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LIBRI PICCOLI VOLAND•34

Massimo Loche Per via di terra. In treno da Hanoi a Mosca



Massimo Loche Per via di terra. In treno da Hanoi a Mosca Voland


Š della presente edizione Voland Srl Roma 2014 Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2014 ISBN 978-88-6243-172-9


A Gabriella, perchĂŠ mi ha sempre incoraggiato a scrivere



I have seldom heard a train go by and not wished I was on it. PAUL THEROUX, The Great Railway Bazaar



VENT’ANNI DOPO… PIÙ ALTRI VENTI PRIMA

Il viaggio raccontato in queste pagine lo feci nel novembre 1974, partendo da Hanoi, dove lavoravo come corrispondente dell’“Unità”. Attraversai il Vietnam del Nord, ancora in guerra, la Cina, dove ancora Mao era presidente, poi la Mongolia e con la Transiberiana raggiunsi Mosca. Un viaggio non banale ancora oggi, ma che allora sembrava quasi impossibile e infatti organizzarlo non fu semplice. In quei giorni comunque non pensavo certo di scriverci un libro, avevo progettato un reportage per l’“Unità” se non altro per giustificare la mia scelta, che a Roma appariva almeno bizzarra. Ma non lo scrissi: arrivato in Italia mi godetti le vacanze e non pensai più al viaggio. Lasciavo il Vietnam per la prima volta dopo quasi due anni, e non erano stati anni facili. Il 1974 – vale la pena ricordarlo – era stato un anno ricco di avvenimenti. In Italia a maggio il referendum per abrogare la legge sul divorzio non passa e nello stesso mese un attentato terroristico contro una manifestazione antifascista a Piazza della Loggia a Brescia provoca otto morti e oltre cento feriti; in agosto una bomba esplode in una carrozza sul treno Italicus 9


a San Benedetto Val di Sambro nell’Appennino emiliano, i morti sono dodici e i feriti quarantotto. Entrambi gli attentati sono attribuiti al terrorismo “nero”. Nell’aprile le Brigate Rosse con il sequestro del giudice Mario Sossi si impongono all’attenzione del Paese ma in settembre il loro capo Renato Curcio viene arrestato. Cadono due dittature. In Portogallo i militari insorgono contro il governo di Marcelo Caetano, successore di António de Oliveira Salazar, ponendo fine a una dittatura fascista che durava dal 1926, e danno inizio alla Rivoluzione dei Garofani che riporta il Paese alla democrazia. In Grecia finisce la dittatura dei Colonnelli che durava dal 1967, il ritorno di Konstantinos Karamanlis permette elezioni e un referendum che mette fine alla monarchia. Ma l’avvenimento più importante dell’anno, anche per le conseguenze che avrà sulla guerra del Vietnam, è l’uscita dalla scena politica del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Travolto dallo scandalo Watergate, il 9 agosto si dimette per sfuggire all’impeachment. In Vietnam invece il 1974 è un anno grigio, di transizione. Gli accordi di Parigi non hanno portato la pace, e la guerra tra Nord e Sud Vietnam continua in uno stillicidio di attacchi e contrattacchi che sono denunciati da entrambe le parti come violazione degli accordi di pace. Il Vietnam sembra uscito dalla scena 10


mondiale e lo è sicuramente dalle prime pagine dei giornali. Ad Hanoi ero arrivato, quasi fortunosamente, il 25 dicembre 1972 e ci ero arrivato proprio grazie al Natale. Nel novembre 1972 ero ad Algeri e preparavo i bagagli per ritornare in Italia dopo tre anni passati come corrispondente dell’“Unità”. Luca Pavolini, allora condirettore del giornale – il direttore era Aldo Tortorella – mi chiamò al telefono proponendomi di partire per il Vietnam e aggiunse: “Oramai la pace è firmata, goditi le vacanze e a gennaio, con calma, potrai partire.” Ovviamente accettai subito, quasi senza riflettere. Certo i miei piani per il futuro cambiavano radicalmente, dopo tre anni sentivo il bisogno di tornare in Italia, ma sarei stato testimone dell’arrivo della pace in Vietnam, un fatto storico, e comunque il ritorno in patria sarebbe stato rinviato per un periodo relativamente breve: allora l’“Unità” mandava i suoi corrispondenti ad Hanoi per soli sei mesi, viste le difficili condizioni di vita che esistevano in quel Paese in guerra e poverissimo. Ma le cose andarono diversamente. La mattina del 18 dicembre una telefonata mi raggiunse a Cagliari, dove passavo le vacanze nella casa dei miei genitori. “Gli americani stanno bombardando Hanoi, devi partire subito.” E subito partii per Mosca dove avrei dovuto ritirare il visto vietnamita e prendere l’aereo, un turboelica Ilyushin Il-18 che a balzel11


loni, passando per Erevan, Karachi, New Delhi, Rangoon, Vientiane raggiungeva Hanoi. L’aereo partiva da Mosca il mercoledì, tardi, verso mezzanotte. Accompagnato da uno degli interpreti dell’“Unità” che doveva aiutarmi nelle pratiche d’imbarco, aspettavo con trepidazione l’annuncio della partenza, eravamo arrivati con un certo anticipo ma a me sembrava che il tempo non passasse mai. Un paio di volte chiesi al mio accompagnatore di andare a informarsi, ma tornava invitandomi alla pazienza, tutto era assolutamente “normale”. Quando finalmente l’annuncio arrivò rimasi sorpreso: l’elenco delle tappe previste non si concludeva con Hanoi. L’ultimo aeroporto citato era Vientiane. Pensai di aver sentito male, l’annuncio era in russo, ma quando venne immediatamente ripetuto in inglese di nuovo la parola “Hanoi” non fu pronunciata. Chiesi conferma a Jurij (se non ricordo male, si chiamava così l’interprete dell’“Unità”). Non ci aveva fatto caso, si era distratto, mi rispose, ma forse avevo capito male, non c’era ragione per cui l’aereo non dovesse arrivare ad Hanoi. In quel momento l’annuncio fu ripetuto e questa volta Jurij confermò: Hanoi non era compresa fra le destinazioni. Ci precipitammo al banco delle partenze, dove regnava una notevole confusione e la conferma arrivò: l’aeroporto di Hanoi era chiuso al traffico a causa dei bombardamenti americani. Ma proprio a causa dei bombarda12


menti americani io dovevo arrivare ad Hanoi, per fare il mio lavoro. Sarebbe stato un fallimento inaccettabile, non era possibile rinunciare, dovevo arrivare ad Hanoi. Quando era previsto il prossimo volo? Mercoledì prossimo ci risposero, ma non c’era nessun’altra possibilità? Sì c’era, si poteva partire l’indomani con un aereo che, anche questo balzelloni, seguendo la linea della Transiberiana con scali a Omsk, Novosibirsk e Irkutsk atterrava a Pechino dopo aver sorvolato la Mongolia. Una volta a Pechino, un modo di raggiungere Hanoi si sarebbe trovato, magari attraversando la Cina in treno e comunque mi sarei avvicinato notevolmente alla meta. Ma c’era un problema e non piccolo: bisognava avere un visto cinese e in quegli anni i rapporti tra Il Pc italiano e quello cinese erano pessimi, anzi inesistenti, rivolgersi direttamente all’ambasciata cinese era impossibile, ma si poteva ricorrere alla mediazione vietnamita. Debbo dire che i diplomatici vietnamiti non mi sembrarono entusiasti di dover andare a chiedere un favore di questo tipo ai cinesi, i rapporti non erano idilliaci sotto le dichiarazioni di grande e militante solidarietà, ma dopo una lunga mattinata d’attesa il visto fu rilasciato e la notte stessa partii per Pechino. Ad aspettarmi all’aeroporto c’erano due funzionari dell’ambasciata vietnamita che si occuparono di tutte le pratiche e mi accompagnarono all’Hotel delle Na13


zionalità. Mi raccomandarono di non muovermi perché il volo per Hanoi poteva partire a ogni momento e con scarsissimo preavviso quindi dovevo essere sempre pronto. Più tardi mi fu spiegato che era piuttosto strano che un occidentale fosse ospitato nell’Hotel delle Nazionalità, riservato agli appartenenti alle minoranze etniche cinesi. Il fatto che in tutti i giorni passati a Pechino non avessi visto o incontrato nessuna autorità cinese mi convinse che il mio visto era del tutto particolare, in realtà formalmente non avevo messo piede in Cina, ma vi ero solo passato chiuso nel guscio protettivo dell’Ambasciata vietnamita, vivendo in una sorta di extraterritorialità. Ebbe inizio una lunga ed estenuante attesa che durò fino alla vigilia di Natale quando fu annunciato per l’indomani il volo per Hanoi: gli americani avevano deciso che per il 25 dicembre i bombardamenti sarebbero stati sospesi. Il volo seguiva all’incirca la direttrice della ferrovia che un paio di anni dopo avrei percorso per rientrare in Italia. Ma erano i passeggeri a essere particolarmente interessanti: personaggi mitici, almeno per me. Ne ricordo due: il giornalista australiano Wilfred Burchett, grande esperto di questioni asiatiche, e l’ambasciatore cubano Raúl Valdés Vivó, che era seduto nel sedile accanto al mio. Una vera fortuna: era un uomo affabile e aperto e mi parlò a lungo della situazione po14


litica in modo molto spregiudicato per un ambasciatore. Teneva molto, però, a sottolineare che il suo vero mestiere era il giornalismo. Quando ci salutammo mi disse il rituale “mi venga a trovare”, ma non lo incontrai più. L’aeroporto di Hanoi apparve all’improvviso vicinissimo dopo una lunga discesa tra nuvole che non sembravano finire mai. L’aereo si fermò ai margini della pista, abbastanza lontano dalla costruzione bassa dell’aerostazione e non spense i motori. Ci fecero scendere in fretta e furia, anche per evitare il vento prodotto dalle eliche. Ci avviammo, ci veniva incontro un gruppo di persone, erano dei visitatori rimasti bloccati ad Hanoi, correvano a perdifiato, forse per timore di perdere l’aereo. Ci incrociammo senza salutarci, ma sentii delle voci italiane. Seppi poi che era una troupe della Rai guidata da Furio Colombo. Un gentile funzionario del servizio stampa del ministero degli Esteri mi aiutò a sbrigare le pratiche all’ingresso e poi mi condusse all’Hotel Thong Nhat che sarebbe diventata la mia casa per i prossimi quattro anni. La prima notte riuscii a dormire, le successive quattro no. Fino al 29 dicembre il Vietnam fu sottoposto, giorno e notte, a massicci bombardamenti. Nixon sperava di piegare i nordvietnamiti o di indebolirli per garantire meglio i suoi alleati del Sud Vietnam e ottenere 15


qualche modifica agli accordi che erano stati siglati a Parigi alla vigilia delle elezioni presidenziali. Ma non ottenne quel che voleva e il 17 gennaio 1973 furono firmati definitivamente a Parigi gli accordi di pace. Non era ancora la pace, ma non ci sarebbero stati più bombardamenti sul Nord Vietnam. Fu così che su richiesta vietnamita “l’Unità” mi propose di prolungare il mio periodo di corrispondenza da sei mesi a due anni, che poi diventarono quattro. Il 12 dicembre di quel 1974, mentre ero in Italia, l’esercito nordvietnamita aveva attaccato Phuoc Long, capoluogo di una provincia ai confini della Cambogia. La battaglia si concluse il 6 gennaio e non vi fu nessuna controffensiva da parte dell’esercito del Sud Vietnam. Non era mai accaduto che un capoluogo di provincia fosse lasciato al suo destino e ad Hanoi il segnale fu interpretato come un grande segno di debolezza: e la decisione fu presa: partì la grande offensiva che portò alla liberazione del Sud (o alla conquista, secondo altri punti di vista) e all’unificazione del Vietnam. Quell’anno non ebbi ovviamente il tempo di scrivere del mio viaggio in treno, né lo ebbi l’anno successivo, con il processo di unificazione, l’inizio della ricostruzione del Paese, l’aggravarsi delle tensioni con la Cambogia e la Cina. In Italia tornai definitivamente all’inizio del 1977, ma ci fu da superare un adattamento difficile: trovai un paese molto diverso da quello che 16


avevo lasciato nel 1969 per coprire il posto di corrispondente dall’Algeria. Nel 1988 accettai la proposta di dirigere il quotidiano più importante della mia isola, “l’Unione Sarda”. L’esperienza durò un anno e tre mesi in crescente conflitto con l’editore e si sa come vanno a finire queste cose. Fui licenziato, ma dal male nacque il bene: mi trovai ad avere molto tempo libero. A ricordarmi del mio viaggio in treno fu una serie di articoli di Renata Pisu che raccontavano1 di un viaggio da Pechino a Mosca sulla Transiberiana postcomunista, molto diversa da quella che avevo conosciuto io, frequentata da commercianti, trafficanti, loschi personaggi, “prostitute da cuccetta”. Il mitico treno era diventato un luogo mobile di traffici, un vero bazar ferroviario non nel senso metaforico del bel libro di Paul Theroux, The Great Railway Bazaar, che racconta un giro del mondo in treno. Mi misi alla tastiera del computer e scrissi di getto le prime pagine. Poi nelle settimane successive ricostruii il viaggio con l’aiuto di poche carte: non avevo preso appunti, avevo solo conservato il biglietto del treno e l’opuscolo scritto in vietnamita e cinese con l’orario del treno Hanoi-Pechino. Per via di terra non è un resoconto del tutto fedele, ho usato il viaggio in ferrovia come filo conduttore di tanti altri ricordi di quel periodo. 17


Ci volle un bel po’ di tempo per trovare un editore. Finalmente il primo Per via di terra uscì nel 1994, venti anni dopo il viaggio, per Liber Internazionale, casa editrice piccola e raffinata che però fallì non molto tempo dopo. Esattamente altri vent’anni dopo conobbi a una cena Daniela Di Sora e per caso le parlai di questo mio libro, mi chiese di farglielo leggere e le mandai il testo che avevo conservato negli anni da un computer all’altro. Il libro è piaciuto, io stavo per rientrare in possesso dei miei diritti e, verrebbe da dire… eccoci qui. Ma quarant’anni sono tanti e in questi quarant’anni molte, troppe cose sono cambiate, tanti viaggiatori hanno ripercorso in tutto o in parte quella strada ferrata e, rimettendo mano al manoscritto, non potevo ignorare quelle testimonianze. Le ho usate per fare dei paragoni con quello che io avevo visto, per arricchire e dare più corpo alle mie riflessioni di allora, per misurare i cambiamenti avvenuti, per dare indicazioni più precise a chi volesse rifare quel viaggio.

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TRENO AMORE MIO

I treni mi sono sempre piaciuti, tanto che quando si usavano quei giochini come “I Dieci Libri Da Salvare” o da portarsi in un’isola deserta indicavo tra le mie scelte un atlante geografico, un vecchio Zanichelli come quello che avevo alle scuole medie e un orario ferroviario, con una preferenza per il Thomas Cook European Timetable e il Thomas Cook Overseas Timetable. Sulle tavole di quell’atlante ho fantasticato per ore, cambiando confini, creando Stati, deviando fiumi, costruendo strade e soprattutto ferrovie. E naturalmente su quelle ferrovie viaggiavo seguendo le linee rosse o nere che attraversavano pianure e montagne senza fermarsi mai. “La carta geografica, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.”2 Più tardi ho scoperto l’orario ferroviario, lettura evocativa di terre lontane più di qualsiasi racconto di viaggio e d’avventura. In un’isola deserta un orario ferroviario serve intanto a fantasticarci sopra. E già non è poco. Un orario ben letto non stimola solo la fantasia, può raccontare molte cose dell’organizzazione sociale, dell’economia, della storia di un paese. Oggi gli orari 19


ferroviari su carta non esistono quasi più. La Thomas Cook nel 2010 sospese le pubblicazioni dell’Overseas Timetable dopo 30 anni. Nell’agosto del 2013 anche l’European Timetable è finito, erano 140 anni che informava i passeggeri di tutta Europa. Per fortuna un gruppo di ex redattori della Thomas Cook nel marzo 2014 ha ripreso la tradizione dell’Orario europeo che contiene un’appendice sul resto del mondo, grazie a questo volume ho potuto aggiornare il mio testo. *** Viaggiare è, almeno per quanto mi riguarda, sinonimo di prendere il treno. Venti anni fa la ferrovia sembrava oramai appartenere a un mondo superato, al passato. Il treno era stato in apparenza definitivamente sconfitto dall’aereo per i viaggi veloci e dall’automobile per gli spostamenti brevi. Eppure anche allora pensavo che viaggiare in treno fosse ancora il modo più comodo e sicuro per misurare la vastità e la diversità del mondo, per conoscere la gente assieme al paesaggio, per dare al viaggio un senso più ampio del semplice farsi trasportare da un luogo all’altro. Da allora molto è cambiato, l’avvento dell’alta velocità ha ridato alle ferrovie un prestigio che sembrava perduto per sempre, il treno vince per rapidità, sicurezza e perché meno inquinante dei motori che bruciano diretta20


mente carburante. La rinascita del treno non riguarda solo l’Europa, anche negli Stati Uniti le ferrovie stanno conoscendo una nuova stagione di sviluppo per non parlare dell’India, (che già aveva ereditato un ottimo sistema ferroviario dall’Impero britannico) e della Cina che sta ampliando con criteri modernissimi la sua rete, con imprese spettacolari come la linea che da Pechino conduce fino in Tibet. Malgrado buchi e smagliature la rete delle ferrovie avvolge tutta la terra. Nel frontespizio di un bel libro3 sulle mappe ferroviarie di tutto il mondo si può vedere un planisfero dove su uno sfondo grigio azzurro sono segnate in nero le linee ferroviarie4, quattro milioni di chilometri di binari. L’Europa e gli Stati Uniti orientali, il Giappone, la regione di Buenos Aires sono grovigli intricatissimi che a volte diventano indistinte macchie nere. Poi in Europa guardando verso est e negli Stati uniti verso ovest la rete si dirada e si frantuma fino agli immensi spazi bianchi del Sahara e del centro dell’Africa, della foresta amazonica, delle distese artiche. Volendo dunque si possono percorrere grandi distanze senza mai abbandonare il treno. Il viaggio più lungo possibile è quello che partendo dal Nord Africa arriva all’Estremo Oriente. Una linea ferroviaria parte dall’oasi di Tozeur, ai bordi della grande distesa salata del Chott El Jerid, e via Gafsa e Sfax porta a Tunisi, 21


dove inizia la linea Transmagrhebina che attraversa Annaba, Costantina, Algeri, Orano, Fez e Tangeri. A questo punto è necessario prendere un traghetto, ma il braccio di mare è breve, abbandonare per così poco tempo il treno può essere considerato un piccolo tradimento lecito. In Nord Africa si possono scegliere delle varianti: si può partire dall’Oasi di Touggourt o da Béchar in Algeria, volendo da Marrakech, in Marocco. Anzi probabilmente questa è l’unica variabile oggi possibile: dagli anni ’90 il confine tra Algeria e Marocco è chiuso e non esiste più un servizio tra i paesi del Maghreb, le reti ferroviarie, giungono, ma nessun treno va da Tunisi a Algeri e tantomeno da Algeri a Casablanca. Una volta in Europa tutto è più semplice, quasi automatico. Da Algeciras a Madrid, Parigi, Berlino, Varsavia e Mosca. Poi la Transiberiana e la Transmongolica fino a Pechino, poi attraversando la Cina si arriva ad Hanoi e da Hanoi a Saigon. Qui si concludeva l’arco che univa tutta la grande estensione dei tre continenti “antichi”. C’è stato solo un breve periodo di tempo, attorno al 1978, durante il quale era possibile continuare il viaggio iniziato nel deserto tunisino fino al Delta del Mekong. In quell’anno i giornali vietnamiti avevano annunciato il ripristino della ferrovia Transindocinese. Ma già l’anno successivo il viaggio diventava impossibile. I cinesi attaccarono il Vietnam per punirlo dell’oc22


cupazione della Cambogia e, ritirandosi, portarono via binari e traversine. La ferrovia è stata riaperta nel febbraio del 1996, ma abbiamo già visto che l’interruzione ora riguarda il tratto africano del viaggio. Ciò non significa che non si possa tentare, magari abbandonando il treno per un altro mezzo di trasporto. Tiziano Terzani racconta in Un indovino mi disse il suo viaggio da Bangkok a Firenze nel 1993. Il treno funzionava dalla capitale della Tailandia fino alla città di frontiera di Aranyaprathet. “Prima della guerra la linea ferroviaria cambogiana arrivava fino alla Tailandia: ma, con il paese in rovina […] le rotaie dei primi 30 chilometri a partire dal confine sono state vendute come ferraglia, per cui il treno per Phnom Penh parte solo dalla città di Sisophon.”5 Terzani continua il suo viaggio in automobile da Phnom Penh a Saigon, dove ritrova il treno che lo porta fino a Dong Dang, ultima stazione vietnamita prima della frontiera cinese. Da qui si fa portare in motorino al confine e attraversa a piedi la terra di nessuno. Non so se questo sia possibile tra Algeria e Marocco: andando ai miei ricordi di viaggiatore posso annoverare tra i controlli più pignoli e sospettosi mai subiti quelli che dovetti affrontare nel 1972 viaggiando in treno da Casablanca ad Algeri. Ed erano anni di grande retorica sulla fraternità del Maghreb arabo. Il futuro potrebbe riservare altre sorprese, viaggi sempre più lunghi. Le ferrovie asiatiche già oggi arri23


vano ancora più a sud, fino a Singapore partendo da Bangkok, per continuare il grande viaggio basterebbe collegare la rete ferroviaria thailandese e quella vietnamita. Non sarebbe impresa facile, ma nemmeno impossibile: i giapponesi avevano progettato, durante la seconda guerra mondiale, una strada ferrata che, attraverso il Laos, avrebbe dovuto collegare il porto di Danang alla Tailandia. Il progetto rimase tale e nessuno lo ha mai più ripreso. Oppure si potrebbe completare la linea tra la Tailandia e Phnom Penh e costruire il collegamento ferroviario tra Saigon e Phnom Penh che nemmeno i francesi avevano voluto, forse per una loro politica coloniale di divide et impera. Visto il grande sviluppo recente delle ferrovie asiatiche, queste sono ipotesi assai probabili. Si è molto parlato di un progetto avveniristico: un tunnel ferroviario, ma anche stradale, accompagnato da un oleodotto, sotto lo stretto di Bering. Era un vecchio sogno dell’ultimo zar, Nicola II, quello di collegare la Russia all’America, ma allora si pensava a un ponte. Nel 2014 il progetto è stato rilanciato dalla Cina. Dovrebbe essere una linea ad alta velocità che da un lato collegherebbe lo stretto alla Transiberiana e dall’altro, scendendo attraverso Alaska e Canada, si inserirebbe nel sistema ferroviario nordamericano. Si può allora immaginare di chiedere un biglietto per New York Pennsylvania Station, via Mosca o Pechino? Sembra 24


un’utopia, ma chissà. Del resto chi avrebbe pensato che la linea progettata da decenni tra l’Asia centrale ex sovietica e la Cina sarebbe mai stata completata. Invece oramai si può andare in treno da Alma Ata, nel Kazakhistan, a Ürümqi nel Xinjiang cinese in un paio di giorni. Questa alternativa meridionale alla Transiberiana potrebbe dare nuovamente un gusto d’avventura al viaggio in treno dall’Europa all’Asia. La vecchia Transiberiana è oramai frequentata da comitive di viaggiatori organizzati e da piccoli contrabbandieri che hanno trasformato la linea ferroviaria più lunga del mondo in un mercatino internazionale viaggiante. Uno dei tanti effetti della spregiudicata trasformazione dei sistemi economici cinese e russo. I piccoli traffici di questi anni non hanno nulla in comune con le leggende della Transiberiana romanzesca degli anni ’20 e ’30, quando quei vagoni potevano essere frequentati solo da agenti del Komintern, spie giapponesi, contesse russe bianche, signori della guerra cinesi e avventurieri di ogni sorta. Il contrasto è ancora maggiore con altri anni in altro modo leggendari, quelli della guerra del Vietnam. Allora la ferrovia fu molto importante per far arrivare ad Hanoi i rifornimenti dall’Urss e, malgrado i violenti conflitti tra Mosca e Pechino, sembra che abbia sempre funzionato, a parte rare interruzioni provocate da 25


qualche intervento eccessivo delle guardie rosse ai tempi della rivoluzione culturale.

