice Fausto. Lei vorrebbe sottrarsi e dire, Non va bene per niente, ma qualcosa glielo impedisce, un senso di dignità, se quello non fosse prerogativa di Giulia. Forse di vergogna. Farei una scenata, pensa, se ne avessi la forza. Stanno uscendo dal palazzo, Helen un passo avanti ai suoceri, quando uno sconosciuto le si avvicina. Più giovane di lei, sui trentacinque al massimo, le si para proprio davanti prima che chiunque pensi di fermarlo. Porta un completo nero e una camicia grigio chiaro; al collo Helen gli nota una collarina bianca, e con la coda dell’occhio si rende conto che Giulia sta chiedendo insistentemente aiuto. – Lei non mi conosce, – dice l’uomo. Invece sì, pensa Helen, benché non sappia come si chiama e non l’abbia mai visto prima. Cos’aveva detto Martin? – Don... – ...Giusini. – Lui sembra sollevato. Dal nulla appaiono due colossi in doppiopetto che lo afferrano per i gomiti, ma Helen
228
CHARLES LAMBERT
li caccia con un gesto, esaltata dal proprio potere mentre loro indietreggiano fra la folla. A questo punto il cortile è gremito di gente. – Federico le ha parlato di me? Helen butta la testa all’indietro con un gesto breve e non precisamente di assenso, ma per il resto non risponde. – Mi piacerebbe parlare con lei, appena me ne darà la possibilità, – continua l’altro. – Di suo marito. Di Federico. – È alto quanto Helen e ha i lineamenti delicati, grandi occhi castani e la barba di un giorno, come un fotomodello. I capelli sono folti, con una riga approssimativa e pettinati dietro le orecchie. Ha un fare incalzante che le ricorda Giacomo, non il Giacomo di adesso ma quello che tornò dall’America Latina, estatico e furibondo, quasi trent’anni fa. Il sacerdote si guarda attorno con impazienza, come a dire, Chi è questa gente? Cos’hanno a che vedere con noi?; e poi, sembrerebbe con rincrescimento, le sorride, tenendole gli occhi negli occhi sicché nulla vada perduto. Un sorriso complice. – Non ho tempo, – dice lei. – Non adesso. – Giulia la tira per la manica come una bambina impaziente, mentre Helen fa tutto il possibile per non badarci. Fuori dall’ingresso del cortile del ministero, trattenute da una decina di uscieri in divisa, le troupe televisive attendono la loro uscita. Helen aveva un tono più freddo di quanto avrebbe voluto, e si affretta a rimediare: – Oggi pomeriggio, dopo pranzo, venga da me. Sa dove abito? – Lui riesce giusto ad assentire col capo, poi Giulia trascina via Helen con forza sorprendente. – Se lo fai un’altra volta ti becchi un ceffone, – dice Helen. – E non farebbe una bella impressione al telegiornale della sera, vero? – Rivolge un cenno alle telecamere, ai cronisti pronti con i microfoni. – Non li hai visti, come si radunano? – Giulia molla la presa quanto basta a Helen per svincolare il braccio.
OCCASIONI DI MORTE
229
Vorrebbe darle uno spintone, a quella vecchia, con due mani in pieno petto, farle profondamente male. Un’umiliazione, ci vuole, molto meglio del dolore: perché quella il dolore ha imparato a tollerarlo, se ne è nutrita; si è nutrita di cordoglio. – Non mettermi mai più le mani addosso, – ripete mentre Giulia, rossa in volto, fa cenno alla macchina. Don Giusini è rimasto indietro di qualche passo, a braccia conserte, e osserva la scenata. Perché in effetti lo è, pensa Helen. Finalmente sto facendo una scenata. – Oggi pomeriggio, – gli ripete a voce alta. – D’accordo? Sa dove abito? Lui annuisce ancora una volta, gli occhi fissi su di lei. Lei si allontana da tutti, dai suoceri, dai signori in giacca e cravatta che le si sono radunati attorno e la opprimono, e corre dal prete, il quale le prende le mani tese fra le sue. Le telecamere le si fanno dappresso, ma lei non ci fa caso. – Cosa deve dirmi? L’uomo abbassa lo sguardo sul fondo lastricato del cortile, poi rialza gli occhi dritti negli occhi di lei. – Federico stava morendo, – dice.
2
Giacomo si avvia da piazza Barberini, ma si trova il passo sbarrato dopo neanche cinquanta metri. La zona antistante l’ambasciata americana – anzi, l’intera larghezza di via Veneto – è cordonata da militari. Dovrà trovare un altro modo di raggiungere l’albergo. Frustrato, saggia il peso del cordone sollevando di un nonnulla il paletto con il nastro segnaletico; immediatamente arrivano due soldati che lo allontanano con le canne dei mitra, gli occhi invisibili sotto l’ombra dell’elmetto. Sono americani, nota, e il suo primo impulso è di chiedergli che diritto abbiano di occupare una strada nella capitale di uno Stato sovrano, ma si trattiene. Li guarda, sono giovani, uno ha l’acne, l’altro è ispanico. Avranno l’età sua e di Federico l’ultima volta che si sono trovati davanti a questa stessa ambasciata, insieme a migliaia d’altri, con l’eskimo e quei ruvidi maglioni peruviani che puzzavano di yak, a tenere su striscioni fatti a mano e candele e chitarre. Si erano radunati per protestare contro l’ingerenza USA nel primo 11 settembre della storia, quando avevano assassinato Allende, e Víctor Jara. Come faceva quell’ultima canzone di Jara? Quella scritta quando gli avevano già sfasciato le mani? Giacomo non ne ricorda più una nota, e dire che una volta la sapeva a memoria. Di quel fatto, meglio di tutto ricorda di essere stato afferrato tra la folla e portato in un cellulare della polizia, le braccia torte dietro la schiena, terrorizzato ed esaltato, finalmente conscio sulla propria pelle di cosa significasse essere una vittima del-
OCCASIONI DI MORTE
231
la brutalità fascista. Com’erano semplici le cose allora, le parole sempre pronte quando servivano. Era stata la prima volta in cui lo avevano fermato, ma non incriminato, trattenuto una notte insieme ad altri, strapazzato e schedato, rilasciato. Anni dopo una sua ragazza, in grado di accedere agli uffici giusti, aveva trovato il dossier dell’Immigrazione intestato a Mura, Giacomo (nato a Roma, Italia, nell’ottobre 1953), un faldone pieno zeppo con dentro la foto segnaletica fatta dai Carabinieri quella mattina, l’occhio sinistro nero e semichiuso per le botte. Visto d’ingresso negato. Una gran botta d’orgoglio. È ancora lì accanto alla transenna quando dall’interno della sede diplomatica escono quindici moto in formazione a V, seguite da due limousine, ciascuna dotata di bandiera statunitense sul cofano, e poi un altro gruppo di motociclisti. E chissà dove, là in mezzo a quello strepito di cavalli vapore, di protezione e di evidente e volgare ostentazione di potere c’è lui, lui in persona, il capo del mondo. Come sempre in queste situazioni, a Giacomo torna in mente la prima volta che ha visto Mitterrand, sminuito dal cerchio di omoni che aveva tutto intorno, la crema dei gorilla in completi di sartoria, gli augusti piedi invisibili cosicché Monsieur le président pareva galleggiare a mezz’aria, un’entità maestosa e futile nel cuore di un ritratto della forza bruta. Gli imperatori sono tutti uguali, pensa ora Giacomo, vestiti nuovi o meno. Meno male, lui ha sempre resistito alla tentazione. Dev’esser stato difficile essere Federico, in questi ultimi anni, e compiacere la corte, quando avrebbe potuto essere come Giacomo, una presenza irritante ai margini, a godersi le briciole se cadevano dal tavolo dei padroni, a mordicchiargli le caviglie e poi scappare via. Stamattina lo ha chiamato Fausto per dirgli, come si aspettava, che il convegno è stato annullato, e a lui va bene così. Ma non vuol dire che sia pronto a lasciare Roma, a lasciare Helen.
232
CHARLES LAMBERT
Federico è già acqua passata, ha scoperto prendendo un caffè al bar. Le prime pagine di oggi parlano solo degli ostaggi, dell’attacco a colpi di mortaio contro l’ambasciata italiana di Baghdad, della lotta politica intestina, della visita dell’imperatore americano. Poco spazio per le affermazioni dell’anziana signora, la madre dell’autista assassinato, ma questo è normale. Alla fin fine, darle udienza non giova agli interessi di nessuno. Si rende conto che gli viene da definirla “vedova”; e forse non c’è una parola per definire una donna che ha perso un figlio, riflette, perché non dovrebbe mai succedere, è una cosa contro natura. Però succede continuamente: a causa degli imperatori e dei loro consiglieri. Forse la parola esisteva in latino, a Roma antica, pensa, dove di certo ce n’era una necessità costante. Federico è finito in terza o quarta pagina, quando non più indietro. Stranamente, i quotidiani di proprietà della famiglia del premier hanno relegato la vicenda in cronaca interna, come se l’assassinio di Federico equivalesse a un omicidio di mafia o al sequestro di un bambino. Come se non avesse alcun contenuto politico. Ma queste sono distinzioni che ormai non fa più nessuno, pensa Giacomo, a meno che l’assassino non sia di fede islamica. Oggigiorno gli unici veri terroristi ci sembrano i musulmani, sospinti da un credo, perché è più facile vedere la minaccia come esterna; ci fa sentire migliori, ora che ci siamo lasciati alle spalle la storia e le ideologie. Ai nostri tempi era diverso: il potere costituito non distingueva i terroristi dai propri figli. I suoi figli eravamo noi. E adesso Helen sta accanto alla bara di suo marito, dentro una stanza del ministero, nel cuore delle istituzioni, e lui vorrebbe tanto fossero ancora a letto insieme. Ieri sera era un po’ strana. Il distacco uno se lo aspetta, ma Giacomo sperava lo condividesse con lui: il dolore, il bisogno di
OCCASIONI DI MORTE
233
conforto. In vita sua non è mai stato così attento alle esigenze di una donna, pensa – questa creatura fragile e meravigliosa – come se tenesse l’orecchio premuto contro il guscio di lei. È la prima volta, da quando si conoscono, in cui sono entrambi single, liberi. Certo lui non gliel’ha detto, è troppo presto; però si domanda se ci abbia pensato anche lei. Ma per forza. Stamattina, quando gli ha detto che andava alla camera ardente e poi ovunque l’avessero portata, che aveva deciso di stare al gioco, lui l’ha guardata e l’ha vista com’era: sola, senza Federico. E così dev’essere, ha pensato. Tutto il resto, su quanto fosse avventato farsi trascinare, se l’è tenuto per sé. Voleva che lei decidesse con la sua testa, una volta tanto. Tutta Helen, finalmente, tutta per lui. Si volta e torna verso via del Tritone; l’albergo può aspettare. Percorrendo la discesa socchiude gli occhi davanti a un negozietto di cartoline e vede una ragazza in maglietta, con un rivolo di sudore sul labbro superiore, e ha un moto d’attrazione: è sempre un sollievo, questa reazione meccanica. Come svegliarsi la mattina e sentirsi il polso, per accertarsi che non sia un sogno. Ancora potente, ancora vivo. A cinque minuti da lì ci sono via della Vite, via Condotti, via Borgognona, il mondo di Yvonne, con le sue vetrine illuminate da faretti come in un museo e le commesse tutte pelle e ossa, le quali probabilmente non si chiamano più così: come si definiranno, consulenti di qualcosa? Non ne sarebbe sorpreso. Potrebbe chiederlo a Yvonne, ma non lo farà: lei ormai sarà a Parigi con le sue amiche altrettanto secche, impegnata nell’autopsia delle foglie d’insalata in qualche cantina pretenziosa, acqua naturale nei bicchieri, presa a fare il taglia e cuci. Giacomo ha il passo leggero. Pensa di richiamare Helen, poi decide di no. Lo chiamerà lei quando è pronta.
3
Helen si aspettava che l’accompagnassero Giulia e Fausto, invece è un signore di mezza età in completo grigio chiaro a prenderla per il gomito e, con una pressione delicatissima, sottrarla alla loro compagnia. Lei prova una sensazione di panico – perfino Giulia sarebbe meglio di niente – mentre lui la guida verso un ascensore aperto, lasciandola andare non appena tutti e due sono dentro e le porte scorrevoli si sono rapidamente chiuse in faccia ai suoi lontani suoceri, rimasti ben più indietro nel corridoio. L’ascensore è dotato di specchi e moquette, con una preziosa cornice dorata a schermare la luce. Nel guardare lo specchio alla sua sinistra, Helen si accorge del riporto di capelli sulla piazza del suo accompagnatore e deve trattenere un sorriso. Lui si volta verso di lei, che per la silenziosità del meccanismo in cabina ha la sensazione di stare sospesa sia nel tempo sia nello spazio, e le porge le proprie condoglianze in un sussurro mellifluo, dall’accento meridionale, sogguardandola di tanto in tanto come se la sua mise non fosse adatta all’occasione. Forse è così. Ma cosa voleva dire il prete? “Federico stava morendo.” Segue l’uomo lungo un corridoio fino a una stanza che potrebbe essere proprio sopra quella in cui attendono Giulia e Fausto; altra moquette, seggioline dorate dall’aria fragile lungo il muro, una fila di finestre lunghe ed elegantemente drappeggiate a guardare la strada. A un’estremità del locale c’è un gruppo di persone radunate attorno a un tavolo a cui siede qualcuno che lei non riesce a vedere, ma di cui riconosce im-
OCCASIONI DI MORTE
235
mediatamente la voce, l’accento milanese, la boria. Sta raccontando qualcosa, sembrerebbe una barzelletta. – ...e il papa stiamo passeggiando lungo l’argine di un fiume; a un certo punto al papa cade la Bibbia in acqua. Allora io mi metto a camminare sulle acque e gliela raccolgo. Il mattino dopo – pausa a effetto da professionista – l’“Unità” titola in prima pagina: “Il presidente del Consiglio non sa nuotare!” L’accompagnatore di Helen sta gesticolando con aria frenetica all’indirizzo del gruppetto, ma nessuno se ne accorge finché la barzelletta non è terminata e debitamente apprezzata: le risate si smorzano solo quando il gruppo si apre e il premier la vede. Qualcuno gli sussurra rapidamente qualcosa all’orecchio. Lui si alza e viene subito da lei, i lineamenti arrossati per il dispiacere. Non è la prima volta che si vedono; Helen gli è già stata presentata in un paio d’occasioni, ma evidentemente lui non se ne rammenta e nessuno gliel’ha ricordato. Le prende una mano tra le sue, tiepide e delicate, e gliela stringe. È più basso di lei, sebbene non di molto. – Le mie condoglianze più sentite, – dice. Lei abbassa lo sguardo e fa un cenno col capo, grata perché lui non ha tentato di parlarle nel suo inglese da crociera, come ha già fatto in passato. Da tanto vicino Helen è in grado di vedergli la cipria beige sulla fronte e sulle guance, la base del naso attenuata. Vorrebbe che la lasciasse andare, ma preferisce non ritrarre la mano. – Ammiravo moltissimo suo marito, – prosegue lui, gli angoli della bocca piegati all’ingiù come se stesse cercando di reprimere un sorrisetto, l’istinto del piacione. – Il suo lavoro ha un valore inestimabile. – È una bugia e lei lo sa, Federico le avrà raccontato mille volte di quando e come ha rischiato di perdere l’incarico per colpa dei ragazzi del premier piazzati al ministero. Ma la menzogna non la sorprende né la sconvolge, perché non si aspettava la verità. La verità non gliel’ha detta nes-
236
CHARLES LAMBERT
suno, pensa, non ancora. Con l’eccezione, forse, di don Giusini. Ma come può essere quella, la verità? “Federico stava morendo.” Il presidente del Consiglio sta parlando di quanto ha fatto Federico per il paese, per il nostro paese, dice lui, senza smettere di tenerle la mano. E adesso tocca a loro fare tutto il possibile per lui, continua, per fargli capire che non è morto invano. Per dimostrare ai loro nemici che loro si ergono uniti contro quanti – gli illiberali, i codardi, i terroristi, i liberticidi – vorrebbero intimidirli. Aveva sentito parlare del suo fascino, perfino i nemici glielo riconoscono, per quanto assai peculiare, da venditore di macchine, da baro, e per un attimo Helen vi soccombe, come chi si lasci infine affogare dopo ore passate in acqua, come chi accolga l’acqua dentro i polmoni perché resistere ancora è inutile. E poi si rende conto di aver già sentito questo discorso, o altri simili. Fa parte del repertorio. Lui deve aver notato il cambio d’espressione in lei, perché tra le labbra serrate gli torna un guizzo di sorriso, con un effetto comico malgrado l’intenzione, che non è certo quella di divertire ma di esprimere, nel cordoglio, una comprensione, una solidarietà. Tutto a un tratto si trasforma in quel che la madre di Helen definiva, con disprezzo, un cicisbeo. Anche i cicisbei hanno un loro repertorio, pensa. Ritrae la mano e il sorriso scompare, come spento da un meccanismo. E quando lui si volta per convocare uno tra i presenti nella stanza, un membro del suo manipolo di vice, lei nota la linea sottilissima lungo la mandibola dove si ferma il trucco. – Lei stessa, confido, farà tutto ciò che può, – le dice poi in tono severo e ammonitorio, fissandola freddamente negli occhi, – perché sia rispettata la volontà di suo marito. Per il bene della nostra amata Italia. Per il suo rango internazionale. Abbiamo addosso gli occhi del mondo. – Quindi, alla stessa
OCCASIONI DI MORTE
237
velocità con cui si era avvicinato, gira sui tacchi e si allontana impettito. Qualche istante più tardi, in un altro salotto formale, le chiedono di aspettare e la lasciano sola. A lei d’improvviso viene da ridere, soprattutto per il sollievo. Non ha ceduto. L’amata Italia, come no. Apre la borsa, tira fuori il cellulare e lo accende. Non c’è campo, perciò non può chiamare nessuno con cui condividere l’assurdità della situazione; l’ideale sarebbe Martin. Ma che cosa intendeva don Giusini? Nel riandare col pensiero al volto del premier, così da vicino che rivede anche la cipria nei pori, le torna in mente Federico una sera, mentre cucinava, col ronzio del televisore in sottofondo. Il modo migliore di distruggere il premier e quelli come lui non è assassinarli, aveva detto, coltello alla mano, ma umiliarli, umiliarli continuamente. Un giorno gli pizzico il naso davanti alle telecamere. Basterebbe mettersi a ridere, se ci mettessimo a ridere in tanti. A ridere di gusto ogni volta che apre la bocca e dà fiato alle sue banalità e alle sue bugie. È di quello che ha più paura, di sembrare ridicolo. Ma già lo sembra, aveva detto Helen. Non capisco perché non se ne accorgano tutti. Forse un giorno lo faccio davvero, aveva detto Federico, quando non ho più niente da perdere. Magari lo facessi, ricorda di aver risposto lei. E adesso dovrei farlo io, riflette, con l’inutile cellulare tra le mani, davanti a tutti. Pizzicargli il naso, ridergli in faccia. Alza gli occhi, distratta da un rumore, e vede una telecamera a circuito chiuso fare una panoramica della stanza; un istante dopo arriva un tizio. Helen lo ha visto in televisione, in una di quelle gare di urli che vengono spacciate per dibattiti politici, ma non ricorda come si chiami. È più giovane di lei, con i capelli corti, quasi del tutto rasati, un viso da roditore, uno di quelli che di questi tempi potrebbe tranquillamente essere a capo di una bancarella al
238
CHARLES LAMBERT
mercato come di un ministero. Non si presenta; pare dia per scontato di esserle noto, con l’arroganza tipica di questa gente. – Lei sa che il presidente del Consiglio è totalmente vincolato al suo assenso, – dice senza preamboli, con un accento che riporta Helen a Torino, e proprio nel tono di chi dà tutto per scontato, in particolare la sua acquiescenza. Lei inarca un sopracciglio ma non risponde. Falla cadere dall’alto, si dice. Lui comincia a descrivere il lavoro fatto da Federico, il suo contributo allo Stato, la sua dedizione, nulla di tutto questo è falso e tuttavia le risulta irreale, come lo sarebbe risultato allo stesso Federico, ne è certa. E infatti, capisce, il tentativo di quest’uomo non è quello di raccontare Federico, assolutamente, bensì il morto nella camera ardente, quello con un vestito che lui non ha mai messo, quello con il trucco in faccia, il quale non è comunque Federico. Tanto vale lasciargli fare quello che vogliono, pensa, sollevata, come se avesse trattenuto il fiato senza rendersene conto e ora ricominciasse a respirare. Loro si tengano l’eroe, e io mi tengo mio marito. E adesso il suo interlocutore si gioca quel che Helen riconosce immediatamente come l’asso nella manica: il presidente degli Stati Uniti, dice, ha lasciato intendere di essere pronto a spostare il suo volo per la Francia in modo da partecipare alle esequie. E lei dovrebbe essere onorata da una presenza simile, continua, in tono sempre più untuoso. La lotta al terrorismo internazionale. L’Asse del Male. È essenziale che ciascuno faccia la propria parte. Ma quanto sei stupido, pensa lei. Ce l’avevi quasi fatta. Se solo non avessi tirato in ballo Bush. Sta per chiedere di essere riaccompagnata alla macchina quando sulla soglia compaiono Giulia e Fausto, lei con in mano la borsa, lui un fazzoletto, entrambi con un’aria stranamente spaesata, da supplici di provincia e non, come sono e sanno di essere, da ingranaggi del meccanismo istituzionale.
OCCASIONI DI MORTE
239
Il giovanotto li invita a entrare con un cenno, accogliendoli come sostegni morali, benché Helen si domandi se è vero. Giulia, sì, ma Fausto? Era molto sfavorevole all’idea di un funerale di Stato. Ora però non è più tanto sicura. Di solito lui le tiene testa, ma alla fine. Per quello stanno ancora insieme, diceva sempre Federico: perché lui le risponde per le rime solo quando non gli rimane altra scelta. Lui è l’acqua e lei il mulino. E io, sono acqua al tuo mulino?, si chiedeva lei. Il giovanotto le dà le spalle, ma in questo palazzo di specchi lei riesce a vederne il volto in uno specchio, proprio come ha visto la chierica sulla testa dell’altro, prima, e le è venuto da ridere. Riesce a cogliere l’espressione stizzita e implorante rivolta a Giulia, quella di un insegnante che guarda la madre di uno scolaro intrattabile. Ce la fa, lei, a convincerla?, dice quella faccia. Sta facendo la cattiva, non sta al gioco. Giulia si avvicina a larghe falcate. – Allora? – dice. – Allora, cosa? – dice Helen.
4
Giacomo non ce la fa più e prova a chiamare, ma il telefonino non prende, il suo come quello di tutti gli altri. Si ferma sul ciglio della strada, col Quirinale a cento metri, e si chiede dove sia finita Helen. Il corpo di Federico dista non più di cinque minuti a piedi dal punto in cui si trova lui, e allora gli viene in mente di andare a vedere com’è l’atmosfera. Magari qualcuno lì saprà dov’è andata Helen; non può essere molto lontana. Si sente intrappolato sotto una campana di vetro, sensazione esacerbata dalla cappa d’afa sulla città. Per un istante esita davanti a un bar vuoto, poi imbocca la salita verso il ministero. Si aspettava di trovare fila, ma quando arriva la stanza è quasi vuota, e gli bastano due minuti per raggiungere la bara. Quest’usanza di esporre i morti gli è sempre sembrata barbara, ma adesso, davanti al suo amico, rimane colpito dall’insipidezza della faccenda, come se la morte non c’entrasse niente. Fuori dal contesto antisettico dell’obitorio Federico ha l’espressione che ha sempre avuto, distante, lievemente altera, di chi pensa ad altro. Certo, gli hanno sparato all’addome e al cuore, e questo aiuta. Non dirà a Helen che è stato qui, decide, perché nulla di quanto potrebbe dirle, volendo essere onesto, potrebbe consolarla. Alle sue spalle una donna tossicchia, e lui si fa da parte e la guarda flettere un ginocchio, farsi il segno della croce, sfiorare il legno e poi portarsi le dita alle labbra. Saranno i rituali a dare senso a tutta la faccenda, ipotizza, e vorrebbe tanto averli imparati, o credere in ciò che rappresentano. Ancora fermo accanto alla bara osserva la signora, sulla sessantina,
OCCASIONI DI MORTE
241
pantaloni grigi e camicetta, tornare verso la porta, il suo dovere compiuto. Sarà un’amica di Federico, si domanda Giacomo, o una collega, o solo una privata cittadina che porge i suoi omaggi a un servitore dello Stato? Comunque sia ha tutto il diritto di stare qui, forse addirittura più di me, pensa. Lui stesso si fermerebbe ancora un poco, se non arrivasse un signore a chiedergli come si sente, se sta bene. Sì, risponde Giacomo, ma quello gli rimane accanto finché non riprende la via dell’uscita, sentendosi come un tizio dall’aria sospetta in una gioielleria. Per un istante prova un vago senso di colpa. Non per via di Helen, perché anche lei decide per sé. Ma perché ci sono stati momenti in cui ha desiderato che Federico morisse, e adesso è morto. Il suo desiderio è stato esaudito. Per questo sono venuto qui?, si chiede. Per gongolare? Per questo sono andato a letto con Helen ieri sera e anche l’altro ieri, non per consolarla ma per prenderne possesso, come dovessi esercitare il droit du seigneur? Nel vestibolo della camera ardente c’è la signora di prima. Si volta a guardarlo al suo passaggio e dice, senza emozione: – Una cosa tremenda. Era una bravissima persona. – Giacomo annuisce. Raggiungono insieme la strada, senza parlare. Sta cercando di capire cosa fare quando una macchina nera si accosta al marciapiede e la portiera più vicina a lui, lo sportello posteriore destro, si spalanca. Dentro l’auto è in corso una specie di rissa, voci alterate, un rumore che sembrerebbe quello di uno schiaffo. Giacomo fa per allontanarsi, scocciato, ma dalla macchina esce Helen, barcollando e inciampando contro il marciapiede, e lui è ancora abbastanza vicino da prenderla al volo quasi prima di aver capito chi è, questa donna che da un’auto gli casca tra le braccia. Helen si raddrizza e si stringe a lui, ansimando: – Non ci credo, non ci posso credere, sei tu, – mentre un’altra donna, e ora Giacomo riconosce Giulia, si spo-
242
CHARLES LAMBERT
sta sul sedile posteriore verso lo sportello aperto. Poi Giacomo vede una mano maschile che si infila tra i due sedili anteriori a trattenere l’anziana, che fa capolino dal buio della macchina come una caricatura della rabbia e attacca un orrendo, chiassoso lamento. Giacomo si stacca da Helen e sbatte la portiera in faccia a Giulia, fregandosene di farle male, fregandosene del rischio che la mano guantata di nero resti intrappolata fra sportello e telaio, anzi sperando tra sé che sia così. Poi dà una gran botta alla carrozzeria, come si sprona un cavallo per farlo muovere, e dopo un secondo l’auto riparte e se ne va. Dietro di lui Helen si mette a ridere e piangere allo stesso tempo, ansante. – Andiamocene da qui, – dice. Poi, mentre la macchina si allontana e Giacomo si volta a guardarla in faccia, aggiunge, l’espressione esaltata, la voce roca: – Che vadano affanculo, tutti quanti. Ho bisogno d’aiuto. In albergo da te possono procurarti una macchina? La mia è a casa. Perdio, Giacomo, sbrigati!
