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Spedizione in abbonamento postale 45% - art.2, comma 20/B, legge 662/96 - D.C.I.Trento - Periodico quadrimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti - Distribuzione gratuita - Tax perรงue - ISSN 1720 - 6812

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IN QUESTO NUMERO I reggimenti della polizia sudtirolese di Lorenzo Baratter Il Polizeiregiment Bozen di Lorenzo Baratter Il reggimento Brixen di Paolo Valente Progetto memoria per il Trentino di Giuseppe Ferrandi Via Rasella di Paolo Piffer Le voci di quelli del Bozen di Paolo Piffer

STORIE rivista periodica a cura del museo storico in trento, anno quarto, numero dodici, novembre 2003 http://www.museostorico.it


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STORIE I reggimenti di polizia sudtirolese nel contesto delle nuove disposizioni per l’asservimento del servizio di guerra nell’Alpenvorland di Lorenzo Baratter

A sessant’anni esatti di distanza dall’annuncio dell’armistizio, ritengo sia doveroso riportare l’attenzione dell’indagine storica ad uno degli aspetti meno conosciuti della storia dell’occupazione nazista nelle province di Trento e Bolzano: l’impiego di migliaia di cittadini trentini ed altoatesini inquadrati nei reggimenti di polizia sudtirolese e del Corpo di sicurezza trentino (CST), sotto il comando della Wermacht e delle SS germaniche. Quando l’8 settembre 1943 fu annunciato che le Forze armate italiane avrebbero cessato le ostilità con l’esercito alleato e dunque non avrebbero più collaborato con l’esercito nazionalsocialista, Hitler diramò a tutti i comandi militari l’entrata in vigore del piano Achse, in virtù del quale dal Brennero si riversarono prontamente le truppe tedesche, intenzionate a prendere possesso di uomini e mezzi dell’ex alleato italiano. Erich Rommel

fu incaricato di dirigere l’operazione nella nostra regione e già il 9 settembre poteva vantarsi di aver catturato 40.000 prigionieri italiani tra il Brennero e Verona. Nelle province di Bolzano, Trento e Belluno fu creata il 10 settembre la Operationszone Alpenvorland al comando del gaulaiter nazista Franz Hofer. Poiché il territorio necessitava di consistenti milizie da adoperarsi in attività di controllo e per la repressione della Resistenza, il 6 novembre 1943 Hofer disponeva le coordinate generali per l’assolvimento del servizio di guerra nella zona di sua competenza: in virtù di tale direttiva le classi 1924-25 erano obbligate ad arruolarsi nella Todt, nella SOD, nel CST, nelle SS, nella Wermacht o nei reggimenti di polizia. Questi ultimi vantavano una tale fama in terra tedesca che Himmler nel febbraio del 1943 aveva ordinato di rinominarli “SS-Polizeiregimenter” per l’attività e l’impegno

in cui si erano distinti. Tuttavia già nel maggio del 1943 (quindi ben prima della costituzione dell’Alpenvorland) Hitler aveva previsto l’istituzione di corpi di polizia composti da cittadini sudtirolesi. Lo stesso Himmler fin dall’inizio del 1943 aveva chiesto una totale mobilitazione delle riserve umane in Alto Adige. Diversi volontari sudtirolesi furono così addestrati nella scuola di polizia di Dresda e, dopo l’8 settembre, inviati presso i neocostituiti corpi di polizia. Questi ultimi furono complessivamente quattro (“Bozen”, “Alpenvorland”, “Schlanders” e “Brixen”) e coinvolsero complessivamente almeno diecimila combattenti. Alcuni componenti di queste formazioni erano volontari, altri furono arruolati coattivamente. Essi furono impiegati nelle tre provincie che costituivano l’Alpenvorland ma anche in Istria e, nel caso del “Bozen”, nella capitale. Il reggimento “Alpenvorland” fu impiegato nel bellunese (dove partecipò anche al rastrellamento di partigiani sul Monte Grappa) e in Val Passiria (nel tentativo di stanare molti disertori altoatesini qui rifugiati nel corso del 1944). Anche lo “Schlanders” fu impiegato nel bellunese e nelle valli ladine: ritirandosi a fine guerra verso Cortina e la Pusteria prese ostaggi e procedette alla fucilazione di partigiani e civili. Caso emblematico ed esemplare fu quello del “Brixen” che nel gennaio 1945 rifiutò di prestare il suo giuramento “per il popolo, il Führer e la patria” e per questo fu mandato a morire in Slesia contro l’Armata Rossa, ormai inarrestabile nella sua marcia verso la distruzione e conquista del Terzo Reich nazista. Militi del CST


