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anno dodicesimo

numero trentatre

set./dic. 2010

IN QUESTO NUMERO LA CIVILTA’ DEI CIBI

PosteItalianeS.p.A.-Spedizioneinabbonamentopostale-D.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004n.46) -art.1,comma1,D.C.B.Trento-Periodicoquadrimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti - Distribuzione gratuita - Taxe perçue - ISSN 1720 - 6812


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ALTRESTORIE – Periodico quadrimestrale di informazione Periodico registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1.132 ISSN 1720-6812 Comitato di redazione: Paola Bertoldi, Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Paolo Piffer, Rodolfo Taiani (segretario) Direttore responsabile: Sergio Benvenuti Hanno collaborato a questo numero: Quinto Antonelli, Silvia Bertolotti, Stefano Chemelli, Rinaldo Dalsasso, Massimo Montanari, Carlo Pedrolli, Francesca Rocchetti, Maria Letizia Tonelli, Marta Villa. Progetto grafico: Graficomp - Pergine (TN). Stampa: Alcione - Lavis (TN). In copertina, Bartholomeus van der Helst: banchetto della guardia civica di Amsterdam per la celebrazione della pace di Münster


anno dodicesimo

numero trentatre

set./dic. 2010

IN QUESTO NUMERO LA CIVILTA’ DEI CIBI

Editoriale 4 Cibo e civiltà: un percorso gastronomico attraverso la storia di Pietro Gerbore, a cura di Stefano Chemelli

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La “polizia” dei cibi: alimentazione e salute in Trentino fra Sette e Ottocento di Rodolfo Taiani 10 Dalla scrivania dello storico al fornello del cuoco: interviste con Massimo Montanari e Rinaldo Dalsasso a cura di Paola Bertoldi

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Il cucchiaio dello scapolo di mondo: le ricette di monsieur Momo, al secolo Henri de Toulouse-Lautrec, artista e viveur di Maria Letizia Tonelli

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Il banchetto 22 “Un gioco quasi saporito” di Quinto Antonelli

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A carnevale… ogni cibo vale di Marta Villa

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Mangiare sul lavoro di Carlo Pedrolli 28 Cucina a porter: quando l’estetica è nel piatto di Silvia Bertolotti 31 Dialogo sulla qualità del cibo di Guido Barilla e Carlo Petrini

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Le ricette diventano best sellers di Paola Bertoldi

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I custodi degli antichi sapori le confraternite enogastronomiche di Paola Bertoldi 39 Infomuseo 40 Edizioni FMST: novità

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on c’è mezzo di comunicazione, a stampa o radiotelevisivo, che non dia spazio a rubriche più o meno approfondite, dedicate alla cucina. Molti prodotti editoriali di successo sono spesso raccolte di ricette gastronomiche rivisitate, a seconda dei casi, in chiave raffinata o popolare, regionale o internazionale. Si tratta di un interesse che attesta una sorta di rivoluzione nelle abitudini alimentari, nelle culture percettive del gusto e soprattutto nel modo stesso di consumare e vivere i momenti conviviali del pasto. La preparazione dei cibi, le modalità di servirli e consumarli sono diventati elementi rappresentativi di stili di vita e/o condizioni sociali. Gli spazi dell’alimentazione collettiva, dai ristoranti alle abitazioni private, sono diventati luoghi di socializzazione, condivisione e interscambio di esperienze che valicano lo stretto ambito nutrizionale e accolgono contaminazioni di ogni genere: il contatto stesso con il cibo dell’altro, oltre che momento di godimento personale, diven-

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ta occasione di conoscenza e integrazione, talvolta sperimentato una prima volta nel corso di un viaggio e quindi proseguito. Il concetto stesso di ricetta è diventato metafora di corretto metodo di agire, dove all’esatta proporzione e preparazione degli ingredienti corrisponde il raggiungimento di risultati eccellenti tanto davanti ai fornelli quanto nelle occorrenze quotidiane. In questo numero di Altrestorie non si vogliono certo sviluppare tutti gli elementi che emergono dalla lettura dell’evoluzione della cosiddetta “civiltà della cucina”, ma solo offrire una serie di spunti che possano orientare il lettore in un percorso di approfondimento, inutile dirlo, ricco di sapori, ma soprattutto di saperi che accompagnano e riflettono l’intera storia dell’uomo con tutte le sue implicazioni storico-economiche, storico-sociali e storico-culturali. Si può ben dire che è l’intera storia dell’umanità ad essere servita nei piatti che ogni giorno bandiscono le tavole di tutto il mondo (rt).