5
Martin si fa dondolare il cappello tra i ginocchi. Ha terminato il secondo caffè e sta pensando di ordinarne un altro, o magari una birra alla spina, piccola, se il cameriere si avvicina, ma finora lo hanno lasciato solo, coi suoi pensieri. Stamattina gli ha telefonato Alina, dicendogli che voleva vederlo; ma certo, ha detto lui. Oggi pomeriggio. È seduto a un tavolo in seconda fila, all’ombra della tenda parasole: la prima fila, la più lontana dal bar, è riservata ai turisti in cerca di abbronzatura, e la terza a grappoli di signori anziani, che nel corso dell’ultima ora forse hanno ordinato qualcosa e forse no. Martin si trova dove gli piace stare, né qui né là. La sua prima moglie gli dava dell’ambiguo, ma senza spiegare cosa intendesse, e lui non ha mai insistito. Non ha mai voluto chiarire le proprie ambiguità. Cosa diceva Socrate? Che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta? Lui ha sempre preferito George Eliot, quando scrive che una finestra illumina ben più di uno specchio. Nella sua fila di tavolini è solo, il che gli dà una certa soddisfazione. Si domanda cosa Alina voglia da lui, e cosa lui da lei. Gli sfugge qualcosa, questo lo sa, qualcosa di essenziale, una cosa grossa come la basilica di San Pietro. Ma non riesce capire cosa sia. Ne parlerebbe con Picotti se solo Picotti, come ha iniziato a intuire, non fosse per certi versi parte del problema. Stamattina Martin ha trascorso un po’ di tempo a leggere materiale su don Giusini: sembra un tipo sincero, onesto, leggermente bizzarro come tutti i suoi colleghi francescani antiglo-
244
CHARLES LAMBERT
balizzazione, una spina nel fianco della chiesa ma tutto sommato libero di fare come crede, almeno per il momento. Nessuna traccia di falsità. Parte del problema? Parte della soluzione? Martin aspetta Corti, il suo contatto per i telefoni cellulari, il quale forse è riuscito a mettere le mani su qualche trascrizione di telefonate intercorse fra il prete e Federico, ma non nutre grandi speranze. Stamani al telefono Corti gli è sembrato sfuggente, addirittura furtivo. – Vedo cosa posso fare. Un caffè più tardi, magari? Dopo pranzo? Martin ha risposto: – Sì, perché no. Al solito posto? – Vedo cosa posso fare, – ha ripetuto Corti. E come ogni tentativo di rassicurazione, non pareva rassicurante affatto. Martin è sul punto di andarsene quando Corti gli fa segno col braccio dall’altro lato della piazza. – Scusami, Frame. Tutta ’sta sicurezza, non mi mollavano – grida ad alta voce a sei metri dal tavolo, come se lui e Martin fossero soli in tutta la piazza. – Non mi lasciavano passare, – insiste, con accento oltraggiato sul mi. Non ha l’abitudine a essere impedito nei movimenti. Si siede spostando il posacenere con aria pignola, poi prende un tovagliolino di carta per detergersi il sudore alla base del naso e agli angoli della bocca, gettandolo a terra dopo una fulminea occhiata risentita alla stria di untume raccolta. – Non preoccuparti, – dice Martin. – Bevi qualcosa? – Meglio di no, – dice Corti. – L’ulcera. – Dà uno sguardo all’ingresso del bar. – Se viene chiedigli un bicchier d’acqua. I due trascorrono qualche minuto in silenzio, senza guardarsi, come se stessero raccogliendo le idee, poi Corti alza gli occhi verso Martin e allarga le braccia in un gesto di resa. – Spiacente, è andata male. Io ho fatto del mio meglio. – Cioè, non ci sono intercettazioni? – Non ho detto questo.
OCCASIONI DI MORTE
245
– Ci sono, ma niente verbali di trascrizione? Corti serra le labbra. Ha una specie di gel sulla pelle, nota Martin; oppure si è fatto la ceretta. E di certo l’hanno promosso, perché si porta dietro una patina di potere che in passato non aveva, quando Martin lo ha aiutato a salvarsi la carriera. – Non più. I verbali c’erano. O meglio, potrebbero esserci stati. – Li hanno fatti sparire? Corti si scosta i capelli grigi dalla faccia con le mani abbronzatissime, e per un attimo Martin pensa a Sandra Dee. Corti non dice la verità, ne è certo. – Non te lo posso dire. – Una provocazione. – Cioè, non me lo vuoi dire? – Provocazione di rimando. Martin detesta questo modo di fare. – Che differenza fa? – Corti s’interrompe. – E c’è un’altra cosa strana. – Il tono è confidenziale. – Volevo dare un’occhiata a un altro paio di cellulari, per vedere cosa combinavano. – E quali? – Be’, tanto per cominciare quello della moglie. Non si sa mai. La serpe in seno, eccetera. Ma lì non c’era niente. Poi ho buttato un occhio anche a quello del padre. Niente di importante. Chiamava il figlio e basta, continuamente, cosa assai triste visto quel che è successo. Chissà cosa farà adesso. – Controlla i tavolini vuoti tutti attorno, abbassa la voce. – Quanto a sua madre, invece, tutta un’altra faccenda. Intanto ha due numeri, tu lo sapevi? No, be’, perché dovresti. Però sai chi è, no? Giulia Paternò, la pasionaria della repubblica... Ormai avrà passato gli ottanta, se non ha già novant’anni. Da una così non ti aspetti che abbia due telefonini. Uno le serve per famigliari e amici, ma l’altro no, proprio per niente. E per un’ottuagenaria, anche senatrice, ha un paio d’amici veramente interessanti.
246
CHARLES LAMBERT
– Uno dei quali si chiama Picotti, per esempio? – azzarda Martin, d’intuito. Corti inspira, sorpreso. – Io non te l’ho detto. – Ma certo che no. – E comunque se lo sai già... – L’altro sembra irritato. – Non mi ero reso conto di saperlo, – dice Martin. – Se vuoi un consiglio, – prosegue Corti nel tono di chi sa che non verrà ascoltato, – lascia perdere tutto, e subito. – Tutto cosa? – Tutta questa faccenda. – Corti si accomoda sullo schienale. – Prendila così, Frame. Di Stasi è morto. E sarebbe morto comunque. Forse non adesso, ma la settimana prossima o il mese prossimo. Sai pure questo, vero? – La voce è fredda. – Lascia perdere. – Chiedo scusa? – dice Martin. – Morto comunque? – Cosa diavolo vuol dire? Quindi alla fine li ha letti, i verbali. – Chiedilo al suo confessore. Corti si alza, si liscia le pieghe dei pantaloni e si dà una sistematina discreta sull’inguine. – Stammi bene, Frame. – Anche tu, Corti. Martin entra nel bar per pagare il conto, e sta per andarsene quando gli cade l’occhio sul piccolo televisore in un angolo. C’è il telegiornale dell’ora di pranzo. Martin vede Helen scansare le telecamere dopo essersi rifiutata di rilasciare dichiarazioni, circondata da personaggi in giacca scura che lui non conosce, con indosso un abito che non le dona; vede Giulia zampettarle accanto come una cornacchietta sbilenca, i capelli tirati nel solito chignon da ballerina, i guanti neri da lutto in una mano e l’altra a sfiorare costantemente le spalle, il dorso, il braccio della nuora vedova mentre la segue verso l’auto blu in attesa; no-
OCCASIONI DI MORTE
247
ta Helen lanciare uno sguardo ai giornalisti da dietro il finestrino con aria vagamente interessata, come se li avesse appena visti e si chiedesse cosa vogliono; guarda l’auto allontanarsi verso il Quirinale e poi sparire, sostituita da una panoramica della folla davanti al ministero, una coda sbrindellata di dolenti, mentre la voce del cronista parla del popolo che queste persone rappresentano, della perdita per la nazione, del possibile arrivo di Bush, ancora in forse, impegnato nella guerra contro il terrorismo in tutte le sue forme, su tutti i fronti. Martin guarda l’orologio a muro. Deve andare a casa. Vuole farsi una doccia e cambiarsi, prima che arrivi Alina.
6
Mezz’ora dopo Giacomo e Helen lasciano Roma, imboccando la via Pontina su un’auto che lui ha noleggiato tramite l’albergo. Helen ha preso dalla borsetta un paio di occhiali da sole e li ha inforcati. Quel vestito non le sta bene per niente, pensa Giacomo, e con quegli occhiali grandi e avvolgenti, con il marchio D&G a brillantini sulla stanghetta, sembra una tipica vedova italiana. Come in effetti è. – Ti ho raccontato che ho avuto una premonizione? – gli dice. – No, non proprio una premonizione, non è stata “pre” niente. Più un miraggio, forse: un miraggio di Federico il mattino che gli hanno sparato. Me lo sono proprio visto davanti, e sorrideva con l’aria perplessa di chi ha appena sentito una barzelletta e non l’ha capita, hai presente quando sorridi senza sapere perché? Ho guardato l’orologio e ricordo di aver pensato: dovrò chiedergli cosa stava combinando esattamente alle 9:27. E alle 9:27 gli hanno sparato. È assurdo. – Non pensavo credessi a questo genere di cose. – Infatti non ci credo. – Lei sembra turbata. Stanno percorrendo un viale fiancheggiato da pini marittimi e oleandri, che dà a Giacomo l’impressione di viaggiare verso il caldo del Sud. Forse più in là potremo prenderci una vacanza insieme, pensa, quando le acque si saranno calmate. Magari in Sicilia. Lui ha ancora dei parenti, laggiù. – Ma Federico sì, o almeno credo, – prosegue Helen. – Lo so, sembra una cretinata, ma forse, in qualche modo, lui ha trovato la forza di farsi vedere da me. Come, non lo so. – Giacomo,
OCCASIONI DI MORTE
249
che queste cose non le sopporta, è sul punto di dirle di non fare la scema, ma prima ancora di tentare sente un singhiozzo soffocato. Tende una mano e le sfiora il ginocchio, le dita sulla pelle lasciata scoperta dall’abito. – Non so cosa fare con te, – continua lei, senza muovere la gamba né spostargli la mano, sperando forse che lo faccia lui. – Con me? – Lui ride, ma ritrae la mano. – Ci sarà tempo per pensarci, quanto ne vuoi. – Ah, – dice lei. Lui non sa dire se la risposta l’abbia soddisfatta o no. È stanca, scossa dagli eventi della mattinata. In ogni caso, pensa Giacomo, è vero: ci sarà tempo per tutto. Per loro due, se non per Federico. – Sei sicura di voler andare a trovare questa signora? – dice, scartando per superare un Ape. – Possiamo tornare a casa e basta, se preferisci. Helen scuote il capo. – No, no. Ho bisogno di parlarle. Non ci vorrà molto. Mezz’ora dopo gli dice di svoltare a sinistra. Questa nuova strada s’inerpica in salita, lasciandosi il mare a una certa distanza, prima sulla destra e poi sulla sinistra. Più salgono, più ampia si fa la striscia verdeazzurra sotto di loro. Finalmente Helen dice: – Siamo arrivati, è in fondo a questa strada. Si fermano davanti a due abitazioni, la prima costruita in bella pietra antica e semiabbandonata, la seconda in mattoni di cemento intonacati e poi tinteggiati di marrone fango, con gli infissi d’alluminio color bronzo. Nell’incamminarsi verso questa seconda casa sentono un cane abbaiare, e una porta che viene aperta e poi richiusa. Nello spiazzo non pavimentato davanti alle due costruzioni ci sono altre tre macchine parcheggiate. Giacomo e Helen stanno percorrendo gli ultimi metri quando un giovanotto apre la porta d’ingresso.
250
CHARLES LAMBERT
– Dev’essere il fratello di Massimo, – bisbiglia Helen. – Per forza, sono uguali. – Poi tende una mano e dice, in un italiano lento e un po’ formale, come se già si fosse esercitata in macchina: – Le mie condoglianze per Massimo. Mi dispiace moltissimo. – Si interrompe. – Sono la vedova di Federico, Federico Di Stasi. Helen. Volevo parlare con sua madre. – Giacomo è sconcertato, al sentirle usare quel “vedova”. Il giovanotto le stringe la mano, poi la lascia andare. Non sembra aver notato Giacomo. Ha gli occhi rossi di pianto. – La mamma non c’è, – dice. – Cosa vuole? – Il tono è scontroso. Volge lo sguardo all’interno della stanza, grida a un cane di stare buono, grida a qualcun altro di portare via il cane. – Dov’è? – domanda Helen. Ci è rimasta male e si vede. – L’hanno portata in un posto tranquillo, dove nessuno la scoccia, – replica l’interlocutore guardandola in faccia, il volto rigido, con uno sguardo di inspiegabile ostilità. Questo non ci fa neanche entrare, pensa Giacomo. Indossa i pantaloni neri di un completo, scarpe nere e una maglietta con lo scollo a V, come se fosse appena tornato da un funerale e si fosse tolto giacca e camicia per stare più comodo. Forse è davvero così; Giacomo si chiede se Massimo sia stato sepolto proprio quel mattino. Dovevano saperlo? Helen era stata avvisata? – L’hanno? Chi? – La senatrice, – risponde il giovanotto. – Come, la senatrice? – ripete Helen a voce bassa, sconvolta. – La madre di suo marito, – dice l’altro in un tono che mescola rispetto e disprezzo, come se ci fosse un’unica senatrice al mondo e Helen non potesse non sapere di chi si tratta. – Ha detto che ci dava una mano e l’ha fatto. Ci ha mandato una macchina. Helen si copre la faccia con le mani, poi si sfrega gli occhi. – Quando?
OCCASIONI DI MORTE
251
– Dopo i funerali. Stamattina. Mia madre non voleva ricevere visite. Ci sono venuti in troppi, qui, gente della televisione, giornalisti, volevano le foto di Massimo da piccolo, fare altre foto alla sua camera, volevano... – Gli occhi del giovane si riempiono di lacrime. – Sciacalli, tutti quanti. – E dove l’hanno portata? Un’alzata di spalle. – Ha un numero di telefono? La trovo a un cellulare? – No. Giacomo prende Helen per un braccio, vuole riportarla alla macchina, ma lei si divincola. – Sua madre ha detto qualcosa a proposito di un complotto. Lei sa a cosa si riferiva? – Non era niente di serio. Era distrutta. – Ma Massimo si era confidato con lei, ha dichiarato, le ha detto che poteva succedergli qualcosa, che erano tutti in pericolo. Qualcosa deve sapere. Lui avvampa per la rabbia. – Mia madre è vecchia, è confusa, ha appena perso il figlio maggiore. È naturale che cerchi qualcuno a cui dare la colpa. – È stata Giulia a dire così? Che sua madre era confusa? – Chi, la senatrice? Non capisco cosa intende, ma lei almeno ha detto che si sarebbe preoccupata per noi. – Già, i funerali... – dice Helen. – Non lo sapevo nemmeno. Perché non sono stata avvisata? – Ci hanno detto che lo sapeva. E infatti pensavamo di vederla. La mamma ha chiesto sue notizie. – Il giovanotto tace per qualche minuto, ripensandoci. – Non c’era nessuno della sua famiglia, e sì che Massimo parlava solo di voi, baciava la terra dove passavate, lei e suo marito. La mamma non riusciva a crederci, è stato un altro colpo. – Ma io adoravo Massimo, e adoro sua madre. Non me l’hanno detto, deve credermi, nessuno mi ha detto niente! –
252
CHARLES LAMBERT
Lasciando Giacomo attonito, Helen abbraccia di slancio il giovanotto, stringendolo a sé. Lui resiste per un secondo scarso, poi si lascia stringere e restituisce l’abbraccio. Giacomo li guarda insieme: le braccia brune del giovane sull’abito di Helen, i capelli biondi e sottili di lei schiacciati contro il petto di lui, ed è in preda a una fitta di gelosia quando lo sguardo del giovane incrocia il suo. Si volta, provando un senso di vergogna incomprensibile. Non è colpa sua. Ma a qualcuno la colpa va data, non ha appena detto così, il ragazzo? È naturale incolpare qualcuno. Stanno per andarsene quando un’adolescente esce correndo dalla casa e piazza un vasetto di olive in mano a Helen. – Sono sicura che la mamma gliele avrebbe date, – dice la ragazzina.
7
Dopo aver controllato che non ci sia nessuno ad aspettarla sotto casa, Helen chiede a Giacomo di lasciarla al margine della piazza. – Ti chiamo io in serata, – gli dice. – Devo sistemare una cosa. – Lui sembra soddisfatto così. Un bel cambiamento, avere qualcuno a mia disposizione, pensa lei. Ha sempre pensato che Giacomo sarebbe stato l’ultimo a lasciarsi convincere a fare cose che non voleva fare per il bene di qualcun altro. Mi ama?, si chiede Helen. E io lo amo? Entra in casa, butta via le scarpe e fa scorrere la lampo del vestito appena chiusa la porta. Il suo primo pensiero è levarselo, liberarsi di quell’abito che pare un sudario, lasciar respirare la pelle. Lo lascia cadere a terra, spingendolo in un angolo con il piede nudo. Poi rimane lì in reggiseno e mutandine, spingendo i gomiti all’indietro quanto basta per percepire lo sforzo, quindi si solleva i capelli e se li lascia ricadere sulla nuca. Che silenzio. E che strano trovare così piena, così opprimente, la casa vuota. In questi ultimi anni ci ha passato molto tempo da sola, con Federico sempre più preso dal lavoro. E se ne risentiva, si sentiva tradita: i suoi rivali erano sempre gli schedari, la ridda di impegni ufficiali che non lasciava a lui il tempo per nient’altro, un senso del dovere che faceva sentire lei frivola e inutile. È stata sola tanto a lungo, qui dentro, che non dovrebbe fare nessuna differenza. Ma adesso, nel passare dall’ingresso alla cucina, al soggiorno, al bagno, con tutte le membra indolenzite, si sente peggio che mai. Come se di stanza in
254
CHARLES LAMBERT
stanza tutto quel silenzio fosse una presenza in sé, talmente densa che lei fatica ad attraversarla. Don Giusini si siede al tavolo senza aspettare l’invito. Helen si è infilata una gonna e una maglietta ed è scalza davanti al piano della cucina, a fare il tè per tutti e due. Lui aspetta che abbia finito, senza parlare. Lei ne intuisce lo sguardo che vaga per la stanza, sui quadri e sui libri, sulla lavagna con scritto sopra OLIVE nella calligrafia di Federico e su di lei al medesimo modo lento, come se solo guardando tutto attentamente potesse capirne qualcosa. Sulla porta le ha ripreso la mano tra le sue, e lei gliel’ha lasciato fare, domandandosi se le avrebbe giovato, se lui possieda un qualche potere taumaturgico. Come sono fragile, pensa, con una punta di rancore nei confronti del prete, come sono inerme: mi farei aiutare da chiunque. Ma lo ha giudicato male, ora se ne rende conto: la sua specialità è la calma, Don Giusini pratica la calma. Il pacco di fogli presi dalla scrivania di Giulia adesso è nel cassetto di Helen, e alcuni sono ancora da leggere: non è ancora pronta, ma lo sarà presto. Porta la teiera sul tavolo. – Latte o limone? – dice, poi rettifica: – No, mi scusi, limone per forza, perché latte non ne ho. Lui sorride. Gli incisivi sono scheggiati e lievemente storti, nota Helen; magari i suoi non avevano i soldi per l’apparecchio. – Limone, allora. E zucchero, molto zucchero. Mi piace il dolce. Helen versa il tè, prende un limone dal frigorifero, e lo zucchero. Per affettare il limone usa il coltellino di Federico. – Fino a tre giorni fa non sapevo neppure della sua esistenza, – gli dice, imbarazzata dal silenzio. – E adesso siamo qui insieme, in casa mia, a berci un tè. Lui fa un sorriso più ampio, e per un istante lei si chiede se la stia prendendo in giro.
OCCASIONI DI MORTE
255
– Insieme in casa sua, – dice il sacerdote guardandosi intorno. – Per parlare di Federico. Lei non sa cosa dire, e infatti vorrebbe solo ascoltare. – Stamattina ho parlato troppo in fretta, – prosegue lui. – Sono stato cattivo, ho usato parole crudeli, ma volevo farmi sentire. Lei non mi conosceva, e avrebbe anche potuto cacciarmi. Volevo evitarlo. – Capisco, – dice lei, in attesa. – Io e Federico ci siamo conosciuti a un convegno qualche mese fa. Una piccola cosa, un pugno di antimilitaristi. Anzi, si può dire che l’ospite d’onore fosse proprio Federico. – Don Giusini la guarda, per controllare se questo le dice qualcosa. Lei fa sì con la testa, e lui continua. – Io provavo una certa soggezione nei suoi confronti, e sinceramente anche una certa diffidenza, ma mi è passata subito. Suo marito ci ha aiutati a renderci conto di cos’era necessario fare, perché capiva il proprio mondo, come noi capiamo il nostro. Solo che il suo mondo era anche il loro, il mondo di quelli che fanno le guerre; ci ha aiutato a comprendere quali azioni potevano essere efficaci e quali no. – Si interrompe. – Poi ci siamo rivisti, da soli, qualche volta a Roma ma di solito a casa mia. Rispetto a me, per lui era più facile spostarsi. La mia parrocchia è in Abruzzo, vicino a Teramo, e un fine settimana lui si presentò a casa mia senza preavviso. Era stanco e pensavo cercasse un posto dove riposarsi, niente di più; un rifugio. Ma mi sbagliavo. Voleva confessarsi. – Non ne sapevo niente, – dice Helen. – Mi ha detto subito che era coinvolto nella morte di un uomo, a Torino, quasi trent’anni fa. Successe mentre stava rapinando una banca, per quella che loro definivano la “lotta”. A venire arrestato però fu un altro. Si sapeva che era stato Federico, ma nessuno parlò, e lui lasciò che l’altro andasse in pri-
256
CHARLES LAMBERT
gione al posto suo. – La guarda, perplesso. – All’epoca c’era anche lei – non durante la rapina, lo so, intendo in Italia – e forse l’episodio ha più senso per lei di quanto ne abbia per me. – Allarga le braccia, disperato. – Non ero ancora nato quando è successo. E non spetta a me giudicare, ma sono un essere umano: non posso non giudicare. Ascolto e cerco di capire; cerco di non condannare nessuno; faccio quello che posso, signora Di Stasi. Helen. Possiamo darci del tu? Le confidenze di Federico mi sconvolsero, perché non riuscivo a capire. E lui cercava di spiegarmi, ma io avevo la sensazione che non capisse nemmeno lui. Non più. La cosa tuttavia non gli impediva di giudicare sé stesso. Non riusciva a perdonare. Ma in un certo senso non sembrava volere il mio perdono. Non sono certo di cosa volesse. Voleva parlare. Aveva fatto altre cose in quel periodo, mi disse, e non ne aveva parlato con nessuno. – Avrebbe potuto parlarne con me, – dice Helen. – No, non credo che ce l’avrebbe fatta. Non dopo tutto questo tempo. – Don Giusini mescola lo zucchero nel tè. – Forse avrebbe dovuto parlartene allora, subito dopo i fatti, ma non lo fece. Credo che all’inizio avesse paura, che tu potessi smettere di amarlo, o riferirlo a qualcun altro. E dopo si vergognava troppo. Ti aveva mentito per troppo tempo. Anzi, forse si vergognava soprattutto di averti nascosto la verità. – Non mi ha mai detto una parola su quella rapina, né su nient’altro. Non mi raccontava tutto, e io non pretendevo che lo facesse. – Anche il silenzio è menzogna. – Sì, lo so bene. – Helen sorseggia il tè. – Stamattina hai detto che stava morendo. – Sì. Me lo disse qualche tempo addietro. Disse che non lo aveva confidato a nessuno. Lo aveva scoperto pochi giorni prima, anche se lo sospettava già da un po’. Aveva un tumore al
OCCASIONI DI MORTE
257
cervello, sul lobo frontale. Soffriva di mal di testa. Te ne sarai accorta, vero? Con le lacrime agli occhi, Helen annuisce un’altra volta. – Pensavo che lavorasse troppo. Non mi rendevo conto. – Lo aveva scoperto quattro, forse cinque mesi fa, e gliene restavano ancora tre da vivere, gli dissero, quattro al massimo. Il tumore cresceva molto rapidamente, ed era inoperabile. Cominciava a influenzare anche il suo comportamento e avrebbe seguitato a farlo, in maniere imprevedibili. Per asportarlo avrebbero dovuto asportargli anche una porzione del cervello. Sarebbe diventato un vegetale. – Allora ha avuto una morte misericordiosa, – dice Helen. Cerca di ricacciare indietro la rabbia verso Federico, la sua reticenza. I suoi inganni. Ecco qual era la malattia. Con i genitori aveva parlato, con Giulia e Fausto. Perché con lei no? Perché c’era quel muro di... com’è che aveva scritto lui? Solo chiacchiere. – Insomma, lui sapeva che in ogni caso sarebbe morto, – dice don Giusini in un tono quieto e guardingo che mette Helen in allarme. – E questo lo rendeva libero di... – Cosa stai dicendo? – interrompe lei, sconcertata. – Federico aveva un piano. – Che genere di piano? – Aveva messo tutto per iscritto, mi disse. Aveva cominciato a prendere appunti per il suo intervento al convegno prima di venire a sapere del tumore. La sua intenzione era di scuotere un po’ tutti, all’inizio garbatamente, di farli pensare; il convegno non riguardava veramente la ricostruzione dopo la guerra, mi disse, malgrado l’opinione generale. Sulle prime avrebbe voluto parlare delle possibili implicazioni della pace. Voleva sorprendere il pubblico, condurlo in una direzione diversa. E poi seppe che sarebbe sopravvissuto al convegno di quanto?, forse qualche settimana, due mesi al massimo? Quindi cambiò idea.