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STORIE Per saperne di più

Breve Glossario Alpenvorland: zona di operazioni comprendente le attuali province di Trento, Bolzano, Belluno. Attiva dal settembre 1943 all’aprile 1945. Formalmente soggetta a sovranità italiana, era, di fatto, governata da un commissario tedesco, Franz Hofer, già comandante del Tirolo, che ne rispondeva direttamente a Hitler. Adriatisches Küstenland: zona di operazioni del litorale adriatico, comandata dal gaulaiter Friedrich Rainer, già referente per la Carinzia. Comprendeva la Venezia Giulia fino a Fiume. Südtiroler - Ordnungsdienst (SOD): servizio d’ordine diretto dalle SS con compiti di polizia nell’Alpenvorland. Si distingueva per il bracciale recante la sigla del reparto. Sicher h e i t sdienst (SD): servizio di sicurezza germanico, svolg e v a funzioni di controllo. In

Alto Adige fu formato da agenti sudtirolesi. Fu soprattutto quest’organizzazione che procedette all’arresto e alla decimazione della dirigenza dell’antifascismo trentino (giugno/luglio 1944).

• Cristoph Hartung von Hartungen, Reinhold Staffler, Werner Hanni, Klaus Menapace, Die Südtiroler Polizeiregimenter 1943-45, in: “Der Schlern”, 1981, Heft 10;

Polizeidurchgangslager: letteralmente ‘campo di transito della polizia’. Ne fu creato uno anche a Bolzano, nel 1944, comunemente noto come “campo di concentramento di Bolzano”. Da qui passarono 40.000 persone nell’attesa di essere inviate a Mauthausen, Dachau, Auschwitz, Ravensbrück. Anche agenti della polizia sudtirolese furono utilizzati nel controllo del campo.

• Umberto Gandini e Gianni Faustini, Quelli di Via Rasella. La storia dei sudtirolesi che subirono l’attentato del 23 marzo 1944 a Roma, inserto del quotidiano “Alto Adige-Corriere delle Alpi”, nr. 1/1979, Trento/ Bolzano 1979;

Via Rasella: nome di una via romana in cui, il 23 marzo 1944, rimasero uccisi 33 soldati del Polizeiregiment Bozen in seguito ad azione della Resistenza romana; l’attentato fu compiuto in una data simbolica (il regime nazifascista celebrava l’anniversario della fondazione dei Fasci). Fosse Ardeatine: luogo alla periferia di Roma in cui furono fucilati per ordine di Hitler 335 ostaggi, parte dei quali rastrellati per le vie di Roma dopo l’attentato di Via Rasella. Il comando dell’operazione fu affidato al colonnello delle SS Herbert Kappler. Anche le autorità fasciste parteciparono all’organizzazione dell’eccidio. Corpo di sicurezza trentino (CST): formazione militare, composta di tre battaglioni, utilizzata dai nazisti per la repressione di attività partigiane nelle province di Trento, Belluno, Vicenza. Inizialmente doveva avere solo compiti di controllo del territorio, quindi fu impegnato nella violenta repressione della Resistenza a Feltre (5-6/1944), in Valsugana (10-11/1944), in Val di Fiemme (10-11/1944), sul Monte Grappa (autunno 1944), nell’area Pasubio-Vallarsa-Val d’Astico (1/1945).

Milite del CST

• Gherard Schreiber, I militari italiani internati nei campi del Terzo Reich, Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, Ufficio Storico, Roma 1992; • Option Heimat Opzioni (Opzioni 1939-1989), Tiroler Geschichtsverein Bozen, Bozen 1989; • Claus Gatterer, In lotta contro Roma, Ed. Praxis 3, Bolzano 1994; • Margareth Lun, Südtirol in der Operationszone Alpenvorland 1943-45, Diplomarbeit, Zur erlangung des Akademischen grades eines magisters der philosophie an der geisteswissenschaftlichen Fakultät der Leopold-Franzens- Universität Innsbruck, Innsbruck 1993; • Gerald Steinacher, Roma, Marzo 1944: il polizeiregiment Bozen e l’attentato di Via Rasella, in: Carlo Romeo, Pietro Agostini, Trentino e Alto Adige, Province del Reich, Trento 2002, pag. 283-288; • Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Mursia, Milano 1983 (in ristampa); • Rosario Bentivegna, Operazione Via Rasella, in collaborazione con Cesare de Simone, Roma 1996; • Franz Thaler, Dimenticare mai, Bolzano-Innsbruck 1990.


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STORIE

Disposizione del prefetto de Bertolini in merito alla costituzione del Corpo di sicurezza trentino


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STORIE Il Polizeiregiment Bozen di Lorenzo Baratter

Il Polizeiregiment Bozen fu il primo dei reggimenti di polizia ad essere formato nel contesto del nuovo assetto sudtirolese delineatosi dopo l’8 settembre 1943: esso coinvolse circa duemila combattenti, ai comandi di ufficiali delle SS. Nell’ottobre di quello stesso anno il colonnello delle SS Menschick fu posto al comando di un primo gruppo di 250 uomini, denominato originariamente Polizeiregiment Südtirol. Le truppe furono addestrate a Bolzano, Silandro, Colle Isarco. Armi ed equipaggiamenti erano il risultato del bottino nazista conseguito ai danni dell’Esercito italiano. Le unità di questo reggimento di polizia furono utilizzate nella zona di operazioni Alpenvorland (Trento, Belluno, Bolzano) e nella zona della costiera adriatica in attività antipartigiane. Episodi di indiscriminata violenza furono commessi nella provincia di

