Omelia su san Nicola da Tolentino Confessore del XIII secolo 10 settembre
Umiltà e Miracoli. Caratteristiche della Santità. La messa di oggi ci ricorda la figura di un grande santo del ’200: san Nicola da Tolentino. Uno dei pregi della liturgia di san Pio V è che ci fa conoscere tante figure di Santi ormai obsoleti, perché i Santi al giorno d’oggi non godono di grande stima, forse per una certa influenza esercitata sulla Chiesa dalla dottrina protestante. Invece è importante onorare quegli amici di Dio, che sono stati onorati da Dio. Rendendo culto ai Santi non dimentichiamo colui che è il Santo dei Santi e il santificatore di tutte le creature razionali. Infatti non si può accedere al Dio conosciuto dalla ragione e dalla fede, il Dio Trinitario, se non ci avviciniamo a Lui, che è il Santo dei Santi, santificando noi stessi. Nei Santi vediamo anzitutto gli eccelsi amici del Signore, poi gli amici nostri e i nostri intercessori presso Dio, e infine i nostri paradigmi, gli esempi che il Signore ci ha dato affinché vivessimo profondamente e completamente gli insegnamenti del vangelo. Nicola da Tolentino era un eremita dell’Ordine di Sant’Agostino. Insigne predicatore, confessore, apostolo degli ammalati e formatore della gioventù, fu
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incaricato dal fondatore del suo Ordine della formazione dei giovani chierici. Con grande dedizione si santificò tramite l’esercizio del suo ufficio sacerdotale e pastorale. Cari fratelli, il sacerdozio è bello, perché il sacerdote deve essere mediatore (non è questione di fare, ma di essere). Il sacerdote, non per merito suo, ma per grazia del Signore che lo ha chiamato, per grazia dello Spirito santo, che lo ha consacrato, per grazia di Cristo che ha posto su di lui il suo sigillo, è mediatore tra Dio e gli uomini, ma in questa opera di mediazione ha bisogno egli stesso della mediazione. Il sacerdote, mentre non a nome suo, ma a nome di Dio che è il solo santificatore, santifica le anime altrui, santifica – nel fedele esercizio delle sue mansioni – anche se stesso. Predicatore, confessore, apostolo degli ammalati, Nicola da Tolentino fu anche un grande asceta. Nel suo apostolato, che oggi chiameremmo apostolato della sofferenza, poté sperimentare la necessità, per amare il prossimo e per soccorrere i più miseri e i più derelitti, di rinunciare a noi stessi, di lasciarci inchiodare sulla croce assieme a Gesù e di crocifiggere dentro di noi il vecchio Adamo. Visse la santità con estrema umiltà e semplicità, rinnegando sé stesso e ogni desiderio mondano. Il Signore premiò la santità semplice e umile di quell’uomo, che di vistoso non aveva niente, con prodigi e segni vistosi Quando uno va in cerca di cose straordinarie, proprio allora non le trova, mentre quando uno in umiltà serve il Signore, allora il Signore lo ricolma di prodigi. Anche la vergine Maria, quando fu chiamata dall’angelo a essere la madre di Dio, in un primo momento ebbe paura. Perché? Per la sua umiltà. La Madonna (oggi è sabato, quindi è doveroso ricordarci di Lei), se fosse dipeso da Lei, avrebbe voluto vivere solo nel nascondimento. Anche santa Bernadetta, che fu scelta dalla Vergine per rivelare al mondo il mistero dell’Immacolata Concezione e per invitare tanti ammalati a ricorrere a quella fonte d’acqua benedetta che sgorgò miracolosamente a Lourdes, diceva sempre: «Se in questo luogo vi fosse stata una ragazzina più semplice, più povera, più umile di me, la Madonna avrebbe senz’altro preferito lei». Il Signore predilige gli umili e ricompensa con fatti straordinari coloro che vivono una vita ordinaria di santificazione. Perché vi dico questo? Perché a Nicola da Tolentino sono stati attribuiti miracoli oseremmo dire strepitosi. Nel lessico di teologia per la Chiesa, sotto la voce san Nicola da Tolentino ho letto che gli sono stati riconosciuti ufficialmente 301 miracoli. Voi ben sapete con quanta cautela e prudenza la Chiesa proceda nel riconoscere i prodigi e i segni soprannaturali. Ci sono tanti segni che sono tali davanti a Dio, ma non, e giustamente, davanti alla Chiesa. Il Signore può fare un prodigio, ma non sempre vuole che la Chiesa lo riconosca ufficialmente. A Lourdes si contano a migliaia le guarigioni, però quelle ufficialmente riconosciute sono decine. Quindi, l’uno per cento appena di quei prodigi che il Signore ha operato in quel luogo è riconosciuto dalla Chiesa. Ebbene, la Chiesa, pur con la sua materna cautela, ha riconosciuto ufficialmente a san Nicola