258
CHARLES LAMBERT
– Il suo scritto si chiamava Juggernaut? – Lo conosci? – Sì. Credo di averne letta una parte. Quella iniziale, prima che venisse a sapere. – Tace per un istante. – E poi altri brani. Più tardivi, immagino. Dopo che glielo avevano detto. – A me non l’ha mai mostrato, – dice don Giusini. – O comunque non tutto. Me ne leggeva dei brani, ma diceva che la stesura era in corso, e che non sarebbe terminata se non con la sua morte. – Aveva ragione. Ha parlato anche con i suoi genitori, lo sapevi? O almeno con la madre. – Sì, me l’aveva detto. Prima della fine avrebbe parlato anche con te. Me lo aveva promesso. – Come, la fine? – Era venuto a confessarmi un delitto, te l’ho detto, – fa don Giusini. – So che dovrei essere sorpresa, – dice Helen, ancora col pensiero a Torino, – ma che abbia tradito in quel modo non mi stupisce. Pensava di avere tutti i diritti. O dovrei dire “pensavamo”. Dopotutto c’ero anch’io. Pensavamo di poter prendere in mano il mondo. Non avevamo il minimo rispetto per chiunque ci sbarrasse la strada. – No, non capisci. Non è quello il delitto che confessò. – Come, scusa? Lo guarda alzarsi e mettersi a passeggiare per la stanza, con gli occhi fissi sul pavimento come se avesse perso qualcosa. Dopo un istante, in cui lei si sorprende a provare l’impulso di afferrarlo per farlo smettere, lui torna a sedersi accanto a lei. È giovanissimo, il viso è liscio. Sotto la barbetta fine c’è ancora qualche traccia d’acne. – Voleva la mia approvazione, o forse la mia assoluzione, per qualcosa che non aveva ancora fatto.
8
Torino, 1978 Un giorno, subito dopo pranzo, Giacomo andò a prendere Helen alla fermata del tram. Lei aveva terminato le lezioni mattutine alla Fiat e stava rincasando. Era una bella giornata, uno di quei giorni in cui la primavera sembra già estate, benché sui monti fuori della città la neve fosse ancora alta e l’aria all’ombra ancora fredda, se non pungente. Giacomo prese Helen sottobraccio e la trascinò con sé, malgrado le proteste, senza dirle dove voleva portarla. Lei aveva una sciarpa al collo, ma il cappotto sbottonato; lui indossava l’eskimo con cui era tornato dal Sudamerica, un maglietta col colletto lacero e i jeans; aveva proprio l’aria di allora, i capelli gli erano un po’ ricresciuti, non si faceva la barba da un paio di giorni. Dopo qualche passo si fermò e i due scoppiarono a ridere. Lei era incuriosita dai suoi modi; lui si comportava come ai primi tempi: era giocoso e affascinante. Si cavò di tasca una tavoletta di cioccolato e ne spezzò un quadratino per lei; era il suo preferito; al latte con le nocciole intere. Lui lo sapeva, sapeva queste cose; Giacomo era sempre stato un osservatore attento ai particolari. Su di lei pareva saperne di più, pensò Helen, rispetto a Federico: le sue preferenze, i suoi pallini. Al cinema la faceva sempre sedere vicino al corridoio, cosa che Federico non faceva mai finché lei non gli ricordava che, diversamente, la prendeva il panico. Federico doveva ancora chiederle se voleva lo zucchero nel caffè, oppure ci aggiungeva il latte a lunga conservazione – l’unico che riuscivano a trovare – ed era pure peggio. Scusami, le di-
260
CHARLES LAMBERT
ceva mentre lei lo buttava via, mi scordo sempre che non ti piace. E lei pensava: come fai a scordartelo sempre? Giacomo se lo ricorda. La cosa avrebbe dovuto piacerle. E forse, sotto sotto, era così. Ma per quanto Helen si ripetesse che erano solo trucchi da prestigiatore, come indovinare la figura scelta da qualcuno in un mazzo di carte, la consapevolezza di Giacomo di quel che lei voleva o non voleva, la sua consapevolezza di lei, la turbava e la metteva a disagio. Anzi, sull’avviso, come se un giorno dovesse esserci un prezzo da pagare per tutte queste premure. Per un po’ passeggiarono senza parlare. Poi Giacomo disse, in tono stuzzicante: – Devo farti vedere una cosa. Lei si fermò. – Cosa vuoi dire? – Niente di proibito, – disse lui. – Non preoccuparti. – Non sono preoccupata. Però non sono in vena di giochetti. Lui le prese i lembi della sciarpa e li annodò, tirandola verso di sé fin quasi a sfiorarle il viso col viso; lei riuscì a sentirgli il profumo di cioccolato in bocca. Avesse tirato un altro po’, rischiava di strozzarla. Helen pensò che stesse per baciarla, e glielo avrebbe lasciato fare; invece lui si allontanò. – Nessun giochetto, – disse abbassando la voce. – È una cosa importante. Be’, forse non proprio importante, ma significativa. Penso che ti piacerà. – La stava pregando, era quasi patetico. A lei venne da ridere. C’è differenza tra “importante” e “significativo”? Come se la prima fosse una parola mia e la seconda, sua? Forse non avrebbero mai parlato la stessa lingua. – Va bene, va bene, – gli disse, – però lasciami andare, non scappo. Si fermarono a un angolo di strada a lei ignoto, nel quartiere universitario, non lontano da dove Giacomo lavorava con Federico. – Adesso chiudi gli occhi, – disse lui. Lei eseguì. Lui la guidò per un’altra trentina di metri; lei aveva un batticuore
OCCASIONI DI MORTE
261
assurdo, si sentiva come un bimbo nelle mani di un ragazzino più grande e più pericoloso. – Tienili chiusi, – mormorò lui. – Fidati di me. – Erano all’ombra dei palazzi; l’aria era più fredda e lei cominciò a rabbrividire. Lo sentì girare una chiave in una serratura e aprire una porta. – Vieni, – le disse, insinuante. Le fece salire alcuni scalini, e poi altri ancora, poi chiuse una porta alle loro spalle. La temperatura era calata ancora. La mano di Giacomo attorno alla sua era calda e forte. – Adesso puoi aprirli, ma solo per un minuto. Helen si ritrovò in una stanza enorme, spoglia, arredata in modo formale, una specie di atrio. Sulla parete di fronte c’erano dei ponteggi. Giacomo la portò fin davanti a un ascensore. – Adesso richiudi gli occhi, – le disse. Durante la salita lei trattenne il fiato; ci volle molto più tempo di quanto pensasse. Lui la portò fuori dalla cabina e dentro a un vento mordace e inatteso. – Apri, – le disse, e lei aprì gli occhi. Tutta quanta Torino era distesa sotto di lei, i tetti del centro storico, la stazione col suo groviglio di binari che andavano e tornavano dal resto d’Italia e dall’Europa intera, la tramvia per le fabbriche, l’opaco nastro grigio del fiume, i parchi; gli strati di città uno sull’altro, nulla davvero nascosto malgrado l’intensità dello sforzo, nulla davvero integro; e oltre tutto questo, la terrina sbreccata dei monti, le cime guarnite di trine bianche di neve dove nasceva l’aria fredda. Giacomo le indicò i monumenti, uno per uno, Superga, Mirafiori, il Palazzo Reale, il Duomo, la Cappella della Sindone. Non ce n’era bisogno; Helen sapeva dov’era. Era uguale a lui, pensò, stringendosi nel cappotto. Abito qui anch’io. Lui puntò il dito sulle vie piene di traffico, qualche fanale già acceso, e sulla gente, minuscola, indecifrabile, banale, presa dalle proprie faccende. – Che tentazione, eh? – disse poi con un sorriso, le braccia larghe davanti all’orizzonte. – È tutta tua, se la vuoi davvero.
262
CHARLES LAMBERT
– Non dire cretinate. Come hai fatto? – rispose lei. – A fare cosa? – A farci entrare qui dentro. Ad avere le chiavi. È sempre stata chiusa, da quando sono arrivata. Lui le cinse le spalle con un braccio. – Amici. – Risposta molto italiana. Pensavo detestassi questo modo di fare. Favori: mi pareva avessi detto che i favori si pagano sempre. – Adesso non lamentarti. Hai sempre desiderato salire fin quassù e ora ci sei. Ringrazia, Helen: impara a ringraziare. – Poi si sporse e agitò il braccio all’indirizzo della via sottostante. – Guarda la gente. A questo punto del copione bisogna dire che sembrano tutti formiche, giusto? Lei rise. Con Giacomo era questo, il problema: aveva la capacità di farla ridere. – Be’, sì, un pochino. Forse meno organizzati. – Guarda, la vedi quella signora laggiù? – disse lui, col dito puntato. – Quella grassa, col carrellino della spesa e la pelliccia. – Veramente no. – Fai uno sforzo di fantasia! Di’ di sì! Lei rise di nuovo. – Sì, la vedo. – Cosa penseresti, se ti dicessi che è tutta colpa sua? – Colpa sua di cosa? – Di tutto. Guerra, morte, torture, tutto quanto. Tutte le ingiustizie, la crudeltà del mondo. – La strinse più forte. – Tutto il sangue versato. – Penserei che sei matto. – Ma immagina che sia vero, – disse lui, il tono nuovamente supplichevole. – Tutto il male del mondo concentrato in quella figuretta laggiù. E immagina di avere una pistola. Cosa faresti?
OCCASIONI DI MORTE
263
– La mancherei, – rispose Helen. – Ovviamente, dato che non so sparare. – Però spareresti? – Non fare lo scemo. Non sparerei mai. – Ma come faresti a giustificarti? – Non si può sparare alla gente. Ecco come farei. Giacomo si allontanò da lei. – Ho letto un racconto, – proseguì. – Non mi ricordo chi l’ha scritto. Comunque parlava di un mondo perfetto, senza ingiustizie né sofferenze; naturalmente rimane sul vago circa le questioni economiche, è normale, però trasmette un senso di equilibrio, di armonia, proprio quello che tutti vorrebbero. Questo mondo è un po’ medievale per i miei gusti, ma è perfetto da qualsiasi punto di vista. C’è solo un piccolissimo intoppo. – Si interruppe, un sopracciglio inarcato. Lei stette al gioco, domandando: – E sarebbe? – Nel cuore della capitale c’è una casa dotata di cantina, e dentro la cantina c’è un bambino, nudo e affamato, coperto di piaghe, sanguinante, sempre in preda a dolori. E il bambino è costretto a svolgere un compito umilissimo, giorno dopo giorno, senza interruzione se non per un sonno brevissimo, privo di tutto a parte l’acqua e un tozzo di pane, senza cure, senza amore, col minimo d’aria e calore necessari a tenerlo in vita. Man mano che lavora va perdendo la vista, ma mai abbastanza da smettere. – E perché nessuno fa niente? – disse lei, continuando a recitare la sua parte. – Perché il benessere di tutti dipende dalle sofferenze del bambino. Senza quel bambino, il loro mondo perfetto crollerebbe come un castello di carte. Finché il bambino sta male loro stanno bene, finché il bambino lavora loro possono riposare, finché il bambino rimane senza amore loro possono amare.
264
CHARLES LAMBERT
I loro abiti e il loro cibo sono assicurati dalla nudità e dalla fame del bambino. – E se lasciassero libero il bambino, cosa succederebbe? Giacomo diede un’alzata di spalle. – Be’, è evidente che tutto comincerebbe ad andar male. Loro dovrebbero sporcarsi le mani. D’altro canto, per uno che soffre tutti gli altri sono tranquilli, e felici, e stanno bene. L’equazione è la stessa. Una morte, cento milioni di vite. – E quindi tu cosa faresti? Lui levò la mano destra in aria, indice e medio appiccicati, pollice ritto, le altre dita strette nella sinistra, le due mani forti e compatte a fare la pistola come la fanno i ragazzini, per poi abbassarla e puntarla sulla strada. La signora col carrellino della spesa e la pelliccia, se mai c’era stata, era scomparsa, ma non importava. Giacomo puntò la pistola, un’arma da bambini, verso la folla lontana di gente che faceva la spesa o correva a casa dagli uffici, dalle fabbriche e dai negozi, esausta, affamata, sconcertata dal freddo man mano che il caldo del sole primaverile abbandonava l’aria e tutte le auto accendevano i fari e il parco veniva inghiottito dall’oscurità. Ci stava mettendo tutto sé stesso, in questa finzione che non era finta. Disse: – Io ucciderei il bambino. – Scosse il capo. – Non sopporto la sofferenza. – Non dici sul serio, – fece lei. – Non riusciresti a uccidere un bambino. E poi non c’è confronto. Queste due storie non sono analoghe, proprio per niente. Lui la attirò a sé col braccio sinistro e le diede la mano a pistola. – Vai – le disse. – Fuoco. Dopo aver lasciato la torre per tornare a casa di Helen, Giacomo disse: – Ti manco?
OCCASIONI DI MORTE
265
– Cosa intendi? Lui si fermò, obbligando così anche lei a fermarsi. – Lo sai. Quello che facevamo. Ti manca? Certo che lo sapeva. – Sì. – Qualunque cosa lui dicesse, o facesse, lei ne sentiva una mancanza fisica. Si chiese quanto spesso lui facesse l’amore con Stefania, se fossero soddisfatti. Si chiese, per un istante, se lo era lei. – Mi sa che siamo molto diversi, – disse lui. – Io e Federico. In quel senso, voglio dire. – Sì, – disse lei, riflettendo. Com’è ritroso, non riesce a chiamare le cose col loro nome. Non riesce a dire quando scopiamo. Nemmeno nel fare l’amore. – È vero. Siete molto diversi. – Quando eravamo a Yale, in molti, le donne specialmente, pensavano che fossimo amanti. Lo sapevi? Perché là eravamo sempre insieme, facevamo tutto insieme. E siccome siamo più fisici rispetto a voi anglosassoni, ci toccavamo eccetera, allora la gente dava per scontato che tra noi ci fosse, come dire, dell’altro. – Sorrise. – A dire la verità io sarei stato più che disponibile, più per curiosità che altro. Ci sarei andato, a letto con Federico. Ci andrei ancora, avendone la possibilità. Hai presente quella frase attribuita a Voltaire, “Una volta fa di te un filosofo?” Con Federico me la sarei concessa. Pensiamo sempre di conoscere le persone, ma com’è possibile? Cosa vuoi conoscere, se escludi tutta quella sfera? – La guardò negli occhi, finché lei si sentì in imbarazzo e dovette distogliere lo sguardo. – Conosco te meglio di quanto potrò mai conoscere Federico. E tu mi conoscerai meglio di quanto lui possa mai fare. Ed è un peccato, credo. Lui si perde qualcosa. – Il sesso non è così importante, – rispose Helen, perché doveva dire qualcosa e non poteva dire ciò che pensava. Pensava che forse Giacomo le aveva spiegato perché entrambi la amassero, e le permettessero di amarli entrambi a sua volta.
266
CHARLES LAMBERT
Anni dopo, ripensando a quest’episodio, si domandò se Giacomo avesse mai portato Federico in cima alla torre, come aveva fatto con lei, per indurlo in tentazione, come aveva tentato lei. E si chiese se fosse vero che lui e Federico non erano mai stati a letto insieme, o non avessero mai scopato, o fatto l’amore, avendone avuto tanto spesso la possibilità. Certe volte lei tornava dal lavoro e li trovava insieme in cucina, oppure Federico era alla scrivania e Giacomo stravaccato sul letto, sul loro letto, vicino a lui, e nella stanza c’era un’atmosfera, una densità, di qualcosa che non si diceva, un’atmosfera che lei sceglieva di non mettere in discussione. E poi c’era stato quell’appartamento che avevano preso in affitto insieme, e di cui Federico non le aveva parlato. Dopo, quando tutto era andato in malora e Giacomo era stato arrestato, lei aveva visto Federico davvero affranto, perduto. Era stato quello il momento in cui si era quasi convinta che davvero i due fossero stati amanti; magari non molte volte, ma comunque rimaneva tra loro quel genere di complicità. Una volta fa di te un filosofo, aveva pensato.
9
Martin chiama Helen prima sul fisso e poi sul cellulare, ma lei non è in casa oppure non risponde. Non aveva pensato di lasciarle un messaggio, ma si sorprende a dire alla sua segreteria che più in là nel pomeriggio vorrebbe parlarle, se ha un momento. Lui in teoria dovrebbe andare al ricevimento dell’ambasciata americana, privilegi del mestiere, e della sua anzianità, per non parlare dei favori fatti in giorni più lontani, e meno semplici. Suo malgrado ha deciso di andarci, sebbene nulla gli piaccia meno delle occasioni formali e del genere di abbigliamento che è tenuto a indossare per parteciparvi. Ha fatto lavare e stirare tutto il corredo: adesso è appeso come un cadavere dietro la porta della sua camera, in un portabiti sintetico da viaggio, di quelli che una volta aperti si trasformano in lunghi sacchi neri. Il portabiti è stato un regalo d’addio, non del tutto benevolo, da parte di una donna convinta che per essere davvero elegante, per avere un minimo rispetto di sé stesso, come ripeteva sempre, a Martin mancasse solo l’armamentario tipico dello stile. Quanto si sbagliava. Il poco rispetto che Martin è in grado di nutrire andrebbe sprecato, su di lui. Si dà un’occhiata alle mani, poi fruga in un cassetto in cerca della tronchesina, a misura di unghie dei piedi, e si mette al lavoro. Quando ha finito ed è contento del risultato riprova a chiamare anche Picotti, oggi pomeriggio è la quarta volta. È un comportamento sciocco, anzi sconsiderato, e Martin lo sa ma se ne frega. Rientrando dall’appuntamento con Corti si è comprato una mezza bottiglia di brandy, al supermercato vicino al-
268
CHARLES LAMBERT
la fontana di Trevi, e un paio di tramezzini flosci avvolti nella pellicola trasparente, uno dei quali, mangiato solo per metà, giace sul tavolo accanto al suo telefonino, con la maionese a rapprendersi per il caldo. Il brandy invece è quasi finito, e la ben nota pulsazione che avverte alla tempia sinistra lo avvisa che ne ha bevuto troppo: per oggi la battaglia è persa. Gli torna in mente un brandello di Shakespeare. Com’era? “Domani nella battaglia pensa a me.” Diceva così? Be’, lui farà del suo meglio. Sta chiamando il numero personale di Picotti, quello ottenuto quando si sono salutati. Forse faceva parte del piano per sbarazzarsi di me, pensa. Voleva farmi sentire privilegiato al punto che avrei tenuto la bocca chiusa. È con rabbia, ora, che Martin preme il tasto di richiamata e attende. Ma stavolta l’attesa viene premiata. – Martino. – Il tono è colmo di riprovazione. – Che cazzo sta succedendo? – Oh, ma cosa vuoi da me? – La verità. Picotti si mette a ridere, e la sua triste risata esausta termina in un accesso di tosse. Martin aspetta che abbia finito. – Fumo troppo, – dice Picotti. – Noi due non ci siamo sempre detti tutto, – dice Martin. – Lo so, non era possibile. Ma ho sempre pensato che fossimo dalla stessa parte. – La parte dei buoni. – Non necessariamente. Anche da parte nostra si sono commessi errori. – Errori? È questo che pensi, caro il mio Martino? Che noi fossimo due bravi soldatini coraggiosi, impegnati fianco a fianco in difesa della libertà e della civilizzazione? E talvolta abbiamo commesso un errore?
OCCASIONI DI MORTE
269
– E Di Stasi? È stato un errore? – Di Stasi è morto. – Me lo dicono tutti, pensa Martin quasi divertito, nemmeno pensassero che potrei averlo dimenticato. – E sua madre? – prosegue. – Ovviamente la conosci. La conosci per forza. Non ha fatto parte di una commissione che indagava sui tuoi trascorsi, tempo fa? Una bella ficcanaso, eh? Poi però le acque si sono calmate. Certo, a questo punto sarà troppo vecchia per queste cose. Quanti anni ha, ottanta? Ottantacinque? Picotti non risponde subito. E quando lo fa, la voce è fredda e distaccata, come se dovesse farsi sentire in un vuoto remotissimo, e lanciare alcune parole di avvertimento che Martin non riesce a cogliere, benché il tono sia chiarissimo. – Non c’è bisogno di arrivare a tanto, – dice. Un altro istante di silenzio, ed ecco tornare quella vena di delusione, di rimpianto, che assolve Picotti da qualsiasi responsabilità. – Ah, Martino, amico mio. Perché ti sei lasciato coinvolgere in questa faccenda? Martin sta per versarsi un ultimo goccio quando sente suonare il citofono. Finalmente, pensa, ormai non ci contavo più. – Salve. Più che la voce, lui riconosce l’accento straniero. – Secondo piano, – dice. Alina si è messa in tiro. Gonna corta bianca, una specie di blusa di raso verde, gambe nude, tacchi a spillo. Ha un con sé una di quelle borsette sceme in cui c’è posto solo per un rossetto, una scatola di preservativi, i soldi pigiati sul fondo e il cellulare. Sorride, senza varcare la soglia per non sembrare troppo disinvolta, e allora lui fa un passo indietro e la invita a entrare. Lei si siede sul divano e si sfila le scarpe. – Mi fanno male. – Si massaggia le dita dei piedi con la mano sinistra. – Non sono scarpe fatte per camminarci, queste. – Ha le gambe magre e forti; i polpacci si tendono quando flette
270
CHARLES LAMBERT
le caviglie, guardandosi i piedi come farebbe una ballerina: attrezzi del mestiere. – Chi lo sa per cosa sono fatte. – Per far soffrire, – dice Martin. – Ci starai male, – dice lei, – per il tuo amico. – Il tono è premuroso. Oddio, pensa Martin, vorrà aiutarmi ad assorbire il colpo. E perché no? Un aiutino può fargli solo bene. – Non è un male incurabile, – dice. Si avvicina e va a sedersi accanto a lei sul divano. Ma adesso che lei è qui non sa bene cosa fare, né cosa ci si aspetta che faccia. È ubriaco e lo sa; e in parte c’entra anche lei. Tenta di fare lo spiritoso. – Sei qui per aiutarmi a superare il trauma? Lei fa sì con la testa, ma per il resto rimane immobile. Martin le scosta i capelli dal viso, ravviandoglieli dietro le orecchie. Sono piccole e più arrossate della carnagione circostante, come patissero il freddo. Poi le posa per un attimo l’altra mano sulla coscia. Lei tiene gli occhi fissi avanti a sé. Lui ne segue lo sguardo e vede quel che vede lei: loro due insieme riflessi nello specchio sulla parete di fronte, lui tutto storto e sgraziato, con la pancia bianca e punteggiata di peli sotto la camicia non rimboccata nei pantaloni, lei con il volto e lo scollo pallido e un’espressione indifferente, quasi seccata, i seni pesanti liberi sotto la canotta di raso, le spalle strette e immiserite. Così non c’è la minima grazia, pensa lui. Ci meritiamo di meglio, tutti e due. Lei si volta a guardarlo negli occhi. – Va tutto bene? – dice lui, confuso. Lei ride, ed è una risata impaziente e senza allegria, poi scosta le gambe unite con un rapido scatto dei muscoli. La mano di Martin ricade sul divano. – Non sono venuta per questo, – dice lei. – Ah, no? – Lui arrossisce per l’umiliazione. – Non sono qui per venire a letto con te e farmi pagare. Non ti è proprio passato per la testa, che potevo avere altri motivi?