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HANOI-DONG DANG

Nel 1974 si poteva partire da Hanoi ogni domenica per raggiungere l’Europa. La partenza del treno numero 6 era fissata alle 5,25 e ci voleva l’intera mattinata per arrivare, attorno a mezzogiorno, alla stazione di frontiera di Dong Dang. Il servizio oggi deve essere migliorato perché invece delle sei ore e passa, secondo l’orario ne bastano poco più di quattro. Il percorso pianeggiante, attraverso il terreno umido del delta del Fiume Rosso, non presentava difficoltà naturali. C’erano però quelle create dalla guerra ancora in corso. I bombardamenti americani erano cessati da quasi due anni, ma i ponti avevano quasi tutti un aspetto quanto mai precario, sembravano tenuti insieme con bambù, come le passerelle per i pedoni che li fiancheggiavano. Uno particolarmente lungo sul Fiume Nero sembrava quasi oscillare mentre il treno lo attraversava a una velocità talmente bassa da sembrare impercettibile. Sicuramente i bufali, che sguazzavano nella zona fangosa accanto al fiume vero e proprio, procedevano più spediti. Forse per questa lentezza, forse perché il tracciato della strada ferrata era più vicino ai campi di quello 27


delle strade, malgrado tutto più moderne e in migliori condizioni, il treno entrava nella risaia e finiva in qualche modo per farne parte. Ma anche la risaia entrava nel treno. I terrapieni, i fianchi delle trincee erano coperti di verde, terrazzati, divisi in piccoli quadrati nei quali crescevano legumi, piccole lattughe, altre piante. Nel delta del Fiume Rosso non esiste terra coltivabile, esiste solo terra coltivata. E probabilmente proprio per queste coltivazioni ferroviarie si può dire che l’utilizzazione del suolo agrario in Vietnam è più alta di quella già intensissima della Cina meridionale. Le fermate erano poche, ma le soste lunghe, anche se in genere prive di interesse. Gli edifici delle stazioni erano semidistrutti dalle bombe e, nel migliore dei casi, cadenti e corrosi dal tempo, dall’umidità onnipresente e pervasiva, caratterizzati da una certa incuria giustificata dagli avvenimenti di guerra ma non in carattere con il decoro a cui i vietnamiti, almeno quelli di città, sembravano tenere molto. Del resto nessuno saliva e nessuno scendeva dal treno internazionale. Alla stazione di Hanoi avevo visto salire molti studenti in seconda classe e un paio di diplomatici in prima, ma stavano chiusi nei loro rispettivi vagoni. Quello su cui viaggiavo, riservato agli stranieri, era vuoto ed ermeticamente sigillato, non era possibile andare su e giù per le carrozze. L’unica presenza umana fu quella di un cameriere 28


che a un certo punto portò il vassoio con il pasto: riso, carne, verdura e birra Ha Noi, la birra della capitale. Un liquido insapore (la dose di luppolo doveva essere minima), e quasi analcolico. Era fatta, si diceva, con la pula di riso. Non era certo un pasto luculliano, peraltro di difficile consumazione nello scompartimento già predisposto per la notte, con le cuccette superiori abbassate, il che rendeva scomodissimo stare seduti. L’ideale del viaggiatore straniero in quei tempi in Vietnam era, con ogni evidenza, il viaggiatore addormentato, quando l’accesso ai treni gli veniva consentito. Della difficoltà per gli stranieri di viaggiare in treno avevo avuto una prova proprio nel gennaio del 1974. Dovevo andare al porto di Haiphong per seguire l’arrivo della nave Australe6. Avevo chiesto di poter andare col treno che vedevo passare tutti i giorni sul ponte di Long Bien che scavalca il Fiume Rosso ad Hanoi. Mi fu risposto che era impossibile, ma io insistetti ribattendo a tutte le obiezioni, alle supposte difficoltà e alle scuse che mi venivano opposte. A risolvere la questione fu una colta signora, abitualmente sorridente e gentile, che curava i rapporti con i giornalisti stranieri. Alla mia ennesima richiesta rispose seccamente: “I treni non sono per gli stranieri. Servono solo per i vietnamiti e per le merci.” Che in Vietnam i treni fossero giudicati poco adatti e sconsigliati con decisione agli stranieri non era solo 29


una convinzione dei vietnamiti del Nord. Paul Theroux racconta7 delle difficoltà che i vietnamiti del Sud gli fecero quando, più o meno nello stesso periodo, volle prendere il treno Saigon-Bien Hoa. Alla fine la spuntò, ma viaggiò nel vagone speciale del direttore delle ferrovie sudvietnamite. Evidentemente anche al Sud i treni normali erano riservati “ai vietnamiti e alle merci”. Si sarebbe potuto pensare che una richiesta bizzarra – perché affrontare le scomodità di treni piuttosto malandati? – nascondesse qualche oscuro proposito e, si sa, in tempo di guerra i sospetti sugli stranieri aumentano, ma non è così. Molti anni dopo, in periodo di pace, Tiziano Terzani fatica non poco a ottenere dal consolato del Vietnam i visti per via terrestre e anche alla frontiera tra Tailandia e Cambogia rischia di essere respinto perché “gli stranieri viaggiano in aereo”8. Un’altra viaggiatrice, Mary Morris, racconta le mille difficoltà per ottenere un visto di transito per la Mongolia9. Quello su cui viaggiavo in quella mattina di novembre invece era un treno del tutto speciale: per stranieri e vietnamiti autorizzati. Qualche viaggiatore abusivo locale c’era ma viaggiava sui respingenti dell’ultimo vagone. Per salire o scendere non c’era bisogno delle stazioni. I rallentamenti erano tanti e permettevano di saltare sul treno con una corsetta, o anche solo accelerando il passo, e di scendere senza rischi. I con30


trollori non si accorgevano di questo traffico non autorizzato, più probabilmente fingevano di non accorgersene. A Dong Dang, ultima stazione in territorio vietnamita, il treno si fermava per quasi un’ora e mezza. L’arrivo era previsto per le 11,48 e la partenza per le 13,12. Tutto questo tempo serviva ai minuziosi controlli di dogana e della polizia di frontiera. A parte la sorpresa di vedere sul treno un Thay, dal momento che sul treno al massimo viaggiavano i Lien Xo10, i controlli nei miei confronti non furono molto severi. Le formalità di dogana vennero espletate con una certa fretta, ma con il cipiglio di tutti i doganieri del mondo che vi fanno sempre sentire, con un solo sguardo, trafficanti, contrabbandieri, addirittura spie. L’unico problema fu quello dei rullini fotografici che volevo far sviluppare in Europa. Potevo esportare solo quelli non impressionati, le immagini vietnamite dovevano restare in Vietnam. “Ragioni di sicurezza” mi disse il poliziotto, ma tutto sarebbe stato restituito al mio ritorno. Non dovevo preoccuparmi. Anzi avrebbero sviluppato loro stessi i miei rullini. E questo invece mi preoccupava. Ritornato in Vietnam qualche mese dopo, riavere indietro i rollini da stampare fu impossibile. Persi per sempre.

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DONG DANG-NANNING

Dopo Dong Dang il treno entrava in una sorta di terra incognita. Venivano attaccate due locomotive, vaporiere dall’aspetto antico, forse addirittura un’eredità francese, e si cominciava a salire. Finiva il vasto paesaggio liquido delle risaie e si viaggiava tra montagne a forma di pan di zucchero e fitte di selve come quelle che si vedono nei dipinti dei paesaggisti cinesi. Tutte velate da una nebbia che man mano si infittisce e si trasforma in nuvole tra le quali si perdono le cime più alte. Anche il paesaggio umano cambiava. Non più il brulicare continuo di figure indaffarate, in verde militare gli uomini, in pantaloni neri e camicia bianca le donne, ma il deserto. Nemmeno un’anima viva lungo l’unico binario che si arrampicava verso la Cina. Sola apparizione era stata quella di un uomo nelle vesti blu scuro, quasi indaco, delle minoranze Nung che abitano quella zona di montagna, che camminava a passi energici sulla stradina che correva a fianco della ferrovia. Mentre il treno arrancava, doganieri e poliziotti continuavano ad aggirarsi nei corridoi con un’aria molto indaffarata e tesa. A un certo punto, tra alti ter32


rapieni verdi, il treno si fermava, doganieri, poliziotti, inservienti, controllori e macchinisti vietnamiti scendevano e al loro posto salivano doganieri, poliziotti, inservienti, controllori e macchinisti cinesi, sbucati all’improvviso da dietro gli alberi, dal nulla. Quello era il punto preciso del confine tra Vietnam e Cina, preciso ma contestato, origine di molte diffidenze tra i due paesi. Cinque anni dopo la diffidenza divenne ostilità, ci fu la guerra di frontiera la cui vittima maggiore forse fu proprio quella ferrovia: i cinesi prima di ritirarsi portarono via binari e traversine. E, come ho già detto, per molti anni i treni non viaggiarono più tra Dong Dang e Pingxiang. Mentre il treno ripartiva mi sfilarono sotto gli occhi tutti i vietnamiti rimasti ad aspettare, accosciati, intenti a chiacchierare, ridere e fumare, in attesa di risalire sul treno che più tardi sarebbe ritornato indietro a Dong Dang. *** A Nanning il treno vietnamita arrivava in un binario di testa che terminava prima dell’edificio della stazione, un vero edificio di stazione, costruito da europei qualche decennio prima e conservato con una certa cura. Una pensilina ampia terminava con un fregio in ferro nel quale, in omaggio al paese un ingegnere tedesco, 33


francese o britannico aveva inserito motivi orientaleggianti, dragoni, fenici. Sotto la pensilina attendeva il treno cinese, più largo, quasi imponente rispetto a quello da cui ero appena sceso. I francesi avevano costruito le ferrovie vietnamite a scartamento ridotto e tali erano rimaste, per ragioni economiche sicuramente, ma anche per la mai sopita diffidenza tra vietnamiti e cinesi. La stazione sembrava deserta, solo qualche ferroviere e qualche guardia di frontiera passeggiavano lungo il marciapiede. La fila dei passeggeri arrivati da Hanoi si avviava lentamente alle carrozze. I posti erano già assegnati, ma questo non impediva ai vietnamiti di fare molto chiasso e molta ressa lungo il marciapiede, sotto lo sguardo ufficialmente impassibile dei doganieri cinesi, turbato da lampi di contenuta superiorità. Ma dov’erano i passeggeri arrivati da Pechino? Non si vedeva nessuno. Il mistero si svelò più tardi, quando il nostro treno si mosse. Dalle sale d’aspetto, fino a quel momento rigorosamente chiuse, uscì una frotta di vietnamiti che si avviarono verso il binario di testa. Non era evidentemente visto di buon occhio che passeggeri in arrivo e passeggeri in partenza potessero scambiarsi saluti e magari informazioni sul marciapiede della stazione. Secondo l’orario il treno vietnamita sarebbe già dovuto partire da più di un’ora, alle 13,26 (fuso orario di 34


Pechino) e avremmo dovuto incrociarlo a Dong Dang, invece aveva atteso la nostra partenza. Una volta sistemati sul treno iniziava l’ispezione delle guardie di frontiera cinesi. Un’ispezione meticolosa e sorridente. Mi furono sequestrati tutti i rullini fotografici che erano sfuggiti al controllo dei vietnamiti. Ai vietnamiti interessavano i rullini già impressionati, ai cinesi invece quelli vergini. In uscita bisognava controllare che non venissero esportati possibili veicoli di spionaggio, e la “spionite” dei vietnamiti era particolarmente acuta, cosa comprensibile, visto che la guerra durava ancora. Meno comprensibili erano gli eccessi spesso ridicoli di questi controlli. I cinesi invece tagliavano il male alla radice, impedendo che venissero scattate foto di qualsiasi genere. Anche i cinesi promettevano la restituzione: i rullini vergini furono messi in una scatola di cartone, che davanti ai miei occhi fu sigillata con strisce di carta e colla e furono apposti dei timbri. Le guardie si informarono con insistenza minuziosa della data prevista per l’uscita dalla Cina, mi fecero firmare una ricevuta e in qualche modo mi fecero capire che esibendola i rullini mi sarebbero stati restituiti alla frontiera mongola. Finalmente il treno si mosse, abbastanza in orario, verso le quattro e mezza del pomeriggio, e nello scompartimento si riversò una squillante marcia militare, poi una canzoncina cantata da una voce in falsetto: mi 35


sembrava di riconoscere a ogni verso le parole Mao Zedong, ma forse era un’illusione acustico-ideologica. Ma da dove veniva la musica? Dove stava l’altoparlante? Era una scatola di bachelite ingiallita piazzata in alto sopra il finestrino. Apparentemente non poteva essere spento, non si vedeva nessun interruttore, nessun bottone in grado di far tacere quel fiume di note e di parole tutte pronunciate con grande enfasi. Notiziari? Slogan di propaganda? Non è difficile arguire che fossero entrambe le cose. Alla fine, dopo molte ricerche trovai la manopola, anche quella di bachelite bianca, nascosta sotto il tavolino. Ma non si poteva far tacere l’altoparlante, lo si poteva solo ridurre a un sussurrare di sottofondo che non cessò mai fino a Pechino. Il vagone cinese era più confortevole di quello vietnamita, arredato con alcune ricercatezze: un vasetto di fiori di plastica poggiato su di un centrino ricamato, una teiera e due tazze, un thermos per l’acqua calda, un pacchetto di tè. Con una previdente scorta di zucchero e caffè solubile il viaggio sarebbe stato più gradevole, ma il caffè solubile ad Hanoi era introvabile. Lo scompartimento prevedeva quattro posti, ma solo una cuccetta era abbassata, così si poteva stare comodamente seduti, senza dover curvare la schiena come nello scompartimento vietnamita. Nella luce grigia di quella domenica di novembre 36


piuttosto nuvolosa, sfilava un paesaggio molto simile a quello vietnamita. Anzi identico, ma se si alzavano gli occhi verso le montagne, pure vi era qualcosa di strano o di estraneo. Mi ci volle un po’ di tempo per capire quali elementi comunicavano questo sentimento di estraneità. Ero in un paese diverso, avevo passato i confini, ma sapevo che da entrambe le parti della frontiera vivevano le stesse etnie, che parlavano la stessa lingua e anche le popolazioni dominanti, cinesi e vietnamiti, erano tra loro molto più simili di quanto non volessero essi stessi far credere. Eppure una diversità c’era. Tutto appariva più ordinato e pulito e quando la ferrovia raggiunse una strada e vi si affiancò finalmente capii. La strada era asfaltata, senza buche, e traversava i fiumi su ponti solidamente piantati. Le case erano tutte intatte e quelle in mattoni costituivano la stragrande maggioranza, le risaie erano regolari, piane, senza che nessun cratere di bomba venisse a interrompere l’allineamento perfetto delle piantine di riso, la gente che si vedeva passare era vestita dignitosamente: in Cina non c’era la guerra. Il treno per fortuna viaggiava a una velocità talmente moderata che si poteva controllare ogni dettaglio del paesaggio. Viaggiava come dovrebbero sempre viaggiare i treni per permettere che si svolga il grande spettacolo di cui sono il mezzo. Il treno è come 37


il cinema. Fare un viaggio in treno non è molto diverso dall’entrare nel buio di una sala cinematografica. Il paragone tra il viaggio in treno e uno spettacolo non è mio, anzi è ottocentesco e risale all’avvento e alla diffusione della ferrovia, quando “l’acquisto di un biglietto ferroviario equivale all’acquisto per un biglietto di teatro. Il paesaggio di cui si entra così in possesso si trasforma in spettacolo”11. E ancora: “…qualche studioso di cinema, come per esempio Joachim Paech, ha insistito sulle analogie tra mondo ferroviario e mondo cinematografico e sul rapporto profondo, di affinità, che c’è fra la visione del viaggiatore attraverso il finestrino del treno e quella di uno spettatore seduto in un cinema che osserva i movimenti delle immagini nel riquadro dello schermo”12. E infatti: attraverso i finestrini, piccoli schermi che riproducono il movimento, sfila davanti ai vostri occhi un lungo documentario paesaggistico. Un documentario il cui testo è scritto, o piuttosto immaginato, da voi stessi: un grande vantaggio, nei documentari molto spesso la parte peggiore, noiosa, quasi sempre scritta in cattiva prosa poetica, è il commento. Nel vostro scompartimento siete voi a decidere i commenti che vi detta l’umore o la fantasia del momento, oppure semplicemente a far tacere del tutto pensieri e impressioni e contemplare lo spettacolo che vi sfila davanti agli occhi. Per questo è essenziale che il treno 38


non sia veloce. I supertreni moderni sono sempre più simili agli aerei che vorrebbero emulare, i loro finestrini diventano sempre più minuscoli, sempre più simili a oblò. Restano comunque treni e, malgrado la loro velocità di 200 o 300 chilometri all’ora, non escludono la possibilità di contemplare il paesaggio. Sfilano immagini indistinte; si combinano forme immobili nella distanza con rapidissimi fantasmi che non si ha il tempo di fissare. Vedreste Via col vento accelerato alla velocità di una vecchia comica? Ciò avviene soprattutto se si insiste a guardare le cose vicine, come succedeva a Victor Hugo: “I fiori sul ciglio del campo non sono più fiori, ma macchie di colore anzi strisce rosse o bianche; non ci sono più punti tutto si trasforma in strisce; i campi di grano diventano lunghe ciocche gialle; i campi di trifoglio sembrano lunghe trecce verdi; le città, i campanili e gli alberi eseguono una danza e si mescolano pazzamente all’orizzonte”13. Il grande poeta trasforma la visione dal treno in corsa in un’anticipazione letteraria dell’impressionismo. Ma il viaggiatore deve “trascurare gli oggetti e i dettagli più vicini e indirizzare lo sguardo su ciò che è più lontano che passa lentamente davanti ai suoi occhi”14 così si può nuovamente godere del paesaggio e far lavorare la propria fantasia. Un esempio? Il magnifico scorcio che si vede dalla linea ad alta velocità dalle parti di Reggio Emi39


lia. Il treno in quel punto, percorrendo una larghissima curva, corre su una sopraelevazione che domina la pianura e in lontananza sfilano le linee avveniristiche dei ponti di Santiago Calatrava. Probabilmente si tratta solo di abituarsi alla velocità. È passato poco più di un secolo da quando Jules Michelet scriveva: “L’estrema rapidità dei viaggi in ferrovia non è consigliabile dal punto di vista medico. Andare, come si fa, in venti ore da Parigi al Mediterraneo, attraversando di ora in ora climi così diversi, è la cosa più imprudente per una persona nervosa. Giungerà a Marsiglia ubriaca, piena di agitazioni e di vertigini. Quando Madame de Sévigné impiegava un mese per recarsi dalla Bretagna in Provenza, superava a poco a poco, per gradi, il violento contrasto tra i due climi. Passava impercettibilmente dalla regione marittima dell’ovest a quella dell’est, nel clima schiettamente continentale della Borgogna. Poi, procedendo lentamente sull’alto Rodano, nel Delfinato, affrontava con minore disagio i grandi venti, Valence, Avignone. Finalmente si riposava ad Aix, nella Provenza interna, lontano dal Rodano e lontano dalle coste, e qui diventava provenzale di petto e di respirazione. Allora, solamente allora, si avvicinava al mare”15. Sempre Wolfgang Schivelbusch, nella sua Storia dei viaggi in ferrovia, riferisce che alla metà del secolo scorso si accusava la ferrovia di aver trasformato il 40


