MOST #5
www.eastjournal.net GIUGNO 2013
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OCCUPY MOST
La crisi della democrazia sta facendo risorgere la democrazia stessa? Sembrerebbe di sì a giudicare dalla serie di proteste che stanno caratterizzando la fine della prima metà del 2013, da Madrid a Istanbul passando per Sofia, Bucarest, Sarajevo e Atene. Inevitabile quindi dedicare questo numero di Most a fatti che stanno agitando mezza Europa. All’interno ci concentreremo sulla Turchia, ma prima facciamo una veloce rassegna delle rivolte di un quella che è una generazione in senso lato: le età sono diverse, dai venti ai sessanta, ma la rabbia è la stessa, fomentata dalla carenza di lavoro, di tutele, di diritti. Il popolo turco, col pretesto di dimostrare contro la trasformazione di un parco importante di Istanbul, domina i titoli dei giornali lottando contro il governo del premier Erdoğan. Sui social media circolano allarmanti rapporti sulle reazioni delle forze dell’ordine: i fucili sparano gas lacrimogeni e proiettili di plastica, il clima non è pacifico come la manifestazione si è proposta di essere. I manifestanti chiamano l’esercito perché intervenga contro il governo, invocano uno di quei colpi di stato militari cui la storia turca è abituata. Resta tutto da vedere il futuro di una compagine politica al potere da oltre un decennio, a circa un anno dalle presidenziali che potrebbero porvi fine. Motivazioni differenti quelle che stanno bloccando il parlamento di Sarajevo. Una neonata con gravi problemi di salute non può prendere un aereo per ricevere cure appropriate in Germania, perché non possiede il codice fiscale. Il fatto ha scatenato la rivolta, che ribolliva da tempo e non aspettava altro che un valido motivo per esplodere. Qui non c’è un esecutivo forte come quello di cui abbiamo parlato poche righe fa, ma al contrario un gruppo
frammentato, corrotto e spesso bloccato fino alla paralisi dalla contrapposizione tra gli interessi delle diverse fazioni. Un parlamento diviso ma cui i dimostranti di Occupy Sarajevo riconoscono un qualche genere di unità: “fate tutti schifo, a prescindere dall’etnia cui appartenete”. In Bulgaria, invece, si scende in piazza per opporsi alla nomina del mafioso Delyan Peevski al vertice dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, nello stesso anno che ha visto un governo dimettersi in seguito alle proteste contro il rialzo dei prezzi dell’elettricità macchiate di sangue per la dura risposta della polizia, da cui l’(attualmente ex) premier Boiko Borisov si oppose appunto con il ritiro dalla scena, lo scorso febbraio. I greci, intanto, non stanno a guardare le discutibili decisioni di Antonis Samaras e occupano la stessa televisione di stato ERT che il primo ministro intende chiudere. E se l’area centrale e meridionale dell’Europa si oppone ai governi, a occidente la Spagna soffre e non in silenzio. Ad aprile gli spagnoli hanno protestato contro l’austerità dopo che l’ufficio di statistica ha sfornato il dato sulla disoccupazione, che ha raggiunto il record del 27,16%, riguardando 6,2 milioni di persone. Gli slogan gridano “Senza pane niente pace” e prendono le distanze dai governanti “Loro non ci rappresentano”. Dopo i moti degli indignados si passa all’“Escrache”, una tecnica usata anche in Sudamerica, nata negli anni Novanta e molto diretta, basata sul disturbo mirato dei politici, che piccoli gruppi di dissidenti circondano e seguono fuori da locali e ristoranti e persino sotto casa. Il distacco tra popolo e classe politica sembra sempre più ampio, tra chi la democrazia la desidera e chi dovrebbe farsene garante. Il governo del popolo non è del popolo: ecco allora che il popolo si alza.