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da Tolentino ben 301 miracoli, ottenuti, a quanto pare, grazie alla benedizione dei pani – una benedizione riservata all’ordine dei frati eremiti di sant’Agostino – che si dice abbia un potere soprannaturale contro il fuoco e la malattia. Infatti il Santo si dedicò ai malati e ai sofferenti compiendo prodigi a loro favore. Si dice che in alcune date significative la reliquia del braccio di san Nicola sia protagonista di fenomeni miracolosi. Ad esempio, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale (1939), dal suo braccio colarono delle gocce di sangue. Ma non sono tanto i prodigi che ci interessano nella vita di questo santo. Che cosa ha da insegnare all’uomo moderno, oltre alla sua semplicità e umiltà? Ricordiamoci che la santità non è nelle cose straordinarie. Se avvengono, siano benedette, però la santità si cela nell’umiltà, quasi a voler resistere al carattere appariscente dei miracoli. Padre Pio da Pietrelcina, cheveramente aveva tutti i presupposti per essere considerato un sant’uomo, quando fu stigmatizzato, che cosa fece? Coprì le sue stigmate con dei guanti, così che nessuno le vedesse. Ecco, cari fratelli, questa è umiltà. I santi più taumaturghi sono stati i più umili e i più nascosti. San Nicola amò la vita eremitica, cioè il nascondimento. Le letture di oggi accennano all’unica via
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per giungere alla santità: l’adesione incondizionata, con cuore indiviso, al Signore. “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutta la mente, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5). Gesù giustamente mette al primo posto tra tutti i precetti quello dell’amore di Dio. La santità consiste in questo: nel vivere eroicamente la carità. La sacra congregazione per le cause dei santi richiede due miracoli, perché la santità sia, per così dire, confermata dal Signore. La Chiesa giustamente richiede questi segni particolari, ma non ce ne sarebbe bisogno. La santità infatti non consiste in cose straordinarie, ma semplicemente nel vivere a pieno la virtù teologale della carità. San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (capitoli 12-13), con quello zelo a volte veemente che lo caratterizza, critica la comunità di Corinto che si abbandonava a eccessi carismatici talvolta veri, talvolta non veri. Ai Corinzi che pregavano in modo un po’ esagitato, Paolo raccomandava di badare solo alla loro edificazione reciproca, non a fare sfoggio dei carismi personali. Se qualcuno aveva il dono di parlare le lingue angeliche — cosa bellissima — doveva però rendersi conto che quello era un carisma strettamente personale. Se uno parlava il linguaggio degli angeli, chi lo capiva? Chi poteva essere edificato da quella grazia gratis data? I carismi sono dati non per santificare il soggetto, ma per edificare la Chiesa intera. San Paolo ironicamente proseguiva dicendo che, se uno era ispirato dallo Spirito a parlare lingue sconosciute, si doveva far venire un interprete che avesse il carisma della traduzione delle lingue angeliche in lingue umane. Insomma san Paolo richiamava i Corinzi a un certo realismo cristiano. I carismi sono una cosa bella e buona, ma molto più importante, al di là della gratia gratis data, è la gratia gratum faciens, cioè la grazia santificante, quella grazia che mi rende gradito al Signore. In virtù di essa possiedo il fuoco divino della carità. Solo la carità, cari fratelli, è l’elemento essenziale, della santità (direbbe san Tommaso d’Aquino). «Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione» (Col 3, 14). Dopo aver ridimensionato i carismi dei Corinzi, cosa dice san Paolo? « Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una via migliore di tutte » (1Cor 12, 31). Qual è quella via? La via della carità. « Se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova » (ibid. 13, 2-3). Delle nostre poche opere Dio non ha bisogno. Che cosa guarda il Signore nel sacrificio dei martiri? La carità. Senza la carità, niente martirio. Agli occhi del mondo quelli che si fanno ammazzare potrebbero passare per eroi, ma agli occhi di Dio non sarebbero martiri, se non avessero la carità. Addirittura san Tommaso dice che il merito non si ottiene con le difficoltà che s’incontrano nel compiere una determinata opera, ma solo con l’intensità della carità con cui si agisce. Fondandosi su questo, alcuni teologi hanno ipotizzato, non senza motivo, che un
