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MOST #6

www.eastjournal.net NOVEMBRE 2013


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TUFFO NEL VUOTO

L’integrazione europea è una storia di allargamenti, dai sei membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) del 1952 si arrivò ai dodici del 1990, con quell’evento eccezionale che fu la riunificazione tedesca. Nel 1992 venne Maastricht e l’Europa occidentale completò la sua “unione” nel 1995, con l’adesione di Austria, Svezia e Finlandia. In questa fase ci fu solo una defezione, quella della Groenlandia che nel 1985 votò un referendum per uscire dalla Comunità Europea. Poi, per ben dieci anni, l’Europa si guardò dentro per conciliare allargamento e approfondimento: perfezionando istituzioni, stabilendo criteri, preparava il terreno per il futuro ampliamento, quello ad est. Questo allargamento è secondo noi il momento più carico di “epos” dell’unità europea: la ferita, durata cinquant’anni, che aveva diviso “est” e “ovest”, era finalmente sanata. L’Europa smetteva, almeno idealmente, di essere il campo da gioco delle superpotenze e delle contrapposte ideologie e si profilava come nuovo soggetto economico (ma in certa misura anche politico) che dalle due guerre mondiali aveva imparato il valore dell’unità. La fratellanza europea, un sogno che si avverava. L’ingresso, nel 2004, di ben dieci nuovi paesi sembrava realizzare quel sogno ma le difficoltà furono molte e molti i pregiudizi. Nel 2007 fu poi il turno di Bulgaria e Romania, per molti versi descritti come “paria” d’Europa. Quando nel 2010 fondammo East Journal avevamo davanti un’Europa troppo poco unita: il muro che divideva il continente – ci sembrava – non era del tutto crollato. Già, perché mentre l’Europa “occidentale” si incontrava a Maastricht, in Jugoslavia imperversava una terribile guerra che sarebbe durata fino al 2001. Le guerre

jugoslave furono il primo banco di prova per l’Europa unita che dimostrò tutta la sua debolezza diplomatica: i vari paesi europei avevano nei Balcani interessi contrapposti e – più che a porre fine al conflitto – puntavano a difenderli. Questo sembrò aprire la strada alla “balcanizzazione” d’Europa e quando nel 2009 venne la grande crisi economica, poi finanziaria, poi debitoria che ancora ci strozza, i paesi del vecchio continente mostrarono con chiarezza quanto poco fossero uniti e solidali. Da tre anni East Journal racconta questa Europa, guardandola da est, cercando di creare ponti tra le due parti o semplicemente mostrando quelli che già ci sono: poiché, crediamo, non si uscirà da questa crisi se non si sarà uniti. Uniti nel chiedere un nuovo modello di Unione Europea, davvero solidale e democratica. L’Europa unita, abbiamo detto, era un sogno. Ebbene, è forse giunto il momento di smettere di sognare e guardare con concretezza all’edificio europeo. Un edificio che sembra poco solido, e allora perché ampliarlo ancora? Perché un’Europa compiutamente unita non si fa solo rifondando le istituzioni ma anche riscoprendo il senso profondo dell’unità: allargarsi a est è completare un percorso alla ricerca di una nuova identità, di una nuova storia. In questo numero di Most cerchiamo di fare il punto sull’allargamento a est, sia quello già realizzato, sia quello da farsi: i Balcani, l’Ucraina, la Bielorussia, forse anche la Turchia, sono parti della nostra geografia culturale e, come abbiamo scritto, “l’Unione Europea assomiglia ad una bicicletta, che funziona solo quando le due ruote, allargamento ed approfondimento, procedono insieme”. Se si ferma una ruota, anche l’altra si arresta. Andare avanti è oggi una sfida ma non possiamo fermarci a metà della salita. Matteo Zola


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Sulle strade dell’Albania

La Turchia in Europa?