viaggiatore in un “pacco vivente”. L’espressione è di John Ruskin che scriveva del viaggio in treno: “Poco importa se avete occhi per vedere o siete ciechi oppure dormite, se siete intelligenti o cretini, quel che nel migliore dei casi potete apprendere sul paese che state attraversando è la sua configurazione geologica e la sua superficie in generale”16. Insomma lo spazio paesaggistico col treno si trasformerebbe in spazio geografico, accusa almeno esagerata da rivolgere semmai all’aereo, dal quale, quando la fortuna vi assiste regalandovi un cielo completamente terso, potete vedere la forma dei continenti, esattamente come su una carta geografica. A proposito del treno ha ragione invece Dolf Sternberger, che scrive: “La ferrovia trasformò in panorama il nuovo mondo terrestre e marino che si apriva alla conoscenza. [...] Consentì allo sguardo del passeggero [...] di volgersi all’esterno offrendogli il ricco nutrimento di immagini sempre nuove che rappresentavano l’unica esperienza possibile durante il viaggio”17. L’unica esperienza possibile e un grande spettacolo. Uno spettacolo che si gode nel più confortevole dei modi, in una casa viaggiante, sicura. Nulla è più rassicurante del treno. Un mio amico me ne ha dato la spiegazione riferendomi una raccomandazione di sua madre: “Porta sempre con te un buon orario ferrovia41


rio, perché quando hai un buon orario ferroviario non ti può succedere nulla di male, e comunque sai sempre come tornare a casa.” Ovviamente ora basta portare con sé un qualsiasi strumento che si colleghi a internet. Ma il treno offre anche un altro tipo di spettacolo, e qui passiamo a un vero e proprio film a soggetto. Commedia? Tragedia? Farsa? Dipende solo da voi. Esaminate i vostri compagni di scompartimento, magari tenendo gli occhi appena socchiusi in modo che gli altri non capiscano che li state osservando, fate di ognuno un personaggio, cercate di indovinarne destinazione, scopo del viaggio, professione, carattere, sentimenti, passioni, interessi, la vita insomma. Poi fateli agire, indovinate o immaginate possibili relazioni e la storia verrà fuori. Il treno internazionale Hanoi-Pechino non si prestava affatto a questo tipo di spettacolo: i passeggeri del “vagone morbido” se ne stavano confinati nei loro scompartimenti riservati. Ed erano solo due. Più in là nel viaggio scoprii che si trattava degli ambasciatori vietnamiti a Berlino Est e a Stoccolma che raggiungevano le rispettive sedi attraverso il lungo viaggio transcontinentale. Ebbi l’impressione che non parlassero nemmeno fra loro. Uscendo dal mio scompartimento per osservare il paesaggio dalla parte opposta, li sorprendevo in piedi nel corridoio, gli sguardi fissi al di là del vetro, ma appena mi scorgevano con la 42


coda dell’occhio mi rivolgevano una specie di sorriso, un mezzo ghigno, rientravano rapidamente ognuno nel proprio scompartimento e la porta si chiudeva con un colpo secco. Nei “vagoni duri” immaginavo che ci fosse più vita, ma anche qui, come nel tratto vietnamita, mi erano rigorosamente preclusi, porte sbarrate, carrozze inaccessibili. E i viaggiatori dei vagoni duri non venivano al vagone ristorante che era agganciato a quello morbido. La solitudine era totale, non c’era nessuno con cui scambiare una parola. *** La sera calava lenta mentre il treno si dirigeva verso Nanning, e quella domenica di novembre era piuttosto nuvolosa, ben presto dai finestrini non si vide più nulla. Tutti gli spettacoli erano finiti. Qualcuno bussò alla porta dello scompartimento e poi la aprì con decisione. Era un cameriere, sorrideva e aveva in mano un menu rilegato in pelle marrone, un po’ consunta per il troppo lungo uso. Aveva il colore, la consistenza e il sapore di un’altra epoca, di altri treni, frequentati da altri passeggeri. C’era molta storia in quel menu. Era scritto in cinque lingue, accanto agli ideogrammi cinesi figuravano i nomi dei piatti in francese e in inglese. Con caratteri diversi, un po’ più rozzi, 43


i nomi erano ripetuti in russo e in vietnamita. Due epoche differenti della storia della Cina. Mi aspettavo anche qui di ricevere un vassoio con qualcosa di mal cucinato e mal presentato, ma evidentemente non era così. Il menu, come tutti i menu dei ristoranti cinesi, era ricchissimo: pagine e pagine di piatti divisi per tipo: pollame, maiale, manzo, pesce, verdure... Il cameriere mi guardava con un sorriso gentile e interrogativo mentre sfogliavo con calma le pagine del menu. Cercavo un piatto molto complicato, per controllare se davvero la cucina era in grado di preparare tutto quel che annunciava la lunga lista. Il treno rallentava, dovevano essere circa le sei del pomeriggio e la notte era oramai calata. Qualche luce fioca dai finestrini annunciava un centro abitato. Il cameriere sembrava sempre più nervoso, ma sorridendo mi disse qualcosa in cinese e la ripeté, al mio sguardo interrogativo, in vietnamita. Con quel poco che ne sapevo, capii due parole “mangiare” e “prego”, così mi decisi a ordinare un pesce in agrodolce alla cantonese. Il cameriere scrisse frettolosamente la mia ordinazione su un quadernetto con la copertina di plastica rossa, come quella dei libretti dei pensieri del presidente Mao, e filò via dallo scompartimento verso il vagone ristorante. 44


Stavamo entrando nella stazione di Chóng zuô. Anch’io uscii dallo scompartimento e mi avviai per il corridoio. L’orario appeso alla parete mi informava che ci saremmo fermati per dieci minuti. Potevo passeggiare un poco per sgranchire le gambe. Mentre scendevo sul marciapiede vidi arrivare un carrettino. Il cameriere era già fuori dal vagone ristorante con il suo taccuino in mano. Dal carretto incominciò a scegliere: verdure, dei pezzi di carne e poi una grossa carpa. In quel momento il treno fischiò e risalii. Non avevo fatto in tempo ad avvicinarmi per controllare le dimensioni della cucina. Un’ora più tardi la carpa in agrodolce stava davanti a me nel vagone ristorante. Era deliziosa. Finii la cena in tempo per scendere a Nanning. Qui il treno si fermava per quasi venti minuti e mi concessi una passeggiata digestiva tra gli sguardi molto curiosi dei rari passeggeri che salivano e scendevano. Anche qui un carretto stava vicino alla cucina del treno da dove venivano scaricati avanzi, ma anche carne e verdure. La cucina del treno era minuscola, come tutte le cucine di tutti i vagoni ristoranti del mondo. Il cameriere mi vide e mi sorrise.

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NANNING-PECHINO

Il treno si mosse e dal finestrino vidi le luci della stazione di Nanning sparire velocemente. Solo in quel momento mi resi perfettamente conto di essere davvero in Cina. Finalmente in Cina e su un treno. Mi sdraiai sulla cuccetta che intanto era stata preparata per la notte con lenzuola fresche. Non mi rimaneva altro da fare che leggere o dormire. Fuori nel buio, senza che la potessi vedere, c’era la Cina. Era stata necessaria una lunga trattativa per ottenere il visto di transito per via di terra. Si ripresentava il problema già avuto a Mosca nel viaggio verso Hanoi dovuto al fatto che i rapporti tra il Pci e i comunisti cinesi erano pessimi, anzi inesistenti. E, in generale, i cinesi concedevano i visti con parsimonia e grande attenzione politica, l’era del turismo non era ancora venuta, anche se si avvicinava a grandi passi. Da Pechino, come ho raccontato, ero passato due anni prima. Ma allora era intervenuta l’ambasciata vietnamita che mi aveva “preso in carico” in tutto e per tutto ed ero rimasto in pratica prigioniero per tre giorni, tra un aereo e l’altro, all’Hotel delle Nazionalità. E c’erano ragioni serie perché raggiungessi in fretta Hanoi. 46


Questa volta volevo solo soddisfare un desiderio personale, diciamo pure un capriccio agli occhi dei vietnamiti ai quali mi rivolsi perché intercedessero ancora per me presso l’ambasciata cinese. “L’aereo per Mosca è molto comodo” mi risposero. Insistetti e un giorno mi suggerirono che potevo chiedere un appuntamento all’addetto stampa dell’ambasciata cinese. “È un persona gentile, ti ascolterà.” Chiesi l’appuntamento e mi ricevette. L’ambasciata cinese ad Hanoi era alloggiata in una vecchia villa coloniale, con un grande giardino interno dove, malgrado la rivoluzione culturale e tutto quello che ne era seguito, si coltivavano fiori e non ortaggi. Ma sembrava una novità abbastanza recente, poco tempo prima, mi era stato detto, lì c’era un vero orto. Attorno al giardino, come nel chiostro di un convento, correva un porticato dove si aprivano una serie di stanzette. In una di queste mi aspettava l’addetto stampa. Forse era gentile, ma a me parve freddissimo. I convenevoli di rito furono ridotti a quasi nulla e venimmo subito allo scopo della visita. Lo spiegai. “Ci sono tanti altri modi per tornare in Italia,” mi rispose il diplomatico “perché vuole passare per la Cina?” 47


“Non ci sono tanti modi,” insistetti “e per via di terra ce n’è uno solo. Del resto io non chiedo altro che un visto di transito.” “Vuol dire che lei starà sempre in treno, senza scendere mai?” “Sa bene che è impossibile. Gli orari dei treni mi obbligano comunque a passare una notte a Pechino.” “Non sono uno specialista in orari dei treni” mi rispose secco e tacque. Per un attimo mi sentii perduto, se la conversazione fosse finita lì non avrei certo ottenuto il visto. Ma come riprendere il discorso? Poi – forse perché incominciavo ad assimilare un po’ di psicologia orientale, come cercai di congratularmi con me stesso a cose fatte, più probabilmente per disperazione e ostinazione – ripresi da capo, parola per parola il discorsetto iniziale, che mi ero preparato con cura. Lo sapevo a memoria. Il colpo era buono: la palla era di nuovo nel suo campo. L’addetto stampa mi guardò stupito, poi mi disse: “Valuteremo la sua richiesta.” E mi congedò. Dovetti aspettare un giorno intero per avere la risposta che arrivò sotto forma di un plico con i moduli e le istruzioni per la richiesta di un visto di transito. Una volta consegnati i moduli, l’attesa fu lunga, ma infine arrivò la telefonata che annunciava: “Il visto è 48


pronto.” Corsi felice all’ambasciata cinese e nella stessa stanzetta lo stesso diplomatico mi consegnò il passaporto aperto alla pagina dove, con il suo sigillo rosso e i neri caratteri a inchiostro di china, spiccava il visto della Repubblica popolare cinese. Un visto di transito per l’aeroporto di Pechino. “Ma io avevo chiesto un visto di transito per via terrestre,” protestai “lo scopo del viaggio è proprio il treno.” “Ma non trova che l’aereo sia più comodo e rapido?” “Non ho dubbi sulla rapidità, ma io vorrei andare col treno.” “Ma oramai il visto è rilasciato, per rifarlo bisogna di nuovo chiedere tutte le autorizzazioni a Pechino. Ci vuole tempo, almeno altri dieci giorni e lei ha la partenza fissata tra quattro giorni. Almeno così ha dichiarato.” “Rinvierò la partenza, se necessario. Ma eravamo d’accordo fin dall’inizio che il mio visto sarebbe stato per un viaggio in ferrovia.” A questo punto il diplomatico sbottò, al modo cinese, ma sbottò: “Ma perché si ostina a voler andare in treno?” “Perché voglio vedere il vostro bel paese” risposi calcando la voce sulle due ultime parole. Lui sorrise e due giorni dopo ebbi un nuovo visto di transito che mi permetteva di viaggiare in treno. 49


Allungato sulla cuccetta ora anch’io sorridevo nel buio, la Cina era lì fuori e io ci correvo attraverso, dondolando su un treno che di tanto in tanto faceva sentire il suo fischio. E dondolando insieme al treno mi addormentai. Una canzoncina gracchiante che ripeteva “Maogiusì” mi svegliò l’indomani mattina. Dalle fessure delle tendine filtrava una luce pallida e fredda. Ma come mai la radio era di nuovo in funzione? Qualcuno era entrato per alzare il volume? Ebbi un brivido pensando al passo felpato di un cinese che, durante la notte, era entrato nel mio scompartimento per correggere l’occidentale che aveva osato ridurre al minimo la voce ufficiale della Cina. Allungai la mano per riportare al minimo l’altoparlante, come avevo fatto la sera prima. L’altoparlante era già al minimo. E, via via che mi abituavo, la vocetta tornò a essere quasi impercettibile. Era stato solo l’inizio delle trasmissioni che, rompendo il silenzio notturno, mi aveva svegliato. Guardai il mio orologio, le sei meno un quarto. Cercai di riaddormentarmi, ma non ci riuscivo, così mi preparai un tè, l’acqua del thermos era ancora ben calda, e andai a lavarmi. Mentre ero chiuso nello stanzino della toilette il treno si fermò. Se eravamo in orario doveva essere la stazione di Quanzhou. Avevo perso un’occasione per scendere ancora qualche minuto su terra cinese. 50


Poi rimasi a guardare il panorama che scorreva, in piedi nel corridoio. Ora il paesaggio era cambiato, all’infinito si vedevano solo collinette tondeggianti di terra giallo-grigia sotto un cielo basso e coperto, il sole stava sorgendo da qualche parte alle mie spalle e le ombre erano lunghe e pallide. Il paesaggio era deserto, non apparivano né esseri umani, né strade, né case. Dovevo aspettare a lungo per il passaggio dello Yangzi, il grande fiume. “Uno spettacolo da non perdere” mi avevano detto. Secondo l’orario ci saremo passati dopo le otto di sera. C’era ancora tempo. Per ora il treno correva tra quei mammelloni gialli. Secondo la carta e l’orario eravamo nello Hunan, una provincia importante. Qui era nato il presidente Mao e da qui aveva portato la passione per il peperoncino e un accento incomprensibile per la stragrande maggioranza dei cinesi. Almeno così dice la vulgata della Cina contemporanea. Una fabbrica di auto venne a interrompere la monotonia del paesaggio. Nel vasto cortile davanti alla fabbrica erano allineate le jeep verde ramarro che conoscevo bene dal Vietnam e che gli autisti vietnamiti non amavano: “Troppo leggere” dicevano, preferivano le massicce GAZ sovietiche. Il vagone ristorante doveva essere aperto a quest’ora e mi avviai, sorprendendo uno degli ambascia51


tori vietnamiti che usciva dal suo scompartimento. Si ritirò immediatamente. Quel che c’è di bello nei viaggi in treno è la possibilità di leggere. Io però avevo fatto una scelta sbagliata. Avrei voluto avere con me libri sulla Cina, magari soltanto una guida (peraltro impossibile da trovare ad Hanoi). Invece avevo preso solo alcuni numeri di “Espériences Vietnamiennes”, una rivista che conteneva dei saggi da consultare per un lungo articolo che avrei dovuto consegnare al mio arrivo in Italia. Una scelta infelice: mi dovevo rassegnare a letture e appunti che in quel momento mi interessavano poco. Verso mezzogiorno e mezzo arrivammo a Zhuzhou, dove il treno si immetteva nella linea Canton-Pechino, e subito dopo fummo a Changsha. Una stazione notevole, molto ben tenuta e moderna, con appesi quattro giganteschi ritratti: Marx, Engels, Lenin e Mao, e dappertutto striscioni rossi a caratteri dorati. Alcuni in inglese: “Lunga vita al presidente Mao” dicevano, “Studiamo il Mao Zedong pensiero”; “Proletari di tutto il mondo unitevi” e così via. Mi sorpresi per quelle scritte in inglese, ma la spiegazione era semplice: a Changsha, per chi proveniva dalla capitale, si cambiava per la linea di Kunming e una delle prime stazioni di questa linea era Shaoshan, il villaggio dove era nato Mao. Meta obbligata allora di molte delegazioni internazio52


nali e di circa tre milioni di cinesi l’anno. Diciannove anni dopo, percorrendo la stessa linea, Tiziano Terzani descrive così la stazione di Changsha: “1 agosto 1993 In treno da Nanning a Xian (Cina). Ore dieci del mattino, il treno si ferma a Changsha, il luogo dove è nato Mao. Penso al passato eroicizzante. E ora? Una stazione moderna, piena di gente sudata, carica di pacchi, valigie, sporca, mal messa. Strana la libertà. Ora che i cinesi si muovono senza le unità di lavoro, ora che hanno più soldi, i problemi crescono, con la immensa massa che si muove”18. Nella mia mattina di novembre pochissime persone, per lo più ferrovieri, si muovevano in quella stazione semideserta. La giornata scorreva con lentezza tra le immagini sempre diverse che venivano dal finestrino, le letture poco gradite, le visite al ristorante molto gradite. Il traffico di cibi freschi e di rifiuti era continuato a tutte le stazioni che precedevano e seguivano i pasti del vagone ristorante. Il cameriere si presentava puntuale con il suo menu enciclopedico due ore prima di ogni pasto. Tutto filava nel più rassicurante dei modi alla gradevole velocità del treno. Stavo cenando quando attraversammo lo Yangzi jiang. Ma lo spettacolo promesso non ci fu. Ci furono soltanto lunghi minuti a velocità ridotta sul ponte di ferro: le lampade che l’illuminavano impedivano di vedere alcunché. Usciti dal ponte, nel buio si scorgevano 53


in lontananza le tante luci fioche di una grande città , Wuhan. L’indomani il paesaggio era cambiato completamente, dopo le montagne a pan di zucchero della zona di confine, dopo i mammelloni gialli e polverosi, dopo le risaie, ora il treno correva in una zona densamente popolata, villaggi, case con cortili e orticelli che guardavano la ferrovia, campi con i contadini al lavoro, strade affollate di carretti, biciclette, pedoni, camion e rarissime automobili. Ci stavamo avvicinando a Pechino.

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PECHINO

I treni cinesi sono puntuali. Questo lo avevo constatato per tutta la durata del viaggio, ma l’unica puntualità che conta è quella finale, quella dell’arrivo. Verso l’una e venti si cominciarono a vedere i segni della grande città. Non più campi coltivati ma distese di costruzioni grigie di cemento, con le ringhiere esterne, molto simili, se non identiche, a quelle dei nuovi quartieri di Hanoi. Tristi, desolati. Qualche orticello nei cortili. Le strade, qualche passante, negozi di generi alimentari, riconoscibili per enormi e ordinate piramidi verdi di grossi cavoli accumulati sui marciapiedi. E alle 13,42 in punto il treno si fermò alla stazione di Pechino. Gli ambasciatori scesero mentre tiravo giù i bagagli, riuscii a scorgere la sagoma di uno dei due che si precipitava dal predellino. Mi affacciai al finestrino e li vidi sparire in mezzo alla folla degli studenti che sciamavano verso l’uscita. Scesi anch’io. Il marciapiede si era svuotato quasi completamente. “Un addetto del China Travel Service si occuperà di lei all’arrivo del treno.” Così mi avevano assicurato al55


l’ambasciata cinese di Hanoi. All’arrivo del treno che cosa significa? Quando? Dove? Sul marciapiede erano rimasti solo alcuni militari, dei ferrovieri e un solo portabagagli. Mi bastò guardarlo e si avvicinò, prese le valigie senza dire una parola e si avviò lentamente, voltandosi indietro per vedere se lo seguivo. Sapeva dove andare. Passando per una grande porta dai vetri opachi entrammo in un salone circondato di piante e delimitato da una transenna. Al di là della transenna c’era la folla verde e azzurra. La parte cinese della stazione. Questa invece era senza dubbio la parte riservata agli stranieri. C’erano delle panche e in mezzo alla sala un tavolo verde, seduto al tavolo un impiegato di mezza età, sul tavolo un cartello bilingue, cinese e inglese: “China Travel Service.” L’impiegato mi chiese il passaporto e i biglietti. Poi consultò dei fogli, mi guardò, guardò ancora il passaporto, guardò di nuovo i fogli. Poi, in inglese disse: “Lei non doveva arrivare.” “Come?” “Lei non doveva arrivare, non è nell’elenco.” “Ma è tutto in regola, i biglietti, il passaporto. Parto domani per Mosca.” Mi guardò interrogativo e scuro in volto, poi prese il telefono che stava sul tavolo, compose un numero, e 56


soltanto dopo un lunghissimo minuto qualcuno rispose. Discuteva animatamente, sempre scuro in volto. Poi improvvisamente sorrise e agganciò la cornetta. “La comunicazione da Hanoi è arrivata solo in questo momento. C’è stata un’interruzione del telegrafo.” “Bugiardo” pensai, ma non dissi nulla. “Forse il treno per Mosca è completo. Deve passare questo pomeriggio, prima delle cinque, al nostro ufficio centrale.” Disse qualcosa al portabagagli, poi si rivolse nuovamente a me: “Prego, hotel, benvenuto in Cina.” “Grazie, arrivederci.” Il portabagagli se ne era già andato, per raggiungerlo feci una breve corsa. Un taxi mi portò all’Hotel Xin Qiao. Era considerato il primo albergo di Pechino, non erano ancora stati nemmeno progettati i mastodontici hotel delle catene internazionali, e il Peking Hotel era ancora in costruzione. Questo edificio liberty, con la sua grande scala di legno, aveva tutto il fascino della vecchia Cina. La Cina degli europei, la Cina delle Concessioni, un Paese che era sparito più di un ventennio prima. La stanza era immensa e il bagno forse ancora più grande, ci sarebbe entrata una piscina invece della vecchia vasca di ghisa smaltata, dritta sulle sue zampe di leone. 57


