AMÉLIE NOTHOMB PÉTRONILLE VOLAND AMAZZONI
AmĂŠlie Nothomb
PĂŠtronille traduzione di Monica Capuani
Voland
Titolo originale: Pétronille © Éditions Albin Michel – Paris 2014 © dell’edizione italiana Voland s.r.l. Roma 2014 Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2015 ISBN 978-88-6243-176-7
Dello stesso autore presso le edizioni Voland: Igiene dell’assassino Sabotaggio d’amore Le Catilinarie Attentato Ritorno a Pompei Mercurio Stupore e tremori Metafisica dei tubi Cosmetica del nemico Dizionario dei nomi propri Antichrista Biografia della fame Acido solforico Diario di Rondine Né di Eva né di Adamo L’entrata di Cristo a Bruxelles Causa di forza maggiore Il viaggio d’inverno Una forma di vita Uccidere il padre Barbablù La nostalgia felice
L’ebbrezza non si improvvisa. Rientra nel campo dell’arte, che esige talento e cura. Bere a caso non porta da nessuna parte. Se la prima sbornia il più delle volte ha del miracoloso, dipende unicamente dalla nota fortuna del principiante: situazione che, per definizione, non si ripeterà. Per anni ho bevuto come tutti, a seconda delle serate, roba più o meno forte, nella speranza di raggiungere il livello di ubriachezza che avrebbe reso l’esistenza accettabile: con il principale risultato di svegliarmi con i postumi della sbornia. Eppure non ho mai smesso di sospettare che si potesse trarre un beneficio maggiore da questa ricerca. Il mio temperamento incline alle sperimentazioni ha preso il sopravvento. Come gli sciamani amazzonici che si infliggono diete implacabili prima di ruminare una pianta sconosciuta allo scopo di scoprirne le proprietà, ho fatto ricorso anch’io alla tecnica investigativa più vecchia del mondo: il digiuno. L’ascesi è un mezzo istintivo per creare in sé stessi il vuoto indispensabile alla scoperta scientifica. Niente mi mette più tristezza delle persone che, al momento di assaggiare un gran vino, pretendono di “mangiare qualcosina”: è un insulto al cibo e ancora di più alla bevanda. “Altrimenti mi dà alla testa” farfugliano, peggioran-
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do la situazione. Vorrei suggerire loro di non guardare le belle ragazze: rischierebbero di restarne affascinati. Bere con l’intenzione di evitare l’ebbrezza è tanto disonorevole quanto ascoltare musica sacra proteggendosi contro il sentimento del sublime. Quindi ho digiunato. E ho rotto il digiuno con un VeuveClicquot. L’idea era quella di iniziare con un buon champagne, e il Veuve non era una cattiva scelta. Perché lo champagne? Perché la sua ebbrezza non ha eguali. Ogni alcolico possiede una particolare forza d’urto; lo champagne è uno dei pochi a non suscitare metafore volgari. Eleva l’anima verso quella che doveva essere la condizione del gentiluomo all’epoca in cui questa bella parola aveva un significato. Concede una grazia disinteressata, corredata di leggerezza e profondità al tempo stesso, esalta l’amore e conferisce eleganza alla perdita di quest’ultimo. Per queste ragioni, avevo pensato che si potesse trarre da quell’elisir un beneficio ancora maggiore. Fin dal primo sorso, ho capito di avere ragione: lo champagne non era mai stato così delizioso. Le trentasei ore di digiuno avevano affilato le mie papille gustative, che rilevavano i minimi sapori della lega e sussultavano di una voluttà nuova, dapprima virtuosa, presto brillante, infine incantata. Ho continuato coraggiosamente a bere e, man mano che svuotavo la bottiglia, ho sentito che la natura dell’esperienza cambiava: la condizione che stavo raggiungendo meritava di essere definita non tanto ebbrezza, quanto piuttosto uno “stato dilatato di coscienza”, come viene chiamato con pompa scientifica odierna. Uno sciamano lo avrebbe defini-
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to trance, un tossicomane avrebbe parlato di trip. Ho cominciato ad avere delle visioni. Erano le sei e mezzo del pomeriggio, e intorno a me si stava facendo buio. Ho guardato verso il punto più nero e ho visto e udito dei gioielli. I loro molteplici sfavillii stormivano di pietre preziose, d’oro e d’argento. Un serpeggiare rettilesco li animava, non invocavano i colli, i polsi e le dita che avrebbero dovuto ornare, bastavano a sé stessi e proclamavano l’assolutezza del proprio lusso. Man mano che si avvicinavano a me, percepivo la loro freddezza metallica. Vi attingevo un godimento di neve, avrei voluto affondare il volto in quel tesoro ghiacciato. Il momento più sbalorditivo fu quando la mia mano sperimentò veramente il