Soldati del Battaglione Bozen

Belluno (eccidio della Valle del Biois) ed in Istria (Fiume, Abbazia, Krk). Il giuramento del reggimento fu effettuato il 28 gennaio del 1944 a Gries, nei pressi di Bolzano. Si procedette quindi ad inviare le truppe nelle zone di operazione prestabilite. Il primo battaglione fu inviato in Istria ed impiegato in ampie azioni di accerchiamento e rastrellamento contro la Resistenza locale. Il secondo battaglione del Bozen giunse a Belluno nel febbraio del 1944 ed ebbe ad effettuare ben 85 interventi di repressione antipartigiana (tra il marzo e il dicembre di quello stesso anno). Inoltre il 20 e 21 agosto del 1944 fu commesso il massacro della Valle del Biois. Alcuni responsabili dell’eccidio, una volta fatti prigionieri nel campo di Cencenighe (Belluno) furono riconosciuti dai partigiani e giustiziati sul posto. Nel marzo del 1945, unità di questo battaglio-

ne impiccarono 14 persone in una piazza centrale di Belluno. Il terzo ed ultimo battaglione del Bozen fu inviato – a partire dal febbraio del 1944 – presso la città di Roma, dove sarebbe stato utilizzato in attività di sorveglianza di ‘punti strategici’ della città (sorveglianza dell’EIAR e di vari uffici italiani e tedeschi). Il 23 marzo 1944 caddero 33 soldati dell’undicesima compagnia (tutti altoatesini, in fase di addestramento ma in assetto di guerra) nell’azione di guerra partigiana effettuata dai Gruppi di Azione Patriottica, in Via Rasella. In seguito a quel fatto i nazisti assassinarono per rappresaglia 335 cittadini innocenti alle Fosse Ardeatine. All’eccidio non presero parte i supersititi del “Bozen”. I militari sopravvissuti all’azione partigiana furono impiegati successivamente contro i ribelli nel Nord Italia: da Firenze alla Val di Susa, dalla Valsugana al Cadore.


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STORIE Il reggimento Brixen di Paolo Valente

Il “Brixen” fu l’ultimo reggimento di polizia ad essere costituito in Alto Adige, nell’ottobre del 1944. Il reggimento, con sede nelle caserme di Bressanone requisite all’Esercito italiano dopo l’8 settembre 1943, venne suddiviso in due battaglioni di quattro compagnie l’uno. La sua composizione era alquanto eterogenea: cittadini optanti per la Germania, ma soprattutto “Dableiber” (tra cui, come pare, alcuni simpatizzanti dell’organizzazione resistenziale “Andreas Hofer Bund”) e perfino alcuni altoatesini di lingua italiana. I due battaglioni, nelle intenzioni, erano destinati a mansioni di polizia all’interno dei confini italiani. Ma la situazione della guerra era ad un punto critico e nel febbraio del 1945, quando fu previsto il giuramento della truppa, avvenne un fatto clamoroso, non ancora del tutto chiarito. La scena è così descritta da Christoph von Hartungen: “La cerimonia del giuramento fu fissata per la fine di febbraio, alla presenza del Commissario supremo Hofer. A tutto il gruppo fu letta la formula del giuramento. Come risposta si poté percepire solamente un poco chiaro mormorio. Per questo fu ripetuta per altre due volte la formula del giuramento, ma nessuno rispose. Allora il gruppo fu disarmato da sottufficiali germanici, con le

armi spianate, con urla selvagge e sotto la minaccia della decimazione, e fu rinchiuso nelle camerate” (Christoph v. Hartungen, Die Südtiroler Polizeiregimenter 1943-1945, in “Der Schlern” 55/1981, Heft 10). La recluta T., la cui testimonianza è stata raccolta da Martha Verdorfer (Zweierlei Faschismus, Vienna 1990, pp. 276277), ricorda che quel giorno si verificò una catena imprevista di inconvenienti: una serie di allarmi aerei, il mancato arrivo puntuale del Commissario supremo, il salto del pasto, il freddo infernale, i parenti fuori dai cancelli impossibilitati ad ogni incontro. “Alle cinque di sera (…) è arrivato il Commissario supremo. Ha tenuto un discorso che non finiva più e poi avremmo dovuto giurare. Ci ha recitato il testo del giuramento. Noi eravamo così amareggiati. (…) Non ci eravamo messi d’accordo. (…) Ma nessuno ha aperto bocca! Tutti sono rimasti in silenzio…” “A quanto pare – ricorda L. G., una recluta di Merano – la prima volta non ci hanno preso molto sul serio. Avranno pensato: questi non capiscono niente”. Per questo venne ripetuta la formula confidando in un ripensamento. “Ma, per la seconda volta, da tutto il reggimento non uscì altro che un confuso e quasi impercettibile brusio” (Piero