Ma fuori mi aspettava Pechino; avevo poche ore per vedere qualcosa e soprattutto mi attendeva il China Travel Service e la conferma del mio biglietto. La sede centrale del China Travel Service era in una palazzina dipinta in giallo ocra, in un altro quartiere che risaliva a tempi andati. Circondata da un giardinetto aveva il portoncino chiuso. Mi fermai a guardarlo. Il tassista, sporgendosi dal finestrino, mi faceva cenni di incoraggiamento. Spinsi ed entrai. Nell’ingresso non c’era nessuno, almeno in quel momento. Una scala con la ringhiera di ferro saliva a sinistra e di fronte un lungo corridoio, mal illuminato da una lampadina fioca, finiva con un altro portoncino chiuso, apparentemente identico a quello da cui ero entrato. Salii per la scala. Dopo la prima rampa sentii un debole brusio e alla fine della seconda rampa una porta a vetri immetteva in un grande salone. Dietro un bancone scuro in legno massiccio c’erano gli impiegati. Regnava una grande calma, non si sentiva volare una mosca. Un’atmosfera molto diversa da quella descritta da Mary Morris dodici anni dopo. “La stanza, calda e soffocante era piena di persone, la maggioranza delle quali urlava. Europei in jeans con zaini lerci, europei dell’est in abiti scuri in poliestere e cravatta, inglesi che si tenevano in disparte, gente dell’Asia centrale con i loro caffettani e zucchetti, tutti lot58


tavano per guadagnare posizioni, urlando, agitando dei voucher, cercando di attirare l’attenzione di uno dei tanti burocrati cinesi che rispondevano urlando anche loro, afferravano i voucher, sparivano, tornavano indietro, sparivano di nuovo, stavano seduti alla scrivania a consumare il loro pasto, andavano e venivano continuando a ripetere “mali, mali”. “Non sappiamo, non sappiamo”19. Nella sala silenziosa dove mi trovavo, sulle scrivanie davanti a ognuno degli impiegati c’era un cartello. Mi rivolsi a quello seduto dietro la scritta: RAILWAYS. Lui prese il mio carnet di biglietti e incominciò a sfogliarlo con attenzione. Era un documento complicato, con tanti tagliandi per le varie tappe, quelli per i pasti in vagone ristorante, e molte pagine di spiegazioni e regole in cinque lingue. L’impiegato guardava il biglietto, guardava me e poi riguardava il biglietto, infine disse qualcosa che poteva essere “Un momento” in una lingua che poteva essere inglese o francese, e sparì dietro una porticina che fino ad allora non avevo notato. Mi misi a passeggiare per lo stanzone. Sentivo sulle spalle gli sguardi curiosi degli altri impiegati. Ma se mi voltavo verso il bancone, vedevo solo teste chine, tutti sembravano concentrati a scrivere qualcosa. Mi avvicinai alle finestre e vidi che il mio taxi mi aspettava ancora. L’autista appoggiato alla portiera fumava. C’era 59


un portacenere su un tavolino, così anch’io accesi una sigaretta. Quando la finii il mio impiegato non era ancora tornato. Incominciavo a sentire l’ansia avvolgersi sempre più stretta attorno al mio stomaco. Gli altri impiegati si erano stancati di far finta di lavorare e mi fissavano tutti da dietro il bancone. Di tanto in tanto, parlottavano tra di loro. Dopo circa un quarto d’ora il mio uomo ricomparve, mi avvicinai a lui che senza batter ciglio mi chiese: “Passaporto.” Glielo diedi, lo sfogliò, due o tre volte, si fermò sul visto di transito per via aerea che era stato annullato, poi su quello per via di terra. Prese i due foglietti che ospitavano il visto mongolo e quello sovietico e me li tese tenendoli con due dita. Un po’ schifato. E sparì di nuovo. Questa assenza durò ancora più della prima. Due sigarette. Finalmente tornò con la faccia scura. “Il treno di domani è completo.” Parlava inglese. “Come completo? Io ho prenotato da Hanoi... e il mio visto scade. Non posso fermarmi a Pechino più di una notte.” Poi, quasi speranzoso, aggiunsi: “A meno che voi non prolunghiate il visto.” Mi guardò quasi spaventato: “Noi non ci occupiamo di visti, solo di biglietti.” 60


“E allora debbo partire.” Mi guardò sempre più perplesso, sparì e tornò quasi subito con un altro impiegato, più anziano. Doveva essere il capo. Sorridente mi disse: “Sul treno di domani c’è posto solo nella classe speciale.” “Ma il mio biglietto è per la classe speciale.” Smise di sorridere, prese il biglietto, lo guardò, lo rigirò, lo esaminò. Si illuminò e sorrise ancora. “È per la classe speciale! Ma questo è stato scritto nel posto sbagliato.” Poi si rivolse al primo impiegato parlando velocissimo e secco. Quello annuiva con aria umile. Il capo si rivolse di nuovo a me: “L’errore è di chi ha scritto il biglietto. Non di questo compagno. Capito?” “Capito” dissi, sollevato. L’impiegato scarabocchiò degli ideogrammi e dei numeri sulla copertina del biglietto e me lo restituì: “Il treno parte domani alle 7,40. Lei deve arrivare alla stazione mezz’ora prima. Buonasera e benvenuto a Pechino.” “Buonasera” risposi e me ne andai, ancora tutto teso. Avevo temuto molto. Debbo dire che rispetto alle disavventure di Mary Morris dodici anni dopo sono stato fortunato. In tutto quel periodo di tempo le compe61


tenze professionali e linguistiche del personale del China Travel Service non sembra siano migliorate, anzi. E la povera viaggiatrice dovrà tornare più volte negli uffici trovando sempre impiegati che parlano solo cinese e che non capiscono cosa voglia questa americana. Riuscirà ad avere il suo biglietto solo grazie all’intervento fortuito di un giovane cinese che desidera impratichirsi nell’inglese e le fa da interprete.20 *** Avevo ancora qualche ora di luce, una luce chiara e invernale. A novembre a Pechino fa già molto freddo e io, due giorni prima, avevo lasciato Hanoi sotto una pioggerellina quasi tiepida che odorava leggermente di muffa, di stantìo e con una temperatura che sfiorava i 30 gradi. Avevo voglia di vedere qualcosa della città. Il desiderio era rimasto dalla prima visita, quando avevo passato le mie ore di Pechino soprattutto leggendo e scrivendo chiuso in una stanza d’albergo. Non riuscivo nemmeno a dormire molto in quei giorni. Mi ero concesso delle piccole evasioni, in una delle quali avevo meticolosamente percorso tutto il perimetro della piazza Tian’anmen. Questo è il solo modo, del resto, di misurare quanto sia grande la piazza. Altrimenti si percepisce solo che è grande, immensa, vastissima, tutto 62


quel che si vuole, ma non più né meno di tante altre grandi piazze del mondo. Avevo anche faticosamente convinto a gesti un tassista a farmi fare un giro della città. Ma i miei gesti per “giro di Pechino” erano stati interpretati alla lettera perché per un’ora non vidi altro che palazzoni di periferia e scorci di campagna. Questa volta, non volendo ripetere un’esperienza frustrante, convinsi il portiere dell’albergo a spiegare al tassista le mie mete: la Città proibita e il Tempio del Cielo. La città proibita era effettivamente proibita, non ci si poteva entrare, credo solo perché ormai l’orario di visita era finito. Rimaneva il Tempio del Cielo. I due edifici che lo compongono si fronteggiavano nella luce limpida di quel tardo pomeriggio, non c’era il sole, ma i tetti brillavano di turchino e di verde, quasi di luce propria, come si dice per le stelle. *** Fred era americano e viveva in Cina da quasi vent’anni. Non era un sinologo, ma solo un comunista. Il Pc degli Usa lo aveva mandato a Pechino negli anni ’50, per “aiutare la nuova Cina”. Ma in tempi di maccartismo andare in Cina significava per un ameri63


cano fuggire, espatriare clandestinamente e Fred aveva perso il passaporto americano. Da allora era stato praticamente prigioniero a Pechino, dove aveva sposato una sinologa, italiana, ma proprietaria di un curioso nome anglosassone: Christabel, e ne aveva avuto due figli. Li avevo conosciuti ad Hanoi dove erano venuti come turisti, avevamo fatto amicizia e mi avevano invitato ad andare da loro a Pechino. Per poterli trovare nel compound dove abitavano avevo dovuto annotare sull’agendina il loro numero telefonico interno 5370, trascrivendo il cinese con gli accenti tonici: wu sàn chi ling. Tutte le telefonate per gli ospiti del compound passavano obbligatoriamente attraverso il centralino. Lavoravano entrambi alle Edizioni in lingue estere. Fred era un revisore, cioè ricontrollava le traduzioni fatte dai cinesi per renderle più simile possibile all’inglese parlato nel mondo anglosassone. Un lavoro difficile perché i cinesi non sempre accettavano le sue correzioni. Spesso questioni grammaticali e sintattiche diventavano problemi politici e ideologici. Ma Christabel aveva un compito ancora più difficile: le era stata affidata la traduzione italiana delle opere complete del presidente Mao. Qualche mese prima, quando li avevo conosciuti ad Hanoi, aveva raccontato, facendomi ridere fino alle lacrime, quanto fosse difficile convincere i suoi interlocutori cinesi che la parola composta marxismo64


leninismo-mao-tse-tung-pensiero non fosse un’espressione accettabile in italiano (e probabilmente in qualsiasi altra lingua, a parte, forse, il cinese). Chiamai il compound e alla voce della centralinista provai a recitare il numero 5, 3, 7, 0, in inglese. La centralinista riattaccò. Riprovai e recitai i numeri cinese “wu, sàn, chi, ling” sperando di non sbagliare la pronuncia, sentii un grugnito dall’altra parte, rumori di contatti, poi lo squillo e finalmente la voce di Fred. Era solo a Pechino. Christabel era partita per l’Italia e sarebbe tornata tra pochi giorni, non aveva ricevuto il mio telegramma, che arrivò soltanto l’indomani, ma comunque quella sera avremmo cenato assieme in un ristorante. Il ristorante si chiamava “Dei tre tavoli” ed era specializzato in cucina cantonese. Era uno dei locali più antichi e famosi di Pechino. Un locale grande e oscuro, illuminato da poche lampadine. Eravamo i soli clienti attorno a un enorme tavolo rotondo sul quale troneggiava il piatto principale: un gigantesco e squisito pesce in agrodolce. Quella sera imparai molte cose sulla “grande rivoluzione culturale proletaria”. Imparai che era stata un’esperienza tragica e terribile per la maggior parte dei cinesi, un periodo di insicurezza, di paura, distruzione e morte. Tutte cose che sarebbero state svelate qualche anno più tardi, dopo la sconfitta definitiva della “banda dei quattro”, dopo la 65


morte di Mao e l’eliminazione dal potere di Hua Guofeng. Ma allora nemmeno i più severi critici del comunismo cinese potevano immaginare quali tragedie attraversassero la Cina. La maggioranza della sinistra in Occidente credeva ancora, anche quando non ne condivideva gli estremismi, alla rivoluzione culturale come grande movimento libertario, spontaneo e “dal basso”. Nelle parole di Fred scoprivo una realtà tutta diversa. Il mito veniva smantellato un pezzo alla volta come il pesce in agrodolce che ci stava davanti. Fred parlava a bassa voce, circospetto, non generalizzava, non traeva conclusioni politiche definitive. Ricordava solo episodi e aneddoti che non facevano ridere neanche quando erano grotteschi. Raccontava con concretezza pacata e terribile cosa aveva significato per lui, per la sua vita e la sua famiglia la “Grande rivoluzione culturale proletaria”. Erano problemi molto piccoli, diceva, rispetto a quelli che avevano dovuto affrontare i cinesi. Nessuno aveva mai pensato seriamente di poter mandare Fred o sua moglie a dissodare i campi o a raccogliere concime nei villaggi. Ma l’insicurezza era grande. C’era un clima di paura, nulla era certo, nei posti di lavoro gli interlocutori cambiavano continuamente e in peggio. Letterati sensibili e studiosi attenti sparivano da un giorno all’altro e venivano sostituiti da ideologi rozzi, 66


ignoranti. Nel 1974 nessuno era ancora tornato, e molti non sarebbero tornati mai. Ma tutto sommato, secondo Fred, i peggiori non erano i cinesi ma altri stranieri che sposavano stupidamente gli slogan delle guardie rosse. Persone temibili a causa del loro settarismo, che li rendeva ottusi e capaci di denunce e di bassezze allo scopo di apparire “puri rivoluzionari”, veri maoisti agli occhi dei dirigenti cinesi. Per una discussione su un aggettivo, si rischiavano accuse pesanti e anche molto rischiose: nemico del popolo, elemento controrivoluzionario, spia. Fred, americano senza passaporto, considerato in patria un comunista pericoloso, non aveva un retroterra, una via di fuga, come gli altri stranieri, era praticamente impossibile espellerlo dalla Cina, e allora quale poteva essere la punizione per lui? Fred era rimasto non per questa impossibilità di fuga, ma perché amava la Cina profondamente e perché nel momento più difficile era intervenuto il primo ministro Zhou Enlai, con tutta la sua autorità, per proteggere il lavoro degli “esperti stranieri amici del popolo cinese”. I camerieri si affacciavano di tanto in tanto alla porta e Fred abbassava la voce. Il nostro pesce non c’era più, nel grande piatto bianco e azzurro rimaneva una lunga lisca desolata. L’atteggiamento sempre più 67


impaziente dei camerieri non lasciava dubbi: era arrivata l’ora di chiusura e bisognava andare via. La città ormai era deserta, immensa e vuota e cosÏ erano i corridoi del Xin Qiao. Ora mi sembravano troppo grandi e sinistri. I racconti di Fred mi tennero sveglio a lungo con un senso di insicurezza e di ansia, molto simile alla paura. Ero quasi contento, tutto sommato, di dover partire il mattino dopo. Mi consolava sapere che poche ore dopo sarei salito sul treno internazionale per Mosca.

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PECHINO-ERLIAN

C’era molta animazione al primo marciapiede della stazione di Pechino, l’indomani mattina verso le sette. Mi ero svegliato presto, dopo aver dormito male, ed ero uscito dall’albergo con grande anticipo sull’orario. Eppure, mentre il taxi avanzava lentamente tra la folla che a quell’ora del mattino aveva invaso le stesse strade deserte la sera prima, sentivo una contrazione allo stomaco, troppo forte per essere spiegata con la paura, peraltro del tutto ingiustificata, di perdere il treno. Mi sentivo assediato, chiuso in quella scatola di latta giapponese, incapace di comunicare con l’autista impassibile che mi portava verso la sicurezza del treno. Le biciclette occupavano ogni spazio, facendo valere la loro legge e la loro velocità sull’automobile che rombava e sbuffava, imprigionata e impotente nel traffico. A Pechino sarei ritornato solo nel 1996 per costatare che, pur non essendoci più biciclette ma solo automobili, tante automobili, troppe automobili, la velocità di spostamento non era aumentata, e per di più l’aria era diventata irrespirabile. Ma poi, dopo una porta e un tratto di mura antiche ancora conservato, sfuggito alla febbre edilizia di Pe69


chino, finalmente era comparsa la stazione e, facendomi strada tra la folla compatta, avevo raggiunto il binario numero uno, isolato dalla moltitudine dei cinesi che prendevano altri treni, treni dai sedili duri, per altre destinazioni. Il treno internazionale era imponente ed estraneo a quella stazione e in mezzo al convoglio verde spiccava il vagone blu della classe speciale, leggermente più largo e leggermente più alto, quel tanto che bastava a stabilire la sua superiorità. Un vagone pieno di boria e di dorature. La grande locomotiva a vapore faceva sentire le sue pulsazioni profonde e metalliche, il respiro di un gigante d’acciaio. Mostrai il mio biglietto al conduttore, immobile sul marciapiede affollato, davanti al vagone internazionale. Mi disse di aspettare. Dall’unico sportello aperto i portabagagli stavano caricando un numero incredibile di valigie di cuoio, tutte uguali. Dalla gente sul marciapiede veniva un vociare in una lingua europea, in francese. Più lontano, gli studenti vietnamiti salivano allegramente sui vagoni di seconda classe e insieme a loro saliva un gruppo di europei di cui non riuscivo a capire la nazionalità, ma sicuramente dell’est. Uno di loro, vestito con maggior cura, si assicurò che fossero saliti tutti e poi si diresse verso il vagone blu. Aspettavo ai piedi del predellino che fossero caricate le grosse valigie di cuoio, tutte uguali, tutte chiuse 70


con lucchetti e catenelle. Notai due cinesi vestiti con la solita tunica blu, ma molto ben tagliata, elegante, che sorvegliavano attentamente le operazioni di carico. Finalmente finirono di caricare quei bagagli e potei salire. I due cinesi occupavano lo scompartimento adiacente al mio e ora tentavano di sistemare tutte le valigie che lasciavano loro poco spazio. Passando davanti alla loro porta feci un sorriso e un gesto di saluto, ma non mi risposero. Anzi uno dei due chiuse la porta quasi sbattendola, l’altro, notai, aveva una valigetta incatenata al braccio. Corrieri diplomatici, era chiaro, la “valigia” da Pechino a Mosca. Mi venne il sospetto che avessero dovuto cedermi all’ultimo momento uno dei due scompartimenti a loro riservati e per questo fossero irritati con me. Dei due ambasciatori vietnamiti invece nessuna traccia. Anche i francesi erano saliti. Una giovane coppia, che occupava l’altro scompartimento adiacente al mio e un signore anziano e asciutto, molto dignitoso. Erano le 7,40 quando il treno, in perfetto orario, si mosse e si diresse decisamente a nord. Mi chiusi nello scompartimento per salutare Pechino. Ma l’uscita fu altrettanto deludente dell’entrata. La campagna di novembre è fredda e spoglia anche in Cina. 71


*** Per combattere la mia delusione mi misi a esaminare lo scompartimento: per molti giorni questa sarebbe stata la mia casa. Due larghe cuccette e una poltrona ampia, cuccette e poltrona ricoperte di velluto verde; un tavolino, con i fiori di plastica e il centrino ricamato, il thermos, tazze e teiera: lo scompartimento di vagone letto più ampio che avessi mai visto. Bene, il viaggio me lo sarei goduto. C’era un piccolo armadio, ma non il lavabo. Aprii l’armadio e mi accorsi che si trattava invece di una porta che immetteva in un bagno vero e proprio: lavabo, doccia, c’era proprio tutto. Un complicato sistema di tubi e catenacci faceva sì che appena si apriva la porta dalla mia parte venisse bloccata quella opposta. Il bagno infatti serviva due scompartimenti adiacenti. A me toccava dividerlo con i due corrieri diplomatici ai quali, secondo le mie deduzioni, avevo sottratto lo scompartimento. Rientrai e, mentre chiudevo, sentii il catenaccio liberare l’altra porta e poi discendere fragorosamente sulla mia. Il controllo delle abluzioni era reciprocamente assicurato. Sperai solo che i miei vicini non avessero abitudini notturne. Qualcuno bussò garbatamente, era uno degli inservienti del treno con un thermos d’acqua bollente. Alto e massiccio come il suo collega, ma con due occhi 72


furbi e un sorriso quasi strafottente, mentre l’altro era sempre cupo, l’espressione severa. Le loro divise blu erano ben tagliate, eleganti, come quelle dei dirigenti. Forse non dovevano sfigurare all’estero. Forse erano effettivamente qualcosa di più che semplici inservienti del vagone internazionale. Poter andare regolarmente all’estero non era cosa da poco nella Cina di quegli anni. I loro compiti, almeno apparentemente, erano rifare i letti e cambiare l’acqua dei thermos, cose che eseguivano con grande leggerezza e senza impegnarsi troppo. Durante tutto il viaggio non riuscii a capire dove dormissero, forse in uno scompartimento vuoto del vagone speciale, forse in un altro vagone, di quelli irraggiungibili per noi passeggeri “speciali” strettamente confinati nel nostro guscio dorato. Di giorno stavano in uno stanzino all’estremità del vagone dove, in una stufa a carbone, bolliva sempre l’acqua per i thermos. Di notte, in qualsiasi momento, se si usciva nel corridoio, uno di loro spuntava da una delle estremità del vagone, guardava e poi spariva di nuovo. Comunque giorno e notte almeno uno di loro due era sempre presente, vigile. Il treno ora saliva tra colline boscose. Uscii nel corridoio, dove tutti i passeggeri che avevo visto a Pechino guardavano dai finestrini fissando qualcosa in lontananza. 73


“Non vedi?” diceva il giovane francese con i baffi alla compagna. “Non vedo nulla” rispondeva lei. Ero curioso: “Chiedo scusa,” chiesi al giovanotto, “che cosa si dovrebbe vedere?” “Come? Ah, si vede la Grande Muraglia” mi rispose secco lui, con aria vagamente sprezzante, come se volesse dire: “Guarda che tipo, prende il treno a Pechino e non sa nemmeno che si vede la Grande Muraglia.” In quel momento la donna strillò: “Eccola, laggiù, la vedo.” Soddisfatti, i due francesi rientrarono nel loro scompartimento. Io non riuscivo ancora a vedere nulla e continuavo a fissare le colline, ma doveva essere evidente che guardavo nel vuoto. “Non credo che si possa vedere nulla da qui, se non con l’immaginazione. Non si preoccupi, avrà tutto il tempo di vederla veramente, la Grande Muraglia, e anche di salirci su, tra non molto.” Era stato il francese alto e asciutto a parlare. Mentre diceva “veramente” aveva ammiccato con leggera ironia verso la porta dello scompartimento dove erano i suoi connazionali. “Non mi pare di averla incontrata a Pechino” continuò e si presentò. 74