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Davide Denti
Le strane coppie Emanuele Cassano
Negare Srebrenica 17 Donatella Sasso
SOCIETÀ
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Erdogan si è sparato sul 49 piede Sebastiano Sali
RUBRICHE
Alba Dorata
26 Margherita Dean
Intervista. Luca Rastello Silvia Padrini
SARAJEVO - ISTANBUL Dalla Bosnia alla Turchia Davide Denti
Da Banja Luka a Istanbul
36 Chiara Milan
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Giorgio Fruscione
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Re Giorgio e l’Europa che 59 non nacque Pietro Acquistapace
Alla biblioteca dell’Est Claudia Leporatti
Sarajevo e la Beborevolucija Il Parco Gezi
MOST
La Turchia nei Balcani
POLITICA E GEOPOLITICA
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38 62 Recensione. Polluting Paradise Davide Denti
41 Matteo Zola
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Rivista quadrimestrale allegata al sito East Journal Chiuso in redazione il giorno 21 giugno 2013 East Journal Testata registrata n. 4351/11 del 27 giugno 2011 presso il Tribunale di Torino Direttore responsabile Matteo Zola www.eastjournal.net info@eastjournal.net
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La redazione Claudia Leporatti capo redattore Damiano Benzoni impaginazione e layout Giorgio Fruscione revisione testi Silvia Padrini ricerca iconografica Hanno contribuito a questo numero Pietro Acquistapace Emanuele Cassano Margherita Dean Davide Denti Chiara Milan Sebastiano Sali Donatella Sasso Matteo Zola
I proprietari dei diritti delle singole foto pubblicate sono indicati in prossimità delle immagini stesse. Immagine di copertina: Freedom House DC Le immagini di sfondo al sommario e alle copertine di sezione sono di Damiano Benzoni, a eccezione della copertina della sezione Politica e Geopolitica, appartenente a Kober. Copyright © “eastjournal.net” 2012. All rights reserved. È consentita la riproduzione, previa citazione di autore e fonte con link attivo, totale o parziale, dei nostri contenuti esclusi quelli esplicitamente protetti da copyright.
SARAJEVO - ISTANBUL
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SARAJEVO - ISTANBUL Dal Parco alla Piazza
Io sono un albero di noce del parco Gulhane, nodo su nodo, pezzo su pezzo, sono un vecchio noce ma né la polizia né tu lo sapete. Io sono un albero di noce del parco Gulhane. Le mie foglie sono immacolate come un fazzoletto di seta strappale, o mia rosa, e asciuga le lacrime dei tuoi occhi. Le mie foglie sono le mie mani, esattamente io ho centomila mani e ti tocco con centomila mani, Istanbul. Le mie foglie sono i miei occhi, e vedo con meraviglia e ti guardo con centomila occhi, Istanbul. Io sono un albero di noce Nazim Hikmet
Sarajevo e Istanbul sono al centro delle cronache di questi giorni, la capitale turca è protagonista di una protesta che ha subito infiammato il paese attirando l’attenzione dei media di mezzo mondo; per Sarajevo invece i riflettori sono spenti ma le proteste che agitano queste due città sono un ulteriore tassello dell’ampio movimento di dissenso, in buona misura generazionale, che attraversa il vecchio continente. Abbiamo scelto di concentrarci sui legami, storici e attuali, tra Bosnia Erzegovina e Turchia, paesi vicini e lontani in questa nuova piccola Europa in crisi.
MOST Eser Karadag
DALLA BOSNIA ALLA TURCHIA Il fallimento delle reislamizzazioni dall’alto
Davide Denti Le proteste di Istanbul sono un segno vitale per la Turchia. Chi manifesta in piazza lo fa per chiedere una democrazia più compiuta – non solo una democrazia elettorale, dove si decise ogni cinque anni e poi non si disturba il manovratore, ma una democrazia in cui i cittadini partecipino costantemente alla formazione e all’attuazione delle politiche pubbliche. Dall’altra parte, le proteste sono anche il segno di un rigetto da parte di una fascia della cittadinanza di una serie di provvedimenti considerati intrusivi della sfera privata da parte del potere pubblico. Le sempre maggiori limitazioni al consumo
di alcolici (vietata la vendita dopo le 22, vietata nel raggio di 100 metri da scuole e moschee – cioè ovunque nel centro antico di Istanbul, vietata la pubblicità), in un paese in cui il consumo di alcol è già prerogativa di una ristretta minoranza, mostrano i contorni di un disegno di reislamizzazione della società dall’alto. Il disegno non è nuovo: è tipico dei partiti confessionali cercare di dare forma alla società secondo il proprio credo, una volta conquistata la maggioranza parlamentare. Basti pensare alla DC di casa nostra e alle sue battaglie contro l’aborto e il divorzio, o all’attuale destra francese e
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spagnola e alle loro manifestazioni contro i matrimoni gay. Il punto è che tali tentativi sono storicamente sempre falliti. Una società già secolarizzata non permette ad un governo confessionale di imporre la propria morale come morale pubblica, e si rivolta nelle diverse forme democratiche che ha a disposizione.
