Incipit terrarium

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GIORGIO MANACORDA TERRARIUM VOLAND INTRECCI



Giorgio Manacorda

Terrarium Voland


© 2014 Pubblicato in accordo con l’Autore c/o Agenzia Letteraria Kalama © della presente edizione Voland SRL Roma 2014 Tutti i diritti riservati Prima edizione: gennaio 2015 ISBN 978-88-6243-175-0

Dello stesso autore presso le edizioni Voland: Il corridoio di legno Delitto a Villa Ada Pasolini a Villa Ada Il cargo giapponese




Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso. (Inferno XXVI, 142)



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Se alzo gli occhi e guardo fuori vedo alberi blu, è sera e il cielo vira dal grigio ferro al viola, al violetto, al lilla, ma di giorno è sempre giallo, di un giallo violento e denso. Le case, le macchine, i vestiti, insomma gli oggetti prodotti dall’uomo hanno sì i colori loro imposti, ma poi quella luce gialla che cade dall’alto modifica tutto, appiattisce e corrompe. Non osi più allungare la mano per afferrare una cosa d’istinto, devi prima guardare bene, prendere le misure e calcolare la tenuta. Tutto è falsato, misure, distanze, luci. È la luce, è proprio la luce. Questo è quello che ci dicono. Parlano di onde, della loro lunghezza, dicono che la luce non è più bianca. Mia cara madre, ho visto un arcobaleno, era grande, vicino e ad arco completo. Le lacrime scendevano da sole mentre lo guardavo. Perché, mi sono detto, perché piangiamo? Non lo sappiamo in che mondo viviamo? Eppure tutti piangono davanti a un arcobaleno che ha solo i toni del marrone e dell’ocra e sfuma nel giallo del cielo. È come se ci strappasse dagli occhi l’allegria della nostra infanzia. Nessuno sa spiegare quello che è successo – perché le stesse cose non riflettono più gli stessi colori. La sovversione cromatica modifica tutto l’esistente: persone, case, sfondi, prospettive. È la fine della profondità, tutto è piatto e sghimbescio. La luce taglia, spezza, allunga e accorcia, avvita e srotola, ed è scomparso il pieno sole. C’è chi dice che è l’inquinamento e chi dice che deve essere esploso qualcosa sul sole, chi mette insieme le due possibilità, e chi addirittura sostiene che sono cambiati i nostri occhi, o stanno cambiando: si starebbero scom-


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ponendo come quelli degli insetti. Occhi esagonali autonomi, ognuno con la sua terminazione nervosa che fornisce al cervello una porzione di immagine. Forse non me ne accorgo, ma quello che vedo è già un mosaico. Questo spiegherebbe, quanto meno, la perdita di profondità. Ma i colori? Forse ogni porzione visiva è di colore diverso, e la somma dà questo schifoso risultato, o forse vediamo già l’ultravioletto, e magari questo cambia tutto. Io, certo, so dove è il sole. Anche se non lo vedo. Nessuno lo vede. Il sole c’è sempre perché tutto è giallo, ma non è il sole che conoscevi tu. Queste trasformazioni della visione, se sono vere, sarebbero il più evidente segnale che anche la nostra specie sta mutando. Ne dicono di tutti i colori! Scusa, madre, mi è sfuggita la battuta. Ma non mi va di ridere – né mi viene in mente nulla che tu possa aver vissuto, nulla che somigli, e possa servire da esempio per farti capire. Non puoi aver visto alberi pervinca o prati azzurri, se non nella pittura della prima metà del ’900. Ecco, madre, non riesco ad abituarmi, volevo dirti che mi manca il respiro e mi bruciano gli occhi anche se l’aria seguita a essere trasparente, certo non come prima, ma trasparente e sufficientemente fluida. In questo almeno la luce ci ha graziato. Io non mi abituo perché ho ancora memoria del mondo di ieri, del tuo mondo.