“A Pechino sono stato solo poche ore, sono arrivato ieri da Hanoi.” “Da Hanoi? Il Vietnam è la parte dell’Asia che conosco meno. Ma Hanoi una volta era una bella città. E che cosa faceva lei ad Hanoi?” Glielo dissi e mi presentai a mia volta. “Interessante” disse lui e cominciammo a parlare di guerra e di politica. Il treno si fermò mentre discutevamo con passione delle sorti dell’Asia e del mondo. “Ecco la Grande Muraglia, scendiamo, avremo tempo per chiacchierare fino a Ulan Bator.” “Ulan Bator?” “Sì, io scendo lì. Ma non è un posto divertente, sa?” Il treno si era fermato in mezzo alla campagna, tra le colline e di fronte a noi si stendeva il gigantesco baluardo merlato. La stazioncina isolata sembrava schiacciata dal monumento. Si poteva salire su una delle torri da dove si vedeva il grande serpente di pietra arrampicarsi e scendere per riarrampicarsi sulle colline, all’infinito, verso est e verso ovest. Sono seimila chilometri di muro, non sempre così alto, non sempre così ben costruito. Ma sapere questo non cambiava in nulla l’impressione di solennità e di forza che veniva da quelle pietre. La Grande Muraglia non è stata costruita nel giro di una dinastia o di un regno. Nel terzo secolo avanti Cristo l’imperatore Shi75


huangdi aveva ordinato di unire tra loro fortificazioni che già esistevano per proteggere le pianure fertili della Cina dalle incursioni dei nomadi, dei “barbari” delle steppe. Shihuangdi è il primo imperatore, quello che ha unificato la Cina. Ma è anche “l’imperatore pazzo” che, dice la leggenda, avrebbe bruciato tutti i libri precedenti la sua ascesa al potere e massacrato tutti gli intellettuali perché non rimanesse traccia nella storia di quanto era accaduto prima di lui. Era comunque un grande imperatore, qualcuno lo ha paragonato, esagerando in molti sensi, a Mao Zedong. Solo nel XV secolo la Muraglia ha assunto l’aspetto che conosciamo oggi. Un lavoro di quasi duemila anni apparentemente inutile: per tutti quei secoli i “barbari” hanno continuato ad invadere la Cina, a conquistarla, a dominarla fondando nuove dinastie imperiali. Però gli imperatori “barbari” nel giro di una o due generazioni diventavano cinesi e continuavano a costruire o a perfezionare la Grande Muraglia. E se la Muraglia veniva mantenuta e rafforzata era perché segnava un limite simbolico dell’Impero di Mezzo, la frontiera tra civiltà e barbarie. La divisione era netta, di qua la Cina, di là la Mongolia e, dopo la Mongolia, il resto del mondo. Ma in quella mattina nebbiosa, che non permetteva allo sguardo di spingersi lontano, il paesaggio non cambiava dalle due parti. Nelle mie fantasie infantili 76


di osservatore di carte geografiche si era formata la convinzione che ai confini si dovessero notare nettamente le differenze tra i due paesi. Che cambiassero i colori. Ovviamente avevo imparato presto che non era così ma qui, ammirando questa frontiera così netta e corposa, mi ritornò alla mente quella fantasia ed ero quasi deluso del fatto che non ci fossero almeno differenze di paesaggio immediatamente visibili tra le due parti della muraglia. Non riuscivo a staccare lo sguardo da quella immensa costruzione di pietre, cercavo di seguirla più lontano possibile, prendendo le torri come punto di riferimento, puntini via via più lontani. Il treno fischiò. Mi riscossi e vidi che gli altri passeggeri erano scesi dalla torre e stavano già prendendo posto sul treno. Mi precipitai giù e arrivai trafelato. L’anziano signore francese era l’ultimo, proprio davanti a me. Si girò: “Non si affanni, non l’avrebbero certo lasciata qui, non si può sperare che i cinesi facciano un errore del genere.” Gli dissi che i cinesi con me di errori ne avevano fatto almeno un paio in questo viaggio. E gli raccontai quali. “Non sono errori, sono scelte. Tanto per far capire che questo era un viaggio poco gradito. Comunque ce l’ha fatta, complimenti.” 77


I due giovani francesi erano in piedi nel corridoio. Guardavano la Grande Muraglia sfilare a fianco del treno che si muoveva sempre più rapidamente. “Ora si vede proprio bene” disse lei rivolta all’anziano francese. “Già,” rispose lui “proprio così.” Poi sorrise e si rivolse a me: “Permette che le presenti...” disse un nome, che ho dimenticato, e una qualifica: terzo segretario dell’ambasciata di Francia a Pechino e signora. Poi si scusò e si ritirò nel suo scompartimento. “Ma lei sa chi è, lo conosceva già?” mi chiese il terzo segretario. Da quando mi aveva visto parlare quasi con familiarità con il suo connazionale, mi guardava con un’aria tra rispettosa e invidiosa. “Ci siamo presentati mezz’ora fa, più o meno.” “Ah, ma sa chi è?” “No, non me lo ha detto.” Mi sembrò quasi sollevato e gonfiandosi un po’, come se quello che stava per rivelarmi gli conferisse una definitiva superiorità su di me, disse con aria di importanza: “È un grande professore della Scuola di lingue orientali di Parigi, ora in missione a Ulan Bator.” “È l’unica cosa che mi ha detto: che sarebbe sceso a Ulan Bator. Ma non mi ha spiegato che cosa ci andrà a fare.” 78


“Ma è uno dei maggiori conoscitori della Cina e dell’Estremo Oriente, lo sa?” No, non lo sapevo, ma ero felice di apprenderlo. Il terzo segretario alzò le spalle e, rientrando nel suo scompartimento, commentò con aria scontenta: “Ed è una delle persone meno socievoli che io conosca...” Chissà che cosa voleva dire, a me “il grande professore” era sembrato molto simpatico. Che non fossimo più in Cina, ma in un altro Paese ora potevo constatarlo, non solo perché la Grande Muraglia, sparendo e ricomparendo a seconda del movimento delle colline e delle montagne, continuava a ricordarmi che avevo superato un limite, ma soprattutto perché il paesaggio era veramente cambiato, si era fatto quasi desertico. Eravamo ancora nella Repubblica popolare cinese, ma fuori c’era già la Mongolia. Mongolia interna, è scritto sulle carte geografiche, interna alla Cina. Terra di nomadi e terra di frontiera. Da qui si arrivava in Europa, come c’erano arrivati nel corso dei secoli Unni, Avari e Gengis Khan. Genti che avevano conquistato il mondo partendo da queste terre. C’erano ancora migliaia di chilometri da percorrere, ma non c’era più nessun serio ostacolo naturale da superare fino all’Europa. Il treno intanto aveva compiuto una grande curva, non costeggiava più la Grande Muraglia ma si dirigeva 79


senza esitazioni verso nord correndo parallelo a una strada, deserta, come le colline che avevamo lasciato. C’era l’immensità attorno a noi, un’immensità di cespugli magri e radi, di verde scuro e di terra grigia. La steppa. La monotonia del paesaggio veniva interrotta di rado: qualche pastore con qualche pecora, un cammello, una batteria contraerea dell’esercito popolare. Il terzo segretario si eccitò particolarmente alla vista della batteria contraerea. Rientrò nel suo scompartimento e ne uscì subito con una macchina fotografica. Ma in quel momento esatto, in fondo al corridoio, apparve uno dei due inservienti, quello che sorrideva sempre, che si mise a guardarlo con aria sorniona. “Le ho fatto vedere la mia nuova Nikon?” disse il diplomatico rivolgendosi a me e porgendomi la sua macchina. “È l’ultimo modello.” Esitai un po’. Allora lui, quasi bruscamente, mi mise con decisione in mano l’apparecchio e incominciò a illustrarne i pregi, parlando ad alta voce, ostentatamente, puntando il dito sulle varie parti meccaniche. “Interessante” dissi poco convinto. Lui insisteva, l’inserviente guardava dal fondo del corridoio sempre con la sua aria sorniona. “A me hanno sequestrato i rullini all’ingresso in Cina” dissi, per interrompere la commedia. Ma più efficace di me fu il professore che aveva osservato la scena in silenzio: 80


“Non credo che il nostro uomo capisca il francese,” osservò “mi sembra inutile che lei parli ad alta voce.” Il terzo segretario lo guardò un po’ umiliato, un po’ stupito, ma soprattutto seccato, mi riprese di mano la macchina fotografica con un sorriso forzato e rientrò nello scompartimento. L’improvviso apparire della batteria contraerea aveva interrotto una conversazione francamente noiosa, nella quale il terzo segretario aveva fatto sfoggio di una serie ininterrotta di luoghi comuni sulla Cina, sull’Asia, sulla politica mondiale. “Ladruncolo” disse dopo qualche minuto di silenzio il professore. Lo guardai, più stupito che interrogativo. “Si sta chiedendo perché ho detto cosi? È che questi giovanotti arrivano in Cina credendo di saper tutto, e poi si comportano in modo insulso, cercano di rubare qualche conoscenza. Ladruncoli di conoscenze. La Cina bisogna guadagnarsela.” E, senza che gli chiedessi nient’altro, cominciò a raccontare la sua vita. O almeno una parte. Era venuto in Cina giovanissimo, appena laureato in lingue orientali. Una laurea che apriva alla carriera diplomatica in Estremo Oriente. Nella Cina delle concessioni questo significava andare a rappresentare il proprio paese: “A far sventolare la bandiera in un posto di capanne di fango, 81


con un palazzotto di qualche signore della guerra di seconda categoria e a proteggere qualche missionario fanatico e imbecille” disse lui. Ma significava anche imparare a conoscere il Paese in profondità, capire cose che non si trovano in nessun libro. Aveva abbandonato la diplomazia ma non i viaggi e si era dedicato agli studi. Lo guardavo mentre raccontava. Cercavo di capire cosa ci fosse sotto quei capelli grigi tagliati a spazzola, dietro gli occhi celesti chiarissimi, ma illuminati da lampi di collera trattenuta, di dolcezza quasi amorosa verso il continente che attraversavamo, forse da rimpianti. Ma soprattutto mi impressionava la sua pelle pallida ma non più bianca, come se qualcosa dell’Asia lo avesse segnato per sempre. Continuò a raccontare di una Cina dove si andava a cavallo per lunghe distanze. Sospirò. “Vede, queste terre le ho attraversate tutte, molti anni fa, da Pechino a Ulan Bator a cavallo.” Era scesa la notte e la steppa sembrava più viva. In lontananza si vedevano luci tremolanti. Segni sicuri di presenza umana. Si poteva capire che la solitudine non era assoluta, ci si spiegava come mai all’improvviso potessero apparire da dietro i cespugli – o dal nulla – un uomo, un gregge di pecore, un cavaliere o anche una batteria contraerea. La notte rivelava quello che il giorno nascondeva. Quest’ultima riflessione la feci a voce alta. 82


“È proprio così” riprese il professore, “si poteva cavalcare per giornate intere senza vedere nessuno. Ma bastava fermarsi perché qualcuno, chissà da dove, venisse fuori a curiosare. A volte a far domande, più spesso si limitava a guardarci e quando rimontavamo a cavallo, spariva come era comparso.” “Come nel Sahara” osservai. Fu un’osservazione improvvida perché smise di raccontare e iniziò a farmi domande sul Sahara e sull’Africa. Ma si era fatta ora di cena e fummo chiamati al vagone ristorante. Le tavole erano state preparate con precisione meticolosa: una per scompartimento e distribuite in modo che ci fosse sempre un tavolo vuoto tra quelli apparecchiati. Il terzo segretario e signora erano già seduti e appena videro il professore lo chiamarono: “Venga con noi, c’è posto.” “Venga anche lei, quei due mi annoiano” mi disse lui a bassa voce, e poi a voce più alta aggiunse: “Può venire anche il mio giovane amico?” “Ma certamente” dissero in coro i due ostentando un sorriso, ma il volto del terzo segretario si era rabbuiato. La cameriera era una cinese alta, di una bellezza severa, ma scortese e brusca. Non aveva gradito affatto 83


che avessimo cambiato i posti fissati e ce lo fece pesare per tutta la serata. Il cibo era delizioso, la conversazione banale. Come spesso succede in questi casi si parlava appunto di cucina. Il terzo segretario ci descrisse a lungo quel che avrebbe mangiato una volta in Francia, in quali deliziosi ristorantini e con quali splendidi vini. “Perché questa cucina cinese alla fine stufa, e poi non hanno il vino.” “Ma voi non mangiate in ambasciata?” chiese sornione il professore. I due fecero finta di non capire e lui continuò: “A proposito, vi conviene fare provviste per domani, a meno che non vogliate sperimentare le delizie della cucina mongola. Quella sì che è immangiabile.” Tutti seguimmo il consiglio. Comprai panini al prosciutto e due bottiglie di vodka cinese di un bizzarro colore giallo paglierino. Poi ci alzammo, anche perché la cameriera, da qualche minuto, si era piazzata a un passo dal nostro tavolo e ci guardava fisso, senza nascondere l’impazienza. Anche gli altri tre ospiti europei del vagone internazionale, il giovane che avevo visto salire a Pechino e altri due che fino ad allora non avevo notato, si erano messi insieme e discutevano animatamente in una lingua che mi parve russo. La cameriera si spostò e si mise, impettita, davanti al loro tavolo. 84


Fuori del vagone ristorante aspettavano i due corrieri diplomatici cinesi e, un passo indietro, i due ambasciatori vietnamiti. Dunque erano saliti anche loro. Li salutai con un cenno della testa e loro mi risposero con un’espressione quasi stupita, ma mi risposero. *** Rimasi a occhi aperti e a luci spente nel mio scompartimento fissando il buio oltre il finestrino. Ora non si vedevano nemmeno i puntini illuminati in lontananza. L’oscurità era totale. Ma cercavo ancora in qualche modo di guardare, di indovinare qualcosa. Il treno rallentò nello stesso momento in cui un vago chiarore incominciò a bagnare il buio della notte. La stazione di frontiera a Erlian era un edificio grande e molto illuminato. Il treno vi si fermò solennemente e tutti scendemmo. Si poteva scegliere se restare nel proprio scompartimento e assistere al cambio dei carrelli, oppure scendere. Era una scelta difficile. Avevo voglia di sgranchirmi le gambe e di respirare una boccata d’aria. La cena era stata abbondante, avevamo bevuto e ora gli effetti si facevano sentire. Ma volevo anche assistere al cambio dei carrelli, una cerimonia simbolica più che un’operazione tecnica. Si trattava di passare dallo scartamento “standard” adottato in Cina a quello russo, più largo. Ogni volta 85


che un treno entra nel territorio dell’Impero russo viene portato in un’officina, dove delle gru sollevano i vagoni dai carrelli che restano sulle rotaie pronti a ricevere un treno che ritorna indietro verso il resto del mondo e viene trasportato su nuovi carrelli già adagiati sulle rotaie a scartamento russo. La prima ferrovia fu inaugurata in Russia nel 1836, una breve linea che conduceva da Pietroburgo alla residenza estiva dello zar Nicola I a Carsoe Selo: una quindicina di chilometri per uso privato della corte. Mezzo secolo dopo, nel 1886 Alessandro II dette l’assenso definitivo al progetto della ferrovia Transiberiana. In mezzo secolo si erano dovute superare le diffidenze che allora il treno ispirava in tutti i paesi, oltre a quelle specifiche della Russia. Una delle conseguenze delle diffidenze fu la decisione di adottare uno scartamento diverso da quello del resto d’Europa. Per questo esisteva una seria ragione strategica: sarebbe stato molto difficile per le truppe di qualsiasi invasore penetrare rapidamente nel cuore del Paese. Mosca si ricordava ancora di Napoleone. E la differenza di scartamento rallentò non poco, durante la Seconda guerra mondiale, l’avanzata delle truppe naziste. Così le ferrovie furono costruite con binari diversi. La rivoluzione cambiò molte cose ma non lo scartamento ferroviario, e il regime sovietico lo estese assieme alla rete dei trasporti appunto fino alla Mongo86


lia. La Transmongolica venne costruita tra il 1939 e il 1955. Era la seconda volta che cambiavo scartamento in questo viaggio: prima dalla stretta ferrovia coloniale vietnamita a quella cinese e ora dalla cinese alla russa. Anche da questo punto di vista la Cina era isolata, i binari diversi costituivano una sorta di Grande Muraglia moderna che segnava una differenza, una linea di separazione con il resto del mondo. In questo caso però a stabilire la differenza non erano stati i cinesi, ma gli europei, russi e francesi. Anche se nella percezione del viaggiatore la precisione storica aveva poca rilevanza, la differenza di scartamento mi sembrava segnasse con un rito di passaggio l’entrare e l’uscire dalla Cina. Decisi di scendere dal treno, pensando che la cerimonia del cambio dei carrelli avrei forse potuto vederla in un’occasione futura, in ogni caso più probabile di un altro passaggio del confine tra la Cina e la Mongolia. Il treno era letteralmente circondato da guardie di frontiera e doganieri cinesi che salivano sui vagoni e, a chi scendeva, indicavano con gesti cortesi e sorrisi l’edificio illuminato della stazione. Avevano un’aria quasi di commiserazione per noi che lasciavamo la civiltà della Cina per avventurarci in terre barbare. Quando due anni prima ero arrivato all’aeroporto di Pechino da Mosca, sulla via di Hanoi, avevo trovato 87


lo stesso atteggiamento (o meglio la sua versione di benvenuto) nei doganieri, inservienti e poliziotti. Invitavano i passeggeri appena arrivati a riposarsi, a prendere un tè, si informavano della salute di ognuno e delle condizioni del volo, con un’aria di comprensione per le nostre supposte sofferenze in balia di quei selvaggi dell’Aeroflot. Le domande erano: “È stata dura?”, “Faceva molto freddo in Siberia, vero?” mentre nella sala d’attesa dell’aeroporto di Pechino si gelava letteralmente, né più né meno che allo scalo di Irkutsk. Nel grande atrio della stazione c’era un’aria di festa. Agli sportelli della dogana gli studenti vietnamiti facevano la fila, ma io venni indirizzato a uno sportello assolutamente sgombro. Il doganiere timbrò il mio passaporto, io gli mostrai la ricevuta dei rullini fotografici, lui la prese e, facendo ampi gesti di rassicurazione, mi fece capire che tutto mi sarebbe stato restituito. Ma più tardi. Me ne andai scrollando le spalle. In fondo non avevo mai contato di rivedere quei rullini, li avevo salutati all’altra frontiera. Fui indirizzato verso una sala da dove veniva un brusio. Sembrava che qualcuno cantasse. Era una sala ancora più grande e tutti i passeggeri sedevano intorno, lungo le pareti, come in una festa da ballo di paese. C’erano tutti, il gruppo di giovanotti esteuropei che avevo visto salire a Pechino, i due pas88


seggeri del vagone speciale che avevo notato al ristorante, gli studenti vietnamiti... Mancavano solo i francesi e i due corrieri diplomatici cinesi. C’erano invece i due ambasciatori vietnamiti. Mi diressi verso di loro. Nella sala qualcuno effettivamente cantava. Tutti guardavano nella direzione della porta e, come entrai, vidi che a destra dell’ingresso c’era una piattaforma di legno sulla quale bambine, vestite in costumi colorati, agitavano fazzoletti rossi e cantavano con vocette un po’ stridule. “Cosa cantano?” chiesi in francese a uno dei due ambasciatori vietnamiti che aveva risposto al mio cenno di saluto in un modo piuttosto cordiale. “Oh, soltanto una canzone di saluto per gli ospiti stranieri. Offerta dalla scuola elementare di Erlian per rendere più gradevole la nostra permanenza.” “Nulla di politico?” L’ambasciatore sorrise e non rispose. La musica strideva da un vecchio grammofono nascosto da qualche parte, le bambine erano graziose, ma si muovevano goffamente, con enormi fiocchi rossi, verdi, gialli e viola appuntati in cima alla testa. Il primo numero finì e qualcuno cambiò il disco. Le bambine si disposero in una fila ordinata, un po’ ansimanti, in fondo alla piattaforma. Mi sembrava di conoscere la musica. 89


“Non è una canzone vietnamita?” chiesi all’ambasciatore. “Sì, ma è tradotta in cinese, e francamente è cantata molto male.” E senza dire altro si avviò verso il gruppo degli studenti. Quando la canzone finì applaudirono tutti, seri e con grande impegno, mentre i giovanotti europei, sicuramente ubriachi, lanciavano urla belluine, fischiavano e sghignazzavano. Le bambine sorrisero forzatamente, ma in quel momento dal fondo della sala partì un movimento inarrestabile, non c’era stato nessun segnale ma senza dubbio il treno era pronto. Le cose erano molto cambiate nel 1993 quando da Erlian passò Tiziano Terzani: “L’operazione (il cambio dei carrelli NDR) durò cinque ore e i cinesi ne approfittarono per vendere ai mongoli montagne di mercanzie: al centro di Erlian avevano organizzato un grande mercato dove erano esposti tutti i principali beni di consumo cinesi”21. Le cinque ore dovevano, evidentemente, servire solo a moltiplicare le vendite visto che nel 1986 Mary Morris parla di un po’ più di tre ore e nel 2010 Mauro Buffa, passando la frontiera nell’altro senso, verso la Cina, parla di un cambio di carrelli che avviene in poco più di un’ora, esattamente come nel 197422. Aspettai che tutti uscissero. Lungo il muro, dove erano seduti poco tempo prima gli studenti vietnamiti, 90


restava una fila di strani pacchetti. Sembravano piantine. E lo erano. Stavano lÏ, nella polvere, in mezzo a qualche cartaccia e a bucce di arance mangiate in fretta. Come seppi dopo, i doganieri cinesi avevano avvisato i vietnamiti che nÊ in Mongolia, nÊ in Urss, per ragioni di profilassi contro le malattie tropicali, potevano essere importati vegetali. CosÏ le ultime arance erano state mangiate e le piantine abbandonate. I giovani vietnamiti pensavano di coltivare qualche erba di casa per alleggerire la nostalgia e dare sapore a cibi di mense universitarie socialiste. Ma come potevano pensare di far crescere le piantine del loro paese nel clima di Mosca o di Praga? Il treno fischiò e mi avviai rapidamente alla carrozza. Sul sedile della poltrona stava il pacchetto in carta paglia dei rullini, meticolosamente poggiato nel centro esatto della poltrona di velluto verde.