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Un esempio simile a quello turco, per religione e regione, lo troviamo in Bosnia, dove il partito confessionale, SDA, è sempre stato egemone nell’elettorato bosniaco di religione o cultura musulmana. Anch’esso, come l’AKP, derivante da un nocciolo panislamista cui si sono aggregati diversi strati di società, incluse le
Marylin Cvitanic
élite politiche ed economiche, lo SDA durante e dopo il conflitto cercò di portare avanti un programma di reislamizzazione dall’alto della società bosgnacca. La società bosniaca prima della guerra era estremamente secolarizzata: a partire dal 1947, il Partito comunista jugoslavo aveva provveduto a smantellare le istituzioni religiose. Ciò, combinato con un processo accelerato di urbanizzazione, industrializzazione e modernizzazione economica e culturale, aveva condotto ad un rapido declino della pratica religiosa. Nel 1989 il 61% dei giovani bosniaco-musulmani dichiarava di non recarsi mai in moschea (le percentuali per i serbi e i croati erano del
70% e del 35%), e solo il 14% dichiarava di farlo per convinzione religiosa. Molti musulmani delle campagne e la maggioranza di quelli delle città si dichiaravano musulmani solo perchè seguivano una serie di tradizioni culturali. Il Partito di Azione Democratica (Stranka Democratske Akcije – SDA) naque nel marzo 1990 come «alleanza politica dei cittadini della Jugoslavia appartenenti alla sfera storico-culturale dell’Islam», nel contesto del generale risveglio culturale e politico dei musulmani balcanici nei primi anni ’90. La corrente panislamista, guidata da Alija Izetbegovic, creò il partito, attorno al quale si aggregarono le diverse correnti del nazionalismo musulmano, quindi le molteplici reti clientelari che strutturavano la comunità musulmana. Così, la corrente panislamista bosniaca divenne il centro delle spinte di ricomposizione identitaria e politica della comunità musulmana bosniaca. Il programma dello SDA riprendeva le principali rivendicazioni della Comunità islamica ma si pronunciava a favore dell’economia di mercato e della democrazia parlamentare di tipo occidentale. In nessun momento i dirigenti dello SDA chiesero apertamente l’instaurazione della sharia o di una repubblica islamica. E ciò non per una loro contrarietà di principio allo stato islamico, ma perchè consideravano tale modello inapplicabile in un paese europeo e profondamente secolarizzato come la Bosnia- Erzegovina. Malgrado la derivazione ideologica dei suoi fondatori, lo SDA non poteva dunque essere qualificato in alcun modo come partito islamista o panislamista; rappresentava piuttosto un partito nazionalista, puntato all’affermazione della sovranità politica della nazione musulmana. Lo SDA era in ciò simile a SDS e HDZ, con i quali
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costituiva una coalizione informale volta a facilitare la mobilitazione incrociata delle tre comunità.
La natura identitaria piuttosto che ideologica di un tale ricorso all’Islam è attestata dal fatto che il primo conflitto interno allo SDA si centrò attorno alla definizione stessa dell’identità musulmana, risolvendosi con l’espulsione dei sostenitori del qualificativo nazionale Bošnjak, visto come un’indebita laicizzazione dell’identità dei musulmani bosniaci. In ogni caso, gli stessi dirigenti dello SDA non smisero mai di promuovere una definizione politica dell’islam, secondo cui «l’islam ha tre ambizioni: cambiare l’individuo nel senso del tawhid [principio dell’unicità di Dio], formare una società e, di conseguenza, uno Stato islamico».1 Pur accettando uno stato secolare, rigettavano il secolarismo come principio filosofico, da estendere alla società, secondo lo slogan “Stato secolare, società non secolare”. E’ appoggiandosi su tali ambiguità che i dirigenti dello SDA, pur mantenendo il carattere formalmente laico della Bosnia-Erzegovina, si sforzarono di fare del panislamismo l’ideologia politica del nuovo Stato-partito. I tentativi di reislamizzazione dall’alto delle pratiche individuali della popolazione musulmana si scontrarono con importanti resistenze. Nel 1994, la promulgazione da parte del reis-ul-ulema e di mufti freschi di nomina di varie fatwa sul consumo di alcol e di carne suina suscitò vive reazioni ma non modificò affatto le abitudini alimentari della popolazione. Altre polemiche riaffiorarono periodicamente, dalla questione dei matrimoni misti alla celebrazione del Natale e del capodanno. Ai tentativi di reislamizzazione dello SDA e della Comunità islamica la popolazione
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