OCCASIONI DI MORTE
271
– Si sposta sul divano fino a eliminare qualsiasi contatto fra loro. – Siete tutti uguali. Adriano pensa che stia con lui perché altrimenti non saprei dove andare. – E allora perché ci stai? – Per quale altro motivo stare con Adriano, pensa Martin. – Secondo te? Perché adoro la sua gatta. – Ride di nuovo. – Adoro tutte le creaturine indifese. Martin si alza in piedi. – E io ti sembro uguale? Una creaturina indifesa? – La domanda sembra civettuola, ma non lo è. Glielo chiede perché vuol sapere cosa pensa, come lo vede. Vuol sapere se c’è una possibilità di rimediare. – Sì, uguale – dice lei, e per la prima volta il tono è seducente. – Anche tu aspetti di essere salvato, di trovare una casa. Queste parole lo colpiscono con la forza della verità. – Mi piacerebbe moltissimo essere salvato, – dice con un sorriso, – benché non sappia da cosa, a parte la mia goffaggine e la mia stupidità. – Sono venuta perché volevo dirti una cosa. – La voce di lei è più calda, ora. – Volevo avvisarti. – Apre la borsetta e tira fuori un pezzo di carta. – Dopo che te ne sei andato Adriano ha fatto una telefonata, e parlava di te. – E cosa diceva? – Io non dovevo ascoltare e non l’ho fatto, almeno all’inizio, – dice lei. – Ma lui parlava in un modo... non mi piaceva neanche un po’. Adriano non è niente di speciale, lo so benissimo, ma a volte, come dire?, si arrabbia. Può diventare feroce. E certe volte si dimentica che ci sono anch’io, ma certe altre no. Non faccio una vita facile. – E perché me lo stai raccontando? Lei sorride, ironica. – Perché secondo me sei un galantuomo. Malgrado tutto.
272
CHARLES LAMBERT
Martin ci pensa su un momento, poi le chiede per la seconda volta, più delicatamente: – Quindi, cosa diceva Adriano? Con sua grande sorpresa, lei arrossisce. – Che stavi rompendo i coglioni a qualcuno, non ho capito a chi, e che bisognava darti una lezione. – Mi sono comportato malissimo, Alina – dice lui. – Mi dispiace. Ho equivocato. Posso rimediare in qualche modo? – Il suo primo istinto sarebbe di offrirle del denaro, ma non è stupido fino a questo punto. Alina si alza, si sistema la gonna, poi si avvicina a lui, ancora scalza, e gli prende il viso tra le mani. Gli fa dondolare un poco la testa di qua e di là, la bocca atteggiata a un materno rimprovero. – Veda di trattare il prossimo con più rispetto, Mister Frame. Anche quando pensa che non lo meriti. Anche quando pensa di poterlo comprare. Per rimediare, mi faccia questo favore. – Promesso, – dice lui, emozionatissimo. Questa donna meravigliosa, pensa, le sue mani sul viso, così... Gli viene da piangere. Fa sì con la testa, e le mani dicono sì insieme a lui. – Lo farò, – ripete. – Giuro. Lei è sul punto di uscire ma lui, obbedendo a un impulso, la richiama. – Alina, senti... – Sì? – Tu parli inglese? – Quanto basta, – dice lei, asciutta. – Perché? – Hai da fare, stasera? Con Adriano? – No. – Posso farti una domanda indiscreta? Lei ride, gettando un poco il capo all’indietro. Ha una risata bellissima, aperta e contagiosa. – Perché, non le pare di essere stato già abbastanza indiscreto, Mister Frame? – risponde in inglese.
OCCASIONI DI MORTE
273
Lui fa la faccia da cane bastonato. – Più che indiscreto, – dice. – Sono stato imperdonabile. – Allora, questa domanda? – Sei in regola col permesso di soggiorno? Lei rimane sorpresa. – Questa proprio non me l’aspettavo, – dice. Sembra offesa. – Comunque sì, almeno per qualcosa Adriano è stato utile. Ho i documenti a posto, figuro come la sua colf, credo si dica così. Martin sorride. – Sì, si dice così. – Ma perché vuoi sapere se ho le carte in regola per l’Italia? – dice lei. – Pensavi di denunciarmi all’Immigrazione? – No, ho un invito per due persone e, be’, come puoi vedere, sono solo. E sarei onorato se tu volessi accompagnarmi. – Un invito dove? – fa lei, e si vede che è lusingata e dubbiosa al tempo stesso. – Per fare cosa? – All’ambasciata americana. Per conoscere il presidente degli Stati Uniti.
10
Helen sta mettendo in tavola la cena. Pizza bianca, formaggi e affettati ancora nei loro involti. Ha lavato un po’ di ruchetta e tagliato una manciata di pomodorini. L’effetto è quello di un picnic, improvvisato ma con l’aria da grande occasione, da momento speciale. Prima che arrivasse Giacomo ha aperto una bottiglia di vino. – Queste le fa la mamma di Massimo, – dice, spostando il pane da una parte per far posto a una ciotola di olive verde pallido. – A vederle non sembra, ma sono buonissime. Giacomo ne prende una. – Sono contento di essere qui, – dice. – Oggi è venuta una persona a trovarmi, – dice Helen, che forse non ha sentito, o si finge assorta in altri pensieri. Si siede, riempie entrambi i bicchieri. – Un prete, tale don Giusini. Il confessore di Federico. Giacomo prende un’altra oliva. – Alla fine ne sapeva più lui di me, su Federico, – prosegue lei. – Pazzesco, eh? Io sempre qui a pensare che detestasse le chiese quanto me, e invece andava da un prete, si confessava e tutto quanto. Chissà da chi ha preso. – Queste olive sono davvero buonissime, – dice Giacomo. Helen ne prende una dalla ciotola ma non la mangia. Se la rigira tra il pollice e l’indice fino a farsi i polpastrelli umidi e verdognoli nella luce riflessa, la contempla come fosse una gemma che ha rinvenuto, una pietra preziosa e arcana, poi alza gli occhi ma non su Giacomo, bensì sulla lavagna. Lui ne se-
OCCASIONI DI MORTE
275
gue lo sguardo e vede la parola OLIVE. – Dovrò cancellarlo, – dice lei, però non si muove. Lui pensa: già sa che non ce la farà, a cancellarlo. E poi: avrei potuto scriverlo io. Scriviamo allo stesso modo, io e Federico, abbiamo la stessa calligrafia limpida. – Mi ha detto che Federico stava morendo. Aveva un tumore al cervello. Allora sarebbe morto comunque, pensa Giacomo, ma è percorso da una scossa, come se lo avessero informato della sua, di morte. – Tu gli credi? – Non ho motivo di non credergli. Certo Federico potrebbe avergli detto una bugia, la possibilità esiste sempre. Ma credo che don Giusini mi abbia detto la verità. – E non si poteva fare niente? – A quanto pare no. Ma non è per quello che vedeva don Giusini. Non voleva parlargli del tumore. – Helen posa l’oliva con una smorfia di disgusto, come se l’avesse già assaggiata e trovata guasta. – Gli restava solo qualche settimana di vita, e aveva deciso di approfittarne. – Come, approfittarne? – Pochissimo tempo, pensa Giacomo. – Sì. Voleva fare una cosa terribile. Diceva che sarebbe morto in ogni caso, quindi la sua vita non valeva nulla. Perciò era libero di fare una cosa che avrebbe potuto salvare migliaia di altre vite. Ancora non riesco a crederci. – S’interrompe per un attimo. – Giacomo, – dice poi, e il tono è duro e incredulo, come se stesse riferendo una bugia atroce che ha sentito circolare sul proprio conto. – Ha chiesto alla sua segretaria di organizzare un incontro con il presidente del Consiglio, con Bush se era possibile, con chiunque lei riuscisse a raccattare, un incontro durante il convegno. E poi, una volta riuniti tutti questi signori importanti, Federico intendeva farsi saltare in aria e portarseli dietro.
276
CHARLES LAMBERT
– Farsi saltare in aria? – Il tumore influenzava il suo cervello, il suo modo di pensare e di comportarsi. E lui temeva che aspettando troppo non sarebbe riuscito a fare più niente. Credo pensasse a questo, dal primo istante in cui si è messo a lavorare al convegno. La segretaria li aveva invitati tutti: era l’occasione per una bella foto di gruppo, così gli aveva detto. Le ho parlato oggi pomeriggio, mentre ti aspettavo. Nessuno si perde un’opportunità del genere, ha aggiunto. Sembrava delusa. Giacomo si sta immaginando un tumore, la crescita inarrestabile dentro il cervello, sotto il cranio; la pressione che cancella il pensiero per far spazio al male, che cancella la ragione, l’identità, la vita stessa. Era impazzito davvero e questa è la prova, pensa, l’idea di poter realizzare una cosa del genere. Nessuna personalità di un qualche peso sarebbe andata al suo convegno: sarebbe stata già una fortuna avere un paio di sottosegretari. E poi gli viene in mente che Federico voleva lì anche lui. Alla strage. – E non sarebbe stato il suo primo incontro con l’omicidio, – dice Helen. – A proposito di sorprese. C’era stata anche una rapina a Torino, quella per cui arrestarono te. Be’, tu questo lo sapevi, no? Eri presente. Ma lui a me non ha mai raccontato nulla. Non ne aveva mai parlato con nessuno, fino a poco tempo fa. Forse con suo padre, non lo so. Forse a suo padre lo disse. E non è ancora tutto. Secondo Federico, in prigione doveva andarci lui al posto tuo. – Lo guarda dritto in faccia. – Tu ovviamente lo sapevi. L’hai sempre saputo. Giacomo tace per un istante. – Te l’ha detto il prete? – Fausto lo scoprì in seguito, quando Federico gli chiese aiuto per farti avere la grazia. Sai, con suo padre ha sempre parlato; aveva una fiducia in lui che in me non ha mai riposto. E io non avevo mai capito perché Fausto tenesse tanto al tuo rila-
OCCASIONI DI MORTE
277
scio. Adesso lo so. – Helen si asciuga il naso con il braccio nudo, poi svuota il bicchiere. – Mi sento come se lo avessi perso un’altra volta, – dice. – Anzi, no, non è così: mi sento come se non lo avessi mai avuto, come se tutti questi anni fossero stati una farsa. Mi sento tradita. È orribile, vero? – Ha i lineamenti tirati, gli occhi spalancati da far spavento. – Specie se pensi che dieci minuti dopo il suo assassinio ero con te. Si alza ed esce senza aggiungere altro, per tornare un minuto dopo con un fascio di carte. – Mi ha lasciato questo scritto, cioè, non proprio, non lo ha lasciato a me. Anzi, io forse non dovevo nemmeno vederlo. – Sfoglia le pagine stampate finché trova quella che cerca. – Leggi, – dice. Non mi sono mai perdonato per quel che abbiamo fatto, uccidere un uomo a sangue freddo. All’epoca pensavo che non fosse nessuno. Solo una guardia giurata. Più tardi venni a sapere che era anche lui implicato nella lotta, e a suo modo era un militante proprio come me, ma questo non significa nulla. Non lo rende più meritevole di vivere. All’epoca pensavo che quel facevo fosse giusto, pensavo di aver imparato a nuotare, come ha scritto Kafka. Non l’ho mai detto a nessuno, prima di parlarne con don Giusini. E pensavo mi avrebbe fatto bene, ma non è andata così. Sono cose che segnano. Come diceva Kafka? Io ho più memoria degli altri. Non ho dimenticato il mio non saper nuotare. E non avendolo dimenticato, saper nuotare non mi giova, quindi io non so nuotare. Eppure adesso, malgrado tutto, sono nuovamente sul punto di uccidere, perché credo che queste mor-
278
CHARLES LAMBERT
ti risolveranno qualcosa, salveranno altre vite. Per questo il mio pentimento non vale niente. Perché io non sono cambiato. Non mi aspetto di essere capito ma
– Non sapevo che Federico ragionasse così, – dice Giacomo. Ricorda bene la rapina in banca, come fosse adesso, una giornata torinese di acquerugiola fredda, una strada larga di periferia, loro due, un altro compagno e l’autista, l’esaltazione, il panico, l’orrore: ma non ha mai pensato che Federico meritasse l’arresto più di quanto lo meritasse lui. A chi capita, capita. Strano pensare che lui se ne sia preoccupato per tutti questi anni, che avesse chiesto al padre di fare pressioni in suo favore. Non c’è da stupirsi che Fausto odiasse Giacomo, ma poi lo abbia cercato: se Giacomo non fosse stato arrestato e non avesse avuto bisogno di aiuto, Fausto non avrebbe mai scoperto cos’aveva fatto Federico. Com’è bizzarra quest’idea di giustizia solo in fine, quando era già morto un uomo. – Nemmeno io, – dice Helen. – Questo scritto dove l’hai preso? – Ce l’aveva sua madre. – È questo il file, vero? Quello sul computer? – Sì. Il juggernaut, pronto a calpestarci tutti quanti. – Tu come l’hai avuto? – Mi sono introdotta ieri in casa dei miei suoceri. Cioè, non ho scassinato la porta, sono entrata con la chiave, proprio come ha fatto Giulia qui da me. Perché vedi, Federico aveva pensato a tutto. Ed è stata lei a cancellare il testo, o almeno credo. Avevi ragione tu: tecnicamente non è capace di farlo, ha semplicemente svuotato il file come un sacchetto. – Helen dà un’alzata di spalle. – Ci sono altre possibilità, naturalmente. Magari glielo aveva dato proprio Federico, a lei o a Fausto. O ne ave-
OCCASIONI DI MORTE
279
va parlato, con lei oppure con Fausto, e lei voleva darci un’occhiata. – Il tono è amaro. – Erano molto uniti. Anche Giacomo sfoglia le pagine, legge una frase qua e là. Molti pensieri assai ragionevoli, ma di una ragionevolezza sghemba, come vista attraverso un prisma sgretolato, di fervore e senso di colpa. Quest’uomo era autenticamente, clinicamente matto, pensa. Tale madre, tale figlio. – Non mi hai mai detto che eri innocente, – dice Helen. – Non pensavo di doverlo fare, – dice lui. – Pensavo lo sapessi. E comunque non lo ero. Nessuno di noi era innocente. – Invece ho sempre creduto che Federico lo fosse, – dice lei. – Non ho capito proprio niente, vero? Prendi noi due, per esempio. Per tutto il tempo in cui Federico era vivo e noi ci vedevamo quando potevamo, non ho mai pensato che fosse sbagliato, neppure una volta. E adesso che lui è morto, e a noi restiamo solo noi, mi sembra di sì. Lo trovo sbagliato e non so cosa farci. – Vuoi che me ne vada? – Non lo so. – Alza gli occhi su di lui. – Sì, – dice. – Penso di sì. Nel file di Federico c’è un altro foglio che avrebbe potuto mostrare a Giacomo, se non altro per chiarirne l’alterazione mentale oltre ogni dubbio, ma ha preferito di no. È troppo orrendo e troppo privato. Non appena si ritrova sola va in camera a cercarlo. Si siede sul bordo del letto con il foglio tra le mani, e rilegge tremando. sogno di stanotte, che mi ha svegliato. Un bambino nero, non aveva più di cinque anni, di quelli che si vedono sui volantini delle Onlus durante le carestie: gli occhi grandi e sgranati, un enorme te-
280
CHARLES LAMBERT
stone rotondo su uno stecchino di collo, lo stomaco dilatato. C’era un uomo che usava una cucitrice da ufficio per fissare le braccia del bambino a un tavolo di legno, e le braccia erano così magre che i punti ci stavano, tre per braccio. Nel sogno il mio sguardo passava sulle vene rilevate del ventre per arrivare al punto in cui l’uomo si toglieva le gambe del bimbo di davanti, gambe come brani di carnaccia masticata, e ficcava il pene dentro il bambino, che non si muoveva, che stava là a piangere in una pozzanghera del suo sangue e del suo muco. Cosa devo pensare di un sogno così? È la guerra a farmi quest’effetto, lo so, è così per forza, a schiacciarmi la testa e distorcerla, ma è tutto qui? Quell’uomo sono io? Mi merito una cosa del genere? Da dove comincio a capire le mie complicità? Ho pensato di svegliare Helen, ma poi non l’ho fatto. Avevo vergogna. Sono rimasto là a guardare il buio in cui doveva esserci il suo viso e a chiedermi se mi avrebbe fatto una colpa di un sogno tanto orribile. E non sapevo la risposta.
Quindi c’era stato anche lui, in cima alla torre con Giacomo, pensa Helen. E si domanda chi ci abbia portato chi.
11
Alina, con indosso un abito che le ha comprato Martin, scarpe nuove dello stesso colore e fresca di messa in piega – lui è ancora sconvolto dalle somme spese, non aveva idea di quanto costasse quella roba – interpreta il ruolo della moglie diplomatica con abilità esemplare: stringe mani, sorride a tutti. Lei lo ha scosso, deve ammetterlo, scosso tramite ciò che lui riesce a definire rispetto per sé stessa. Come ha fatto?, si chiede. Come si fa a rispettare sé stessi? Lui non riesce a ricordare l’ultima volta in cui ha avuto modo di rispettare sé stesso, e tanto meno di esigere rispetto. Eppure eccola qui, questa donna che non ha più di venticinque anni, e che per quanto ne sa lui è stata strappata alla sua casa e comprata e venduta come un capo di bestiame. Hanno chiacchierato per ore, ma alla maniera dei vecchi amici, come se certe aree di fiducia e di silenzio si potessero dare per scontate. Il suo inglese, salta fuori, è pure meglio del suo italiano, già molto buono. Lei possiede un fascino naturale che ne trapassa la timidezza; e lui la tiene d’occhio, non perché pensi di poter rimanere deluso, ma perché guardarla è meraviglioso. Si sente un Pigmalione. Eccola qui, a reggere il bicchiere con l’eleganza che ci si aspetterebbe da chi è nato e cresciuto in queste situazioni, questi “eventi” terribilmente falsi che pure contano così tanto. L’unico momento in cui gli è parsa a disagio è stato quando, prima di entrare, sono stati perquisiti dagli uomini dell’ambasciata. Hanno richiesto anche l’esibizione di un documento e lui, per un istante di acuto imbarazzo, si è chiesto se Alina gli avesse detto una bugia,
282
CHARLES LAMBERT
ma lei ha tirato fuori una carta d’identità italiana, facendogli un sorrisetto mentre la porgeva all’addetto al controllo. Dopo gli ha preso un braccio e gliel’ha stretto. – Trovami qualcosa da bere, – ha detto. – Anch’io detesto i controlli. – Una volta dentro ha osservato le dimensioni sproporzionate del salone, le luci troppo vive, e ha sorriso, vagamente compiaciuta di lui e altamente compiaciuta della propria inverosimile presenza in un posto così. Lui è contento di averla portata. Gli dà lustro. Martin nemmeno ricorda l’ultima volta in cui si è goduto una serata come questa. Perfino i postumi della sbornia sembrano esser stati spazzati via dal vino frizzante che sta bevendo da quando è arrivato. E adesso Alina ha conosciuto George Bush, un po’ come quando Martin incontrò una volta Margaret Thatcher: un breve sfiorarsi delle mani, non proprio una stretta, in una fila di mani, quello sguardo penetrante e vitreo per cui la signora era nota, benché in tutta evidenza non avesse alcuna idea di chi lui fosse, né le importasse saperlo. Ma Alina, in modo commovente, è arrossita e ha perfino chinato il capo, e Giorgino l’ha guardata una seconda volta, come se volesse mandarla a mente. Come sono strani questi potenti, pensa Martin prendendo un bicchiere da un vassoio di passaggio. Come hanno bisogno di noi e come ci disprezzano. Pensano che siamo loro schiavi quando in realtà è proprio il contrario. Loro appartengono a noi. E adesso ha bevuto davvero troppo, sarebbe meglio diradare o mangiare qualcosa. Gli stuzzichini non sono male, la cultura di casa ha sconfitto a mani basse quella dell’illustre ospite. Ascolta Alina spiegare nel suo elegante inglese a un ometto basso con lo smoking troppo tirato che la fine dell’URSS ha cambiato tante cose nel suo paese, alcune in meglio ma altre in peggio, e si chiede se lei ricordi la caduta del Muro. Andava al massimo alle elementari. Sta per mettersi a fare i conti
OCCASIONI DI MORTE
283
ma in quella nota una collega dell’agenzia, anzi una sua superiore. – Torno tra un secondo – dice, e Alina, il viso lievemente arrossato dal vino, pensa lui, e dalla grandiosità dell’occasione, gli fa un breve sorriso e lo autorizza con un cenno del capo. Dopo qualche minuto di goffa conversazione con la signora della quale nemmeno ricorda il nome, e che in tutta evidenza vorrebbe chiedergli chi è la sua dama ma non osa, Martin torna e vede Alina avviarsi sulla pista da ballo con uno che lui non ha mai visto in vita sua, con la mano paffuta sulle reni di lei. Prova una fitta di gelosia che si impegna a contrastare. Forse le ho cambiato la vita, pensa, forse troverà un uomo degno di lei. Come sono sentimentale. Pensare che lei era venuta ad avvisarmi che ero in pericolo. E io sono qui a fare il Richard Gere dei poveri. Si domanda se in quell’avvertimento ci sia un fondo di verità; non nega che Picotti lo abbia un po’ scombussolato, ma certo è difficile immaginare che Picotti conti qualcosa. E del resto, nemmeno Adriano conta granché. E il pericolo è sempre dietro l’angolo, secondo le statistiche: anche le friggitrici uccidono. Martin prende un altro bicchiere e guarda Alina ballare. È bellissima. In negozio il suo abito non sembrava niente di speciale, lui non riusciva a credere che uno scampolo di stoffa potesse costare tanto, e bada ora, invece: una visione. Martin ha urgente bisogno di pisciare, e nell’avviarsi verso i bagni nota che lei lo cerca con lo sguardo. Lui sventola stupidamente la mano, mima con le labbra “torno subito”, ed è felice di vederla annuire e sorridere. Il tizio con cui sta ballando si volta a guardarlo mentre si allontana. Poco tempo dopo, Martin attende sulla soglia del salone che Alina esca dal bagno a sua volta. Lui sarebbe pronto ad andarsene, ma appena tornata lei lo prega di poter restare ancora un pochino e lui non può negarle il piccolo piacere di osservare il moz-
284
CHARLES LAMBERT
zicone di un ricevimento diplomatico, i musicisti che sgomberano il podio, i discorsi finali, i camerieri che cominciano furtivamente a sparecchiare mentre gli ultimi dieci, dodici invitati si chiedono per quanto tempo ancora saranno serviti. – È ora di andare, direi – le dice dopo l’occhiata di un cameriere. Alina si alza, si mette la pochette sottobraccio e liscia le grinze del vestito nuovo di zecca. – Mi sono divertita tantissimo, – dice. Poi gli dà un bacio sulla guancia. – Grazie. Si avviano insieme, a braccetto, verso piazza Barberini. Non hanno deciso niente su dove andare, ma l’idea di Martin sarebbe quella di cercare un bar e parlare di taxi; non intende fare due volte lo stesso errore. In giro non c’è nessuno, tutta la zona attorno all’ambasciata è stata chiusa al traffico. Martin ondeggia lievemente di qua e di là, sorpreso dal tepore dell’aria dopo i saloni climatizzati dell’ambasciata. Sono quasi a destinazione quando una motocicletta con a bordo due uomini, in tuta di pelle senza marchi e casco integrale, si fionda in piazza da una strada laterale sulla sinistra e poi, in uno stridio di freni, vira in direzione di Martin. Quando la moto lo ha quasi raggiunto il conducente scarta per salire sul marciapiede, con la ruota posteriore che slitta nel superare il cordolo mentre l’uomo dà gas e poi frena per mantenere il controllo. Martin ha i riflessi lenti: si volta, perde l’equilibrio per l’impatto con la moto, viene preso a un fianco e si ritrova scaraventato in aria, lanciato verso l’alto dal manubrio, dopodiché si affloscia come una bambola di pezza contro la sagoma rannicchiata del conducente e finisce a terra con un tonfo. Alina si mette a gridare e intanto il passeggero, senza scendere dalla moto, leva in aria una mazza da baseball e sferra a Martin due colpi, prima sulle gambe e poi sulla testa, e ogni volta si sente lo schianto dell’osso.
OCCASIONI DI MORTE
285
– Sono qui, – dice Alina correndo da lui e infilandogli una mano sotto per slacciargli il colletto, le mani striate del suo sangue, di un nero acceso sul bianco della carnagione e sulla seta chiara del bellissimo abito nuovo, quando poi sposta cautamente le braccia da sotto il suo torace alle gambe per valutare l’entità del danno. – Faccio l’infermiera, – sussurra, poi rettifica. – Facevo l’infermiera. Prima.