Agostini – Carlo Romeo, Trentino e Alto Adige province del Reich, Trento 2002, p. 203). Il reggimento, privato delle armi che aveva in dotazione, venne dunque mandato per punizione sul fronte russo, in Alta Slesia. E’ difficile stabilire fino a che punto il rifiuto di un intero reggimento di polizia di prestare giuramento a Hitler fosse frutto di un’improvvisazione favorita dalle circostanze. Se secondo il già citato T. non c’era stato alcun accordo preventivo, L. G., pur non sapendo chi avesse preso l’iniziativa di non giurare, ricorda che “c’era qualcuno che era particolarmente contrario al giuramento. Si trattava di giurare a Hitler…” Viene spontaneo pensare che la “mente” di questo rifiuto fosse da individuare tra i membri del gruppo di resistenza “Andreas Hofer”. L. V., altro meranese arruolato nel “Brixen”, afferma che “c’erano anche motivi religiosi. Erano tutti cattolici al novantanove per cento. Tre quarti venivano dalle campagne…” Una ricostruzione dell’evento si scontra con un problema fondamentale. Dei due battaglioni il primo venne quasi completamente annientato ed il secondo subì gravi perdite. Tra i caduti, forse, coloro che avrebbero potuto ricostruire le fasi di questa inedita obiezione di massa.


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STORIE Progetto memoria per il Trentino di Giuseppe Ferrandi

Il 2 settembre di quest’anno il Presidente della Provincia autonoma di Trento ha presentato le linee guida del Sessantesimo anniversario della Resistenza, indicando nel Museo storico in Trento l’istituzione culturale e scientifica chiamata a coordinare le iniziative e le attività che si realizzeranno nel periodo 2003-2005. Dellai ha precisato che l’intera operazione Sessantesimo è finalizzata ad un’adeguata valorizzazione di quel patrimonio di valori e idealità di cui oggi sono portatori coloro che combatterono per la libertà e la democrazia. Storie di donne e di uomini che hanno lasciato testimonianze scritte capaci di raccontare, attingendo alla loro personale percezione di quegli eventi e alla soggettività, “frammenti” di un periodo tra i più complessi della storia contemporanea. Un’operazione di raccolta e di valorizzazione di testi e di vissuti resa possibile dalla costituzione e dallo sviluppo dell’Archivio della

scrittura popolare presso il Museo; un’operazione che va portata avanti ulteriormente. Sulla seconda guerra mondiale il numero di materiali a disposizione degli studiosi e dei ricercatori è infinitamente minore rispetto a quelli relativi la Grande Guerra, all’esperienza dei combattenti o a quella dei profughi nelle città di legno. Il Museo ha risposto con impegno e convinzione all’incarico della Provincia e si sta attrezzando per incrementare il numero di testimonianze e di memorie (scritte ed orali – con la realizzazione di video-interviste – materiale fotografico, ecc.). Si può determinare tale incremento se non si delimita la raccolta di simili testimonianze ai protagonisti della Resistenza, a coloro che vissero direttamente l’esperienza della lotta partigiana. L’ambizioso Progetto memoria per il Trentino, di cui il Sessantesimo rientra come parte di grande rilievo, prevede il recupero di centinaia di queste

testimonianze. Si tratta di raccogliere le “storie di vita” di chi si arruolò nel Corpo di sicurezza trentino o nelle altre formazioni militarizzate dell’Alpenvorland, di dare voce alle donne che in quegli anni lavorarono nelle fabbriche della provincia, di far parlare coloro che subirono la violenza della guerra, assistendo terrorizzati (con gli occhi dei bambini e degli adolescenti) ai bombardamenti che colpirono le città e il fondo valle. Scegliere il 2 settembre, a 60 anni esatti dal bombardamento di Trento che uccise più di 200 persone, è servito a rimarcare la centralità della drammaticità della guerra. Non per annacquare tutto, ma per permettere ad ognuno di ritrovarsi con la propria esperienza e con la propria storia. E’ in questo quadro che possono assumere ulteriore valenze le storie della Resistenza ed è da questi presupposti che possono muovere le ricerche dei prossimi mesi.

60° della Resistenza La Giunta della Provincia autonoma di Trento ha deciso di avviare un progetto per il Sessantesimo anniversario della Resistenza. Al Museo storico in Trento è stato affidato l’incarico di coordinare tali attività e di contribuire alla riuscita organizzativa e scientifica delle iniziative che verranno programmate. Per fissare gli obiettivi generali di tale programma e per svolgere una funzione di adeguata rappresentanza politica ed istituzionale è stato costituito un apposito Comitato provinciale per il Sessantesimo. Ad un Comitato scientifico è invece stato affidato il ruolo di vagliare le proposte, supervisionare le iniziative e garantire un approccio storiograficamente avvertito.