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ERLIAN-ULAN BATOR

Il treno cominciò a muoversi. Ora lo trainava un locomotore diesel, la locomotiva a vapore era rimasta in Cina. Presi il pacchetto e lo rimisi nella valigia, dove speravo ora che avrebbe concluso tranquillamente il suo viaggio. Poi mi sedetti sulla poltrona in attesa che il treno si fermasse a Dzamïn-Üüd, la prima stazione mongola dove sarebbero saliti altri doganieri e altri poliziotti per le formalità di frontiera. Le luci di Erlian erano sparite rapidamente e ora il finestrino polveroso mi separava da un’oscurità assoluta. Spensi la luce dello scompartimento per cercare di avvistare in lontananza la stazione mongola. La giornata in treno era stata lunga. Mi assopii. Improvvisamente la porta si aprì senza che nessuno bussasse e apparve un massiccio poliziotto mongolo, con una faccia imbronciata sotto un colbacco spelacchiato. Avevo il visto e il passaporto sul tavolo e li presi avvicinandomi alla porta. Dal corridoio venivano delle voci. I cinesi dello scompartimento vicino discutevano con i doganieri. Dal fondo del vagone l’inserviente ridanciano, con un’espressione compunta, si dedicava a sistemare la 92


guida rossa che correva lungo tutto il corridoio passandoci sopra con i piedi. Arrivato all’altezza dei due doganieri che discutevano con i suoi connazionali, fece in modo di spingerli brutalmente con una spallata. Lo stesso fece con il poliziotto che stava davanti al mio scompartimento e con il suo collega che stava un passo più in là. All’altra estremità della carrozza l’inserviente triste guardava la scena. Detti i miei documenti al poliziotto. Il visto per la Mongolia era un cartoncino color paglia che mi era costato quasi un’ora di lavoro. Il questionario per un semplice visto di transito, che andava compilato in triplice copia, era il più lungo che mi sia mai capitato di riempire. Per farvi transitare in treno nel loro paese i Mongoli richiedevano una specie di biografia completa, un curriculum vitae et operis, con domande del genere: “Avete mai scritto sulla Mongolia?” e, se sì, se si trattava di articoli o di libri, e se gli articoli erano stati scritti per un quotidiano o un settimanale, e se queste opere erano state tradotte in lingua mongola. Oppure: “Avete parenti che risiedono nella Repubblica popolare mongola?” e, se sì, di che grado, e ancora: “Avete conoscenze?” e così via. Mentre il poliziotto scrutava il mio visto, l’inserviente aveva raggiunto la fine del corridoio, il suo collega gli aveva dato il cambio e continuava a raddrizzare la guida con i piedi. Arrivato all’altezza dei poliziotti ripeté le 93


spallate con maggiore energia del primo. Il poliziotto colpito fece una smorfia, ma non disse nulla. Poi mise il passaporto e il visto in una specie di grande portafoglio di pelle. L’altro, che era un graduato, gli fece un cenno e lui si spostò davanti alla porta dello scompartimento del terzo segretario e signora. I doganieri avevano finito di discutere con i due corrieri diplomatici cinesi, e passarono a me. Entrarono con decisione nel mio scompartimento, con una certa fretta, evitando così le spallate dell’inserviente che ripassava. Mi chiesero di vedere tutte le mie valigie con un’aria molto severa. Io incominciai a calarle e ad aprirle una alla volta. Mi chiedevo che scopo avessero tutti questi controlli su persone che in meno di ventiquattro ore avrebbero lasciato il territorio della Mongolia e che comunque erano strettamente confinate nella loro casa viaggiante. Per ultima avevo lasciato la valigia con i rullini fotografici. La stavo faticosamente calando dalle reticelle quando i due si guardarono e si sentirono soddisfatti dell’ispezione. Mi fecero cenno di rimetterla a posto e se ne andarono. Mentre rimettevo le valigie a posto, sentivo la voce carica di indignazione del terzo segretario spiegare che le sue valige non potevano essere ispezionate: “Diplomatico. Capito? Diplomatico” diceva. I doganieri mongoli alla fine si rassegnarono e procedettero oltre, incontro all’inserviente che avanzava 94


inesorabile verso di loro, con la spalla protesa in avanti. Finalmente potevo dormire. Mi allungai sulla cuccetta, ora la Cina era veramente alle mie spalle. Ero riuscito a traversarla in treno, ma che cosa avevo imparato di nuovo? Che cosa avevo scoperto? Forse potevo collegare un paesaggio a letture che avevo fatto, ma non sapevo molto di più sulla Cina. La soddisfazione di averne sfiorata la terra, sulle ruote d’acciaio del treno, o calpestato qualche marciapiede di stazione, mi sembrava adesso del tutto trascurabile, quasi insulsa. Forse avevo visto più Cina due anni prima durante i giorni di attesa di un aereo per Hanoi. Ero stato confinato in albergo, il gigantesco Hotel delle Nazionalità: mi era stato ordinato di non muovermi. Azzardavo comunque piccole fughe dall’albergo, brevi passeggiate per il grande viale della Pace Celeste. Un viale larghissimo, gli edifici che lo chiudevano come quinte erano solenni e massicci. I dragoni e le fenici messi a decorare le facciate e gli ideogrammi delle iscrizioni non bastavano a nascondere che i loro progettisti avevano studiato a Mosca. Un giorno, stufo del solito itinerario, avevo svoltato per una stradina secondaria scoprendo all’improvviso un mondo completamente diverso. Pochi metri dietro 95


le facciate monumentali c’era un intreccio di viuzze strette, tra case a un solo piano costruite con mattoni di uno strano colore grigio piombo. Dai portoni aperti si intravedevano cortili ampi. Erano simili alle case dei contadini viste dal treno mentre ci avvicinavamo a Pechino. I bambini giocavano, gridavano e correvano nella strada e dentro i cortili. Un gruppo di loro si accorse della mia presenza, e tutti si arrestarono di botto, con gli occhi sgranati. Io mi fermai e sorrisi, ma loro, i bambini, restavano a guardarmi a bocca aperta. Non si vedevano adulti. Solo, sulla porta di una casa un vecchio, un vecchio che riproduceva quello che nella mia immaginazione era il letterato confuciano, che rispose al mio sorriso e scrollò la testa. Continuai ad avanzare nel vicolo, i bambini si scostarono lentamente per lasciarmi passare, feci un gesto di saluto al vecchio e, mentre mi allontanavo, sentivo tutti quei piccoli occhi fissi sulla mia schiena. Comparve, sbucando all’improvviso da un portone, un uomo in divisa, molto accigliato. Poi sorridendo incominciò a fare dei gesti. Mi indicava una strada laterale che mi avrebbe riportato sul grande viale. Mi fermai cercando di dire, sempre a gesti, che volevo andare avanti, lui, scuotendo la testa con decisione, mi costrinse a tornare sul viale. La luce della grande strada era accecante. Due fiu96


mane di biciclette si incrociavano. Il semaforo cambiò colore bloccando le biciclette. Decisi di attraversare. Guardavo le facce dei ciclisti, cupe, senza nemmeno un lampo di curiosità. Nel vicolo invece tutti erano curiosi. Avanzavo molto lentamente e non mi accorsi che il semaforo aveva di nuovo cambiato colore mentre ero ancora lontano dall’altro marciapiede. Mi girai e vidi un fronte compatto di ruote e di facce avanzare deciso verso di me. Preso dal panico m’immobilizzai in mezzo alla strada. Fui sommerso dalla folla di ciclisti che miracolosamente mi passava attorno senza sfiorarmi. La mia espressione doveva essere di terrore, e un gruppo di ragazze non trattenne le risa passandomi accanto. Qualcuno mi disse delle cose accompagnate da sguardi ironici. Poi il semaforo fermò di nuovo la fiumana e corsi fino al marciapiede. La mia unica preoccupazione era di dover traversare di nuovo il viale qualche centinaio di metri più in là per raggiungere l’albergo. E quando decisi di farlo lo feci di corsa, senza guardare i cinesi che aspettavano di scattare al verde e sentendo nella mia testa risate di scherno. Non erano risate, era solo il rumore regolare e monotono delle ruote sui binari. La Cina era veramente alle mie spalle, ci sarei mai ritornato? Sarei mai riuscito a vedere quello che non avevo visto, a capire di più delle cose che avevo intuito? 97


*** Aprii le tendine. Di fronte a me c’era il deserto, una distesa ocra di ondulazioni, di collinette basse che si ripetevano all’infinito. Il Gobi, visto da terra non sembrava il deserto freddo che avevo osservato dall’aereo mentre due anni prima volavo da Mosca a Pechino. Allora avevo scambiato quelle ondulazioni per dune di sabbia e mi aveva stupito e quasi emozionato constatare che le loro sommità tondeggianti erano sottolineate da mezzelune bianche e brillanti di neve rivolte a nord, messe in evidenza dalla luce radente dell’alba. Era il mese di dicembre. Solo poche settimane prima, tra ottobre e novembre, avevo fatto un lungo giro del deserto algerino e avevo provato un’emozione forte a ritrovare un paesaggio che mi aveva riempito gli occhi a così poca distanza di tempo, ma con la strana presenza della neve. Un elemento incongruo per il deserto, che associavo al calore insopportabile e all’aridità assoluta. Una volta scioltasi la neve, le dune si sarebbero coperte di una mezzaluna verde. Mi avevano raccontato lo spettacolo del deserto dopo un acquazzone. Un avvenimento raro e straordinario per la sua bellezza. In poche ore, quando, una volta ogni dieci, quindici, vent’anni, il deserto viene bagnato dalla pioggia, si ricopre di una peluria d’erba che cresce rapidamente e al98


trettanto rapidamente viene bruciata dal sole e sparisce di nuovo. Ma in quelle poche ore, quelle piantine completano il loro ciclo vitale e riproducono i semi che cadono tra i granelli di sabbia, confusi tra i quali aspettano altri lunghi anni prima che un altro acquazzone li faccia nuovamente germinare. Qui, nel deserto del Gobi lo spettacolo doveva ripetersi ogni anno: quando si fosse sciolta quella poca neve. Ma ora pensavo che poteva essere soltanto umidità condensata di giorno in giorno e conservata per la primavera. L’acqua del thermos era ancora bollente, preparai il tè e mangiai i biscotti cinesi. Poi uscii dallo scompartimento per vedere lo spettacolo del deserto dall’altra parte del corridoio. Non era il deserto nel senso assoluto che generalmente si immagina: erano visibili molti segni di vita. Greggi, cavalli, cammelli in lontananza, qualche camion dall’aspetto militare sulla strada che si intrecciava con la ferrovia apparivano di tanto in tanto a ricordare che non si stava attraversando un deserto totale. Del resto il deserto totale non esiste. La regione che più si avvicina all’idea della mancanza assoluta di vita, che è così bene espressa dalla parola “desolazione”, è, per quanto ho potuto giudicare io con i miei occhi, l’altopiano del Tademait, in Algeria. È un tavolato nero che si innalza brutalmente 99


sulla strada transahariana tra le oasi di El Golea e di In Salah. Se ci si inoltra non si vede altro che una distesa di pietra nera, all’apparenza assolutamente piatta ed estesa da ogni parte, all’infinito, sotto una volta assolutamente azzurra, di un azzurro cupo che non esiste in nessun altro posto del mondo. Le pietre nere emanano un calore insopportabile. Quando lo attraversai mi venne in mente che quello doveva essere il posto più vicino all’inferno, se l’inferno è rovente con assoluta mancanza di vita. Ma era un’illusione, una pura apparenza. La vita c’era e come: quando ci fermammo in mezzo alla perfetta solitudine e uscimmo dall’automobile che ci proteggeva da quell’inferno senza vita e fummo accolti da un ronzio quasi assordante. In mezzo al nulla, nel deserto, che appariva del tutto senza vita finché eravamo protetti dal vetro e dall’acciaio dell’automobile, vivevano le mosche, mosche che si sollevavano da terra a stormi, che ci ricoprirono di nero. Erano così numerose da far nascere il sospetto che il nero dell’altopiano non fosse dovuto al basalto, ma a loro, alle mosche. Risalimmo in fretta sull’automobile e corremmo per chilometri a finestrini aperti, per sbarazzarcene. *** 100


Il professore uscì dal suo scompartimento e, vedendomi con gli occhi fissi sul deserto, si mise a sua volta a contemplare il paesaggio dal finestrino. “Buongiorno” lo salutai. “Buongiorno, non volevo disturbare. Era così assorto nel paesaggio.” “Ricordavo. Ma anche lei deve avere molti ricordi.” “Ricordi? Sì, molti. Ma non di questa parte dell’Asia, che mi è sempre stata amica, e i ricordi vengono piuttosto dalle difficoltà. Credo allora che ricorderò a lungo questi anni a Ulan Bator.” Incominciò a raccontare. Nella capitale mongola era, in quegli anni, l’unico occidentale residente, grazie a una concessione molto speciale del governo mongolo per l’importanza dei suoi studi. C’era un incaricato d’affari francese che andava e veniva da Pechino. Non viveva in una vera e propria sede diplomatica, ma nell’unico albergo della città, dove del resto abitava anche il professore. Questo soggiorno sarebbe stato per lui l’ultimo in Asia, poi, col ritorno in Occidente, sarebbe venuta quella che , mi disse, considerava la fine della sua vita. La sua vita infatti era l’Asia. Mi chiedevo “Chissà perché questo dignitoso e anziano studioso confida le sue preoccupazioni profonde a una persona incontrata per caso” e provavo un certo imbarazzo ad ascoltarlo. Forse se ne accorse, comunque cambiò discorso e riprese a descrivere la sua vita attuale. 101


Nelle lunghe serate di Ulan Bator la sua unica distrazione, “Non si può stare a studiare tutto il giorno”, erano le chiacchiere con il suo incaricato d’affari. “Un uomo notevole, sa?” Una delle ragioni per cui quel diplomatico era notevole derivava dal fatto che era stato a lungo prigioniero dei nordcoreani. “1950, ricorda? La guerra di Corea. Il mio compagno di Mongolia aveva avuto un incarico particolarmente delicato: restare a Seul a custodire l’ambasciata di Francia, mentre la città veniva evacuata di fronte all’avanzata delle truppe nordcoreane. La convinzione di tutti, sua, come di chi gli aveva dato quell’incarico, era che l’immunità diplomatica lo avrebbe protetto da ogni pericolo. Ma le cose andarono diversamente. La Corea del Nord era in guerra con le Nazioni Unite, la Francia era uno dei membri permanenti delle Nazioni Unite, e poi il mio amico ha un caratteraccio, molto poco diplomatico e da giovane era abbastanza irruento. Insomma era successo qualcosa, “un inconveniente” dice lui, credo uno scontro con le autorità militari occupanti, qualcosa per cui lo status diplomatico, già messo in dubbio, non lo aveva protetto. Così il mio amico finì in un campo di concentramento accusato di spionaggio. Accusa improbabile, ma alla quale le autorità coreane fingevano di credere. Naturalmente 102


è molto difficile farsi raccontare i dettagli. Parla solo della lotta contro il freddo, delle dispute per riuscire a dormire più vicino possibile alla stufa che riscaldava, se vogliamo dire così, lo stanzone dei prigionieri. Ma appunto la parte che preferisce raccontare, quella che ricorda meglio, sono gli interrogatori, lunghi, estenuanti, inutili, visto che non c’era nulla da confessare e anche chi interrogava era in fondo convinto dell’inutilità di quelle che finivano per essere “nient’altro che cerimonie crudeli...” “La crudeltà orientale” interruppe la voce del terzo segretario che da qualche minuto era uscito dallo scompartimento e ascoltava. Il professore alzò le spalle con un’ombra di stizza e smise di parlare. Immagino che avrebbe incominciato a raccontare delle sue esperienze per confermare la sua tesi sui ricordi. Ma da quel momento i discorsi cessarono. Era metà mattinata, davanti al treno sfilava un paesaggio diverso. L’elemento nuovo che aveva interrotto l’infinita e quasi impercettibile ondulazione del deserto era una serie di collinette regolari e uniformi, avevano lo stesso colore della terra, ma erano opera umana. Alcune erano chiuse; altre, aperte, mostravano una bocca spalancata come quella di una grotta, all’interno della quale si stagliava netta la sagoma di un aereo da combattimento. 103


Il professore disse: “È la base sovietica di Choir.” Il terzo segretario si precipitò nel suo scompartimento e quasi gridò: “Si vede anche dall’altra parte. Scusate se chiudo la porta.” “Non credo che a quello importi molto se lei fotografa una base russa” disse il professore accennando all’inserviente che come al solito se ne stava all’estremità del corridoio. Il cinese, come se avesse capito tutto, ci rivolse un sorriso furbo. Il terzo segretario oramai era sparito e si poteva immaginare che premesse freneticamente il pulsante della sua macchina fotografica, uno scatto dietro l’altro. Avevo molti dubbi sul risultato di quelle foto: “I vetri sono talmente sporchi” dissi a voce alta. “Non credo che quelle fotografie saranno troppo nitide.” “Nemmeno io lo credo, ma contento lui...” rispose il professore, sempre più stizzito. Sospettai che si sentisse almeno un poco responsabile del comportamento ridicolo del suo connazionale. La base continuava a sfilare sotto i nostri occhi, ora si vedevano bene le piste sulle quali una fila ordinata di Mig stava rullando. Poi decollarono, uno dopo l’altro, salendo quasi in verticale verso il cielo. Per oltre mezz’ora continuarono a passare sotto i nostri occhi gli hangar corazzati, le strade che li colle104


gavano e altre piste di decollo e atterraggio. Era immensa e minacciosa quella base, i russi la abbandonarono agli inizi degli anni ’90. Poi il treno fece una larghissima curva e a poco a poco gli hangar sparirono. Il mio interlocutore era diventato silenzioso e meditabondo, mi salutò con un grugnito e si ritirò nel suo scompartimento. Rientrai nel mio. In un paio d’ore saremmo giunti a Ulan Bator. Decisi di mangiare uno dei miei due panini e di leggere qualcosa, invece continuai a fissare la distesa giallastra del deserto e il cielo grigio. Il traffico sulla strada che costeggiava la ferrovia aumentava. Ora si vedevano molti più autocarri, qualche automobile di fabbricazione sovietica, uomini a cavallo che galoppavano nella steppa. Appariva qualche villaggio di tende a forma di cupola, le yurte, ghurr in mongolo, dove gran parte della gente continuava ad abitare, nonostante i programmi di sedentarizzazione del governo. La pastorizia nomade, benché organizzata in cooperative secondo criteri più o meno collettivistici, continuava a essere la principale attività economica del paese. Le yurte si infittirono, divennero una vera e propria tendopoli che si estendeva ai due lati della ferrovia. Tornai nel corridoio. Tutti i passeggeri erano usciti e il mio compagno di viaggio preferito stava radunando i suoi bagagli, numerosi e ingombranti, vicino allo sportello. 105


“Ulan Bator,” mi disse passando “Ulan Bator al suo meglio. Ci sono tutti.” E questo fu il suo saluto. Credo volesse dirmi che in novembre, alle soglie dell’inverno, la città raggiungeva la massima estensione con il ritorno dai pascoli estivi di tutti i suoi abitanti. La capitale della Mongolia è una capitale nomade, il suo nome tradotto significa “Eroe Rosso”, un nome evidentemente moderno. Il nome antico (la città è stata fondata nel XVII secolo) è Bogdo-Kuren, nome che è rimasto alla parte antica della città dove c’è una cittadella fondata dai manciù, ma dal treno si vedevano solo i quartieri moderni, edificati dopo il 1921, quando fu proclamata la Repubblica popolare mongola. Le costruzioni occupavano uno spazio ridotto rispetto alla superficie della tendopoli. Il centro moderno, mi sembrò di capire, per buona parte dell’anno era centro solo di sé stesso, un agglomerato minuscolo. Infatti, appena si cominciarono a vedere edifici in cemento, il treno rallentò e subito dopo si fermò, di fronte all’edificio basso e giallastro della stazione. A Ulan Bator il treno compiva la sosta più lunga di tutto il viaggio. Ben quaranta minuti. Era bene approfittarne per una passeggiata e per dare, se possibile, uno sguardo in giro. Infatti tutti i passeggeri del treno internazionale 106


stavano scendendo, provocando un’animazione che doveva essere del tutto insolita per quella stazione, probabilmente semideserta per molti giorni alla settimana e per molte ore al giorno. Solo qualche ferroviere e altri personaggi in uniforme sostavano sul marciapiede. Vidi il professore e il suo seguito di bagagli, forse le provviste che si era procurato a Pechino per affrontare un lungo inverno quasi solitario nell’unico albergo di Ulan Bator, sparire dietro una pesante porta di legno massiccio, vetrata nella parte superiore. Di queste porte ce ne erano molte lungo la facciata della stazione, ma rimanevano ermeticamente chiuse. Nessuno ci entrava e nessuno ne usciva. Passeggiando lungo il marciapiede superai l’edificio della stazione e, al di là di uno steccato sconnesso, si vedeva qualcosa della città. Strade polverose, il piazzale della stazione con qualche rara automobile e altrettanto rari passanti. Tornando sui miei passi spinsi una delle porte. Con mia sorpresa si aprì e mi apparve uno stanzone, una sala d’aspetto con panche di legno sulle quali stavano sedute un paio di famiglie mongole e, sulla destra, un’altra porta identica a quella che avevo aperto. Davanti alla porta, di guardia, stava un poliziotto che appena mi vide restò sconcertato per un momento, poi si diresse verso di me, facendo gesti imperiosi ma quasi spaventati, indicandomi di uscire. 107