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semplice lavoro domestico, eseguito dalla beata vergine Maria con grande carità, era più meritevole davanti a Dio che il martirio di una persona spinta da minore carità. Non voglio passare per protestante o giansenista dicendo che le opere non hanno valore. Hanno valore, è chiaro. Ma lo hanno in virtù della carità. Con essa le nostre povere azioni naturali si rivestono dell’opera di Dio, cosicché non sono più opere dell’uomo soltanto, ma sono opere dell’uomo e di Dio. Sono opere teandriche che ricordano le azioni teandriche di Cristo. Ogni agire di Gesù procede dal soggetto divino ed è mediato dalla natura umana. Così deve essere anche di noi, che certo non abbiamo la grazia dell’unione ipostatica, però abbiamo la grazia santificante, siamo rivestiti di Cristo. Questo è ciò che conta: essere rivestiti di Cristo. Il mistero della grazia, nell’àmbito della teologia paolina, si configura anzitutto come il mistero della giustificazione. L’Aquinate commenta che la giustificazione è un trasferirsi dallo stato di peccato – anzi da uno stato di ostilità alla grazia, quindi “dis-graziato” – verso lo stato di grazia. In questo passaggio, che ricorda la Pasqua, si esce per la potenza di Dio dalla schiavitù e si entra nella terra promessa. Pensate sempre alla verità della vostra santificazione in termini pasquali. Il Signore vuole questo dai suoi santi: il passaggio pasquale dalla terra al regno dei cieli già in questa terra. San Paolo dice: « Nostra conversatio (politeuma) in coelis est. La nostra patria è nei cieli » (Fil 3, 20). Oggi abbiamo invece un grande amore per il mondo, spesso equivoco. Da dove scaturisce l’affermazione secondo cui il cristianesimo deve adeguarsi ai tempi, non deve essere severo, non deve annunciare tutta la verità di Cristo, per non dare fastidio a qualche liberale o a qualche socialcomunista o a qualche altro soggetto lontano? Scaturisce dal dubbio. Quelli che ragionano così non credono più. Se credessero, saprebbero che c’è una sola salvezza in Cristo per tutti, siano essi liberali o socialcomunisti. La salvezza è solo in Cristo. Se sono lontani, bisognerà avvicinarli, ma a chi avvicinarli? All’eresia, all’errore? No certamente, ma a Cristo: ecco tutto, miei cari. Da queste considerazioni vedete come sia sconveniente quello che si sente dire sull’aggiornamento della vita religiosa, secondo il quale essa non dovrebbe più essere una “turris eburnea”. Mi piace tanto questa invocazione alla madonna nelle litanie: “Turris eburnea, ora pro nobis”, questa illibata verginità di Maria, questo splendore della razionalità preservata da ogni macchia di peccato tramite una splendida grazia di Dio, espressa così bene da questa mistica immagine della torre di avorio. Così deve essere la vita religiosa, non solo quella di frati e suore, ma anche di ogni persona buona. L’attaccamento a Dio comporta ostilità verso il mondo. Al
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giorno d’oggi invece vogliamo essere amici di tutti. È il trionfo non della bontà, ma del buonismo, che ne è una falsificazione. Uno slogan americano dice I love everybody. Certamente bisogna amare tutti, ma con l’amore di redenzione. Se c’è un’inimicizia, Dio l’ha posta tra Cristo e la stirpe di Satana. Questa inimicizia, come dice san Luigi Grignion de Montfort, deve essere da noi accettata e vissuta fino in fondo. Le scritture affermano esplicitamente che i santi sono perseguitati in questo mondo. Che cosa dice Paolo? Tamquam purgamenta huius mundi facti sumus, omnium peryhma usque adhuc « Siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino a oggi » (1Cor 4, 13). È un’espressione fortissima. Un cristiano, se non è considerato come un rifiuto di questo mondo, vuol dire che non ha avuto il coraggio di considerare il mondo come rifiuto. Ed è così che il mondo va considerato: « Io considero tutto una spazzatura, per amore di Cristo ». Così san Paolo ricambia cortesemente il mondo. Il mondo considera spazzatura Paolo, Paolo, da quel gran santo che è, considera spazzatura il mondo. Cari fratelli, dobbiamo aderire così fortemente al Signore da staccarci da questo mondo e subirne anche le ostilità. Gloriamoci in mezzo a esse, perché dice il Signore: beati voi se siete perseguitati, beati voi se sperimentate l’ostilità di questo mondo, perché allora « i vostri nomi sono scritti nei cieli » (Lc 10, 20). « Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi » (Mt 5, 12). Cari fratelli, non è cosa da poco partecipare all’ostilità subìta dai profeti. Si parteciperà anche al premio che il Signore darà nel giorno del giudizio ai profeti, e così sia. Tratto liberamento da un’omelia di P. Tyn op
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