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STORIE Via Rasella: un episodio importante della guerra di liberazione nazionale. Intervista con Rosario Bentivegna di Paolo Piffer

Annuncio funebre a firma Franz Hofer relativo ai soldati del Bozen caduti in via Rasella

Non aveva ancora 22 anni quel 23 marzo del 1944 quando a Roma, in via Rasella, fece esplodere la carica di tritolo che uccise 33 soldati del battaglione “Bozen” e ne ferì altri 56. Rosario Bentivegna - attivo nella zona dei Castelli romani dove dirigeva le formazioni partigiane che operavano dietro le linee tedesche, appartenente ai GAP, i Gruppi di azione patriottica - animò la guerriglia fino alla liberazione della capitale per poi raggiungere, in Jugoslavia, i titini con l’incarico di commissario politico della divisione Garibaldi in Montenegro. Il giorno dopo i fatti di via Rasella, il tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, radunò 335 persone nella tristemente nota, da allora, cava delle Fosse Ardeatine e, in nome di un’aberrante “consuetudine bellica internazionale”, le fece massacrare. Oggi, nonostante qualche acciacco, Rosario Bentivegna non scansa certo le domande, anzi. “Purtroppo si parla di via Rasella come di un fatto autonomo, a sé. La resistenza a Roma non fu solo via Rasella (con ciò che seguì alle Fosse Ardeatine), S.Paolo, il ghetto. La realtà era molto più complessa di quanto la si racconti. Certo, via Rasella è stata uno dei momenti significativi, ma non l’unico. Si può

dire – prosegue Bentivegna – che la resistenza romana si basò, soprattutto, su una fortissima disobbedienza civile e una larghissima solidarietà spontanea e organizzata nei confronti di tutti coloro che venivano perseguitati: i renitenti alla leva, militari e del lavoro, i soldati e gli ufficiali sbandati, i prigionieri di guerra alleati sfuggiti ai campi di concentramento, i politici antifascisti, i partigiani, i carabinieri che venivano perseguitati, gli ebrei, perfino molti ex gerarchi fascisti che non volevano lavorare con i nazisti. La nostra azione militare era la conseguenza sia del tradimento dei tedeschi che entrarono a Roma, nonostante avessero firmato un armistizio che riconosceva la capitale “città libera” presidiata dalle truppe italiane, che della loro azione repressiva”. Quindi, via Rasella fu un episodio di una strategia più complessiva. “Certo. Naturalmente ha suscitato un grande clamore non solo per l’azione in sé, una delle più importanti della resistenza europea, ma, soprattutto, per la strage delle Ardeatine che, d’altra parte, è stata poi strumentalizzata non solo politicamente ma anche dal Vaticano”. In che modo il Vaticano, allora, “strumentalizzò” le Ardeatine? “Il giorno dopo l’azione di via Rasella il Ministero della cultura popolare emise un foglio di disposizioni in cui ordinava alla stampa di non parlare dell’accaduto. L’Osservatore Romano, organo del Vaticano, invece, pur non entrando nello specifico, scriveva degli irresponsabili che avevano violato la tranquillità della città e che erano sfuggiti alla cattura, delle vittime innocenti, cioè i poliziotti del battaglione “Bozen”. L’Osservatore Romano pubblicava tutto ciò proprio nelle ore in cui le SS commettevano l’ignobile delitto delle Fosse Ardeatine”. Quel 23 marzo 1944 sapevate esattamen-

te chi andavate a colpire? “Certo. L’azione era in preparazione da alcune settimane. Questa compagnia transitava sempre dalla stessa strada, alla stessa ora, intorno alle due del pomeriggio, di ritorno dal poligono di tiro. Il nostro comandante supremo, Giorgio Amendola, insieme ad altri, decise, l’attacco. Si trattava di un reparto del “Bozen” che, rispetto ad altri, non era stato ancora impiegato in azioni antipartigiane. Altri reparti del reggimento erano infatti già stati impiegati nella zona dei Castelli romani”. In questi decenni, ha mai incontrato qualche superstite del battaglione “Bozen”? “No, non ho incontrato nessuno. Mi sono occupato della vicenda di questo reggimento dal punto di vista storiografico e a causa di alcune vicende giudiziarie aperte contro chi falsava la storia o intentate successivamente nei nostri confronti”. A 60 anni dalla Liberazione che considerazioni si sente di fare? “Mi sento di dire che si trattò di una guerra di liberazione nazionale e, solo marginalmente, civile. Inoltre, dopo 60 anni, parlare ancora di fazioni “aggressivamente schierate” una contro l’altra mi sembra sinceramente ridicolo. Guardi, sinceramente, per fare un esempio, dopo la guerra, ma anche più avanti, mi sono anche ritrovato con alcuni compagni di scuola che stavano dall’altra parte. Diciamo così: “C’eravamo tanto odiati” ma adesso, mantenere questo atteggiamento sarebbe solo un attaccamento morboso alla propria giovinezza. Oggi, la posizione corretta, storiografica e nei confronti delle giovani generazioni, deve essere quello di analizzare e raccontare con chiarezza i fatti e non falsarli. Su via Rasella sono state scritte anche molte falsità ma continuare a litigare non ha alcun senso”.