Non esitai un attimo. Come avevo aperto la porta mi aveva investito un fetore insopportabile, un puzzo di grasso di montone rancido così acuto e violento da provocarmi un immediato senso di nausea. Anche senza il poliziotto il mio tentativo di uscire sul piazzale della stazione sarebbe con ogni probabilità finito lì. Appena uscito sentii il rumore secco e rabbioso di un catenaccio che si chiudeva. Ripresi a passeggiare sul marciapiede, provai a spingere le porte. Nessuna cedette, erano tutte chiuse, anzi sbarrate. Questo mi spiegò l’aria nervosa e quasi impaurita del poliziotto: aveva di sicuro dimenticato di chiudere quella di sua competenza. Aveva commesso una mancanza considerata, immaginai, molto grave. Ritornai verso il mio scompartimento tagliando il marciapiede. C’era l’ambasciatore vietnamita col quale avevo scambiato qualche parola la sera prima. Lo salutai e, con mia grande sorpresa, fu lui a rivolgermi la parola. Accennò a due soldati alti e biondi, armati di kalashnikoff, che stavano di sentinella, piantati in mezzo al marciapiede della stazione. “Come si sono ridotti!” disse. “Come si sono ridotti?” chiesi. Non capivo. “Non sono mongoli, quei soldati, no?” “No, è chiaro che sono sovietici, anzi russi.” “Appunto. Pensi a questa gente, i mongoli. Seicento 108


anni fa dominavano quasi tutto il mondo. Hanno occupato anche il nostro paese e ora permettono che soldati stranieri facciano la guardia alle loro stazioni ferroviarie. È bizzarro, no? Ma è una bella lezione. Anche gli imperi più potenti crollano, prima o poi.” Io ero senza parole, stupito da questa improvvisa loquacità. L’ambasciatore parlava e pronunciava giudizi politici assai poco diplomatici su due paesi alleati al suo, anche se alludeva senza dubbio alla guerra del Vietnam con gli Stati Uniti. Stupidamente riuscii a dire: “Mi sembra giusto.” Lui sorrise soddisfatto, e poi mi salutò. “Credo che il treno stia per partire. Arrivederci.” E si allontanò verso il suo vagone. Salii anch’io. I ferrovieri sul marciapiede chiudevano gli sportelli e sollecitavano i ritardatari. Solo quando tutti i passeggeri furono al sicuro sul treno una delle porte della stazione si aprì e ne uscì un gruppo di persone con i bagagli. La stessa scena che avevo visto alla stazione di confine tra Vietnam e Cina. La maggior parte dei nuovi passeggeri erano russi e correvano, dietro veniva un gruppo di mongoli tutti vestiti all’europea che accompagnavano una giovane donna molto truccata che tutti festeggiavano. Fu l’ultima a salire sul treno che finalmente si mosse. 109


ULAN BATOR-NOVOSIBIRSK

Erano le due del pomeriggio del quinto giorno di viaggio. Il paesaggio era tornato alla sua monotonia e, via via che ci allontanavamo dalla città, dopo un’altra sfilata di yurte, tornava anche a essere spopolato. Mangiai il mio ultimo panino cinese e mi addormentai. Al risveglio era già notte e avevo fame. Un vagone ristorante era stato agganciato al confine mongolo. Pensai che forse il professore aveva esagerato nel denigrare la cucina del paese. Non poteva essere così disgustosa: i francesi sono dei nazionalisti culinari come gli italiani e tendono sempre a esagerare sulla pessima qualità del cibo di altri paesi. Il terzo segretario stava sulla soglia del suo scompartimento, appena mi vide girò le spalle senza salutare e chiuse rumorosamente la porta. Non lo avrei più incontrato fino a Mosca. Non era una gran perdita dal punto di vista della conversazione e mi avviai verso il vagone ristorante deciso a gustare la cucina ferroviaria mongola. Ma non la gustai. Dalla porta del ristorante uscì una zaffata dello stesso terribile puzzo della sala d’aspetto della stazione di Ulan Bator. Forse ancora più nause110


ante: montone rancido, più odore di treno non pulito. I camerieri, tutti seduti all’altra estremità del vagone deserto, scattarono in piedi appena mi videro. Le loro espressioni variavano dallo stupore alla speranza: un cliente finalmente. Ma li delusi. Chiusi lo sportello e girai i tacchi. Una mezza giornata di digiuno non mi avrebbe fatto male. Da allora però le cose devono essere mutate. Mary Connor racconta di aver mangiato “Kefir, pane con lievito madre, boršč mongolo, cavolo stufato con una sorta di brodo e, con mia grande sorpresa era tutto squisito”23. Una guida alla Transiberiana del 1991 così descrive il vagone ristorante mongolo: stile anni ’30 con “decanter in vetro molato, cameriere in costume nazionale e un elaborato menu simile, per tipo e scarsità di cibi, a quello del vagone ristorante russo”24. Ma la descrizione più dettagliata è quella fornita da Mauro Buffa: “Il vagone ristorante […] è un ambiente assolutamente originale, con gli interni rivestiti in legno intarsiato, i sedili imbottiti e decorati e alle pareti sono appese delle finte teste di cervo dorate e perfino una lunga spada dalla lama ricurva, uno scudo tondo e un arco con faretra di pelle. […] dei piatti elencati nel lungo menu c’è ben poco […] non restano altro che elaborati piatti a base di montone”25. Forse ho esagerato con le citazioni, ma l’ho fatto anche per sottolineare che tutti i viaggiatori della Transiberiana, anche quelli 111


che viaggiano in veste di ospiti speciali come Dominique Fernandez26, sono ossessionati dal cibo, dalla sua qualità, dalla difficoltà di procurarselo. *** Le formalità al posto di frontiera mongolo-sovietico di Suche Bator furono molto rapide. I poliziotti salirono sul treno e ci restituirono i passaporti che si erano tenuti gelosamente nelle ultime ventiquattro ore. La rapidità della procedura non impedì ai due inservienti di replicare le provocazioni della notte precedente. Ma ora eseguivano il loro numero con meno impegno, come se si fossero stancati del gioco, quasi si fosse trattato di un dovere. Mi vennero in mente le parole dell’ambasciatore vietnamita di poche ore prima: “...sei secoli fa questa gente...”, e mi venne in mente che tutto aveva il sapore di un rito. Forse i doganieri mongoli si sarebbero stupiti se non si fosse celebrato con regolarità. Ma i cinesi come si sarebbero comportati con la polizia di frontiera dell’Urss? Si comportarono benissimo, anzi durante tutta l’ispezione doganale alla stazione di Nauški i due sparirono. Fu l’inizio del loro assenteismo: i letti venivano fatti irregolarmente, i thermos non venivano più cambiati e bisognava andare nel loro stanzino-stufa per avere dell’acqua bollente. Come se entrare nel territo112


rio del grande nemico li autorizzasse a non rispettare le regole, quasi si fossero isolati in un limbo inaccessibile. Una forma di difesa? Mi svegliai in piena notte dopo che avevo sentito il treno fermarsi in una stazione molto rumorosa, Ulan Ude, dove la Transmongolica si unisce alla Transiberiana e, secondo l’orario, era l’una e un quarto, ora locale. Il treno aveva cambiato velocità, adesso correva. Eravamo entrati in una linea elettrificata. Doveva esserci la luna, un chiarore soffuso illuminava sagome di montagne boscose, non eravamo più nel deserto, la Mongolia era finita. Ora c’era la Siberia. Ero affamato. Doveva essere stato agganciato il vagone ristorante russo e quindi era possibile fare una colazione abbondante, ma che ora era? Fuori c’era una luce livida da mattino d’inverno, il mio orologio segnava dieci minuti alle sei. Forse il ristorante era ancora chiuso, ma valeva la pena tentare. Mi vestii in fretta e mi precipitai al ristorante. Era illuminato e c’era qualche avventore seduto ai tavoli, entrai deciso. Una cameriera mi venne incontro con la faccia burbera e disse qualcosa in russo che non capii. Mi indicava la porta e faceva dei segni inequivocabili che significavano “chiuso, finito”, poi in tedesco disse “Kaputt”. Anche il vagone ristorante russo aveva un odore particolare, quello che io associavo fino a quel momento agli aerei dell’Aeroflot: un misto di succo di mele e pollo 113


arrosto. Sempre meglio del montone mongolo, comunque. Deluso e sconcertato uscii dal ristorante e chiudendo la porta notai un cartello che prima mi era sfuggito. Indicava gli orari: 7-9; 12,30-14,30; 19,30-21,30. Mi consolai pensando che neanche un’ora dopo mi sarei potuto rifocillare. Rientrai nel mio scompartimento deciso a concedermi una lunga doccia. Mi spogliai rimanendo in mutande e aprii la porta del bagnetto. Mi trovai di fronte uno dei corrieri diplomatici cinesi, nel mio stesso abbigliamento. Entrambi richiudemmo velocissimi la porta. Aspettai un poco per capire se il cinese entrava, ma non sentii il catenaccio e riprovai. Anche questa volta mi trovai di fronte il mio vicino. Entrambi, più imbarazzati di prima, richiudemmo. Il complicato sistema di catenacci che chiudeva una porta mentre l’altra si apriva, non funzionava se entrambe venivano aperte nello stesso momento. La terza volta il cinese fu più rapido di me, sentii il catenaccio scattare dalla mia parte e mi rassegnai ad attendere. Intanto il giorno si era fatto chiaro. Il paesaggio era completamente cambiato, viaggiavamo tra boschi verdi di conifere e all’improvviso, a una curva, sotto di noi apparve il Bajkal. Il treno correva a mezza costa scendendo rapidamente verso le acque che molti hanno descritto di un 114


blu intenso, ma che sotto il cielo di quella mattina di novembre siberiano erano plumbee e cupe. Dopo ore e ore di ondulazioni giallo ocra, il lago, le montagne che lo circondavano e che sembravano delle vere montagne, erano uno spettacolo confortante. Un paesaggio quasi alpino, ma al posto di un laghetto di montagna c’era il Bajkal, immenso come il mare. Il Bajkal non è il più grande lago del mondo (31.500 kmq), ma è il più profondo (1.741 metri) e contiene un quinto dell’acqua non salata di tutto il pianeta. Ha un habitat particolare per cui l’Unesco lo ha incluso tra i patrimoni dell’umanità. Un’acqua purissima e trasparente, almeno così era una volta. Ora anche il Bajkal è minacciato a morte dall’inquinamento industriale, periodicamente si leggono notizie di proteste contro l’apertura di impianti industriali, contro il passaggio di oleodotti, ma avere un quadro preciso della situazione non è facile. Negli anni ’90 lo scrittore russo Valentin Rasputin aveva lanciato una campagna per la salvezza del lago, ma fu l’unica iniziativa di largo respiro di cui si ha notizia. Nel 1974 l’inquinamento doveva essere già avanzato, ma allora nessuno ne parlava e, guardando dai finestrini del treno, potevo immaginare che se si fosse fermato avrei potuto bere direttamente l’acqua del lago, chinandomi sulla sponda. Si era fatta l’ora di apertura del ristorante, le sette, e mi avviai deciso pas115


sando sotto lo sguardo appena ironico dell’inserviente cinese. Il ristorante era chiuso e non si vedevano nemmeno le luci attraverso il vetro dello sportello. Forse pretendevo troppo chiedendo una puntualità svizzera. I minuti passavano e nessuno veniva ad aprire. Provai a picchiare sul vetro, ma senza nessun risultato. Erano passati almeno dieci minuti e nessun altro si presentava. Tornai indietro e, all’inserviente cinese che mi guardava sornione, provai a chiedere indicando la porta di comunicazione tra i vagoni: “Ristorante?” Lui scosse la testa in segno di diniego e si mise a ridere. “Ristorante?” insistetti io. “Njet restorant” rispose lui imitando l’accento russo e ridendo ancora più forte, soddisfatto della sua spiritosaggine che aveva fatto sorridere anche il suo collega burbero. Rassegnato mi avviai al mio scompartimento e mentre stavo per entrare vidi passare la cameriera che mi aveva cacciato un’ora prima. La seguii e cercai di entrare con lei nel ristorante. Lei mi fece cenno che non potevo entrare, io, indignato, le mostrai il mio orologio poi il cartello con gli orari. Lei guardò il mio orologio, poi il cartello, poi di nuovo il mio orologio e scoppiò a ridere anche lei. La cosa mi irritò, stavo per urlare qualcosa contro la ca116


meriera, ma lei mi afferrò saldamente il braccio, picchiettò a sua volta sul mio orologio e disse, anche lei, “Njet”. Poi indicò il cartello e, col tono con cui si parla ai bambini ritardati, disse una frase di cui capii solo una parola “Maskvà”. Poi capii: gli orari si riferivano all’ora di Mosca. L’ira che montava alimentata dalla voglia di cibo si era trasformata in umiliazione: mi sentivo cretino e tornai sui miei passi senza dire una parola. Mosca era quattro ore più avanti, quindi avrei dovuto aspettare l’ora del pranzo, mezzogiorno e mezza, cioè le otto e trenta del mio orologio, ancora un’ora e mezza di attesa. Fu l’ora più lunga di tutto il viaggio. Ma anche quella passò e alle dodici e trenta, ora di Mosca, il ristorante aprì le porte e le dispense senza risparmio. Il caviale venne servito in coppe galleggianti nell’acqua e ghiaccio, il boršč era delizioso, il bue Strogonoff tenero e saporito. Il tutto annaffiato da vodka servita in grande quantità. Ancora si beveva sui treni russi, oggi non più: dal 1985 le misure contro l’alcolismo vietano la vendita di vodka sui treni. I giovanotti di un paese dell’est che avevo notato a Pechino avevano occupato metà del vagone e facevano bisboccia allegramente, fin troppo allegramente. Mentre si mangiava il treno si fermò a Irkutsk, persi così una delle poche occasioni per una passeggiata, ma 117


non me ne importava molto. Ero sazio e soddisfatto, anche un po’ ubriaco. Per me si trattava della prima colazione, e come prima colazione era sicuramente troppo abbondante. Mi addormentai cullato dal treno che ora viaggiava a velocità quasi europea. Rapidissime sfilavano all’infinito davanti ai miei occhi semichiusi le betulle, giovani betulle sottili e flessibili, vecchie grosse e robuste, con la corteccia argentata e le foglie che brillavano tremolanti. Ma anche larici, abeti, elci. Di tanto in tanto, in mezzo alla foresta, alla taiga siberiana, che sembrava senza vita, appariva una capanna costruita di soli tronchi d’albero. Alcune erano abbandonate, annerite dal tempo, altre ben tenute con cornici traforate e colorate di rosa, verde pallido, celeste attorno a porte e finestre. Qualcuna aveva addirittura vasi di fiori nell’intercapedine della doppia finestra. Un paesaggio monotono, forse, ma comunque esotico, soprattutto per me che venivo dai tropici, e che mi tenne per ore attaccato al finestrino. Non sono il solo ad aver subito questo fascino, ecco cosa ne scrive Luciana Castellina: “E poi c’è il paesaggio da guardare dal finestrino. Sempre uguale terribilmente monotono, mi avevano detto i precursori dell’avventura siberiana: betulle betulle betulle e sempre ancora betulle. È vero. Ma intanto queste betulle in autunno sono meravigliose, una 118


gamma screziata dal giallo al rosso, mai vista prima, alternata al verde cupo degli abeti. Si può rimanere ore e ore a guardare gli alberi, e alla fine ci si accorge che la bellezza sta proprio nella monotonia”27. Anche Dominique Fernandez è talmente affascinato dalla taiga che scrive: “L’Odissea, o a un grado di minore intensità Guerra e Pace, potrebbero essere gli equivalenti letterari del viaggio attraverso la taiga, […] Qui non c’è un dettaglio che attiri più di un altro; non si può dettagliare la taiga, ci si lascia prendere, ammaliare, annichilire dalla successione ripetuta all’infinito dell’identico.[…] E il mare? Mi direte, il mare non dona la stessa sensazione di bellezza senza frontiere? La grande differenza con la taiga è che il mare è sterile, monotono che si ripete senza rinnovarsi”28. Scrivo queste righe su una terrazza che affaccia sul mare di Sardegna e alzando gli occhi mi sembra che Fernandez esageri, il mare che vedo si rinnova continuamente e le sue sfumature di colore sono infinite, piene di vita. *** La giornata passò così, riposante, col finestrino aperto sulla taiga. Dopo la cena mi addormentai più o meno con l’ora di Mosca. Arrivammo a Novosibirsk nel pomeriggio dell’in119


domani verso le tre e un quarto. Una fermata abbastanza lunga da permettermi di comprare una scatola di caffè in polvere. Questo era diventato il problema principale della mia ultima giornata di viaggio. Il pacchetto di tè che stava sul treno a Pechino era finito poco dopo la frontiera mongola, gli inservienti cinesi ai quali avevo chiesto di sostituirlo, prima non avevano capito, poi mi avevano fatto intendere che le ferrovie cinesi mi fornivano abbastanza tè per il percorso in Cina, ma non oltre. Al vagone ristorante sovietico non vendevano nulla, o forse io non ero stato in grado di spiegarmi. Contavo dunque sulla prima grande stazione dove in uno spaccio – a Irkutsk avevo visto dal finestrino che esistevano – avrei potuto acquistare altro tè, oppure una scatola di caffè in polvere. Questo era un prodotto che esisteva in Urss, ne ero sicuro, ne avevo bevuto ad Hanoi nelle case dei corrispondenti sovietici. E, se la memoria non mi ingannava, non era nemmeno cattivo, anzi... Quella di Novosibirsk era per certo una grande stazione. Novosibirsk è la più grande città siberiana e la sua stazione la più grande della Siberia, anzi Novosibirsk è una stazione. Nacque come cantiere della Transiberiana nel 1893 per una ragione elementare: in quel punto l’Ob, il più grande fiume siberiano, scorre trattenuto da uno zoccolo di granito che impedisce alle gi120


gantesche piene primaverili, quando il fiume si allarga fino a dieci, anche dodici chilometri, di inondare la strada ferrata. Ed essere sull’incrocio tra il fiume, che è un’altra grande via di comunicazione della Siberia, e la ferrovia, ha fatto di Novosibirsk il centro più importante della Siberia. Il corpo centrale della stazione aveva una sua dignità architettonica severa che non lasciava spazio ad alcuna frivolezza consumistica, ma ai lati c’erano costruzioni più basse, una serie di spacci e negozi. Il treno si fermò sul terzo binario, con la locomotiva all’altezza di quella di un treno di coscritti, fermo sul secondo binario, che andava in direzione opposta. Almeno così pensai: dai finestrini si affacciavano dei giovanotti, quasi tutti in canottiera, tutti rapati a zero, quasi tutti con in mano una bottiglia di birra e di vodka. Schiamazzavano, urlavano, berciavano senza ritegno. Quando dal nostro treno scese, sui suoi altissimi tacchi a spillo, la bellezza mongola, partì una salva quasi assordante di fischi e ululati. Ero deciso a trovare il caffè in polvere e attraversai i binari, non c’erano sottopassaggi nella stazione di Novosibirsk, come in tutte le stazioni della Transiberiana del resto. Mi affacciai agli spacci che avevo visto dal finestrino arrivando, uno vendeva solo sigarette e fiammiferi, un altro giornali. Nel terzo vidi, attraverso 121


la folla che si accalcava attorno ai banchi, qualcosa che mi era familiare: una sfilata di scatole di ananas vietnamita, e gli avventori uscivano tutti con almeno una di quelle scatole. Tenevo stretti in mano una decina di rubli che avevo conservato dal mio passaggio da Mosca, due anni prima, e cercai di farmi largo tra la folla per vedere se ci fosse anche del caffè. Ma c’erano solo ananas. A una delle commesse chiesi “Caffè?”, per fortuna questa è una parola che si dice nello stesso modo in quasi tutte le lingue del mondo. La commessa mi guardò con un’aria tra stupita e indignata, come se dicesse: “Ma cosa vieni a chiedere caffè, se oggi ci sono gli ananas.” Poi con un gesto imperioso mi indicò l’uscita. Non mi ero accorto che c’era una fila, disordinata, ma pur sempre una fila, che si formava fin dal marciapiede della stazione. Per fortuna uscii e vidi attorno al mio treno i movimenti inequivocabili che precedono la partenza: gli ultimi passeggeri che salivano, i primi sportelli che venivano sbattuti. Mentre correvo mi sbracciavo e il giovanotto coi baffi del mio vagone mi vide. Ridiscese e trattenne la mano del ferroviere che stava per chiudere lo sportello indicando con l’altra mano nella mia direzione. Il ferroviere si divincolò, urlò qualcosa e non 122


guardò verso di me che intanto ero arrivato al marciapiede tra il primo e il secondo binario. Anche il treno dei coscritti stava per muoversi. Il ferroviere si allontanò, mi vide, capì, e alzò le spalle: il treno già si muoveva, il mio compagno di viaggio teneva lo sportello aperto, con uno scatto disperato mi afferrai al mancorrente esterno e allungai l’altra mano, sentii uno strattone robusto e mi trovai con entrambi i piedi sul predellino. Dal treno dei coscritti partì un “Urrah” fragoroso. “Grazie” dissi al mio salvatore che si presentò. Era rumeno, secondo ufficiale di marina. Col suo equipaggio, il gruppo che faceva chiasso al vagone ristorante, aveva consegnato ai cinesi una nave costruita nei cantieri del Mar Nero e ora faceva ritorno in patria. “Sull’aereo c’era posto soltanto per il capitano, così a me è toccato il treno. In prima classe, per fortuna. L’equipaggio invece deve viaggiare in seconda. Sa, è il socialismo.” Questo lo avevo capito da me, ma non glielo dissi, per ringraziarlo gli proposi di brindare dopo cena. “Ho una bottiglia di vodka cinese, potremmo festeggiare questo salvataggio.” Mi ringraziò calorosamente, e proprio in quel momento fummo investiti da un’ondata di profumo dolce e fortissimo sotto il quale si percepiva un sottile, ma 123


preciso odore di grasso di montone. Altezzosa, scortata da due suoi connazionali, passava la ragazza mongola. “Sa chi è?” mi chiese il rumeno. Lo ignoravo. “È la Brigitte Bardot della Mongolia,” mi disse lui, senza staccarle gli occhi di dosso “e sta andando a Mosca per girare un film. Tutto il treno parla solo di lei.” Continuavamo a saltare sugli scambi della stazione di Novosibirsk ingombri di treni merci, su uno di questi, tutto chiuso, si leggeva scritto col gesso in grossi caratteri cirillici: HANOI, HAIPHONG.