Donatella Sasso

Trentini di Bosnia

Maria Caterina Ghobert

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fermata Albania 38 Prossima Davide Denti

POLITICA E SOCIETÀ 12

Rom, una questione sociale

19 Claudia Leporatti

ALLARGAMENTO UE

Allargare l’Europa per approfondire l’Europa 24

Silvia Padrini

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44 Ucraina: tra UE e oligarchi Davide Denti - Pietro Rizzi - Matteo Zola

RUBRICHE Orhan Pamuk Carlo Pallard

Matteo Zola

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Recensione. Alleati del nemico

A dieci anni dal 2004

53 Carlo Pallard

26 Davide Denti

L’UE come la Jugoslavia 32 Giorgio Fruscione

Le letture Giovanni Catelli

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Rivista quadrimestrale allegata al sito East Journal Chiuso in redazione il giorno 1 novembre 2013 East Journal Testata registrata n. 4351/11 del 27 giugno 2011 presso il Tribunale di Torino Direttore responsabile Matteo Zola www.eastjournal.net info@eastjournal.net


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La redazione Claudia Leporatti capo redattore Damiano Benzoni impaginazione e layout Giorgio Fruscione revisione testi Silvia Padrini ricerca iconografica Hanno contribuito a questo numero Giovanni Catelli Davide Denti Maria Caterina Ghobert Carlo Pallard Pietro Rizzi Donatella Sasso Matteo Zola

I proprietari dei diritti delle singole foto pubblicate sono indicati in prossimità delle immagini stesse. Immagine di copertina: Luca Vasconi - http://lucavasconi.carbonmade.com Le immagini di sfondo al sommario e alle copertine di sezione sono di Damiano Benzoni Copyright © “eastjournal.net” 2012. All rights reserved. È consentita la riproduzione, previa citazione di autore e fonte con link attivo, totale o parziale, dei nostri contenuti esclusi quelli esplicitamente protetti da copyright.


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ALLARGAMENTO UNIONE EUROPEA


ALLARGARE L’EUROPA PER APPROFONDIRE L’EUROPA Matteo Zola

Ma perché questa Unione Europea dovrebbe allargarsi ancora, i suoi piedi d’argilla come potrebbero reggere il peso di altri paesi economicamente incapaci di dare all’Europa quella spinta di cui ha bisogno per uscire dalle secche della crisi? Deve, perché “allargamento e approfondimento procedono insieme”. Deve, perché il progetto europeo è incompiuto. E tante sono le scommesse da vincere, le “malattie” politiche da debellare, le storture che l’Unione ha prodotto direttamente o indirettamente. La crisi in corso non è solo una crisi economica ma è una crisi del pensiero economico, della capacità di pensare “diverso”. Di più: è una crisi morale, di un continente chiuso in se stesso, preda dei propri fantasmi e di incubi che si credevano passati per sempre. E’ infine una crisi d’identità. Solo andando fino in fondo nel processo di integrazione si potrà uscire da questa situazione. Oggi l’Europa è scoraggiata, si trova a metà del guado del suo percorso unitario, ed è tentata a tornare sui suoi passi con disastrosi effetti. Dopo il crollo del blocco sovietico, le democrazie liberali hanno rinunciato ad ogni aspirazione, cadendo preda del populismo. Oggi il modello democratico vive una sensibile crisi e il vecchio continente è attraversato da tensioni reazionarie a vocazione nazionalistica o clericale: stru-

menti nelle mani di oligarchie politiche ed economiche che, agli interessi collettivi, antepongono quello che Guicciardini chiamava il particulare. Soprattutto nell’Europa orientale queste tensioni e contraddizioni emergono con più evidenza, ma è l’Europa intera a vivere un condiviso stato di crisi. Alla scomparsa dell’Est è immediatamente seguita quella dell’Ovest, appagato dalla sensazione di essere vincitore, consolato dall’idea della finis historiae. Ma la storia non è finita e, negli ultimi vent’anni, il cosiddetto “occidente” non sembra migliorato. La grande occasione è l’Europa unita: uscire dalle secche dell’atlantismo in declino attraverso un nuovo progetto politico. Oggi l’Europa è unita, simbolicamente, solo dalla moneta cui sottende -certo- un’unione finanziaria ed economica che concerne anche quei Paesi che non hanno ancora adottato l’euro. Le istituzioni comunitarie soffrono esse stesse di un deficit democratico: la scarsa rappresentatività si associa a una ridotta capacità politica. Solo un nuovo suffragio e nuove regole di rappresentatività potranno risolvere l’impasse europea. Solo una Europa realmente unita e coesa potrà rispondere con parità alle sfide lanciate dalle altre grandi realtà mondiali.