QUINTA PARTE
1
Sabato 5 giugno 2004 Helen si scuote sentendo la sveglia del telefonino, lasciato ieri sera in cucina accanto al bicchiere. Esce dal sonno di colpo, incerta per un attimo su dove sia, poi vacilla e ruzzola simultaneamente giù dal divano, urtando col ginocchio uno spigolo del tavolino. Quasi non ha dormito: una volta andato via Giacomo è rimasta alzata fino a tardi, a bere e a rileggere le carte di Federico, quel lascito che non era destinato a lei. Alla fine si è sentita sporca, come se avesse letto il suo diario, scorto un lato privato che non avrebbe mai dovuto vedere. E dopo si è arrabbiata di nuovo, perché in un matrimonio i segreti non dovrebbero trovare posto. E dopo si è vergognata, per avergli mentito tanto spesso. E dopo ancora, poiché in realtà la fine non arrivava mai, ha scaricato la propria vergogna su di lui, facendogli carico di non averla amata abbastanza, di aver messo il lavoro davanti al loro matrimonio, di aver parlato con i suoi anziché con sua moglie, di aver scritto tutte quelle parole mai concepite per lei, e così dolorose, e poi aver lasciato che le trovasse. Ha dormito sul divano perché non sopportava l’idea di mettersi a letto, ripensando al sudore essiccato e al polverìo suo, di Giacomo, di Federico, a tutta l’epidermide che hanno squamato là dentro in tre. E l’ultimo atto, prima di stendersi e coprirsi con un plaid, è stato puntare la sveglia per le otto. Stamattina ha appuntamento con il giudice alle nove e mezza, e non vuole fare tardi.
290
CHARLES LAMBERT
Quindi adesso sono le otto, e lei è lì in reggiseno e mutandine che si massaggia un ginocchio e intanto zittisce la sveglia. Ha il collo indolenzito per la posizione tenuta. Per ultima cosa ricorda di aver visto l’alba che filtrava nella stanza fra le stecche delle persiane; per sbaglio aveva lasciato gli scuri interni aperti. Di norma li chiudeva Federico prima di venire a letto. Di norma, pensa. È il quarto mattino senza di lui, e Helen si chiede quand’è che perderà il conto. Poi carica la moka e va a farsi una doccia. Alle nove e mezzo la fanno passare nell’ufficio del magistrato. Lui stamattina è molto elegante, come se si fosse messo d’impegno apposta per lei. Le scosta la sedia e poi la riaccompagna mentre lei si accomoda. – Grazie di essere venuta. – Oggi l’accento sudafricano sembra più pronunciato, sebbene lei non fosse proprio in condizione di notarlo la prima volta in cui l’ha visto, dentro quell’orrenda stanzetta all’ospedale. Non che questa sia molto meglio: pile di libri e faldoni ovunque, una valigia a rotelle accanto all’ingresso con la quale probabilmente il giudice si porta avanti e indietro le carte tra un ufficio e l’altro: tutto a un tratto, a Helen torna in mente la cartella di Federico. – Mi spiace moltissimo, – dice. – Di non averle detto la verità, intendo. Non so cosa pensassi di ottenere. Le ho solo complicato il lavoro. – La capisco, – dice lui in tono rassicurante, sedendosi di fronte a lei. – Al posto suo avrei fatto la stessa cosa. – Comunque suppongo che Giacomo gliel’abbia detto, no? Mercoledì, quando vi siete visti. – Ha detto così? Che me lo aveva riferito? – Lei scuote la testa e lui prosegue. – Non ce n’era bisogno. In quel momento, devo ammetterlo, sapevamo già dov’eravate. Ho colto l’occasione di convocare il signor Mura per un altro motivo.
OCCASIONI DI MORTE
291
Lei rimane sorpresa, ma tace. Lui apre un cassetto e tira fuori una busta. – Vorrei mostrarle una cosa, – dice. – Spero non le dia fastidio. Lei non sa come reagire. Lo guarda aprire la busta ed estrarne una fotografia. La scruta per un attimo, impassibile, poi gliela porge. Helen non vedeva quella foto da almeno trent’anni. C’è lei, seduta nella stanza che occupava all’ultimo anno di università, che ride per chissà cosa. La giornata è soleggiata, e la luce che entra nella stanza le forma una specie di aureola intorno. Helen appare illuminata, molto più carina di quanto sia mai stata, pensò allora, sebbene ora si dica che forse è sempre stata graziosa e non l’ha mai capito. Indossa jeans e maglietta, e ha i capelli più lunghi di come li portava di solito; malgrado questo ha un’aria da ragazzetto, ma non androgina. Sbarazzina è la parola che le viene in mente. Non ricorda chi altro ci fosse con lei, però ricorda il momento; ricorda, posto che sia possibile, la propria risata. In fotografia non si è mai piaciuta e le foto in cui compariva, potendo, le ha sempre buttate via; questa però la adorava. La gira dall’altra parte e vede una dedica e una data nella propria calligrafia: Al mio allievo preferito, maggio 1978. – Dove l’ha presa? – Me l’ha data mio padre. – Eduardo è suo padre? – Esatto, Eduardo Cotugno. – Il giudice sorride. – Lei fu la sua insegnante d’inglese a Torino. – Lo so. Gli regalai la foto poco prima che se ne andasse. Me ne aveva chiesta una e questa era la mia preferita. Era l’unica copia che avevo. – Questo lui non lo sapeva, non credo proprio. Ne sarebbe stato ancora più commosso.
292
CHARLES LAMBERT
– Non lo sapeva...? – Sì, è morto due anni fa. – Oh, – dice Helen, commossa. – Mi dispiace moltissimo. – Parlava spesso di lei. Era l’unica persona di cui si fidasse, diceva sempre, nel corso di quegli ultimi mesi in Italia. Gli diede la forza di andare avanti. Mia madre gli aveva reso la vita difficile, papà si sentiva molto solo. Lei lo aiutò a reggere la situazione. – Non saprei proprio come. – È scossa, scossa e turbata, nel ritrovarsi di nuovo Eduardo nei pensieri. Guarda l’uomo dinanzi a lei come se lo vedesse per la prima volta. – Già, ricordo, mi aveva detto di avere due figli. – Sì, mio fratello è rimasto in Sudafrica. Fa il medico a Durban. Papà ha trascorso i suoi ultimi anni di vita con lui e la sua famiglia. – Mentre lei è tornato in Italia. – Alla fine sì. – Sorride. – Mio padre mi diede del pazzo. – Lui che proprio non voleva andarsene, – dice Helen. – Ah, ma poi si è innamorato del Sudafrica. Ovviamente si mise nei guai quasi subito, lei sa com’era fatto. – Ride. – Ma quando le cose sono cambiate e l’apartheid è finito, si è preso le sue soddisfazioni. E a quel punto non avrebbe più potuto tornare in Italia. – Perché no? – Perché viveva in un posto per il quale aveva combattuto. E perché quelli che lo avevano cacciato dall’Italia a quel punto la governavano. – La guarda. – Mi dispiace, non volevo insinuare... – No, non si scusi, – dice lei, – ha perfettamente ragione, – mentre i ricordi scorrono come una piena. Eduardo con la gamba appoggiata su una sedia, mentre insieme ripassavano i paradigmi dei verbi irregolari; Eduardo impegnato a convin-
OCCASIONI DI MORTE
293
cerla che gli serviva di più conversare, parlare del mondo. Eduardo che si passava una mano tra i capelli, identici a quelli del figlio, nota ora Helen guardando l’uomo che ha di fronte. Nei suoi ricordi Eduardo è giovane, ma all’epoca doveva avere dieci anni meno di lei adesso, non più di quaranta, quarantadue al massimo. E pensava che gli avessero distrutto la vita, ma si sbagliava. Con un po’ di coraggio possiamo rifarcela, la vita, pensa Helen. – Quindi era contento? – E senza dargli il tempo di rispondere aggiunge: – Scusa, non mi ricordo come ti chiami di nome. – Piero, – risponde lui. – Sì sì, per lo più era contento. Fu anche contestato, ma ispirava molto rispetto e molto affetto. E a lui piaceva così; qui si sarebbe sentito oppresso. Ha trascorso gli ultimi anni in campagna, fino alla morte di mia madre, avevano una fattoria; e poi, come ho detto, andò a stare da mio fratello. Helen posa la foto sulla scrivania, l’immagine rivolta verso il basso. – Mi hai fatto venire qui solo per farmi vedere questa? – Sì, – dice lui, con un sorriso timido. – Ti ho convocata con un pretesto, ma pensavo ti avrebbe fatto piacere sapere di aver inciso nella vita di qualcuno. Lui avrebbe voluto che lo sapessi. Molto spesso non ci si riesce: ma alla fine, non si può far altro, no? E se siamo fortunati, incidiamo per il meglio. Restano lì insieme per un istante, in silenzio. Alla fine, quando non riesce più a sopportare i propri pensieri, Helen riprende. – Piero, tu sai chi ha ucciso mio marito? – No, – dice lui. – E tu? – Saperlo non lo riporterà in vita, – risponde Helen. È sul punto di uscire, quando il trolley le fa tornare in mente una cosa.
294
CHARLES LAMBERT
– La cartella di Federico, l’aveva con sé quando gli hanno sparato. Non è che potrei riaverla indietro? – Non vedo perché no, – dice il giudice. – Vedrò cosa posso fare. – Ha già alzato il telefono, e in quel momento suona anche il cellulare di Helen. È Martin. Pensa di rispondere dicendogli che lo richiamerà, ma anziché Martin sente una voce di donna. – Helen? Parlo con Helen? – Sì. Chi parla? – Sono un’amica di Martin, chiamo dall’ospedale. Ho una brutta notizia da darti.
2
Helen seguita a ripetersi “è colpa mia” mentre si dirige all’ospedale in auto, in una città dove il traffico, di regola già caotico, si è praticamente fermato; forse, pensa, a causa dei preparativi per la manifestazione prevista nel pomeriggio. A raggiungere l’ospedale ci mette quaranta minuti. All’ingresso viene fermata da un custode, il quale dà un’occhiata dentro l’auto con aria annoiata e poco convinta, poi le fa segno di passare. Agitatissima, con le dita già sulla fibbia della cintura di sicurezza, Helen s’inoltra nel parcheggio. Nel corridoio è seduta una bionda magra, in abito da sera macchiato di scuro sul davanti. All’arrivo di Helen salta in piedi. – Lui dov’è? – chiede quest’ultima. – Voglio vederlo. – Da questa parte, – dice la ragazza indicando una porta. Poi la precede per aprirgliela. Ha gli occhi stanchissimi, cerchiati di scuro, e non può avere più di venticinque anni. Helen le passa davanti, confusa. – Perché non mi hai telefonato subito? – le domanda. In realtà vorrebbe chiederle chi è, ma non è questo il momento. – Non sapevo chi chiamare. Ho dovuto aspettare finché Martin è stato in grado di dirmelo. – Ma se fosse morto! – dice Helen, una mano sulla bocca. – Non l’avrei sopportato, non ci sarei riuscita. – Non c’è pericolo, – risponde l’altra. È passata all’inglese ma Helen se ne accorgerà solo più tardi, quando si replicherà la scena in testa. – Non più. Secondo i medici ce la farà. Certo per qualche settimana non sarà al massimo della forma, ma non c’è altro.
296
CHARLES LAMBERT
– È sveglio? – dice Helen, ancora sulla porta, d’un tratto timorosa di entrare. Ma chi è questa?, pensa. – Sì. Visite brevi, però, mi hanno detto di dire. Entrano insieme. Nella stanza c’è un letto solo, vicino alla finestra. Martin è coricato, con il lato sinistro del cranio rasato e solcato da punti di sutura lungo uno squarcio irregolare. Il viso è gonfio e contuso, con ferite lacere sulla gota e sulla fronte; la punta del naso comincia ora a cicatrizzare, e dentro le narici ci sono due tubicini attaccati con un fermaglio color carne. Helen non lo avrebbe riconosciuto. Altri tubicini pendono dal lenzuolo, drappeggiato su una specie di mensola per proteggere le gambe, e vanno a finire dentro un flacone appeso al telaio del letto, oppure salgono ad arco verso una sacca in plastica con dentro il liquido per la flebo, attaccata a un sostegno. Accanto al letto, su un vassoio di metallo, c’è uno scatolotto con interruttori e spie lampeggianti, collegato al corpo di Martin. Helen si ferma al capezzale, mentre la ragazza con l’abito macchiato di sangue liscia il lenzuolo ai piedi del letto con fare professionale e tranquillizzante. Poi Helen si siede sulla sedia vicino al letto e osserva Martin che fa il giro della stanza con gli occhi, per vedere chi è arrivato. Quando la vede, sorride. – Ciao, tesoro, – dice. La voce è sorprendentemente forte, però distorta, come se lui avesse qualcosa di morbido in bocca: una gelée, un batuffolo di cotone. – Più siamo, più ci divertiamo, – aggiunge. Quando Helen lo bacia ha un sussulto, e nel ritrarsi lei nota che ha un taglio suturato sul labbro. Poi si accorge, quando lui riapre bocca, che ha pure perso due denti. – Hai conosciuto Alina, – dice il ferito, alzando una mano a indicare la ragazza. – Mi ha salvato la vita, e adesso mi fa da angelo custode. – Sorride. – Per un bel pezzo, spero. – Hai visto chi era, chi è stato a ridurlo così? – dice Helen voltandosi verso Alina, che scuote il capo.
OCCASIONI DI MORTE
297
– Avevano i caschi. – Allarga le braccia in un gesto d’impotenza. – Erano in due, due uomini, con una moto. In piazza Barberini. – E la targa? – insiste Helen. – Gli hai preso la targa? – Ho guardato, certo, ma era coperta. O forse non c’era proprio. Martin sventola una mano con impazienza. – Non importa, – dice. – Io lo so chi è stato. Ci arriveremo. Adesso voglio parlare con voi, tutte e due. Devo dirvi cosa penso. Se lo sappiamo tutti siamo a posto, soprattutto io. – Ma certo, caro, va bene, – dice Helen prendendogli una mano. Lui cerca di sollevare la testa dal cuscino, ma è troppo faticoso, e allora si rimette giù con un sospiro. – Maledetti farmaci, – dice, poi sorride. – Un bel goccio di whisky mi rimetterebbe in sesto, ma mi sa che non c’è verso, eh? – Vedrò cosa posso fare, – dice Alina sorridendo a sua volta, però Martin ha già ripreso a parlare in un tono trafelato, incalzante. – Ho capito chi è stato, o almeno credo. Non questa cosa, – dice, agitando un mano all’indirizzo delle proprie gambe, – Federico. Ho capito chi ha ucciso Federico. Ho parlato con un paio di vecchi amici, Helen; sapevi che lo avrei fatto, e non c’era bisogno di dirti con chi. Solo che non erano amici per niente. O comunque non solo miei. Erano anche amici di Giulia. – Guarda Helen come in cerca di conferme. – Si chiama così la madre di Federico, no? Giulia. – Helen annuisce e Martin, soddisfatto, guarda in su. – Anzi, erano più amici di Giulia. – Si ferma per prendere fiato, e intanto Alina gli bagna le labbra con una garza inumidita. – Ha fatto diverse telefonate a un tizio di mia conoscenza. Molto strano, ho pensato, qui qualcosa non torna. – Ride, come tra sé e sé, poi fa una smorfia di dolore. – Insomma, lei questo lo chiamava dal cellulare, con una
298
CHARLES LAMBERT
SIM apposita. È tutto nei tabulati, controlla. Conoscerai pure qualcuno che può controllare. Se lo sapete anche voi sarete al sicuro, saremo tutti al sicuro, perché non possono ammazzarci tutti. – Ha parlato abbastanza, – dice Alina. – Ora dobbiamo lasciarlo dormire. – Poi accompagna Helen alla porta, ma non dà segno di volersi allontanare a sua volta. Helen si ferma nel corridoio, a fare dei respiri profondi. Martin delira, pensa, però non riesce a capire perché nulla di quanto lui abbia detto, quella sua inverosimile accusa, l’abbia sconvolta, e nemmeno sorpresa. Attende che il cuore rallenti il ritmo, poi prende il cellulare dalla borsa e chiama Giacomo. Ti prego fa’ che sia ancora a Roma, si dice in silenzio, ascoltando gli squilli dall’altra parte. Potrebbe essere già ripartito per Parigi, visto il modo in cui l’ha liquidato ieri sera. Dio ti prego, fa’ che sia ancora qui. E quando lui risponde, per il sollievo lei quasi non riesce a parlare. – Ho tantissime cose da dirti, – mormora.
3
– Ma certo, è possibilissimo, – dice Helen, rientrata insieme a Giacomo. – Quella è capace di tutto. – Da mezz’ora chiama ripetutamente a casa dei suoceri: prima dall’auto, con il cellulare, e adesso dal telefono fisso, ma il numero è sempre occupato. E più ci prova, più le montano dentro rabbia e frustrazione. Ormai ha una mezza idea di presentarsi là di persona e fare una piazzata: ma quando annuncia le sue intenzioni, Giacomo la dissuade. – No, non ancora. Dobbiamo parlarne, – dice. – Non possiamo saltare alle conclusioni. Perché quest’idea è assurda, te ne rendi conto, vero? Cioè, mi stai dicendo che è stata lei a far ammazzare suo figlio? – Lo avrebbe fatto anche di persona, – dice Helen. – Con le sue mani, se necessario. Conosco Giulia: la conosco da trent’anni. So di cosa è capace. – Ma perché? – chiede lui, sebbene lei glielo abbia già detto dieci volte. – Per impedirgli di metterla in imbarazzo, – dice lei. – Lui ormai era una mina vagante, poteva fare qualunque cosa, poteva uccidere qualcuno. – Si rammenta delle parole scritte da Federico a proposito del juggernaut, la forza pronta a spianare ogni cosa al suo passaggio per salvare il mondo. Lui si vedeva così, pensa. Se lo immagina ritto su un palco, con le macchine fotografiche a scattare appena sotto di lui, circondato da potenti e da meno potenti, le mani che stringono la cartella che possedeva già prima di conoscerla, ogni punto delle cuciture
300
CHARLES LAMBERT
opera sua, il peso della bomba. Lui avrebbe usato quella cartella, Helen ne è certa. Nessuno gli avrebbe chiesto nulla. E accanto a lui ci sarebbe stato Giacomo, suo alleato fino all’ultimo. – Metterla in imbarazzo? No, non ci credo. – Giacomo è sprezzante. – E comunque Federico non era un assassino. – Trent’anni fa non sarebbe stato poi così difficile da credere. – Frustrata e infuriata per quel tono, che sembra volerla sminuire proprio come quello di Federico in passato, Helen rivolge la propria rabbia contro Giacomo. – Tu non ti saresti fatto il minimo problema, e nemmeno lui. All’epoca sicuramente no. E Moro, allora? E tutti gli altri? Davvero non capisci? Non appena Fede ha saputo che stava per morire, tutto ha acquisito un senso. – All’epoca era diverso, – dice lui. – No, Giacomo, era uguale. Voi non eravate diversi da Giulia. Giulia è ossessionata dallo Stato, parla della Costituzione come se l’avesse partorita lei. È la sua Costituzione. Per averla abbiamo dato il sangue, così si esprime; abbiamo versato il nostro sangue. Di Federico non ha mai parlato in questi termini. Di certo avrà pensato, non so, te l’immagini cosa si direbbe dell’Italia se davvero Federico facesse una cazzata? Farsi saltare in aria portandosi dietro i grandi del mondo? Lui non era uno qualunque, Giacomo, mi segui? – Avrebbe voglia di picchiarlo, di mollargli un ceffone per costringerlo ad ascoltare. A capire. – Non era solo un consulente del ministero, benché quello fosse già grave. Già un grosso scandalo. Era pure suo figlio. Il figlio unigenito di Giulia Paternò, madre fondatrice dell’Italia moderna. – Il tono di Helen gronda sarcasmo. – Una cosa del genere l’avrebbe rovinata. Giacomo annuisce, ma non risponde. Sembra a disagio. Helen se ne frega. È a disagio? Meglio. – Inoltre, – prosegue, sentendosi viva per la prima volta dal-
OCCASIONI DI MORTE
301
la morte di Federico, come se fosse stata costretta a svegliarsi, come se le bastasse solo pensare, – qualunque cosa lui avesse fatto per il presidente del Consiglio sarebbe stata una manna, e Giulia lo sapeva. Quello l’avrebbe usata per dichiarare lo stato d’emergenza, la legge marziale, Dio solo sa cos’altro. – Le torna in mente Eduardo, il suo meraviglioso allievo gambizzato. Aveva ragione lui, e lei lo sa da sempre, la violenza genera violenza. – Ma Helen, questo lo sapeva anche Federico, di sicuro. – Adesso Giacomo appare sulla difensiva, come se lei stesse accusando anche lui. – Federico era malato. Qualunque cosa avesse fatto trent’anni fa, ora non avrebbe mai pensato di uccidere qualcuno se non fosse stato, non so come dire... – cerca le parole necessarie – be’, fuori di testa. – E Giulia? – Giulia ha ottenuto quel che ha sempre desiderato. Suo figlio è un martire, e lei ha vinto. – Bene, è un’ipotesi, – dice Giacomo, perplesso. – L’ipotesi di Martin. Questo mi stai dicendo, giusto? Questo è quel che pensa Martin, dopo essersi preso una motocicletta in testa. Esasperata e anche presa alla sprovvista, perché Giacomo non vuole capire e lei non lo ha mai visto così ottuso, a parte tutto il resto, Helen cambia discorso. – Hai notizie di Yvonne? Giacomo fa una breve risata e sventola una mano in aria. – Suppongo sia tornata a Parigi. – Perché, non te l’ha detto? – La repentina partenza e il successivo silenzio sono abbastanza eloquenti, mi pare. – Sorseggia il caffè, fa una smorfia e prende la zuccheriera, facendo una pausa tra il primo e il secondo cucchiaino. – Ho notizie di Stefania, piuttosto. Vorrebbe parlare con te.
302
CHARLES LAMBERT
– Oddio, Stefania, – dice Helen. – Sarà sconvolta. – Se lo aspettava, che a uno di noi potesse accadere una cosa del genere. È sempre stata convinta che l’avessimo passata tutti troppo liscia, e non è giusto: dimentica che qualcuno si è anche fatto la galera. E adesso si sente in colpa, come se fosse stata lei a scatenare il castigo contro Federico. – Stefania non ha nulla per cui sentirsi in colpa, – dice Helen. – Vuol sapere quando ci sarà il funerale, – dice lui. – Certo. – Helen annuisce. – Dovrebbe esserci anche lei. – È in preda all’inquietudine. – Devo uscire. Non ne posso più di stare qui dentro. Tende una mano a prendere la borsetta, ma qualcosa la ferma, una visione di Federico stravaccato in poltrona, le gambe allungate in avanti, le mani incrociate dietro la nuca, così giovane da sembrare un ragazzetto allampanato. Sta ridendo per qualcosa; e poi, in un lampo di consapevolezza, si rivede nella mente la fotografia che le ha mostrato stamani il figlio di Eduardo, Piero Cotugno, pubblico ministero, in cui lei pure ride. E ricorda: insieme a lei, nella sua stanza di universitaria all’ultimo anno, c’era Federico, già innamorato di lei, ormai ne era certa sebbene a quel punto non avessero ancora fatto l’amore; a stento erano rimasti soli, prima di quel momento. Le torna in mente ogni cosa: la luce, il tepore nella cameretta che di solito era fredda e umida come gran parte di quelle vecchie stanze di studentato, la camicia di lui che si era sfilata dai pantaloni e gli metteva in mostra l’ombelico ogni volta che si stirava. La sua voglia di metterci dentro un dito, ricorda, la lingua. Lui aveva sbagliato a dire qualcosa in inglese e lei era scoppiata a ridere, suo malgrado perché quando sbagli qualcosa non c’è niente di peggio di qualcuno che ti ride in faccia, e lui aveva con sé la macchina fotografica. Avevano trascorso la matti-
OCCASIONI DI MORTE
303
nata a fare i turisti. E lui l’aveva beccata mentre rideva, poi si era chinato in avanti con l’apparecchio in mano e le aveva detto: – Ti ho fatto la fotografia, adesso sei mia per sempre. – Ma lei aveva ripensato a quelle parole, a quella sua prima dichiarazione d’amore, quando poi aveva regalato la foto a Eduardo? Federico ci era rimasto male? Non lo saprà mai. Tutto a un tratto, per la prima volta in quasi tre decenni, Helen e Giacomo si accorgono di non avere niente da dirsi. Helen guarda l’orologio: è quasi mezzogiorno. Sorseggia il caffè mentre Giacomo accende la televisione, per sentire il telegiornale dell’ora di pranzo. Lo schermo si riempie di scenari romani transennati per la manifestazione. – Già, il corteo, – dice lei scuotendo il capo. – Mi è proprio passato di mente. Avevo promesso di dare una mano. – Quindi ci vai? – chiede Giacomo. – Secondo te non dovrei? Giulia però è andata alla parata, giusto? – dice Helen. – Certo che ci vado. E ci vieni anche tu, in nome di Federico. – Perché, lui pensava di andarci? – Sì, credo proprio di sì. – Helen si alza. – A meno che avesse già fatto la sua cazzata. – Si sfrega il viso con tutte e due le mani, esausta, poi si scosta i capelli dal viso. – Se solo si fosse confidato con qualcuno. Con me. – Guarda Giacomo. – Con te. Lui la afferra, ma non con fare possessivo, stringendola delicatamente appena sopra i gomiti, e la guarda negli occhi. – Non mi ha mai perdonato, vero? Mai del tutto. Helen non si ritrae, anche se preferirebbe. – Per esserti preso la colpa, o per esserti preso me? – Si libera dalla stretta più dolcemente che può. – Non aveva niente da perdonare a nessuno, – conclude.