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ALTRE

STORIE Le voci di quelli del “Bozen” di Paolo Piffer

L’Italia è “ricca” di storie dimenticate ma anche non raccontate fino in fondo. In questo caso, non è necessario arrivare ad occuparsi dei misteri irrisolti.

Basta soffermarsi sulla vicenda del battaglione “Bozen”, la cui 11° compagnia, formata da 156 soldati, fu al centro dell’azione partigiana di via Rasella a Roma, il 23 marzo 1944: 33 i morti, 56 i feriti. Tremenda la rappresaglia tedesca, ordinata da Kappler, culminata nel massacro delle Fosse Ardeatine. 335 vittime innocenti, decimate dalla bestialità nazista. Ciò che resta sullo sfondo, quasi impercettibile, ancora oggi, sono le storie di quei soldati sudtirolesi. Chi erano? SS? Contadini strappati alla terra e alle famiglie? O che altro? Sì, perché andando a consultare, ad esempio, qualche dizionario, sembrerebbe non esserci alcun dubbio. Massimo Rendina, comandante partigiano che ha preso parte alla liberazione di Torino, nel suo “Dizionario della Resistenza italiana” (Editori Riuniti; 1995) così scrive a proposito di via Rasella: “Il reparto assaltato dai partigiani non era composto da anziani territoriali, come si disse, ma faceva parte del 3° battaglione del reggimento di SS Bozen espressamente voluto da Himmler per la lotta ai partigiani”. Eppure, qualche anno prima, nel 1979 il quotidiano “Alto Adige” aveva dedicato un fascicolo, ormai quasi introvabile, intitolato “Quelli di via Rasella. La storia dei sudtirolesi che subirono l’attentato del 23 marzo 1944 a Roma”, curato da Umberto Gandini con la prefazione di Gianni Faustini. Da quella bella inchiesta, maso per maso alla ricerca dei superstiti, emergevano altre considerazioni. Per inciso, chi conosce la realtà sudtirolese, ben sa che difficilmente, nonostante una convivenza ricercata giorno dopo giorno, un giornale espressione del gruppo italiano come l’“Alto Adige” possa esser stato “compiacente” nei confronti di alcuni componenti Via Rasella dopo l’attentato del 23 marzo 1944

del gruppo tedesco. Questo per dire che da quell’inchiesta, che sarebbe molto interessante fosse ripubblicata, magari il prossimo anno, 60° della Resistenza, con ulteriori contributi storici, ciò che emergeva era un’altra verità. Gandini infatti scriveva: “Quelli che persero la vita erano sudtirolesi, quasi tutti già anziani, arruolati per forza appena tre mesi prima, partiti malvolentieri e scaraventati come tanti altri nella bolgia di una guerra non voluta né capita, incerti pure sulla loro cittadinanza al punto che non avrebbero saputo dire con sicurezza se dovevano considerarsi, per la burocrazia, italiani o tedeschi”. “Avevano tutti documenti d’identità italiani in tasca ma parlavano tedesco; indossavano – prosegue Gandini – la divisa della polizia tedesca ma erano stati in precedenza, quasi tutti, soldati italiani”. Tutto ciò, si badi bene, non andava certo a rimpolpare una vulgata storiografica e giornalistica tendente al revisionismo, tesa a rimpicciolire le responsabilità. Rimaneva e rimane la validità della considerazione di fondo, che ben sono espresse da Rosario Bentivegna: “Fu un episodio importante della guerra di liberazione nazionale”. Insomma, volente o nolente, per volontà o costrizione, c’era chi stava dalla parte sbagliata, chi combatteva per liberare l’Italia dal giogo nazifascista e chi quel gioco contribuiva a mantenere. “Teste di legno sudtirolesi”, “schweine” (maiali), “bastarde”, venivano chiamati dai superiori quelli del Bozen. Raccontava a Gandini, Franz Bertagnoll di Caldano: “Un giorno il maggiore Dovek mi urlò: “Siete del 60% peggiori del peggiore degli italiani”. “Wir wurden gedrillt”, rammentava Josef Prader di Bressanone. “Drillen – aggiunge il giornalista – non significa


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ALTRE

STORIE Una poesia di condanna del CST, Scritta da Italo Lunelli nel 1944. In una nota l’autore afferma che era ampiamente diffusa in Trentino. Italo Lunelli, volontario della Grande Guerra e dell’Impresa di Fiume, fascista, fu eletto deputato nelle elezioni politiche del 1924. Durante il Ventennio ricoprì anche gli incarichi di direttore della rivista della Legione Trentina (1926) e di direttore della Biblioteca civica di Trento (1933). (conservata in Archivio Resistenza I parte, Busta 4, fasc.10)