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NOVOSIBIRSK-MOSCA

I quartieri tutti moderni, attraversati da larghissimi viali dai marciapiedi polverosi, e gli impianti industriali della capitale siberiana sfilarono rapidamente e di nuovo ai lati del treno non ci fu altro che la taiga con le sue betulle che danzavano cadenzate dal rumore regolare delle ruote. Betulle, betulle-betulle, betulle-betulle, betulle... Eravamo in tre nel corridoio a fissare quasi ipnotizzati il balletto regolare degli alberi. Gli altri due erano gli unici europei con i quali da Pechino non avevo scambiato neanche una parola. Il più anziano, con un grande ciuffo ispido di capelli bianchi che crescevano dritti in tutte le direzioni e due enormi sopraccigli cespugliosi, si rivolse a me: “L’ha scampata bella, non deve essere piacevole trovarsi a Novosibirsk in attesa di un treno. Avrebbe avuto dei guai con la polizia.” “Non ho pensato a questo mentre correvo” gli risposi. “Poteva essere un’avventura interessante.” “Be’, non la consiglierei a nessuno. A me è successo mentre tornavo dall’Asia centrale a Mosca. Avevo lasciato i biglietti e i soldi sul treno che era partito e nes125


suno voleva credere alla mia storia. Il ferroviere che mi aveva visto correre inutilmente dietro il treno non si trovava. Fu una bella fatica convincere i poliziotti a chiedere alle stazioni successive di controllare il mio bagaglio. Solo due giorni dopo, quando il treno arrivò a Mosca, fu possibile risolvere il problema. Si scusarono e mi spedirono in aereo. Ma quei due giorni, non li auguro a nessuno.” Il mio interlocutore era uno scrittore jugoslavo, di Dubrovnik, e amava viaggiare in treno. Era stato in Cina per una serie di conferenze sulla letteratura contemporanea jugoslava. Il suo accompagnatore era un interprete di cinese ma la sua presenza era stata quasi inutile. “I cinesi hanno insistito per tradurre loro stessi i miei discorsi. Avere un compatriota come interprete è stata però una sorta di assicurazione sulla fedeltà degli interpreti cinesi.” Ma erano stati fedeli? “Più o meno, ma nel complesso si può dire che lo sono stati” rispose l’interprete che fino a quel momento sembrava non ascoltare nemmeno. Lo scrittore non voleva parlare della Cina, ma dell’Italia, cosa che a me invece non interessava affatto, anche perché dopo due anni di assenza non sapevo cosa dire. Così proposi anche a loro di venire a bere un bicchiere di vodka cinese dopo cena. Più tardi mentre leggevo nel mio scompartimento 126


qualcuno bussò. Era l’ufficiale di marina rumeno, aveva un’aria imbarazzata e ribalda allo stesso tempo. “Sono venuto a scusarmi, stasera non potrò essere da lei.” Mi guardò con aria complice. “Sa, ho un appuntamento con Miss Mongolia. Lei capisce... una mongola... per un marinaio... non succede mica tutti i giorni.” Gli espressi tutta la mia comprensione e i miei auguri per il successo della sua impresa. Gli jugoslavi invece vennero e, a metà bottiglia, si lanciarono in racconti di guerra partigiana. Lo scrittore raccontava in prima persona, il suo interprete, troppo giovane per aver combattuto contro nazisti e fascisti, riportava storie che aveva sentito. Io li stavo ad ascoltare in silenzio, ma loro non sembravano molto interessati alla mia attenzione, spesso scivolavano senza accorgersene nella loro lingua. Dovevano essere circa la dieci di sera quando di fronte a noi, verso Occidente, apparve un bagliore rossastro che illuminava in lontananza il cielo sopra le betulle. Via via che il treno avanzava il bagliore diventava più forte e più vivido. Poi ci fummo in mezzo, non solo il cielo ma tutto attorno a noi era rosso fuoco. Alla foresta di betulle ora seguiva una foresta di ciminiere che eruttavano fiamme bluastre, bianche, ma soprattutto rosse. 127


Che la Siberia sia un alternarsi di foreste senza fine e di centri industriali giganteschi si sa. Ma in nessuno di questi centri ero passato di notte e le fiamme dei complessi industriali si rivelarono lo spettacolo più affascinante della parte sovietica del viaggio. Il treno continuò a correre per un quarto d’ora almeno prima di fermarsi alla stazione di Omsk. Omsk è una città più piccola, ma più antica di Novosibirsk ed è la capitale del petrolio siberiano. Il treno si fermava per un quarto d’ora e proposi di scendere per una boccata d’aria. “Una boccata di petrolio, vorrà dire” scherzò lo scrittore jugoslavo, ma scendemmo. C’era grande animazione nella stazione che sembrava anch’essa immersa nella luce rossastra delle fabbriche, faceva molto freddo e un vento teso e secco portava lontano i fumi industriali. Ma i due jugoslavi non si trovarono a loro agio e risalirono subito. Io rimasi vicino allo sportello e quando vidi agitarsi i ferrovieri, risalii in tutta fretta. I due jugoslavi si erano ritirati nel loro scompartimento. I miei obblighi di ospitalità erano finiti, anch’io me ne andai a dormire. Mi svegliai poco prima di Sverdlovsk, che oggi ha ripreso il nome che aveva prima della Rivoluzione d’ottobre: Ekaterinburg, l’ultima fermata siberiana, la città dove fu ucciso lo zar Nicola II e la sua famiglia. Dopo 128


Sverdlovsk si attraversavano gli Urali e dopo altri 1.818 chilometri saremmo arrivati a Mosca. Feci l’ultima passeggiata sul marciapiede della stazione, erano le dieci e mezza di domenica, avevo lasciato Hanoi esattamente otto giorni prima e questa sarebbe stata la seconda domenica su quel treno. Il mio, proprio come sul treno vietnamita, non fu un pranzo domenicale. Il ricchissimo menu dei primi giorni era diventato poverissimo, appena una zuppa di cavoli molto acquosa e pollo. L’indomani c’era solo zuppa, niente pollo. Credo di aver capito allora quanto la pianificazione fosse estranea al paese della pianificazione. Comunque, a giudicare dai racconti di chi ha viaggiato dopo di me sui treni russi, l’eccezione era stata il primo ricchissimo pasto e le zuppe acquose la regola. Forse gli unici a saperlo in anticipo erano i due inservienti. Da quando avevamo lasciato la Cina, preparavano i loro cibi da soli. Una cucina molto saporita diffondeva odori stuzzicanti per tutto il vagone letto. Una vera provocazione per chi usciva dal ristorante sempre più insoddisfatto via via che i giorni passavano. La traversata degli Urali passò inosservata, in quel punto la catena si apre in una vallata amplissima, più che una vallata è la continuazione delle grandi pianure. Per segnare il passaggio c’è un cippo che dice che si sta cambiando continente, si abbandona l’Asia e si entra in Europa. Non c’è differenza nel paesaggio, non un va129


lico, nulla. La pianura russa e quella siberiana si fondono l’una nell’altra. Non vidi il cippo, e solo nel tardo pomeriggio ebbi un segno che qualcosa era ormai cambiato. All’improvviso la foresta di betulle finì e davanti ai finestrini del treno si aprirono i campi, campi arati che si estendevano all’infinito. Prima solo betulle, ora solo campi di terra rivoltata, segnati dalle lunghe strisce parallele dei solchi. Era ormai il crepuscolo di quella domenica quando apparvero i trattori, erano almeno una decina e avanzavano verso l’orizzonte, verso l’infinito, disposti lungo una linea obliqua, in una marcia apparentemente senza fine. Di fronte a loro la terra non era arata, e quando il treno superò la loro linea la terra era brulla e compatta, senza i solchi paralleli lasciati dalle lame degli aratri. Forse a un certo punto i trattori avrebbero invertito la marcia e avrebbero ripreso ad arare in direzione opposta. Ma dove si sarebbero fermati? Fin dove e fino a quando avrebbero continuato la loro marcia lenta, regolare, inesorabile? Non si vedeva nessun segno di vita, nessun centro abitato, forse erano trattori fantasma, condannati a continuare fino a quando tutta la terra visibile non fosse stata segnata dai loro vomeri? La velocità del treno e il buio allontanarono quello spettacolo non so se angoscioso o titanico. Qualcuno bussò alla porta. Era l’ufficiale rumeno. 130


“Stanotte,” disse “l’appuntamento è per stanotte” e mi strizzò l’occhio. Lo guardai stupefatto, senza capire sul momento a cosa alludesse. Pensavo ad altro. Lui sorrise quasi imbarazzato, mi salutò e se ne andò. Oramai, me ne resi conto in quel momento, era tempo che il viaggio finisse, anzi era già finito. Tutto quello che mi circondava su quel treno era diventato senza significato. Non vidi Kazan, non vidi Nižnij Novgorod, che allora si chiamava Gorkij. Arrivammo a Jaroslavl’ l’indomani mattina alle otto. Eravamo oramai in Europa. I boschi si alternavano ai campi e alle fattorie, sulle strade circolavano camion e automobili, c’erano città grandi, ma soprattutto città piccole e villaggi. Non c’era però il brulicare della Cina, e non c’era la ricchezza di altri paesi europei. Man mano che ci avvicinavamo a Mosca anche il traffico ferroviario aumentava, incrociavamo altri treni o li superavamo fermi in piccole stazioni. La metropoli si annunciò con i quartieri di grandi edifici grigi, uniformi e compatti, da lontano simili a quelli di qualsiasi metropoli industriale. Ciò che faceva diversa la periferia di Mosca erano le fabbriche tra gli edifici e le vaste superfici di terreno dove si affastellavano piccoli box di legno o di metallo, baracche costruite con mezzi di fortuna, circondate da qualche metro quadro di terra a volte coltivata a orto, a volte 131


usata come deposito di oggetti chiaramente inutili e altrettanto chiaramente considerati utilizzabili in un qualche improbabile futuro per qualche improbabile progetto. Dell’esistenza di queste baracche poi mi furono date spiegazioni diverse: un residuo della “immortale anima contadina russa” secondo alcuni; i garage delle automobili private della nascente motorizzazione individuale sovietica, secondo altri; le dacie dei poveri per i più. Alla Jaroslavskaja, la stazione dell’estremo oriente di Mosca, il treno entrò con un poco di ritardo, verso l’una. La Jaroslavskaja si trova sulla piazza Komsomolskaja, che però tutti hanno sempre chiamato la piazza delle tre stazioni: le altre due sono la Leningradskaja da dove partono i treni per l’altra capitale e per il nord, e la Kazanskaja, da dove partono i treni che raggiungono le repubbliche dell’Asia centrale. A Mosca le stazioni sono aperte, in un paese dove tutto è chiuso le automobili arrivano a fianco dei marciapiedi, non sembra esserci nessun controllo, i passeggeri scendono dal treno e si riversano sulla piazza. Estremo Oriente, Asia centrale, Grande Nord prevalgono per un momento, colorano la piazza di un tono particolare, poi si mischiano alla folla che sale dalla stazione della metropolitana, si perdono e si confondono. 132


Il marciapiede era ingombro di gente in attesa. I corridoi del treno erano animatissimi. I due corrieri diplomatici cinesi, aiutati dagli inservienti, scaricarono le loro valigie che vennero poi issate su un piccolo pullman. L’ufficiale rumeno urlava ordini, se la prendeva con uno dei suoi marinai, sembrava nervosissimo. Forse la sera prima la sua avventura mongola non era finita come lui si aspettava. L’oggetto dei suoi desideri, poco più in là, aveva già tra le braccia un gigantesco mazzo di fiori e veniva festeggiata da un gruppo misto di russi e mongoli. I due scrittori jugoslavi vennero a salutarmi e scesero, assistiti da un autista della loro ambasciata. I due francesi riuscirono a fingere di non vedermi e a non salutarmi benché una delle loro valigie mi avesse schiacciato un piede. Gli studenti vietnamiti sciamavano allegramente verso l’uscita, confusi con la folla dei russi, buriati, yakuti, che scendevano dai vagoni aggiunti lungo il percorso. Ormai il marciapiede era quasi sgombro. Vidi i due ambasciatori vietnamiti, si girarono verso di me e, con sorrisi larghissimi, mi salutarono, augurandomi buona fortuna. La loro cordialità aveva seguito una legge precisa: aumentava proporzionalmente alla distanza dal loro paese. 133


E ora il viaggio era veramente finito. Raccolsi le mie cose e scesi dal treno. Così, nel febbraio 1993 mettevo fine al racconto del viaggio, non traevo conclusioni sull’esperienza, eppure le poche cose che avevo visto, i racconti che avevo sentito mi furono di grande utilità, negli anni successivi, per meglio capire l’Asia e il mondo, i rapporti non semplici che esistevano tra Cina, Urss e Vietnam. Sarebbero bastati i passaggi di frontiera con i loro riti ben studiati e preordinati a dare indicazioni su quanto sarebbe successo negli anni a venire. Rivedendo il viaggio con gli occhi di oggi, e con gli occhi di viaggiatori che hanno fatto il percorso dopo di me, scopro che probabilmente nulla è rimasto del mondo che ruotava attorno alla lunga linea ferrata che ho percorso. Mary Morris scrive29: “Il mondo che ho visto allora non è lo stesso mondo di oggi, ma i suggerimenti, le ‘dritte’ su cosa stava per trasformarsi, erano nell’aria.” Lei viaggiava nel 1986, ma dodici anni prima i segni di quello che stava per trasformarsi non c’erano ancora, o almeno non erano evidenti, al massimo si poteva percepire qualche scricchiolio del vecchio mondo socialista sul punto di sparire. Ma l’attenzione era concentrata altrove e la Cina era sempre la Cina di Mao il cui potere appariva indiscusso, altrettanto solida era in apparenza l’Urss brežneviana e il Vietnam era eroico, una realtà trasformata in mito che serviva a 134


occultare, anche ai miei occhi, le crepe di un sistema che nel giro di tre lustri sarebbe crollato o si sarebbe trasformato in qualcosa di molto diverso. Rifare il viaggio? Non so. Nel 2014 se si cerca “Transiberiana” su internet i primi risultati riguardano viaggi organizzati, su treni di lusso e non di lusso, ma comunque senza nessuna possibilità di avventura propriamente ferroviaria, tutto è organizzato, si sosta in molti luoghi in alberghi con più o meno stelle. Si può certamente viaggiare, da soli sui treni “normali”, qualcuno lo fa. Per quanto mi riguarda non credo che mi imbarcherei in una simile impresa, certamente non potrei ritrovare il sapore di quei giorni. Mi rimane un dubbio: chissà se alla richiesta di un visto “per via di terra” i funzionari delle ambasciate mi risponderebbero ancora: “Ma perché non prende l’aereo, come tutti gli occidentali?” Roma-Carloforte, agosto-settembre 2014

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LIBRI CHE MI HANNO AIUTATO PER QUESTO RACCONTO

Vanni Beltrami, Breviario per nomadi, Roma, Voland, 2011 Mauro Buffa, Sulla Transmongolica, Portogruaro, Ediciclo editore, 2012 Luciana Castellina, Siberiana, Roma, Nottetempo 2012 Remo Ceserani, Treni di carta, Genova, Marietti, 1993 European Rail Timetable, Summer 2014 edition, Oundle (UK), European Rail Timetable Limited, 2014 Dominique Fernandez, TranssibĂŠrien, Paris, Grasset, 2012 Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by Rail, Doubleday, New York, 1991 Mark Ovenden, Railway Maps of the World, New York, Viking Penguin, 2011 Overseas Timetable, Thorpe Wood, Peterborough (UK), Thomas Cook Publishing, 1993 Angelo Maria Ripellino, In Transiberiana, Viterbo, Stampa alternativa, 1994 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi 1988 Robert Strauss, Trans-Siberian Rail Guide, Chalfont St. Peter, Buks (UK), Brandt Pubblication, 1991 137


Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Milano, TEA, 2014 Tiziano Terzani, Un’idea di destino. Diari di una vita straordinaria, Milano, Longanesi, 2014 Paul Theroux, Il tao del Viaggio, Milano, Dalai editore, 2012 Paul Theroux, The Great Railway Bazaar, London, Penguin Books, 1977 Bryn Thomas, Trans-siberian Handbook, Hindhead (UK), Trailblazer Publications, 1991

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NOTE

1 Renata Pisu, Pechino-Mosca dal finestrino del treno; Sul treno dei desideri tra i gulag siberiani; Un kolossal di carta il sogno siberiano, “la Repubblica”, 9, 10, 12 marzo 1991. 2 Italo Calvino, Collezione di sabbia, Milano, Mondadori, 1990. 3 Mark Ovenden, Railway Maps of the World, New York, Viking Penguin, 2011. 4 La mappa è stata pubblicata per la prima volta nel 2008 dalla rivista “New Scientist”. 5 Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Milano, TEA, 2014, p. 309. Da allora poco è cambiato e le ferrovie cambogiane offrono solo servizi irregolari sulla linea percorsa da Terzani nel 1993 e su quella che collega Phnom Phen alla città portuale di Sihanukville. 6 L’Australe era stata noleggiata per trasportare in Vietnam gli aiuti raccolti in Italia dall’Associazione Italia-Vietnam, da vari enti locali, da semplici cittadini. L’idea di spedire tutto il materiale, dai medicinali ai trattori per risaia, fu di Luciano Sossai, presidente dell’Associazione Italia-Vietnam della Compagnia portuale di Genova. Un uomo generoso, coraggioso, in139


telligente e tenace che, malgrado le molte opposizioni, riuscì nel suo intento: si imbarcò con gli aiuti e arrivò via mare in Vietnam. Luciano Sossai ci ha lasciati a 81 anni, il 26 luglio 2014, non prima di aver organizzato una ricca serie di iniziative per il quarantesimo anniversario del viaggio dell’Australe. 7 Paul Theroux, The Great Railway Bazar, London, Penguin Books, 1977, p. 271 e sgg. 8 Tiziano Terzani, Un indovino… cit., p. 309. 9 Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by Rail, New York, Doubleday, 1991. 10 Thay è il termine con cui i vietnamiti designano gli europei in generale. Significa semplicemente Occidente, occidentale ma con l’andare del tempo ha assunto un significato dispregiativo. Lien Xo significa sovietico e veniva usato per designare tutti i cittadini dei paesi dell’Est. 11 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi, 1988, p. 42. 12 Remo Ceserani, Treni di carta, Genova, Marietti, 1993 pp. 197-198. 13 Da una lettera del 22 agosto 1837, citata in Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p. 58. 14 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p. 59. 15 Jules Michelet, La mer, Paris, L’Age d’homme, 1980, p. 198. 140


16 John Ruskin, The complete Works, a cura di E.T. Cook e A. Wedderburn, London, 1903. Volume XXXVI, p. 62 (citato in Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p.57). 17 Dolf Sternberger, Panorama del XIX secolo, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 73, citato in Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p. 65. 18 Tiziano Terzani, Un’idea di destino. Diari di una vita straordinaria, Milano, Longanesi, 2014, p. 133. 19 Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by Rail, New York, Doubleday, 1991, p. 7. 20 Mary Morris, Wall to Wall… cit. 21 Tiziano Terzani, Un indovino… cit., p. 332. 22 Mauro Buffa, Sulla Transmongolica, Portogruaro, Ediciclo editore, 2012. 23 Mary Connor, Wall to Wall… cit., p. 84. 24 Robert Strauss, Trans-Siberian Rail Guide, Chalfont St. Peter, Buks (UK), Brandt Pubblication, 1991, p. 34. 25 Mauro Buffa, SullaTrasmongolica, cit. 26 Scrittore e saggista francese che nel 2010 ha percorso la Transiberiana con un gruppo di scrittori invitati nel quadro di scambi culturali. 27 Luciana Castellina, Siberiana, Roma, Nottetempo, 2012, pp.80-81. 28 Dominique Fernandez Transsibérien, Paris, Grasset, 2012, p. 156. 29 Mary Morris, Wall to wall … cit., nota introduttiva. 141



INDICE

Vent’anni dopo… più altri venti prima

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Treno amore mio Hanoi-Dong Dang Dong Dang-Nanning Nanning-Pechino Pechino Pechino-Erlian Erlian-Ulan Bator Ulan Bator-Novosibirsk Novosibirsk-Mosca

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19 27 32 46 55 69 92 110 125

Libri che mi hanno aiutato per questo racconto

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Note

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In redazione Mariagiulia Dello Russo Grafica Progetto: Alberto Lecaldano Font: Voland, Luciano Perondi, 2010 Stampa Grafiche del Liri via Napoli, 85 03036 Isola del Liri (FR) Finito di stampare: ottobre 2014 Edizioni Voland 00185 Roma, via Napoleone III 12 tel. 06 4461946 www.voland.it e-mail: redazione@voland.it


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