peso di una pietra preziosa nel palmo. Ho lanciato un grido che ha distrutto l’allucinazione. Ho bevuto un altro bicchiere e ho capito che la bevanda scatenava visioni che le erano affini: l’oro del suo abito era colato in braccialetti, le bollicine in diamanti. Al freddo dell’argento corrispondeva il sorso gelato. La tappa successiva è stata il pensiero, se può definirsi tale il flusso che si è impadronito della mia mente. Agli antipodi delle ruminazioni in cui poteva restare invischiata, ha cominciato a volteggiare, a crepitare, a scagliare elementi leggeri: era come se cercasse di affascinarmi. Questo è così poco da lei che mi ha fatto ridere, tanto sono abituata a sentirla rivolgermi recriminazioni, come un inquilino indignato per la cattiva qualità dell’alloggio. Trasformarmi all’improvviso in una compagnia così piacevole per me stessa mi ha aperto nuovi orizzonti. Mi sareb-
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be piaciuto che godesse della mia presenza anche qualcun altro. Ma chi? Ho passato in rassegna le mie conoscenze, tra le quali non mancavano persone simpatiche. Non ne ho trovata nessuna che facesse al caso mio. Serviva un essere che accettasse di piegarsi a questa ascesi e fosse disposto a bere con equivalente fervore. Non avevo la presunzione di credere che le mie divagazioni avrebbero potuto divertire un adepto della sobrietà. Nel frattempo, avevo vuotato la bottiglia ed ero ubriaca a puntino. Mi sono alzata e ho cercato di camminare: le mie gambe non si capacitavano del fatto che una danza così complicata non esigesse alcuno sforzo in condizioni normali. Ho barcollato fino al letto e ci sono sprofondata dentro. Quello spossessamento di sé era una goduria. Ho capito che lo spirito dello champagne approvava la mia condotta: lo avevo accolto come un ospite di riguardo, lo avevo ricevuto con estrema deferenza, e lui in cambio mi prodigava i suoi benefici a profusione; ma quel naufragio finale era la condizione imprescindibile per giungere a uno stato di grazia. Se Ulisse avesse ceduto alla nobile imprudenza di non legarsi all’albero maestro, mi avrebbe seguita là dove mi trascinava il potere ultimo della bevanda, sarebbe piombato con me in fondo al mare, cullato dal biondo canto delle sirene. Non so quanto tempo posso aver trascorso in quegli abissi, in uno stadio intermedio tra il sonno e la morte. Mi aspettavo un risveglio comatoso. Mi sbagliavo. Emergendo da quel tuffo, ho scoperto ancora un’altra voluttà: mi sentivo zuccherina come frutta candita, e provavo con estrema
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chiarezza, nei minimi particolari, la sensazione del confort che avevo intorno. Il contatto degli indumenti con la pelle mi faceva sussultare, la sensazione del letto che accoglieva la mia debolezza propagava una promessa d’amore e di comprensione fino al midollo delle ossa. La mia mente marinava in un bagno di idee allo stato embrionale, nel senso etimologico del termine: un’idea è innanzitutto qualcosa che si vede. Vedevo dunque che ero Ulisse dopo il naufragio, arenato su una spiaggia sconosciuta, e prima di escogitare un piano assaporavo lo stupore di essere sopravvissuta, di avere organi intatti e un cervello non più suonato di prima, e di giacere sulla parte solida del pianeta. Il mio appartamento parigino si trasformava nel lido ignoto e resistevo al bisogno di andare in bagno, per conservare più a lungo la curiosità per la misteriosa popolazione che avrei sicuramente incontrato. A pensarci bene, era l’unica imperfezione della mia condizione: avrei voluto poterla condividere con qualcuno. Nausicaa o il Ciclope mi sarebbero andati bene. L’amore o l’amicizia sarebbero stati casse di risonanza ideali per tanto stupore. “Mi serve un compagno o una compagna di bevute” ho pensato. Ho passato in rassegna la gente che conoscevo a Parigi, dove mi ero appena trasferita. Nella breve lista delle mie conoscenze c’erano sia persone molto simpatiche, ma che non bevevano champagne, sia veri bevitori di champagne che non mi ispiravano molta simpatia. Sono riuscita ad arrivare in bagno. Al ritorno, ho guardato dalla finestra la povera vista di Parigi che mi si offriva:
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alcuni pedoni calcavano le tenebre della strada. “Sono parigini” ho pensato a mo’ di entomologa. Mi sembrava impossibile che non sarei riuscita a trovare l’eletto o l’eletta in mezzo a tanta gente. “Nella Ville Lumière ci deve pur essere qualcuno con cui bere la luce.”