Corpo di Sicurezza Trentino Vedi, han visi scarni, occhi neri, sono slanciati, fronti intelligenti. Italiani in germanica divisa! Marcian a passi rigidi, taglienti,

nate nell’alte valli del Cadore, con echi di fontane e nostalgie. E poi quelle che interpretan l’amore con le profonde estasianti armonie,

senza fletter muscolo, tutti interi. Or odi un comando stridere duro ed erompe da quei petti improvvisa, in lingua tedesca, ve l’assicuro,

sbocciate sulle piazze friulane al primo luccicare delle stelle. Ed escon lor di gola tutte sane, graziose, civettuole, schiette e belle,

una canzon germanica di guerra, aspra, energica, rauca, martellata, mentre i lor piedi spaccano la terra.

come se lor fiorissero dal cuore; e il passo è meno duro sul selciato, e scomparso è il germanico furore.

È, questa, gioventù cresciuta e nata nella nostra italianissima terra? Stringe il cuor l’orribile parata.

Senza volere essi hanno rivelato del loro stato l’orribile stridore. Sono alpini italiani, Dio eternato.

Ora i graduati cessan di gridare e s’ode solo il martellar dei passi e il loro cadenzato slontanare. Ma ad un tratto ecco, limpida, fresca, alzarsi,

Sono alpini, fior di nostra gente, quelli che andavano ai battaglioni epici di leggende e di canzoni nella grande guerra e in questa più recente,

di sopra la foresta degli elmetti, prima incerta ma poi ampia e distesa, una canzone nata tra i paesetti alpini del Piemonte e poi discesa

e si chiamavano con nomi poderosi “Aosta”, “Pelmo”, il fatal “Bassano”, “Vicenza” di Battisti, tutti gloriosi. Ora, indossando il casco del germano,

nelle città col rombo dei torrenti. Il coro tuona attorno i suoi versetti come tuonava nei nostri reggimenti.

tutti li rinnegano e la Patria loro. Poveri ragazzi quei che obbligati furono, ma vergogna per coloro

E sgorgan poi canzoni e canzoni, quelle che cantan le belle e i sarmenti dell’alta Lombardia, e le canzoni

che di lor voglia si sono abbassati così vilmente, senza alcune decoro. Già i lor canti li hanno condannati. 28 maggio 1944

Italo Lunelli

solo addestrare con cattiveria, senza pietà. E’ un termine che si usa per gli animali cui bisogna insegnare i numeri da circo”, così venivano trattati quelli del Bozen. “Bisogna scrivere quello che è stato, – diceva Konrad Sigmund di Luson – non è vero che noi fossimo delle SS”. Le testimonianze, in quel fascicolo sono molte e non tutte coincidenti, come è ovvio. Josef Prader di Bressanone affermava: “A noi fu chiesto di fare le fucilazioni (alle Ardeatine, n.d.r.) ma dicemmo di no. Non si sarebbero nemmeno fidati di noi sudtirolesi, ci consideravano teste di legno. Certo, fu un fatto doloroso, tremendo. Ma era una legge di guerra”. E Josef Praxmarer di S. Giacomo: “Noi a Roma c’eravamo solo per proteggere la gente. Non abbiamo preso niente, non abbiamo avuto niente. Non abbiamo fatto nulla alla popolazione e, per questo, l’attentato fu una cosa ingiusta”. Il dubbio di esser stati mandati al massacro nel giorno in cui si “festeggiava” a Roma la fondazione dei Fasci viene espresso a più riprese. “Quel mattino del 23 ci fecero uscire per raggiungere il campo di tiro e ci proibirono di cantare. Di solito, dovevamo sempre cantare. Secondo me sapevano qualcosa”, diceva Sylvester Putzer”. “Partimmo con i colpi in canna e non era mai accaduto”, aggiungeva Franz Bertagnoll. “Dovevano (i tedeschi, n.d.r.) esser stati avvertiti perché c’erano troppi segni in giro”, chiudeva Franz Casser di Termeno. Umberto Gandini così concludeva: “Questi e altri dettagli, rimuginati per anni, hanno indotto molti tra i superstiti a pensare d’essere stati gettati allo sbaraglio, incontro all’attentato, con piena consapevolezza da parte dei loro superiori”.