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È dunque necessario non avere paura di esprimere idee europee, manifestando pubblicamente quei valori di libertà e solidarietà che sono alla base della nostra civiltà.

stituire un rinnovato vigore che si fondi, anzitutto, sulla coscienza di essere europei. Una palingenesi che ora spetta a noi, come generazione, completare affermando irrevocabilmente l’identità europea.

Ma cos’è questa Europa? “Con l’Europa succede un po’ quel che succedeva a sant’Agostino con il tempo – scrive Claudio Magris – se non gli si chiedeva cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di appartenenza all’Europa non si lascia definire”.

Un’identità molteplice, una sola moltitudine - per dirla con le parole di un celebre poeta portoghese - poiché l’Europa che vorremmo è unita ma non unica. E la sua unità è anzitutto culturale, da Bucarest a Praga a Parigi a Dublino. Da Mircea Eliade a Kafka a Proust a Joyce. Ma la sua unità deve essere anche politica: una costituzione è finalmente necessaria. La nostra vita collettiva è regolata da istituzioni e leggi, fatte da noi e che noi possiamo cambiare. Istituzioni forti e leggi efficaci producono coesione sociale. La mancata unità dell’Unione è dunque dovuta proprio alla debolezza delle sue istituzioni e leggi.

L’indefinitezza dell’Europa è ciò che in molti muove alla critica, anche aspra, sulla necessità del continente ad esistere come Unione. Eppure, anche nelle parole dei detrattori, sembra avvertirsi l’ansia di un cambiamento, di una Europa diversa, consapevoli che un ritorno alla frammentazione renderebbe tutti più deboli e poveri. Oggi, sia nel dibattito politico che nella riflessione scientifica, quando si parla di Europa ci si riferisce in genere all’Unione Europea tanto che i due termini vengono spesso utilizzati come sinonimi. Buona parte dei Paesi europei è parte dell’Unione mentre gli altri vi gravitano attorno, attraverso negoziati di adesione o accordi politico-economici. Questa Unione Europea è però divisa al suo interno anche se, nel suo insieme, l’Europa non è più riducibile alla semplice somma dei suoi Paesi. Le difficoltà del momento attuale non si possono nascondere, ciò non significa però che si debba abbandonare il progetto (soluzione che pare inverosimile). Meglio sarebbe mutarne la rotta, farlo nuovo. A che servirebbe cancellare con un colpo di spugna cinquant’anni di fatiche, l’epopea di un continente che sulle macerie di due guerre mondiali comprende la necessità di unirsi. Alla crisi politica ed economica, che vede fermo al palo anche il processo di integrazione, si può so-

Perché oggi un paese dovrebbe desiderare di far parte dell’Unione? Ci sono dei vantaggi e dei benefici economici indubbi ma non basta offrire un libero mercato, occorre che l’Unione Europea offra garanzie di democrazia, di diritti sociali, di libertà individuale. Altrimenti qualsiasi allargamento, qualsiasi progresso sarebbe solo un simulacro, un’apparenza di progresso. “Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la libertà è l’unico fattore infallibile e permanente di progresso, poiché fa sí che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui. L’Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme”. John Stuart Mill, On Liberty (1859)

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MOST A DIECI ANNI DAL 2004 Come l’allargamento ha cambiato l’Europa unita

Davide Denti Era il 16 aprile 2003 quando, ad Atene, i capi di stato e di governo dei dieci paesi d’Europa centrale, orientale e mediterranea firmavano il trattato d’adesione all’Unione Europea. Un anno dopo, il 1° maggio 2004, a seguito delle 15 ratifiche dei vecchi stati membri il trattato entrava in vigore, realizzando l’allargamento “big bang”, come venne chiamato, e portando a 25 (poi a 27 con l’ingresso di Romania e Bulgaria nel 2007) gli stati membri dell’Unione Europea. Si compiva così un ciclo, avviato a primi anni ’90 con la democratizzazione e la transizione economica all’economia di mercato di tali stati, di