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Eravamo a Villa Ada, avrò avuto dodici anni, un pappagallo bellissimo, verde arancione giallo blu, con tante sfumature diverse, è sceso planando da un albero – nella villa c’era una colonia di quegli uccelli esotici fuggiti dalle case dei ricchi o liberati prima delle ferie estive – insomma, è atterrato sul mio braccio, te lo ricorderai perché sono corso a fartelo vedere: Mamma, mamma! Tu hai girato il tuo sguardo limpido e severo, e il pappagallo è volato via, o è caduto a terra, non so più, certo sul mio braccio è rimasta un’ala, o solo una piuma, con la radice scoperta, marrone e nera che sotto i miei occhi mutava in rosso scuro e subito in un giallo purulento. Mia cara madre, adesso penso che sia stato un segno dell’inizio. Allora non lo sapevamo, non pensavamo alla perversione dei colori, al loro corrompersi e mutare. Ma i colori non sono morti, il mondo non è in bianco e nero, non viviamo in un film d’altri tempi, di quelli che piacevano a te. Siamo già in un film di fantascienza, quelli che non piacevano a me, e ora ci vivo dentro. Vivo nel nostro futuro e ti invidio perché quando c’eri tu valeva la pena anche solo affacciarsi alla finestra o fare una passeggiata sulla spiaggia. Ormai gli oceani sono neri, e tutta l’acqua è nera, anche quella che beviamo. Le spiagge non esistono più. Tutte le coste sono recintate da alte barriere elettrificate per arginare gli anfibi mutanti, i rettili che ormai invadono la terraferma. I pesci sono vicini all’estinzione, mutano e strisciano, preferiscono i corrotti colori del mondo a quel mare di pece – e sono carnivori, mangiano qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Questo è il


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loro mondo. Questi sono i loro colori. Forse ce ne dobbiamo andare, dobbiamo lasciare che la nostra specie si estingua. Ma i bambini resistono. Non vogliono sapere com’era, non hanno ricordi. Vogliono solo sopravvivere. Ai miei occhi non c’è più nulla di normale, ma per loro è tutto normale. Non sono i bambini dei tuoi ricordi, che eravamo noi, certo, con quelle facce tonde e i capelli dritti, vivaci, intelligenti, precoci. Tu ci ricordavi così, e ne eri orgogliosa, anche quando la vita non ha fatto di noi quello che prometteva. I bambini di oggi sono splendidi come tutti i bambini, ma imparano presto a lottare per sopravvivere, a combattere. Sono bambini soldato, ma senza un conflitto, quindi senza eroismi: bambini senza miti né mitologie, bambini spenti o, meglio, pura energia vitale.


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Io non potrei mai vedere la terribile scena che hai visto tu. Ma me lo ricordo quel tuo ricordo: era la seconda guerra mondiale e c’era un treno di deportati, i vagoni erano piombati e dalle feritoie quei poveretti chiedevano acqua. Hai visto una madre dare una brocca a sua figlia, e mandarla al treno; e hai visto la bambina falciata da una raffica di mitra. Perché mi viene in mente quell’episodio? Forse nella sua terribilità aveva un senso. C’erano il bene e il male, ed erano nella storia, erano nel tempo: quel tempo lì, con quelle caratteristiche. Un tempo in cui si potevano fare cose atroci, ma anche puri gesti di bontà: dare da bere agli assetati, e pagarlo con la vita o, ancora peggio, pagarlo con la vita della propria figlia. Quella donna e quella bambina oggi che farebbero? Guarderebbero attonite. Forse senza capire. Un veleno corre ormai nelle nostre vene e ci offusca il cervello: è nell’aria marcia che respiriamo, sale dai terreni incolti, dalle forre fetenti, dai canali ormai mangiati da muschi e licheni, funghi e molluschi, sale dai laghi e dai fiumi che stagnano. L’odore della decomposizione pervade il pianeta. Tutto è avvolto da un invisibile gas, da un sottile penetrante anestetico. La terra è pietosa, accompagna il nostro morire, sopisce il nostro terrore per tutto ciò che striscia, e droga i più piccoli dando loro l’innaturale, assurda forza necessaria alla quotidiana battaglia per la vita.