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ALTRE

STORIE AGENDA

Importante riconoscimento per “AltreStorie” All’interno del Salone nazionale della comunicazione pubblica (COMPA), svoltosi nelle settimane scorse a Bologna, la rivista del Museo ha vinto il “Premio Cento alla stampa locale” promosso dalla Regione Emilia Romagna, dalla Provincia di Ferrara, dal Comune di Cento e dal Circolo culturale club Embora. Alla cerimonia di premiazione ha partecipato anche il presidente della Camera, Pierferdinando Casini. Ben 87 i periodici in gara sottoposti all’attenzione di una qualificata giuria composta da Claudio Santini, presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, da Gianluigi Armaroli, corrispondente delle reti Mediaset, Marino Massaro, giornalista del Sole 24 Ore, Giovanni Rossi, segretario aggiunto del sindacato giornalisti e Giorgio Tonelli, capo redattore della Rai dell’Emilia Romagna. Nell’assegnare il premio al Museo storico in Trento, ritirato dal direttore Giuseppe Ferrandi, la giuria ha tenuto conto di numerosi aspetti. Tra questi, la veste grafica, il contenuto giornalistico - autorevole e nello stesso tempo divulgativo - e la scelta degli argomenti storici proposti da “AltreStorie” che, partendo da spunti locali, affronta tematiche di ampio respiro.

F

ra le novità editoriali comparse nella collana di pubblicazioni del Museo storico in Trento si segnalano tre titoli collegati al progetto «Alla ricerca delle menti perdute: viaggi nell’istituzione manicomiale» che ha vissuto nel mese di novembre 2003 il suo momento di maggiore visibilità grazie ad un fitto calendario di iniziative e alla mostra allestita presso lo spazio Foyer del Centro Servizi culturali Santa Chiara a Trento. La prima segnalazione è proprio quella relativa al catalogo della mostra (pagine 149, € 22.80) a cura di Rodolfo Taiani. In questo volume, ampiamente illustrato e che riprende il titolo dell’intero progetto, sono raccolti saggi e testimonianze che oltre ad accompagnare il visitatore lungo l’itinerario espositivo offrono numerosi spunti di lettura relativamente ai temi in essa toccati. La seconda segnalazione riguarda invece una raccolta di memorie a cura di Quinto Antonelli e Felice Ficco. Il volume, Psycopathia sexualis: memorie di un internato psichiatrico (pagine 230, € 16.80), riaccende i riflettori sulla tormentata esistenza di Antonio – così si è scelto di chiamare confidenzialmente Via Torre dʼAugusto, 41 38100 TRENTO Tel. 0461.230482 fax 0461.237418 www.museostorico.it e-mail:info@museostorico.it

il paziente, per tutelarne l’anonimato – il quale, nato nel 1920, trascorse gran parte della propria esistenza in manicomio. Prima di approdare a Pergine Valsugana, dove visse dal 1951 al 1981, Antonio transitò da altri istituti, il riformatorio «Ferrante Aporti» di Torino prima e i manicomi giudiziari di Volterra e di Reggio Emilia successivamente. Infine si segnala il libro di Hartmann Hinterhuber, Uccisi e dimenticati: crimini nazisti contro malati psichici e disabili del Nordtirolo e dell’Alto Adige (pagine 148, € 13.00). Si tratta della traduzione italiana di un volumetto già comparso in tedesco nel 1995, che tratta le vicende dei gravi crimini nazisti perpetrati ai danni di malati psichici e disabili fisici in Nord e Sud Tirolo. Fra questi si ricorda in particolare la vicenda dei 299 pazienti che furono trasferiti il 26 maggio 1940 da Pergine Valsugana nell’ospedale tedesco di Zwiefalten nel quadro dell’accordo italo-tedesco sulle opzioni del 1939. Al termine della guerra solo pochi di questi faranno ritorno; la maggior parte subì le conseguenza del programma di eliminazione sistematica nei confronti di malati psichici e disabili fisici voluto dal regime nazista.

ALTRESTORIE - Periodico di informazione. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti Comitato di redazione: Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Paolo Piffer, Rodolfo Taiani

Per ricevere la rivista o gli arretrati, fino ad esaurimento, inoltrare richiesta al Museo storico in Trento.

A

d altro argomento è dedicato invece la quarta novità della collana di pubblicazioni del Museo storico in Trento, Vicini lontani: i rapporti tra Italia e Austria nel secondo dopoguerra di Josef Berghold (pagine 174, € 15.00). L’Autore, non nuovo alla tematica affrontata in queste pagine, ricostruisce l’evoluzione dei rapporti italo-austriaci nei primi decenni del secondo dopoguerra, evidenziando i passaggi attraverso i quali da una posizione di contrapposizione nazionalistica si è passati via via ad una relazione non solo di vicinato abbastanza disteso, ma anche di promozione della conoscenza reciproca con una notevole grado di apertura culturale e valorizzazione delle rispettive esperienze storiche.

Hanno collaborato: Lorenzo Baratter, Rosario Bentivegna e Paolo Valente. Periodico quadrimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132, ISSN-1720-6812. Progetto grafico: Graficomp - Pergine (TN)


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Fotolibro, formato 32x24, 648 pagine, confezione in brossura cucita cartonata con cofanetto, 1260 fotografie di cui 450 di grande formato Prezzo E 70,00

Volume in vendita presso le librerie e presso il Museo storico in Trento e il Museo storico italiano della guerra di Rovereto


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