4
Torino, 1978 Stefania era infelice. Helen la trovò un giorno ad aspettarla sotto casa, al ritorno dal lavoro, con un cabaret di paste appeso a un dito per il nastrino della confezione. Mentre Helen scaldava l’acqua per il tè in un pentolino, Stefania slegò il nastro, svolse il vassoio e si mise a mangiare, con lo zucchero velo a svolazzarle sul petto mentre lei leccava la crema in cima al pasticcino. Stava ingrassando, notò Helen, e per un attimo si chiese se Giacomo preferisse le grasse o le magre. Stefania intanto si lamentava di certi suoi problemi in facoltà; diversamente dai maschi, non veniva presa sul serio. Era convinta che l’ambiente universitario si sarebbe rivelato diverso da qualsiasi altro, pensa che cretina; finì un cannoncino e ne attaccò un altro. Erano piccoli e perfetti, come giocattoli. Come sono bravi qui in queste cose, pensò Helen, in questi piccoli piaceri: ciliegie affogate nel liquore e ricoperte di cioccolato, confezionate una per una in carta crespa e stagnola, come minuscole bombe. Poi Stefania si mise a parlare di Giacomo, e allora Helen si concentrò. – All’inizio ho pensato che avesse un’altra, – disse Stefania. Poi la guardò dritta in faccia. – Non ce l’ha, vero? – Non che io sappia, – disse Helen, prendendo finalmente una pasta pure lei. Sarebbe bastato così poco per raccontare a Stefania di lei e Giacomo, ma a quale scopo? Spianare la strada a un rapporto diverso? E poi lei traeva molto piacere da quel segreto. – Perché dovrebbe desiderare un’altra? Tu gli basti, ne sono sicura. – Ma Stefania non stava ascoltando.
OCCASIONI DI MORTE
305
– A casa praticamente non c’è mai. Al lavoro tiene le distanze e poi, le rare volte in cui torna, ha sempre qualcosa da leggere o da sentire alla radio o da battere a macchina, roba che non mi fa mai vedere; e nemmeno me lo dice chiaro e tondo, la nasconde e basta. Ultimamente parla di comprare un televisore e mi dà dell’elitaria perché io non voglio, ma non si tratta di questo: lui finirebbe per guardare solo quello, ne sono certa, e non farebbe più caso a me. Com’è Federico con te, fa così anche lui? Ha sempre la testa da un’altra parte? – No, in effetti no, – disse Helen, benché non fosse la verità. Il quadretto appena descritto da Stefania le era sgradevolmente familiare; solo la sua riluttanza a interpretare il ruolo della congiurata afflitta le impediva di ammetterlo. Detestava il modo in cui certe donne si crogiolavano nella sorellanza del patimento, come se la verità di un rapporto amoroso stesse solo nelle inadeguatezze da sviscerare con le amiche. Miriam, per dire, non si faceva più vedere da quando era finita la storia con il dirigente Fiat. – E poi vorrei sapere a cosa gli serve l’altra casa, – disse Stefania, sempre più risentita. – Quale altra casa? Stefania si leccò via un grumo di crema dal pollice. – L’appartamento che ha preso in affitto con Federico, vicino alla facoltà. – Le lanciò un’occhiata. – Lo sapevi, no? I buoni propositi di Helen si dissolsero. – No, non ne sapevo niente. – Oddio, scusa, – disse Stefania portandosi una mano alla bocca. – Pensavo te lo avesse detto. È solo per lavoro, sono sicura: sai com’è all’università, sono tutti ammassati. Era meglio se non dicevo niente... Non credo ce l’abbiano da molto. E comunque sono sicura che non la usano per farci altro. – Stefania prese l’ennesima pasta e si mise a leccare la crema. Ma non riu-
306
CHARLES LAMBERT
sciva proprio a dissimulare la soddisfazione di aver riferito all’amica una cosa di cui era ignara; mentre Helen intanto si chiedeva fin dove arrivassero i sospetti di Stefania, e soprattutto da dove venissero i soldi per quest’altra casa. – Federico ha uno studio qui, – disse. – E quest’altro posto, com’è? Stefania fece spallucce. – Non l’ho mai visto, però so dov’è. Se vuoi te lo dico. Helen suonò prima il campanello, per accertarsi che non ci fosse nessuno, poi s’introdusse nell’appartamento con la chiave trovata nella cartella di Federico. L’interruttore della luce non era dove si aspettava di trovarlo, sulla sinistra; e sentendo un rumore di passi sulle scale si chiuse frettolosamente la porta alle spalle e poi rimase lì al buio, a tastare le pareti come una deficiente, come una ladra, pensando a Federico che entrava in questa stessa casa, altrettanto sua di quella che divideva con lei all’altro capo di Torino, e tendeva la mano verso l’interruttore senza doverci nemmeno pensare. Lui ha due case, pensò, e si chiese se era tutto lì, e dove lui ritenesse effettivamente di abitare: qui, oppure là dove viveva con lei, o magari proprio a casa sua, quella dei genitori... i quali continuavano a passargli dei soldi, altrimenti come avrebbe potuto permettersi di pagare l’affitto in più che evidentemente si concedeva? Si domandò chi fosse veramente Federico, e perché non le avesse mai detto nulla. Giacomo non le avrebbe mai taciuto una cosa del genere, pensò. Malgrado, in effetti, nemmeno lui gliene avesse fatto parola. Trovò l’interruttore, accese la luce e imboccò il corridoio. Cucina e bagno sulla sinistra. Sulla destra il soggiorno, vuoto di mobilio se non per una poltrona con torrette di libri accumulati accanto. E in fondo al corridoio un’unica camera, un letto a una piazza con una coperta verde scuro, ben tesa e rimboc-
OCCASIONI DI MORTE
307
cata a mostrare il telaio metallico sotto il materasso. Federico le aveva detto di essere stato un soldato modello, e questo si capiva dal modo in cui i suoi effetti personali erano piegati e impilati, come merce in esposizione, su alcuni scaffali da un lato della stanza, e dalle scarpe appaiate e allineate sotto la finestra, i tacchi rivolti al muro. Helen sapeva quanto fosse preciso e ordinato; ma questa precisione qui sembrava una maschera, proprio come l’abbigliamento che lui prediligeva. Forse “maschera” era una parola grossa; meglio, una forma di autodisciplina imposta. Contro un’altra parete c’era un tavolo, con accanto una sedia dallo schienale diritto. Helen si avvicinò e prese in mano la prima cosa che le capitò sott’occhio, un blocco di carta a righe come quelli usati dai cronisti d’assalto nei film, rilegato a spirale. Lo aprì e vi trovò schizzi di volti, malamente eseguiti, e grafici che non le dicevano assolutamente nulla; piante topografiche di luoghi a lei sconosciuti; e nelle ultime pagine, un elenco di date e nomi scritti a matita. Certi nomi avevano accanto una crocetta, altri un punto di domanda o un simbolo che certamente significava qualcosa per Federico, ma non per lei. Voltò pagina e scorse rapidamente l’elenco fino a trovare un nome noto: Eduardo Cotugno. Il suo allievo gambizzato. Vicino al suo nome il punto interrogativo era stato cancellato, e sostituito con un segno di spunta. Helen posò il blocnotes e aprì un cassetto, con il cuore che batteva all’impazzata; non cercava niente di particolare, voleva solo distrarsi da quel che aveva appena visto. Nel cassetto c’erano carte, roba dell’università, bollette; poi Helen notò qualcosa di simile a un permesso di soggiorno e lo sfilò da sotto l’altra roba. Era intestato a un cittadino tedesco, e il riquadro per la fotografia era vuoto. Lo rimise nel cassetto. Si accorse dell’altra porta solo mentre se ne andava. Sfiorò la maniglia, aprì la porta e si ritrovò in un’altra camera, identi-
308
CHARLES LAMBERT
ca alla prima. Non può essere vero, pensò mentre osservava il letto singolo, la scrivania, l’ordine, e si sentiva il cuore martellare come se avesse corso. Si avvicinò alla scrivania, e ne avrebbe aperto il cassetto se non avesse udito un rumore vicino, senza capire esattamente da dove provenisse, se da dentro la casa o da fuori. Le pareva di aver perso la nozione dello spazio. Fece dietrofront e si slanciò lungo il corridoio; una volta sul pianerottolo, con l’ascensore vuoto lì dove lei lo aveva lasciato, si appoggiò al muro e rimase là, a respirare a fondo finché il polso non le tornò regolare. Due giorni dopo la polizia rinvenne il cadavere di Aldo Moro, barbaramente stivato nel bagagliaio di una Renault 4 al centro di Roma. Quando Helen domandò ai suoi allievi chi era stato, secondo loro, gli interpellati scossero la testa; qualcuno si strinse nelle spalle, e nessuno pareva particolarmente sconvolto. Convenivano che la posizione dell’auto, a metà strada fra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista, rappresentasse un messaggio; sì, ma quale?, domandò lei. E loro si divisero immediatamente in fazioni. A quanto pareva, ogni cosa significava qualcos’altro. Poi venne qualcuno ad annunciare che la lezione era sospesa perché era stato proclamato lo sciopero generale. Alcune sere dopo, al pub inglese, Miriam commentò: A quale scopo? Non serve a riportare in vita nessuno. Certo ogni scusa è buona per scioperare, in questo paese assurdo, e se si riesce a combinare qualcosa è un miracolo. Pensano solo alla morte e al sesso. Helen non disse a Federico che era stata nell’altra casa. Si vergognava, come se a comportarsi male fosse stata lei, come se le bugie che avrebbe continuato a dire, pur di scansare la verità, fossero anche peggio.
OCCASIONI DI MORTE
309
Tre settimane dopo Giacomo venne arrestato. Ed era in prigione, in attesa di processo, quando lei e Federico si sposarono.
5
Helen individua subito Martha, sebbene non si siano incontrate spesso; i loro contatti si sono svolti prevalentemente per telefono e per e-mail. Talvolta si sono incrociate a feste o conferenze stampa, in un paio di occasioni hanno scambiato quattro parole con il bicchiere in mano e lo sguardo a vagare per la stanza in cerca di compagnie più gradite, anziché rivolto l’una all’altra. Helen non ha nulla di personale contro Martha, ma solo la vaga sensazione che – a parte uno sbocco per certi articoli che nessun altro pubblicherebbe – l’americana non abbia da offrirle nulla di congeniale ai suoi interessi. Ha sempre un’aria concitata, sciatta, la zazzera grigia e ispida come paglia di ferro, gli orecchini esagerati da figlia dei fiori, e un modo di porsi, di sbatterti in faccia la faccia, la bocca semiaperta, i dentoni gialli di nicotina, che Helen trova aggressivo. Se tu fai un passo indietro, Martha ne fa uno avanti; è il tipo di donna che mette le altre donne nell’angolo. Come poi si comporti con gli uomini, Helen non sa. – Sono così contenta che tu sia venuta, davvero, lo apprezzo tantissimo, – le dice Martha. Poi si sfiora il cuore e le dà un buffetto sul braccio, con un’espressione rammaricata. – Starai passando giorni terribili, immagino. – Sì, – dice Helen. – È vero. – Distoglie il viso per scansare l’alito lievemente rancido dell’americana. Si trovano nella redazione di “Futuri prossimi”, la quale si presenta proprio come Helen l’aveva immaginata, e cioè identica a tutte le redazioni del mondo: foglietti gialli ad arricciarsi sulle pareti e sugli
OCCASIONI DI MORTE
311
schermi dei computer, grovigli di fili elettrici, manifesti antimilitaristi, un eccesso di posacenere. Lei per prima ha trascorso molto tempo in uffici simili, a Cambridge, Londra, Torino, e per un breve periodo anche a Roma, appena arrivata, prima di entrare all’agenzia di stampa e diventare una giornalista a tutti gli effetti. Oggi l’atmosfera è quella di una festa sul punto di cominciare: venti o venticinque persone, per lo più di mezz’età, in jeans oppure bermuda e magliette contro questo e quest’altro, alcune spiritose, altre meno, non poche fatte in casa. Helen indossa uno scamiciato leggero, di buon taglio, in un verde oliva che le dona, e mocassini di cuoio color tabacco, talmente morbido da poterci fare anche dei guanti. Quand’è che ha smesso di vestirsi come una studentessa?, si domanda. Quand’è che lei e Federico hanno deciso di non portarsi tutte le convinzioni scritte in petto? Martha, nota, ha le ascelle ispide di ricrescita, ed è sicuramente la scelta peggiore. Giacomo, accanto alla porta, chiacchiera con una giovane sconosciuta; Martha però ha preso Helen per un gomito e la sospinge verso un divanetto di vimini, ingombro di libri. – Possiamo nasconderci un attimo qui, – dice, spingendo qualche volume a terra e spostandone altri di lato; Helen intanto tenta di incrociare lo sguardo di Giacomo, di attirarlo dalla sua parte perché le venga in soccorso. E inizia a chiedersi perché mai sia venuta; Martha sembra decisissima a parlare di Federico. – Insomma, non ha mai neppure accennato a me? – le dice infatti, mentre Helen si sfila un libro da sotto una gamba. – No, mai. – Solo chiacchiere. Adesso questa penserà che fossimo pieni di segreti. Be’, ha ragione. Quelli di entrambi e quelli di ciascuno. – Mi aveva mandato un articolo, – prosegue Martha. – È arrivato il giorno dopo che lui è morto, ma io sono stata talmente presa da accorgermene solo stamattina. E per un pelo sono
312
CHARLES LAMBERT
riuscita a leggerlo prima che iniziasse ad arrivare tutta questa gente. Non bene, ci ho dato giusto un’occhiata. – Fa una faccia. – Strano forte. Voglio dire, non proprio il tipo di cosa che ti aspetteresti da uno, come dire, in una posizione di potere, – conclude, riversando sull’ultima parola un disprezzo che date le circostanze Helen trova crudele, sebbene non ne rimanga ferita, ma solo sconcertata. Martha non può certo ferirla. – Cosa dice? – Ripeto, non l’ho letto bene, quindi non mi fraintendere, però è – oddio, non saprei – è come se difendesse i kamikaze. – Detto con una smorfia, come a significare, Ma stiamo ancora qui a parlare di martirio? Fa così secolo scorso... – È pieno di citazioni, da Platone a George Galloway, Dio santo, Voltaire e Angela Davis, cazzo. Come se volesse giocarsele tutte quante prima di morire. – Si copre la bocca con la mano. – Cristo santo, scusami. – Pensi di farlo uscire? – dice Helen. – Sulla rivista, intendo. – O devo autorizzarla io?, si chiede poi. Adesso queste cose – il retaggio di Federico – dipendono da me. – Di pubblicarlo, cioè? – Martha è sbalordita. – Stai scherzando? – E perché? Perché propugna la violenza? Martha scuote lentamente il capo, la chioma rigida come una parrucca. – Sarebbe già un motivo sufficiente, – dice. – Voglio dire, noi siamo una testata pacifista. No, quel pezzo è semplicemente troppo strambo. Alcuni passaggi sono totalmente insensati. Come se l’avesse scritto sotto dettatura ma fosse duro d’orecchi, se così posso dire. – Abbassa la voce. – Senti, ma Federico stava poco bene? – Poco bene? In che senso? – Devo essere franca. In certi punti sembra, oddio, non trovo le parole... uno squilibrato.
OCCASIONI DI MORTE
313
– Magari potresti farmelo vedere, quest’articolo, cosa dici? – Prima dovrei ritrovarlo, – dice Martha distogliendo lo sguardo. Non ce l’ha più, pensa Helen di colpo. L’ha dato da leggere a qualcun altro. Ma non le è venuto in mente che glielo avrei chiesto? E a chi l’ha dato, poi? Ora però confonde l’incompetenza con la propensione al complotto. Ha passato troppo tempo con questa gente. Fa un respiro profondo, poi dà un’occhiata circolare alla stanza. – Be’, io vorrei proprio leggerlo, – dice, godendosi per un attimo l’imbarazzo dell’americana. – La tua scrivania qual è? – Fa per alzarsi dal divanetto, ma Martha glielo impedisce prendendola per un braccio. – Ah, a proposito, ho sentito di Martin Frame, – dice. – E ci sono rimasta di stucco. Helen si riappoggia allo schienale, il momento della cattiveria è passato. Dovrebbe stare vicina a Martin, pensa, non seduta nel casino desolante di questa stanza. Chi era quella tipa che stava con lui, come si chiamava, Alina? Cos’è, un nome russo? Da dove è spuntata? Pareva conoscere Martin molto bene; e Helen si è accorta di come la guardava lui, con amore, o qualcosa di molto somigliante. Be’, un po’ d’amore Martin se lo merita, pensa. Aveva un’aria talmente abbattuta, in quel letto d’ospedale. E lei non potrà mai essergli riconoscente come dovrebbe, si dice gettando un’occhiata verso la porta e vedendo Giacomo ancora intento a parlare con la stessa ragazza, tra grandi svolazzi di mani, mentre lei ride. – Già, – risponde, – io pure. – Secondo te volevano rapinarlo? – Non so, secondo te? – Be’, io lui non l’ho mai capito troppo bene, – dice Martha. – È un tipo strano. Persona degnissima, eh, per carità. – Le sfiora un ginocchio. – Lo so che non siete solo colleghi. – Alza
314
CHARLES LAMBERT
una mano a tacitare Helen. – Ma lui è talmente riservato... Cos’ho detto, riservato? Ecco, fosse stato una donna l’avrei definita frigida. – Sorride con l’aria di chi la sa lunga. – Ma forse è solo inglese, – aggiunge, come se questo spiegasse tutto. Poi, con gran sorpresa di Helen, e senza darle il tempo di ribattere “Sarei inglese anch’io”, Martha si sporge in avanti e abbassa la voce. – Secondo te è gay? – Martin, gay? No. Non credo sia gay, – dice Helen, irritata da quel tono intimo, come se loro due avessero qualcosa in comune. – Tu credi di sì? Martha fa spallucce. – Ma no, dai. – E un attimo dopo, come se quella pratica fosse stata evasa, aggiunge: – Però a me non sembra un tentativo di rapina. La versione ufficiale qual è, che l’hanno rapinato? Con sollievo di Helen, Giacomo si avvicina e viene ad accucciarsi vicino a lei, posandole una mano sul ginocchio. – Come ti senti? – Bene, grazie, – dice lei. – Martha mi stava giusto raccontando un’altra cosa che non sapevo su Federico. Lui spalanca gli occhi, poi guarda Martha, la quale dice molto frettolosamente: – Mi ha mandato un pezzo che aveva scritto, l’ho letto solo stamattina. – Un pezzo che aveva scritto? – La temperatura sale. Helen si sente un rivolo di sudore lungo la schiena, stranamente freddo sulla pelle. – Quanto dobbiamo aspettare ancora? – chiede, sentendosi il panico nella voce. Si è avvicinata anche la ragazza con cui Giacomo chiacchierava, e si è piazzata mezza dietro e mezza di fianco a lui con un atteggiamento guardingo, da padrona. Helen è sull’orlo delle lacrime. Federico era completamente pazzo e io non lo sapevo. Com’è che ha detto, questa donna orrenda e invadente? Uno squilibrato. Mio marito era uno squilibrato e io non me ne sono accorta. Dov’ero? Dove mi
OCCASIONI DI MORTE
315
ero nascosta? Helen e Federico, Stefania e Giacomo. E adesso Federico è morto, e Giacomo ha mollato Stefania per una che poi a quanto pare lo ha mollato. E l’ho mollato pure io, pensa, mentre lui le stringe il ginocchio comunicandole un senso di possesso, oppure il desiderio di consolarla, perché ora che lo ha escluso dalla sua vita Helen non sa più come lui la consideri né cosa voglia da lei; forse la ama più di chiunque altro, Federico compreso, ma lei ne dubita. Si accorge che la ragazza gli osserva la mano. Non mi sfugge nulla, pensa, sono sempre stata un’osservatrice. E allora come mai non mi sono accorta che Federico era uno squilibrato? Perché c’era lì un altro ad amarmi? Perché se lo avessi capito non lo avrei accettato? Perché non me ne importava niente? Mi dispiace, pensa e quasi dice, le labbra secche che si schiudono a far spazio alle parole. Mi dispiace, Federico. Ma non ci sono scuse; ha tardato troppo. La mano di Giacomo è un peso insopportabile, ma scostarsela dal ginocchio la renderebbe ancor più pesante. Nessuno dei due le bastava, Helen se ne rende conto solo adesso; e adesso che dei due ne è rimasto uno solo, è come non avere nessuno. Ripensa all’appartamento che Giacomo e Federico condividevano a Torino, a quel che ci trovò dentro, l’elenco dei nomi, il segno di spunta accanto al nome di Eduardo Cotugno, il documento senza fotografia. Cosa facevano quei due insieme in quella casa, quali trame ideavano? Le due stanze identiche come un linguaggio segreto tra gemelli, al punto che lei non ha mai capito chi stesse dove. Perché in seguito le venne in mente, mesi dopo, quando lei era ormai sposata e Giacomo era in prigione e per caso le era capitata in mano la sua cartolina dal Sudamerica, che quella scrivania poteva essere stata di uno qualunque dei due, entrambi avevano imparato a tenere in ordine durante il servizio militare. L’unico elemento utile era la calligrafia sull’elenco; e lei non era mai
316
CHARLES LAMBERT
riuscita a distinguere le due calligrafie tra loro. Ma a quel punto era troppo tardi. Aveva già scelto. Prima di uscire di casa Helen ha controllato la posta elettronica. Però ha aperto anche quella di Federico: e com’era prevedibile, c’erano più di cento nuovi messaggi. Amazon. Harvard. Alitalia. Roba ministeriale. È risalita all’indietro di quattro giorni e ha notato che tra i primi messaggi ancora da leggere ce n’era uno che Federico aveva spedito a sé stesso. L’oggetto era “pensieri conclusivi”. Ha detto a Giacomo di venire a vedere. La cronologia diceva: 31/05/2004 19:47. Ha aperto l’e-mail. Non era molto lunga. Ha letto il primo paragrafo: Quel che non capisco è come si fa a essere ciò che si è, e insieme continuare a essere il contrario. C’è una poesia di Robespierre che lessi anni fa, da studente, e ai tempi non apprezzai, in cui lui dice che il peggior destino per un uomo giusto è rendersi conto, appena prima di morire, di quanto sia odiato da coloro per i quali ha dato la vita. È quel che succederà anche a me, di questo dovrò rendermi conto?