cui l’ingresso nell’UE segnalava il consolidamento, che in quel momento si sperava irreversibile. Con l’allargamento l’Unione europea raddoppiava o quasi il numero di stati – da 15 a 27. Di fatto, si tratta di una diversa Unione, quella che dal 2004 in poi unifica non solo gli stati più occidentali della penisola europea. Quali sono state le conseguenze dell’allargamento e in che modo esso ha cambiato l’identità dell’Europa? Economia: una lenta convergenza. In primis, l’allargamento ha significato la libertà di circolazione di merci e capitali


tra due fette d’Europa a forte dislivello di sviluppo – una situazione con grande potenziale di crescita per entrambe, secondo le più classiche teorie economiche. Dall’altra parte, la paura in tale situazione è quella di una “svendita” del tessuto produttivo a multinazionali straniere, con perdita del reinvestimento dei profitti in loco. Così cantano, ad esempio, gli Offlaga Disco Pax nella canzone Tatranky: “I tedeschi si sono comprati perfino la Skoda”. Davvero l’Europa centro-orientale si è trovata di fronte ad una svendita, letterale quanto metaforica, della sua produzione industriale e della sua anima? E quanto ci hanno guadagnato, in cambio? Cerca di rispondere a quest’ultima domanda un interessante studio del 2009 di due economisti polacchi, Ryszard Rapacki e Mariusz Próchniak, che analizzano il contributo dell’allargamento UE alla crescita economica e alla convergenza dei livelli di vita nei 10 nuovi paesi membri UE dell’Europa centro-orientale (CEE-10).1 Il primo livello di analisi riguarda la convergenza nei livelli di reddito e di sviluppo tra UE-15 e CEE-10. Secondo la teoria economica neoclassica della crescita (Solow, 1956; Mankiw et al., 1992), un’economia meno sviluppata cresce più velocemente, finché tende a raggiungere gli stessi livelli di sviluppo e di crescita dei paesi più sviluppati. Dall’altra parte, la convergenza si ottiene anche dalla progressiva riduzione dei differenziali tra il PIL pro capite dei paesi avanzati e di quelli meno avanzati. Empiricamente, in 1 Ryszard Rapacki and Mariusz Próchniak, The EU enlargement and economic growth in the CEE new member countries, Warsaw School of Economics / European Commission, Economic Papers #367. March 2009. Brussels. 24pp. KC-AI-09-367-EN-N ISBN: 978-92-79-11178-5 ISSN: 1725-3187

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base ai dati di Rapacki e Próchniak, i paesi CEE-10 hanno registrato una crescita economica più forte di quelli UE-15 nel periodo 1996-2007; più bassi i livelli di PIL di partenza, più alti i livelli di crescita annua. Questo forte effetto di convergenza ha portato il differenziale tra il PIL medio pro capite delle due aree a ridursi: se nel 1996 il PIL medio pro capite dei paesi CEE-10 ($ 8,097) corrispondeva a circa un terzo di quelli UE-15 ($ 21,119), nel 2007 tale divario si era ridotto a circa il 50% ($ 16,516 e $ 33,234, rispettivamente). In particolare, la convergenza ha accelerato dopo il 2000, con l’avvicinarsi della data dell’allargamento. Resta il problema che la convergenza rallenta man mano che procede: con lo stesso andamento del decennio 1996-2007, ci vorrebbero altri 25 anni per dimezzare la distanza tra UE-15 e CEE-10. Un secondo livello di analisi concerne la convergenza del PIL a livello regionale (NUTS-2). Anche qui, i dati pubblicati dalla Commissione Europea2 confermano alcune tendenze chiave: la riduzione del divario tra EU-15 e CEE-10, così come la mancanza di una convergenza assoluta: i differenziali di reddito e salari permangono, per quanto ridotti. La prima mappa indica i livelli di PIL pro capite, per regione, nel 2007. Si nota chiaramente la fascia dei territori più ricchi: Londra, Benelux, Renania, Baviera, Tirolo, Italia nord-orientale; ma anche il permanere del divario dei livelli di PIL: con l’eccezione di Slovenia, Repubblica Ceca ed Estonia, e di alcune regioni capitali, tutti i paesi dell’Europa centroorientale si trovano ai livelli più bassi di reddito, pari solo a quelli del Portogallo settentrionale e di alcune regioni greche. 2 Eurostat, “GDP at regional level” - Statistics Explained (2013/10/1)

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