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Dal mio terrazzo guardo i falchi che sembrano galleggiare sui palazzi. Neri contro il cielo giallo vanno senza muoversi con la grazia tagliente dei predatori, e sono bellissimi. Di colpo piombano nei vicoli della città vecchia o nei piazzali di periferia, là dove le squadre della bonifica urbana non arrivano, e risalgono, nel becco topi, ramarri, salamandre e vipere non ancora giganti. La città è infestata e non si può uscire di casa senza appositi stivaloni, guanti e adeguati lunghi soprabiti. I falchi ci aiutano, ma quanto durerà? Quando cominceranno ad attaccare l’uomo? Quando caleranno a quella inaudita velocità e ci sfonderanno il cranio? Anche loro stanno mutando: crescono di numero e diventano sempre più grossi, e fra non molto non gli basteranno più rettili e roditori. Sazi voleranno su un immenso ossario, come quando voi trovavate quei depositi preistorici sui quali l’umanità ha tanto studiato per capire da dove veniva. Ma non dove andava. Sulle nostre ossa non studierà nessuno perché nessuno sarà più in grado di raccontare il mondo. Queste lettere resteranno lì a marcire, informe traccia della materia intelligente che una volta abitò questo pianeta, a meno che la natura, impietosa, non le voglia conservare trasformate in sassi. Imperituri monumenti senza lettori. Ma questo i falchi non lo possono sapere, si librano lassù e sembrano avere ancora qualcosa di divino, di eterno e inutile, un’ultima grazia – almeno loro non strisciano e scodano nel fango delle nuove paludi, nelle case abbandonate, su quello che resta dell’asfalto delle grandi città.


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Mia cara madre, perdonami, ma ho pensato che quei falchi mi piacciono perché ti somigliano. E mi spaventano perché ti somigliano. Anche tu ti libravi lontana e irraggiungibile, e mi lasciavi quaggiù a strisciare per terra, a inseguirti senza raggiungerti mai – e piombavi su di me per strapparmi il cuore. I figli so’ piezz’ e core dicevano i napoletani dei tuoi tempi. La verità è che i figli hanno il cuore a pezzi, e le madri aeree e implacabili tentano di divorali prima che crescano. I falchi strappano la preda pulsante alla terra come le madri strappano i sentimenti più nascosti dal petto dei figli, che invece scavano, scavano, e gettano sabbia sui loro veri desideri. Le madri si nutrono di quella repressa ferocia e la digeriscono, si beano, perché sanno che anche i figli diventeranno dei falchi col tempo, se le madri glielo permettono, o solo se le madri sbagliano o si distraggono – o se, piombando dall’alto sul figlio, non lo trovano più perché, più astuto o sensibile, ha infilato una tana nell’ultimo lampo, e lì è rimasto all’oscuro del mondo. Ma perché ti dico queste cose? Ormai è troppo tardi, e se anche tu le potessi ascoltare non servirebbe a niente. Non è mai servito a niente.


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Da quando sei morta – e sono passati tanti anni – non ho più messo piede al cimitero. Ho lasciato tutto così, e sono fuggito. Non ho potuto mettere la tua fotografia su un quadrato di marmo davanti alla tua urna. Me l’hanno data in braccio l’urna con le tue ceneri, e non sapevo quello che portavo, come portarti: che cosa era quell’oggetto lì che eri tu ma non lo eri più. Me ne sono liberato come di una cosa infetta. Dietro quel piccolo muro di mattoni. Lontano da me, senza la tua immagine. E non ci cresce neppure l’erba come sulla tomba di tuo marito, che invece è perfetta con la fotografia incollata sulla pietra. Lui sta bene lì, è il suo posto. Tu invece non stai bene da nessuna parte. Ma non te ne importa niente della tua tomba, lo so. Lui sì, lui ci teneva alle forme e alla imperitura sopravvivenza nella memoria dei sepolcri. Così è diventato un monumento. Tu invece rimani dentro di me con la stessa determinazione che avevi in vita. Tu mi hai preso in tuo possesso molto tempo fa. Mi hai espulso e subito risucchiato, mi hai gettato nel mondo e ritirato, mi hai lasciato andare tirando il guinzaglio, e soffocavo come un cane. Un cucciolo per tutta la vita. Non hai mai rinunciato a me, e adesso che sei morta non mi posso più difendere. Posso solo amarti. Non ho bisogno di andare al cimitero. Io ti piango tutti i giorni mentre piango me stesso. “Io ti porto come una ferita / sulla fronte, e non si rimargina.” Non ho più contorni, solo tagli. Sono condannato al ricordo della lacerazione. E tutti mi vedono, tutti vedono il tuo sangue che cola dalla mia fronte.


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Se tu mi potessi ascoltare cercheresti di capire, questo lo so ma non mi consola, perchÊ il tuo sarebbe solo un dolore – e te lo avrei inflitto io.


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