6
Giacomo non riesce a ricordare l’ultima manifestazione a cui ha partecipato da civile, benché “civile” non sia forse il termine esatto. Da comune cittadino. Di norma lo si vedrebbe sottobraccio ad altre primedonne e soubrette della protesta radicale in servizio permanente: militanti extraparlamentari, filosofi, attrici, artisti d’avanguardia, scrittori. Lui ci starebbe per mezz’ora, i suoi assistenti lo comunicherebbero alla stampa e alle telecamere perché per gli intellettuali, almeno in Francia, almeno come personalità, c’è ancora un residuo di rispetto. Com’era quell’espressione usata dal Criceto in quel cazzo di articolo? Enfant terrible sul viale del tramonto. Poi ci sarebbe una qualche intervista, e infine il solito giro di saluti e baci fino alla volta successiva. Ciascuno darebbe, a suo modo, quello che può. Oggi invece si ritrova sotto lo striscione di una rivista talmente mal fatta, talmente marginale da dover essere foraggiata coi proventi di chissà quale fondo nero, una detrazione d’imposta, tenuta a galla da chissà quale ansioso benefattore per lavarsi la coscienza. Perché certo non si sostenta da sola. Com’è anacronistico, vedere questa gente radunata sotto i manifesti artigianali, i teli di cotone che s’imbarcano per il peso dello slogan pitturato sopra, toccante nella sua innocenza: SENZA SE E SENZA MA. Come se il mondo potesse esistere senza se e senza ma. Come se il mondo non venisse reinventato ogni giorno per mezzo, nella migliore delle ipotesi, del dubbio e della prevaricazione, e nella peggiore, del mendacio. Tanto valeva prendersi
318
CHARLES LAMBERT
tutti per mano e intonare Imagine di Lennon. E tuttavia, malgrado o forse grazie a tutto questo, è contento di essere qui. È contento di essere anonimo, almeno per adesso, e di stare sottobraccio da una parte a Helen, che lo snobba ormai da più di un’ora, e dall’altra a una ragazza appena conosciuta, non oltre i vent’anni, la quale fino a stamattina non aveva mai sentito parlare di lui e adesso lo adora. È contento di esser stato presentato a don Giusini, che lo ha riconosciuto e gli ha stretto la mano con un solenne atteggiamento inquisitorio da cui Giacomo è rimasto divertito perché alla fine sono tutti e due della stessa parrocchia, la parrocchia di chi inventa la storia del mondo, e statura morale più alta non c’è. È contento di trovarsi bloccato dietro Martha Weinberg, una donna mai vista fino a oggi benché lei pure lo conoscesse, di nome e di fama, e che con lui si è dimostrata fredda ma certamente colpita. Prima di sera mi chiede un articolo, pensa. È contento di essere stato a letto con Helen e di essere stato lasciato da Yvonne, contento che Stefania sia già in volo da chissà dove verso di lui, pronta a concedergli quella che ha definito una settima possibilità. L’idea di lui e Helen come coppia fissa e ufficiale, dopo tutti questi anni, già gli pare assurda: quasi non ricorda di averci pensato. Com’è volubile il cuore, si dice, con la mano della ragazza a premergli tiepida e vitale sull’avambraccio. Nella vita, si dice anche, ci sono infinite possibilità. – Ti stai divertendo, eh? – Helen è rossa in volto, sembra allegra quanto lui e grazie a Dio ha preso un po’ di sole. In quell’abitino di cotone ha un’aria da ragazzina, anzi da scolaretta, pensa Giacomo. Ha sempre posseduto questa vena di candore, e tutti l’hanno sempre scambiata per freddezza; Giacomo stesso era convinto che proprio questo avesse attratto Federico. Lei sembrava inaccessibile, era quella la sua forza. Sì, proprio questo era piaciuto a Federico, pensa ora. Federico ha sempre avu-
OCCASIONI DI MORTE
319
to bisogno dei suoi spazi, come si dice adesso. I miei spazi, i tuoi spazi, gli spazi di Tizio e di Caia. Qual era il termine usato da Leibniz? Ah, già: monadi uniche. Tutto a un tratto gli torna in mente la storiella – buddista, forse? Dovrebbe chiederlo a don Giusini – sulla differenza tra paradiso e inferno. In entrambi i luoghi gli ospiti siedono attorno a un tavolo stringendo in mano cucchiai lunghissimi, che superano la distanza tra il piatto e la bocca; ma all’inferno ognuno tenta di mangiare per sé e non ci riesce, mentre in paradiso ci si imbocca a vicenda. A lui queste cose sono sempre piaciute: parabole, racconti che inventano il mondo. E adesso c’è questa storia inventata da Helen sulla suocera. Che potrebbe pure essere vera, questo Giacomo glielo concede, ma a quale scopo? Non vorrà certo che Giulia venga arrestata per l’omicidio del figlio. A chi gioverebbe? – Sì, – dice, senza darle il tempo di chiedergli a cosa sta pensando. – Avevo scordato quant’è divertente perdersi tra la folla. – Secondo te quanti siamo? Io non sono portata per questi calcoli. Lui si guarda attorno; i grappoli allentati di gente giovane e vecchia, famiglie con cani e passeggini, bandiere rosse e arcobaleno e kefiah drappeggiate sulle teste più improbabili. Loro dovrebbero trovarsi più o meno al centro del corteo; si muovono adagio, senza fretta, lungo via Cavour, diretti a piazza Venezia. Ben più avanti, già su via dei Fori Imperiali, quella che da qui pare una densa schiera di contestatori e striscioni dondolanti sul mare di teste sta svoltando a destra, e dietro di loro la folla è ugualmente compatta. Cento metri alle loro spalle un carro addobbato diffonde musica disco, cinquanta metri avanti a loro c’è una fila di suonatori di cornamusa. Le vie che portano al rione Monti e al Colosseo sono cordonate da poliziotti in fila per due, con le camionette azzurre dietro, ma l’at-
320
CHARLES LAMBERT
mosfera è festante, c’è un’aria da scampagnata, pensa Giacomo sorridendo a un gruppo di bambini con le facce dipinte e un Labrador con un foulard arcobaleno legato a mo’ di mantellina intorno al collo. Attorno a “Futuri prossimi” il corteo è lasco e rilassato, li si potrebbe scambiare per turisti; se i negozi non fossero sbarrati, ci sarebbe il tempo di comprarsi un souvenir. – Centinaia di migliaia, – risponde Giacomo. – Moltiplica per tre il numero fornito dalla Questura, – dice la ragazza alla sua sinistra, – e ti fai un’idea di massima. – Non per tre, per dieci – latra Martha Weinberg. Sul ciglio della strada un tizio ha posato lo zainetto a terra e scatta fotografie con il telefonino. – Fanculo, – gli urla lei, – e per buona misura lo ripete in inglese, poi si volta verso il resto del gruppo mentre il tizio si rimette il cellulare in tasca e se ne va. – Ma l’avete visto? Chi cazzo si crede di essere, quello? – CIA, – dice Giacomo. – Non c’è dubbio. Li becchi dal cappellino da baseball girato al contrario. – Siete tutti uguali, tutti convinti che essere antiamericani sia uno spasso, – ribatte Martha. – Ma l’odore della vostra merda lo sentite o no? – Stronza e priva di senso dell’umorismo, pensa Giacomo, e sorride. – Quanto vorrei che ci fosse anche Martin, – prosegue Martha. – Credo non sarebbe venuto comunque, – dice Helen. – Non è il tipo da manifestazione. Mi basterebbe saperlo a casa. Giacomo la guarda di sottecchi; sembra pensierosa, triste addirittura. Sta pensando a Federico, azzarda, e lui pure si sente sfiorato dalla tristezza. Non ho mai voluto bene a nessuno come a lui, pensa, e non è bastato a salvare nessuno dei due. Da morto starà decisamente meglio. Certo, però, abbiamo fatto un bel macello. Forse dovrei fare io quel che si proponeva
OCCASIONI DI MORTE
321
lui, qualcosa di limpido e significativo, senza ambiguità. Un omicidio necessario. Stanno svoltando su via dei Fori Imperiali quando una bionda smilza, con la chioma troppo platinata e un viso che gli sembra di conoscere, sfonda il cordone di polizia per avvicinare il loro gruppo, stringendosi al petto un microfono come per nasconderlo; la segue a ruota un tipo in maglietta, bermuda militari e berrettino floscio, con una cinepresa a tracolla. Giacomo la nota per primo e fa un passo avanti, incerto tra il respingerla e l’interpretare il proprio ruolo consueto, quindi mediare, esplicitare, essere a un tempo disponibile e altero, danzare sul filo del proprio fascino. Già accenna a un sorriso quando si rende conto di non essere lui l’oggetto d’interesse della signora, pur ricordandola ora come un’inviata della televisione italiana a Parigi. No, lui non c’entra proprio: la bionda vuole parlare con Helen. Giacomo allora si volta, seguendo un impulso protettivo, ma Helen non sembra avere alcun bisogno di protezione, e dopo aver visto don Giusini assentire col capo le va incontro, mentre Giacomo si avvicina, caso mai ci fosse bisogno di lui. Alle spalle dell’operatore, tre carabinieri si staccano dal drappello di uomini armati lungo il marciapiede e si avvicinano a loro volta. La bionda ha messo il microfono sotto il naso di Helen, con l’aria di chi anticipa un rifiuto; invece Helen sorride e dice: – Ciao, bella, – nemmeno si fosse imbattuta in una vecchia amica a una festa. Presa in contropiede, la cronista le domanda se le andrebbe di rispondere a qualche domanda. – Certo, – fa lei, – perché no? – La bionda si volta verso l’operatore, gli fa un cenno e attacca. – Signora Di Stasi, questa è la sua prima uscita pubblica dalla tragica morte di suo marito, quattro giorni fa. Come mai ha deciso di rompere il silenzio proprio adesso, partecipando a una manifestazione politica contro il governo in carica e il suo
322
CHARLES LAMBERT
più importante alleato, specie in considerazione della visita presidenziale? Helen si avvicina alla cinepresa. – Perché mio marito in persona avrebbe preso parte a questa manifestazione, che non è solo politica ma anche umanitaria, che non è contro il governo e i suoi alleati ma contro una guerra illegittima. Federico era risolutamente contrario all’occupazione militare dell’Iraq e avrebbe marciato da privato cittadino, non da rappresentante del governo. – Guarda dritto all’obiettivo, e la sua voce è fredda e chiara. – Il minimo che posso fare, per rendere omaggio alla sua memoria, alla sua esistenza e al suo impegno, è venire qui a rappresentarlo, – conclude. Si era preparata, pensa Giacomo, ammirato. La ragazza accanto a lui gli sussurra all’orecchio: – È magnifica, – e lui può solo concordare, mentre alle spalle di Helen Martha Weinberg batte le mani, percuote l’aria, salta di gioia e improvvisa un balletto, come un bimbo deciso a fare il pagliaccio. Ha avuto più di quanto si aspettasse, ben più di quanto avesse sperato. – Dopo il brutale assassinio politico di suo marito, si è parlato di funerali di Stato. – Non so chi abbia messo in giro questa voce; personalmente non ho mai detto nulla in proposito. E nemmeno sapevo che si fosse stabilito il movente dell’omicidio. Proprio stamani ho sentito il pubblico ministero, il quale non esclude al momento alcuna pista. Nessuno sa chi abbia ucciso mio marito e nessuno sa perché, tranne il suo assassino. – La bionda si guarda intorno con una certa ansia, incerta se incoraggiare Helen a proseguire in questa direzione, poi riprende a parlare, in tono venato di panico. È lacerata e si vede, pensa Giacomo. Vorrebbe intimorire Helen, che non conta niente, è una signora Nessuno, una vedova e per giunta straniera, costringerla ad abbracciare una linea di partito già decisa; però non osa, perché
OCCASIONI DI MORTE
323
Federico contava, invece. E al tempo stesso è terrorizzata da quanto Helen potrebbe dire. – Suo marito era un alto funzionario dello Stato, ed è morto al servizio dello Stato. Perché ritiene inopportuno, da parte dello Stato, un riconoscimento ufficiale di questa sua fine? Non merita forse esequie di Stato? Helen è sul punto di rispondere quando Giacomo vede due uomini che si fanno largo a gomitate tra la piccola folla radunata attorno a intervistata e intervistatrice e respingono la stridula cronista verso il cameraman, il quale inciampa sotto il peso dell’attrezzatura e quasi cade a terra; ma non appena intervengono i carabinieri, non è chiaro se per proteggere o contenere Helen, i due se ne vanno. Helen si volta verso Giacomo e sibila Fai qualcosa, perdio, non farteli scappare; lui allora parte, dapprima lentamente e poi in una bizzarra corsetta, nella direzione presumibilmente scelta dai due, e la piccola folla che si era accalcata intorno al brivido del microfono e della cinepresa si spacca per lasciarlo passare. Lui si sente esaltato e ridicolo insieme nel dribblare tutta questa gente, che sembra non capire né cosa stia facendo né perché, e che non pare averlo riconosciuto. Ormai corre decisamente contromano rispetto al corteo, ma con una risolutezza che da anni non percepiva. Coglie un lampo di maglietta e bicipite tatuato e prosegue, sgomitando tra grappoli di manifestanti, finché non viene fermato da una fila di poliziotti che avanzano a circondarlo, sempre più vicini. Lui prova a scansare pure loro; loro lo prendono per le braccia, per le spalle, ma lui si divincola, la camicia fuori dei pantaloni, e inciampa, e si mette a gridare: – Brutalità poliziesca! Tutti i fascismi iniziano così! Ricordatevi Guantanamo! – A quel punto lo trascinano via, mentre urla “Collusi!”, e lo caricano su una camionetta. Lui fa un bel sorriso ai passeggeri già seduti all’interno lungo le fiancate, e intanto si rinfila la ca-
324
CHARLES LAMBERT
micia nei calzoni. Gli hanno fatto saltare via qualche bottone: ottimo. Sporgerà querela. Non si è mai sentito così bene. Se solo avesse Federico accanto, pensa, tutto sarebbe possibile. Ha voglia di alzare il pugno in aria, e lo farebbe se non fosse sfiatato com’è e se non conservasse un fugace ricordo di Martha che cinque minuti prima faceva esattamente quello. – Io ti conosco, – dice una ragazzetta con i dreadlock color arancio seduta di fronte a lui. – Stavi al telegiornale ieri sera. Sei amico di quello morto. – Sospira. – È colpa della vostra generazione se ci troviamo in questo cazzo di casino. Giacomo vorrebbe abbracciarla. – Non sai quanto hai ragione, – dice.
7
Ogni qual volta Alina punta gli occhi altrove, Martin la guarda: la guarda avvicinarsi alla finestra e regolare la persiana, la guarda ripiegare all’indietro il lenzuolo per distendere le grinze che gli si sono formate sotto le gambe, e stranamente non s’imbarazza quando lei gli controlla il catetere: stranamente perché non la vede come un’infermiera, o non in primo luogo. Se credesse agli angeli e potesse dirlo senza sembrare zuccheroso, direbbe che la vede come un angelo. Non sa come, ma mentre giaceva privo di conoscenza sul marciapiede l’ha sentita sfiorargli le gambe. Ricorda le mani fresche di lei sulla pelle. La vede come una donna. Le ha fatto diverse domande personali, non tanto per curiosità quanto per cominciare a imparare la sua voce a memoria, sebbene sia pure curioso, e come potrebbe essere altrimenti? Però non vuol sapere niente delle umiliazioni che lei potrebbe aver subito, da questo vuole proteggersi. Non perché sia un vigliacco; solo, è convinto che proteggendo sé stesso proteggerà anche lei. Mi sono innamorato, si dice, davvero imprevedibile. Davvero imprevedibili i moti del cuore. All’inizio si preoccupava che chiunque aveva malamente cercato di ucciderlo tornasse per finire il lavoro, ma ora non ci pensa più. Ha visto e parlato con Helen, la quale ormai avrà parlato con Mura e con chissà chi altro. Se davvero pensasse di rischiare manderebbe Alina a casa. Le ha chiesto di accendergli la televisione e di sollevargli un pochino la testa, così può vedere la diretta della manifestazio-
326
CHARLES LAMBERT
ne. La riprendono da un elicottero, uno dei tanti che sente stando a letto. Il numero dei partecipanti è come sempre opinabile e opinato, benché mezzo milione sia una stima realistica, pensa Martin facendo i soliti calcoli con le cifre fornite. Lei è seduta accanto a lui, la mano scarna appoggiata sul letto. Ci sono telecamere anche a terra. Mentre ne osserva lo spostamento tra i visi dei dimostranti, Martin vede un uomo che riconosce ma fatica un istante a collocare. Calvo, corpulento, tatuaggi visibili su un braccio. Ci mette un paio di secondi a rendersi conto che si tratta del figlio di Picotti, quello che lo accompagnò a Ostia. Però, sorprendente, pensa Martin, non mi sembrava il tipo dell’antimilitarista. Ma naturalmente non deve per forza concordare, per trovarsi lì; ci sono anche altri motivi. Il figlio di Picotti. Se non ti puoi fidare della famiglia, così aveva detto il padre. La cinepresa prosegue, in cerca di notizie. Mentre sullo schermo tornano le riprese aeree, Martin si chiede se sarebbe andato alla manifestazione. È tentato dal rispondersi di sì, ma non sa con chi sarebbe sceso in piazza. Fosse costretto, si dice che ci sarebbe andato con Federico, ammesso e non concesso che lui volesse partecipare. Che ne pensi, di questa cazzo di guerra?, ha chiesto ad Alina quando ha acceso il televisore e si sono viste le prime immagini. Lei ha fatto spallucce. Guerra è sempre, ha detto. No, non sempre, ha detto lui, e non dappertutto. A queste parole lei ha sorriso e ha detto: “Portami in un posto senza guerra, Martin Frame. Così ci mettiamo comodi e aspettiamo che arrivi.” È stato proprio il modo in cui ha usato per la prima volta il suo nome e cognome a fargli capire cosa provava per lei; non saprebbe dare altra spiegazione. Come se fosse stato accolto nella sua interezza, senza riserve. Rimane lì, il collo che comincia a indolenzirsi per la fatica di tenere quella posizione innaturale, e ripete fra sé, dentro la testa, il proprio nome rinfrescato. Martin
OCCASIONI DI MORTE
327
Frame. Le ha chiesto anche da dove venga, e lei gli ha fatto il nome di una cittadina ucraina dove lui è stato una volta, in un’altra vita, per motivi che allora aveva ritenuto ufficiali. E stava per dire, Ah sì, la conosco, ma non l’ha fatto. Lei gli avrebbe chiesto a fare cosa, e lui non voleva trovarsi costretto a dirle una bugia. Quando sullo schermo è comparsa Helen, lui aveva gli occhi semichiusi e se la sarebbe persa, se non fosse per Alina che ha strillato: “La tua amica! Quella di stamattina!” Ma no, avrebbe sentito la sua voce e l’avrebbe riconosciuta. Quant’è arrabbiata, pensa, e quant’è risoluta, come se avesse atteso proprio questo momento. E forse è così. Ci sono tutti, roba da non credere, eh? Giacomo, e pure quel prete, don Giusini. Martin conosce persino la tizia che conduce l’intervista, un’atroce creatura senza un grammo di talento, l’ex amante di un qualche sottosegretario, una scelta di compromesso per lisciare il pelo alle destre. Una che non ha mai perso tempo nel correre in aiuto del vincitore, come si suol dire. Helen ascolta le sue parole con aria sdegnosa. Scuote il capo. Risponde. Martin sorride, poi fa la faccia di chi approva, meravigliato. Le sta rendendo pan per focaccia, anzi di più. E lui sta per chiedere ad Alina di mettergli un altro cuscino sotto la testa quando l’espressione di Helen cambia, come se una rigida mano invisibile le avesse mollato un ceffone. E altrettanto bruscamente il suo volto scompare, e sullo schermo si vede una distesa di teste e striscioni, e poi il cielo, e la trasmissione viene interrotta per una manciata di secondi, ma non prima che Martin senta Helen gridare, in inglese: “Fai qualcosa, perdio.” Dopo di che, riecco il corteo visto dall’elicottero e la cinepresa che vaga da un gruppo all’altro. Visto dall’alto pare tutto molto diluito, gente sparsa in gruppetti senza formalità, potrebbe sembrare un party in giardino. Il commentatore non fa cenno a Helen, e nemmeno a Fe-
328
CHARLES LAMBERT
derico; è come se l’intervista non fosse mai esistita. Cosa diavolo sarà successo?, si chiede Martin. – Tu non hai per caso un cellulare, eh? – chiede. Alina è seduta accanto a lui sulla seggiolina dura dell’ospedale, come una creatura dei tempi dell’infanzia. – Certo che ce l’ho, – fa lei. – Ti serve? – Eh, ma non so il numero a memoria, – dice lui. – Forse puoi provare a chiedere chi ha preso il mio. Ce l’avevo in tasca. – Lei sorride e gli passa il suo telefono, che era lì sul tavolino. – Ah, l’hai trovato tu, – fa lui. – Secondo te come ho fatto a chiamare la tua amica, stamattina? – dice lei. – Sono piena di risorse, sai. Ti sorprenderesti. Non devo mai smettere di essere riconoscente, pensa lui. Finché dura. Quando si sveglia da una mezza dormita sarà passata un’ora, se non di più. Alina posa la rivista che stava leggendo e indica la televisione: stanno facendo vedere una foto di Giacomo Mura. – Non era quello accanto alla tua amica, prima? – Sì, – dice Martin. – Ah, ecco, – dice lei. – L’hanno arrestato.
8
Helen si è fermata dove l’ha lasciata il taxi, davanti al palazzo in cui Giulia e Fausto abitano da quando sono andati in pensione. Guarda in su verso i balconi ben curati che nessuno usa mai, le inferriate alle finestre, gli allarmi anti-intrusione. Ha sempre detestato questo quartiere; lei e Federico non hanno mai capito la scelta dei genitori di lui. All’ultimo momento si è persa d’animo, e se il taxi non fosse già ripartito, l’avrebbe ripreso per farsi riportare a casa. Ma ha perso l’occasione, e in ogni caso le cose da dire sono molte, non si può più rimandare. La chiacchierata di stamattina con il figlio di Eduardo le ha dato forza: più ripensa a lui, più rivede suo padre. Come ha fatto a non notare le somiglianze la prima volta?, si chiede; Piero ha gli occhi di suo padre, e lo stesso modo pensoso ed esplorativo di reggere lo sguardo. Ma lei aveva troppe altre cose per la testa, si dice ora, benché di quell’incontro ricordi soltanto lo stordimento e la sotterranea paura di venir colta in fallo. Se potesse ne parlerebbe con Federico, della chiusura di questo cerchio che secondo lei era già chiuso, e invece forse non era chiuso per niente. Gli chiederebbe cosa ricorda di lei allora, della ragazza che Eduardo si trovò di fronte. Federico si era ingelosito, questo lo ricorda bene, era geloso e curioso al tempo stesso. Si chiedeva se lei provasse un’attrazione? Naturalmente potrebbe parlare di Eduardo con Giacomo, ma non lo farà. Non gliene ha mai più parlato dopo quella prima conversazione, quando lui le aveva dato della sentimentale, e non ha intenzione di ricominciare adesso.
330
CHARLES LAMBERT
Ora si sente come se Eduardo fosse lì con lei, a prenderla bizzarramente per mano, a tenerle i piedi per terra mentre lei entra nel palazzo con la solita chiave e prende l’ascensore per raggiungere il piano dei suoceri. Non intende concedere loro alcun preavviso. Ferma davanti a casa loro con le porte dell’ascensore che si chiudono alle sue spalle, sente qualche lieve scalpiccio provenire dagli altri appartamenti sul piano e si rende conto di essere osservata dai vicini, coppie anziane come i suoi suoceri, che si comportano come se il mondo intero li stringesse d’assedio. Una porta si apre di un minimo spiraglio e subito si richiude, senza dare a Helen il tempo di spiegare chi è lei né di verificare cosa sappiano loro. I vicini di casa sono sempre i primi a sapere. Ma nulla l’aveva preparata alla sagoma ingobbita e mal rasata, in canottiera e pantaloni del pigiama, che le apre la porta al terzo squillo, dopo che lei ha bussato, li ha chiamati per nome, ha gridato forte il proprio. A questo vecchio tremulo ed estraneo, che puzza di latte cagliato e la fa entrare di corsa. – Non so più cosa fare, – dice con voce roca e troppo alta, come se non parlasse da giorni e avesse perso la nozione del volume. – Non vuole uscire. Così muore di fame. – Helen lo abbraccia. Vederlo ridotto così le è insopportabile. – Non vuole uscire da dove? Fausto segna disperatamente a dito il corridoio. – Dal suo studio. – Sospira e gesticola con le mani giunte, scuotendole avanti e indietro. – Non mangia da giovedì. Morirà. Non prende neanche le medicine. – Ma tu non hai una chiave? – Non entra. Giulia ha lasciato la sua dall’altra parte. Impaziente, più adirata che ansiosa, Helen va alla porta e bussa con forza, facendosi male alle nocche. – Sono Helen, – dice. – Fammi entrare. Devo parlarti. – Non
OCCASIONI DI MORTE
331
si aspetta una risposta, e invece sente subito un rumore di passi e la chiave che gira nella toppa. Fausto cerca di spingerla da parte ma lei non ha intenzione di muoversi, non ora, non finché la vecchia non si farà vedere. Giulia è vestita per uscire. I capelli sono raccolti nel solito chignon perfetto, collana e orecchini formano una parure in giaietto. Indossa un tailleur nero, diverso da quello del giorno avanti, e stringe un guanto corto di seta nera nella mano destra già guantata. Sorpresa e incerta, Helen attende di capire se la suocera le chiederà di entrare oppure di spostarsi per farla uscire. Fausto, alle sue spalle, piange lacrime di rabbia o forse di sollievo, non si capisce bene. Senza guardare in faccia né l’una né l’altro, Giulia imbocca il corridoio. – Dove stai andando? – chiede Helen. Giulia si ferma e si volta lentamente a guardarla, con un sorriso altero e determinato sulle labbra. – Vado a porgere i miei omaggi a mio figlio. – Ci siamo andati ieri, – interviene Fausto con uno sguardo angosciato all’indirizzo di Helen, come a dire, Capito? Lo vedi in che stato è? – Giulia, amore, ci siamo andati ieri. Ieri mattina. Non ti ricordi? Siamo andati con Helen. Ci sono venuti a prendere con la macchina. – Tu non sai quello che dici, – ribatte lei. Ma a quanto sembra non sa più dove andare. Rimane lì in corridoio, gli occhi che si velano di lacrime. Helen, improvvisamente mossa a pietà, le sfiora un gomito. – Vieni a sederti, Giulia. – Non ho voglia di sedermi, – fa lei. – Non l’ho mai vista in questo stato, – dice Fausto, in tono stizzito e accusatorio, come se fosse tutta colpa di Helen. – Guarda che io sto benissimo, – dice Giulia, e adesso, con una certa confusione di Helen, sembra vero.
332
CHARLES LAMBERT
– Vieni a sederti in sala, – dice Fausto. – Così possiamo parlare. Stavolta Giulia fa sì con la testa e si lascia accompagnare dal marito, lungo il corridoio e fino in salotto, camminando come una cieca. Non appena sono tutti seduti, Giulia e Fausto fianco a fianco sul divano di fronte a Helen in poltrona, quest’ultima apre la borsetta. – Tu sai cos’è questo, vero? Giulia dà un’occhiata ai fogli di carta gettati da Helen sul tavolino basso tra loro, poi inarca un sopracciglio. – Lo sapevo. Ecco cosa sei, una volgare ladruncola, – dice con la massima alterigia. – E non credere neppure per un attimo che non avessi capito chi ce li aveva. – Raddrizza il capo più che può, e c’è in lei qualcosa di triste e comico insieme. Helen si mette a ridere, poi raduna le pagine. – Quelle carte me le consegnò Federico, – aggiunge la suocera. – Mi chiese di conservarle. – So cos’hai fatto, – dice Helen ignorando il commento. – Non dire cretinate, – ribatte Giulia. – Tu non sai niente di me. Proprio niente. – Fausto si regge la testa fra le mani. – So cos’hai fatto e credo pure di sapere il perché, – continua Helen. Giulia prende un’aria esasperata, come a dire, Ma veramente dovrei mettermi a discutere su questo? Con te? – Quel che ancora non so, ma onestamente non sono certa di volerlo sapere, è come hai fatto a organizzarla, questa cosa squallidissima. Fino a che punto ti sei sporcata le mani, – dice Helen. – Con quali personaggi hai dovuto trattare. Adesso tocca a Giulia mettersi a ridere. – Se non fosse stato per me, per i miei sforzi e quelli di Fausto, sareste morti in galera tutti quanti per quello che avete fatto. Tu. Federico. Giaco-
OCCASIONI DI MORTE
333
mo Mura. E tutti i vostri amici. Pensavate non sapessimo cosa combinavate, eh? Tutti lì coi vostri misteri, i vostri sotterfugi, a giocare al piccolo rivoluzionario. – Le labbra si arricciano per il disgusto. – Voi non avete idea di che cosa abbiamo passato, per fare di questo paese un luogo decente in cui vivere. Eravate tutti troppo impegnati a sputare nel piatto dove mangiavate. – Tu non hai alcun diritto di criticarmi, – dice Helen. – Io non ho mai ucciso una persona a cui volevo bene. – E questo giustificherebbe le tue azioni? – ribatte Giulia. – Il fatto che tu non volessi bene alle persone morte per causa della tua stupidità? Strano modo di vedere il mondo. Tanto valeva restare nelle caverne. – Tu hai ammazzato Federico, – dice Helen. – Tuo figlio. – Cosa ne sai di madri e figli, tu che non hai figli? Per carità, non ci compromettiamo. Eravate tutti e due troppo indaffarati, troppo egocentrici, per avere figli, e adesso osi dire a me come dovevo fare la madre. Tu non hai idea di cosa significhi avere un figlio. – Un figlio che tu hai ucciso. – Tanto Federico era già morto, – dice Giulia in tono noncurante. E quando Fausto emette un flebile grido sconcertato, benché non possa certo essere all’oscuro dei fatti, pensa Helen, Giulia si gira e gli rivolge un’occhiata feroce. – Nostro figlio era matto e tu lo sai bene quanto me. Negarlo non serve a niente. – Era malato, – dice Fausto. Con gran sorpresa di Helen, Giulia distoglie lo sguardo da Fausto e le rivolge un sorrisino complice, scuotendo il capo. Queste sono cose da donne, sembra voler dire, noi due ci capiamo. – E di Massimo cosa mi dici? Era già morto anche lui? – Massimo chi? – L’autista di Federico.
334
CHARLES LAMBERT
– Ah, – dice Giulia dopo un istante. – L’autista. – Chi se ne frega, giusto? – dice Helen. Cos’aveva detto Giacomo, tanti e poi tanti anni prima, a proposito di Aldo Moro? Un vuoto significante, una scatola a cui puoi cambiare l’etichetta secondo le esigenze. Per un attimo Giulia sembra turbata. – Sua madre non soffrirà, ci ho pensato io. Mi sono organizzata per far assumere il fratello come autista. – E sei convinta di farla franca. – Hai quasi ammazzato Martin, tra l’altro, pensa Helen, ma non lo dice. Si domanda in quale misura Giulia sia consapevole di ciò che ha fatto. Giulia sorride. – Sì, penso proprio di sì. – Rivolge alla nuora uno sguardo senza tenerezza, senza umiltà... senza misericordia, pensa Helen. – Poi, certo, dipende anche da te. – Stai forse provando a minacciarmi? – dice Helen. – Guarda che non sei in condizione di farlo. Non più. – All’improvviso ne ha abbastanza, di questa vecchia inflessibile e boriosa. Non riesce nemmeno a odiarla: non le resta dentro nulla di umano da odiare, pensa. Fausto dondola lentamente il busto avanti e indietro, la testa ancora fra le mani. Tu dovrai conviverci, pensa, ed è contenta. Dovrai vivere con lei, e questa sarà la tua punizione. – Non intendo minacciarti, – dice Giulia. – Mai scenderei tanto in basso. – A proposito, non ci sarà nessun funerale di Stato, – fa Helen. – Ho organizzato una cosa diversa, per lunedì pomeriggio. È ciò che Federico avrebbe desiderato, credo. – Raddrizza la schiena, come se si fosse tolta un peso. – E comunque, è ciò che desidero io. – Me l’aspettavo, un comportamento del genere, – dice Giulia. – Nessuna premura se non per te. Egoista fino all’ultimo, e in questo non mi hai deluso, te lo concedo. Voglio sperare che
OCCASIONI DI MORTE
335
sarò invitata. – Dà un altro sguardo a Fausto, in lacrime, e rettifica. – Che saremo invitati. – Ma certo, – dice Helen. – Dovrete esserci, tutti e due.
9
Venti minuti dopo Helen respira a fondo, trattenendo nei polmoni l’aria lurida e calda di sole e lasciandola uscire dai denti serrati. Avrebbe voglia di correre – non per scappare, per il puro piacere di farlo – ma non vuole attirare l’attenzione su di sé. Ha deciso di non chiamare un altro taxi perché l’idea di farsi inscatolare di nuovo le fa orrore. Si è ormai allontanata di quasi due chilometri da casa dei suoceri e ancora non riesce a scrollarseli di dosso: quel guscio vizzo e malvagio di donna con le sue gramaglie, quel vecchio distrutto che l’ha lasciata fare. Se li sente ancora sulla pelle come l’aroma della morte, e si butterebbe al fiume lì sotto di lei per sciacquarselo via, se quelle acque non fossero tanto fonde e scure e sporche. Quanti cadaveri ha visto questo fiume, pensa, in che razza di città ho lasciato trascorrere la mia vita. Secoli, millenni di ragion di Stato e massacri, e fede, e bugie e spargimenti di sangue a tenerla in vita. Il Tevere nero come il sangue che serpeggia per tutta la sua estensione, e appare dove meno te lo aspetti, e s’incurva e quasi torna sui propri passi; pigro e poi rapido, gonfio, sfuggente, con tutti i suoi detriti a seccare sugli argini fangosi. In che razza di città ho scelto di mettere su casa. Giacomo ha fatto bene ad andarsene. Cammina più veloce che può, ed è un vita che non si sentiva così forte. Potrebbe andare avanti per tutta la sera e fermarsi in riva al mare, sebbene sappia che non è possibile, che tra lei e la costa ci sono barricate di case popolari e strade intasate di auto, un aeroporto, installazioni militari. Tutto degno di tutela, se-
OCCASIONI DI MORTE
337
condo Giulia, talmente degno di tutela da lasciare che suo figlio morisse per questo: ma c’è almeno un precedente, pensa Helen, e camminando scoppia in una risata senza allegria. Ha imboccato il lungotevere che passa vicino allo stadio, coi suoi inermi e giganteschi giovanotti di marmo stagliati contro il cielo striato di rosso. Passano macchine e moto ma a piedi c’è solo lei, in questa zona della città la gente non cammina se può stare al volante. Solo i loro domestici usano i piedi. Helen è sola e felicissima di esserlo. Lascia vagare il pensiero su Federico, sul suo modo di camminare, i passi lunghi, la testa alta. Era in grado di passeggiare per ore, su spiagge e sentieri di montagna, per boschi e gole. Lei si lasciava portare e adesso è contenta, adesso che lui è morto e lei procede al proprio ritmo, è contenta di aver camminato al suo per tutti questi anni. Quasi lo vede, ed è tentata di chiudere gli occhi, come lo vide nell’istante della sua morte, ma il sorriso è meno irritato, meno confuso. Helen ha finalmente la sensazione che gli sia andata bene: sarebbe stato tremendo, pensa, se fosse morto senza sapere chi era, in chissà quale corsia d’ospedale, in preda al dolore. Sarebbe stato tremendo se fosse morto in un altro modo, come voleva lui, e avesse pensato in ultimo, quando non c’era più niente da fare, che alla fin fine aveva sbagliato. Che ogni sua scelta era stata sbagliata. E per questo, quanto meno, deve ringraziare Giulia. Le squilla il cellulare. È Giacomo. Se ne era completamente dimenticata. È andata oltre Giacomo, si rende conto, come se tutta quella storia fosse morta con Federico e lei lo avesse capito solo ora. Dovrà usargli un po’ di delicatezza. – Ti chiamo dal comando dei Carabinieri, – dice. Sembra contrariato. – Quello di piazza Venezia. – E cosa ci fai lì? – chiede lei. – Mi affannavo a proteggere le dame, – dice lui. – Non so se ti ricordi.
338
CHARLES LAMBERT
– Scusami, – dice lei con un sorriso, rammentandosi della sua faccia mentre si voltava e si slanciava tra la folla, e di tutte le facce di Giacomo che ha visto nel corso di trent’anni. Quanti Giacomo diversi. – Non so cosa mi ero messa in testa. Spero tu non sia in guai grossi. – Puoi venire a tirarmi fuori, per cortesia? – fa lui. Parla in inglese, forse lo stanno ascoltando. – Questi mi stanno facendo un sacco di storie. – Sono lontanissima da piazza Venezia, – dice lei. E non ha la minima voglia di mettersi a discutere con la polizia. Ma cambia idea prima ancora di sentire la risposta: non può certo abbandonarlo adesso. – Faccio più presto che posso, devo solo passare un momento a casa. – Lui non risponde, e allora Helen aggiunge: – Proprio come ai vecchi tempi, – sollevata nel sentirlo ridere. – Dillo anche a Stefania, – le fa lui. – Come, a Stefania? – Sì, sta arrivando. – Sono contenta. – Davvero? – Sì. – Si interrompe. – Stefania è proprio quel che ti ci vuole. Al successivo squillo del telefonino, Helen controlla e vede un numero sconosciuto. Potrebbe essere don Giusini, pensa, vorrà prendere accordi per lunedì, e sta per rispondere ma qualcosa la blocca, una certa percezione di sé e del mondo. Ha già troppe cose a cui pensare, si dice, ma è vero solo in parte. Dal piccolo oggetto lucente che ha in mano vede dipanarsi una specie di trama, un’elastica ragnatela di tremuli filamenti invisibili, infinitamente sottile e infinitamente salda, a vincolarli l’uno all’altro, a renderli complici l’uno dell’altro, filamenti che convogliano da bocca a orecchio non solo parole, ma anche tut-
OCCASIONI DI MORTE
339
to ciò che sotto e oltre le parole giace, che dentro le parole vive come parassita e vigore insieme, tutto ciò che gli uomini sentono e si sforzano di dire e talvolta riescono a dire, attrazione e paura, intimorimento e amore e il dono del conforto. Vincolo è un’altra di quelle parole a cui accennava Federico, pensa, quelle con due significati opposti. Per enantiosemia. Impone e unisce. Una vasta, coinvolgente trama aggregante che si genera, e insieme raggiunge il proprio apice, in questo lucente giocattolo di metallo, nei lampi di luce e nel terribile frastuono che emana. Mi spiace, sconosciuto, dice Helen. Dovrai aspettare. Lo vede, seduto sul gradino sotto casa sua, già nell’istante in cui gira l’angolo. Legge il giornale, con gli occhiali da sole inforcati sulla fronte perché a quest’ora del giorno il lato del palazzo che dà sulla piazza è in ombra. – Ciao, – gli dice. Lui alza gli occhi e sorride. – Ho provato a chiamarti. – Non sapevo fossi tu, scusa. Se lo avessi saputo avrei risposto. – Be’, adesso sei qui. – Si alza, scuotendo le gambe dei pantaloni in un modo che a lei ricorda Federico, e tende la mano a prendere qualcosa. – Mi hanno tolto il caso. Troppi legami personali, evidentemente. Quindi ci ho messo un po’, a scovarla, – dice, reggendo la cartella di Federico.
EPILOGO
Abruzzo, lunedì 7 giugno 2004 La prima auto ad arrivare è quella di Helen. Ha deciso di usare la macchina perché ama la concentrazione necessaria alla guida, e anche il diversivo che offre. È uscita dall’autostrada un’ora fa, l’ultimo tratto del viaggio è in salita, con le strade a farsi più strette e tortuose, e adesso ha parcheggiato davanti a una chiesetta. Non è graziosa come si aspettava, sperava in pietre nude e rosai, mentre l’elaboratissima facciata della costruzione, con le colonnine di stucco rosato e l’intonaco beige che si sgretola, rimanda al peggior barocco rurale. Ma forse è meglio, è più opportuno così: l’ultima cosa che vuole, per ricordare Federico, è il facile sentimento della bellezza. La funzione non comincerà prima di un’ora, ma lei voleva arrivare in anticipo, deve parlare con don Giusini. Entra in chiesa. Lui si trova accanto all’altare, sistema una tovaglietta, tre fiori in un vasetto di peltro. Non lo aveva mai visto con indosso i paramenti sacri. – Hai fatto presto, – le dice con un sorriso, tendendo le mani. – Felice di vedere che ci hai trovato subito. – Voglio che leggi questo, – dice lei, e gli dà un foglio di carta. Lui ci dà un’occhiata, poi si mette a leggere più attentamente, aggrottando la fronte. – Da dove viene? – Per quanto ne so, è l’ultima cosa che ha scritto. – Sei sicura? Lei fa sì con la testa. – Sono sicura.
344
CHARLES LAMBERT
Dopo che la bara è stata scaricata dall’auto funebre e collocata sotto la navata, la chiesa si riempie rapidamente. Gli intimi di Helen sono nelle prime file, con dietro tutti gli altri: quelli incontrati un paio di volte, i colleghi, gli ex compagni di scuola di Federico che probabilmente si sono affidati al passaparola, le rispettive famiglie, un blando intreccio di affetto e pena che la consola e la rattrista più di quanto avesse creduto possibile. Fuori le hanno tutti rivolto qualche parola, la sua mano tra le loro, facendosi avanti uno dopo l’altro in una fila che per un attimo l’ha fatta tornare alle vaccinazioni scolastiche, come se lei fosse qui a somministrarle. Le hanno detto cose di Federico che ignorava del tutto. Molti piangevano e ha pianto lei pure, di un pianto spontaneo che le ha recato sollievo. Giornalisti non ce n’erano. L’avevano presa in parola. Dopo tutti questi anni in cui praticamente non si sono mai viste, il peggio è stata Stefania. “Oddio, tesoro, ma come fai a reggere? E come te la caverai?” Era indebolita dai troppi singhiozzi, gli occhi iniettati di sangue, le narici arrossate. Helen l’ha calmata per quanto poteva. “Andrà tutto bene,” le ha detto, senza rendersi conto finché non ha aperto bocca di quant’era strano, che dovesse esser lei a consolare l’amica. Ora Stefania è seduta nella sua stessa panca con Giacomo nel mezzo, a cingerle le spalle; il posto alla destra di Helen invece è vuoto. Nel voltarsi per vedere chi altro è arrivato, e nel notare Piero Cotugno ritto in solitudine accanto al portone, è stupita e contenta; gli fa cenno di venire a mettersi vicino a lei. Dopo un istante di esitazione lui arriva e le prende la mano. – Grazie davvero, – bisbiglia Helen, e lui china un poco il capo, per rispetto. – Mi fa piacere esserci, – risponde. – E a me fa piacere che tu ci sia, – dice lei, e quando lui alza
OCCASIONI DI MORTE
345
gli occhi lo fissa. Lui regge lo sguardo. – Ti ho pensato tanto, – mormora lei. Dall’altro lato della navata i banchi rimangono vuoti finché, a pochi minuti dall’inizio della cerimonia, Giulia e Fausto entrano in chiesa, soli, e prendono posto. Giulia, impeccabile, indossa il bel completo nero e la parure di giaietto di due giorni prima. Helen si domanda se mai se li sia tolti, tra allora e ora; se abbia mangiato e dormito, se si sia lavata, se abbia parlato con Fausto, il quale si è sbarbato e messo in ghingheri ma conserva la medesima espressione assente e tormentata. Helen si domanda se Giulia abbia pensato a ciò che ha fatto. Volge loro lo sguardo per riscontrare il loro arrivo, ma Giulia guarda dritto avanti a sé, verso il finestrone sopra l’altare, con un’aria da esaltata, mentre Fausto a malapena leva gli occhi dal pavimento. Gli ultimi a presentarsi, nel parapiglia e stridore di gomma sul marmo lucido della sedia a rotelle che supera il gradino, sono Martin e Alina. Helen si volta, li vede, alza la mano. È evidente che Alina vorrebbe fermarsi accanto al portone, ma Helen li incalza facendogli segno di avvicinarsi e Martin dice qualcosa all’orecchio di Alina, chinatasi per ascoltare. Lui indossa una vestaglia di seta scura sopra pigiama e pantofole. – Qui c’è posto, – dice Helen con un mormorio chiassoso, indicando la panca dove siedono Giulia e Fausto. Giacomo la prende per un braccio, fa no con la testa per indurla a desistere; ma lei è imperterrita, vuol vedere Giulia costretta a spostarsi, a far posto a Martin e Alina, e seguita a incalzarli a gesti finché Alina colloca la carrozzella di Martin a lato della panca e si siede a sua volta, tra lui e Giulia, la quale si sposta impassibile. – Sono così contenta che tua sia riuscito a venire, – dice quindi a voce bassa, ma non certo impercettibile. – Temevo non ce la facessi. – Vuol vedere Giulia costretta a riconoscere ciò che ha fatto.
346
CHARLES LAMBERT
Dopo la lettura finale, don Giusini abbandona il pulpito e scende verso gli astanti, fino a trovarsi accanto alla bara. Tace. Sembra che aspetti l’imbeccata per partire, pensa Helen, vigile, tesa, rincuorata solo dalla presenza di Piero Cotugno accanto a sé. Tutto a un tratto don Giusini le ricorda Giacomo, com’era quando l’ha conosciuto, e questo la rattrista perché quel Giacomo non c’è più. Bel casino abbiamo combinato, pensa, mentre il prete attacca a parlare. – Qui Helen voleva gli amici, nient’altro che amici, dunque voi tutti avete conosciuto Federico, e senz’altro gran parte di voi gli ha voluto bene, – dice, poi s’interrompe e sorride, spalancando le mani. – Questo mi facilita il compito, perché non devo dirvi quel che già sapete. Ciascuno di voi ha i suoi ricordi di Federico, e quei ricordi sono ciò che conta, ciò che durerà. Ma forse c’è una cosa che non sapete, una cosa che è accaduta a Federico nei suoi ultimi mesi di vita e lo ha cambiato. Una cosa importante. – S’interrompe di nuovo, ma stavolta non sorride. Lancia uno sguardo a Helen, e lei gli fa cenno di proseguire. – Federico stava morendo. Aveva un tumore che gli comprimeva il cervello, un tumore inoperabile che può aver influenzato negativamente i suoi pensieri e le sue emozioni. Se non lo avessero assassinato, sarebbe comunque sopravvissuto solo qualche settimana, in una condizione di grande dolore e confusione. La morte è stata dunque per lui una liberazione. A noi non è dato sapere se questa morte facesse parte di un disegno superiore, o se sia invece venuta dal mondo, dal mondo materiale in cui Federico visse, e servì, e detenne il potere. Poiché Federico era un uomo potente, importante, le sue azioni erano volte a cambiare questo mondo, e a cambiarlo in meglio; e quando seppe che stava per morire, dopo il trauma e il per-
OCCASIONI DI MORTE
347
sonale dolore che chiunque proverebbe nelle stesse circostanze, Federico prese a vedere il proprio destino come fonte di potere. E concepì un’idea che avrebbe fatto assurgere la sua importanza a nuove vette, convinto di poter cambiare il mondo, il nostro mondo, con un’azione soltanto. Era un’idea terrificante, ma questo non importava: gli restavano solo settimane, forse giorni, da vivere, e Federico pensò di poter spianare le leggi del mondo come una divinità recata in processione su un carro tutto adorno, oltre ogni castigo umano. Il prete tace ancora una volta e guarda i convenuti in chiesa, quasi a domandare a ciascuno cosa farebbe se sapesse di dover morire. Guarda Helen, che trema, che deve tener testa alla forza messa in moto da lei stessa. Guarda Giacomo, che distoglie lo sguardo per consolare Stefania, accarezzandole i capelli e mormorandole all’orecchio mentre lei gli piange sulla spalla. Guarda Fausto, che abbassa la testa e sospira, e si torce fra le dita un fazzoletto umido e stazzonato. Guarda Giulia che gli restituisce lo sguardo, inflessibile, intoccabile. – Adesso non importa, quale fosse la sua idea. Ma la sera prima di morire, benché naturalmente non potesse saperlo, non potesse sapere che sarebbe morto tanto presto, scrisse queste parole: Il peggior destino per un uomo giusto è rendersi conto, un istante prima di morire, di quanto sia odiato da coloro per i quali ha dato la vita. È quel che succederà anche a me, di questo dovrò rendermi conto? Mi renderò conto, quando sarà troppo tardi, di essere odiato? Di avere, pur persuaso di far bene, al contrario agito male? Sono poi davvero un uomo giusto? E se invece non lo fossi? Ora so di non poter portare a termine quanto ho
348
CHARLES LAMBERT
progettato. Non voglio altro sangue sulle mani, né sulla coscienza. Come potrei morire da giusto, se con la mia morte si generasse altro odio?
– E sono le sue ultime. Possono sembrare parole di rinuncia, ma la verità è ben diversa. In queste poche righe Federico abbraccia la propria umanità, in tutto il suo potere e tutta la sua gloria. Federico, a modo suo, ha preferito morire non da uomo importante, da salvatore o custode del mondo, da martire ardente e ridotto alla cecità dal suo stesso credo, ma da uomo normale, da uomo giusto che fa il suo dovere. È stato ucciso mentre andava al lavoro da un assassino qualunque; e noi lo ricorderemo per com’era. Un brav’uomo che ci è stato crudelmente strappato. Il silenzio della chiesa è rotto da un grido gutturale e smorzato. Tutti si voltano verso Giulia, la quale si alza a fatica e inciampa nelle gambe di Alina nel tentativo di abbandonare la panca, e se non ci fosse lì Martin con la sua carrozzella finirebbe per cascare a terra. Invece gli piomba addosso e rimane senza fiato per la pressione dei ginocchi di lui contro il petto. Alina caccia uno strillo e salta in piedi, Martin urla di dolore; e Helen era convinta di provarci gusto, al vedere il disagio della suocera in quest’ultima e banale interpretazione della morte di suo figlio. Al contrario ciò che prova, alla fin fine, non è gusto, bensì una tristezza soverchiante e perfino un senso di colpa, davanti all’anziana donna che lotta per rimettersi in piedi, i capelli che si svolgono in una sottile spira bianca. Alina si stringe al petto la testa di Martin. – Andrà tutto bene, – gli mormora mentre pure Helen si alza, voltata solo per metà, esitante, una mano sulla bocca, l’altra sulla spalla di Piero. Abbiamo sofferto abbastanza, pensa, il danno è fatto. Questo glielo avrei dovuto risparmiare, se non altro per Federico. Poi volge lo
OCCASIONI DI MORTE
349
sguardo al fondo della chiesa e si toglie la mano dalla bocca per indicare il portone. Ma nessuno le dà retta. Guardano tutti Giulia, che inciampa una seconda volta, barcolla, riprende l’equilibrio e barcolla di nuovo in un percorso inceppato e tortuoso, lungo la chiesa e verso la luce, che pare interminabile. E quando esce dalla chiesa, una ragazza alta che Helen non conosce, che prima della funzione lanciava timide occhiatine a Giacomo, seduta in un banco vicino al portone, cerca inutilmente di trattenere il riso.
RINGRAZIAMENTI
Tra le persone che mi sono state accanto durante la stesura di questo romanzo vorrei esprimere particolare gratitudine alla mia agente, Isobel Dixon, per i suoi sforzi indefessi a mio beneficio, e al mio gruppo di lettori abituali, Clarissa Botsford, Peter Douglas, Wayne Harper, Jane Lambert, Joanna Leyland, Sally MacLaren, Jane Stevenson e Phyllida White, per la loro pazienza, saggezza e generosità. Desidero ringraziare anche Sam Humphreys e Rob Redman per i loro validi consigli in diverse fasi di sviluppo del libro, ed Emlyn Rees, il mio editor, per l’entusiasmo e il buonsenso. Infine, come sempre, Giuseppe Mallia mi ha tenacemente fatto da sponda, un’idea dopo l’altra, in ogni momento. Non so come farei senza di lui.
Redazione di Paolo Valoppi Grafica Progetto: Alberto Lecaldano Font: Voland, Luciano Perondi, 2010 Stampa Grafiche del Liri via Napoli, 85 03036 Isola del Liri (FR) Finito di stampare: ottobre 2014 Edizioni Voland 00185 Roma, via Napoleone III 12 tel. 06 4461946 www.voland.it e-mail: redazione@voland.it