Editoriale


Nell’antichità il lusso delle mense cominciò dopo le guerre persiane e raggiunse l’apice nel III secolo a.C. Farao­ne, fagiani, pavoni, urogalli furono serviti insieme a piccioni, anatre e oche. I Greci, però, sarebbero morti di fame se il mare non li avesse generosamente nutriti. Aristotele enumerava centodieci varietà di pesci. I primi fornai si ebbero soltanto nel 170 a.C., ma il pane rimase per secoli un cibo di lusso. Dai Greci i Romani avevano ricevuto la vite e l’olivo; la prugna era già diffusa sotto Augusto. Tuttavia fu Virgilio il primo a nominare la castagna e Lucullo a portare la ciliegia a Roma. Arte di vivere, ideale del bello e del buono, il kalos kagathos dei Greci, sono tratti e caratteri dell’uomo ateniese che agisce nell’agorà, intessendo relazioni umane sulle note della simpatia. Il pranzo, deipnon, come il simposio, che a esso seguiva, era la scena prelibata della conversazione, dei piacevoli conversari. Il Romano faceva tre pasti (jentaculum fra le 7 e le 9, prandium fra le 11 e le 12, coena a notte fonda). Una coena prevedeva l’antipasto (gustatio) ed era formata da cibi, uova, insalate e legumi, tartufi, pesci salati e marinati, ostriche; si beveva mulsum, un vino mescolato con miele. Il pasto includeva un numero sempre più grande di portate. Gli antipasti erano ricci di mare, ostriche crude, molluschi, allodole su asparagi, pollastre, ragù di ostriche e molluschi, crostacei e beccafichi, filetti di capriolo e cinghiale, pollame in crosta, lumache. Piatti forti sono le mammelle di scrofa, la testina di maiale, la fricassea

Cibo e civiltà un percorso gastronomico attraverso la storia di Pietro Gerbore a cura di Stefano Chemelli Le note storico-gastronomiche raccolte nelle pagine seguenti sono state curate da Stefano Chemelli che ha attinto al ricco materiale di Pietro Gerbore conservato presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze. Pietro Gerbore, diplomatico, giornalista, scrittore, è nato a Roma nel 1899 e si è spento a Firenze nel 1983. Originario da una famiglia valdostana all’avvento della Repubblica, per rimanere fedele al giuramento fatto alla Monarchia, si dimise dal servizio diplomatico in cui era entrato nel 1924. Collaborò a il Borghese dal 1951 al 1957 e scrisse successivamente per il quotidiano Roma. Personaggio di straordinaria erudizione, nonché instancabile scrittore, Pietro Gerbore ebbe modo di occuparsi di svariati argomenti, attingendo alla sua fornitissima biblioteca. Fra questi anche la storia della gastronomia. In particolare per le notizie qui riportate si avvalse dei seguenti volumi: Physiologie du gout, di Jean Anthelme Brillat-Savarin (Parigi 1826); Le maitre d’hotel francais ou parallèle de la cuisine ancienne et moderne di Marie Antoine Careme (Parigi 1822); Le cuisinier parisien (Parigi 1828); L’art de la cuisine française au XIXe siècle (Parigi 1835-1838); Guide culinaire, di Auguste Escoffier (Parigi 1902); Almanach des gourmands di Alexandre Balthazar Laurent Grimod de La Reynière (Parigi 1803-1810); Manuel des amphitryons (Parigi 1808); Geist der kochkunst di Karl Friedrich von Rumohr (Francoforte 1822).

di polli, anitre arrosto e bollite, lepri, pollame, arrosto, torte di formaggio. Un must davvero indimenticabile poteva essere il seguente: per una vulva di scrofa riempita, preparare un ripieno di carne di maiale tritata, pepe pestato e comino, due porri e garum (salsa piccante). Aggiungete pepe e pinoli. Riempite la vulva bene lavata, lasciatela bollire nell’acqua con olio, garum, aneto e porri. Il contributo dell’artigiano greco all’arte di vivere fu l’anfora che permetteva al vino di giungere gradatamente all’apice della perfezione. I Greci diedero al vino il nome e sorprendenti sono il suono come la grafia dei termini derivati: dal greco oinos provengono il latino vinum, il tedesco Wein, il russo vinò, l’inglese wine, il francese vin, lo spagnolo vino e il portoghese vinho. La storia del vino in Italia comincia nel 750 a.C. con la colonia greca di Cuma. Due generazioni prima di Plinio, il Falerno era sul mercato, anche se i vini greci erano più apprezzati. Giulio Cesare celebrò i primi trionfi con Falerno e Chios, ma nel suo terzo Consolato egli sorprese i convitati con una lista che comprendeva quattro vini: Falerno, Chios, Lesbo e Mamertino. Nell’età omerica i Greci usavano tappi di terracotta. In Campania si è usata per duemila anni la pozzolana che rivestirà poi anche i tappi di sughero. Il poeta Ausonio ha scritto sulle colline della Mosella versi immortali: «Quale colore dipinge i guadi dei fiumi, quando Espero ha sospinto le ombre della sera e trascolorato la Mosella con

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il verde delle colline. Le cime delle colline tremolano nelle increspature delle onde, i pampini s’agitano in lontananza e i grappoli si gonfiano nella corrente cristallina». Il Medioevo I monasteri promossero la pietà, l’amore del prossimo e l’agricoltura. Una cosa non potevano trasmettere: l’arte di vivere. Essa venne dall’Oriente. L’Egitto insegnò metodi di irrigazione del terreno, che gli Arabi portarono in Spagna. Il riso, giunto dall’India a Babilonia, seguì gli Arabi in Egitto e in Spagna. Le lingue moderne documentano la sua diffusione: l’arabo ruzz si trasformò nel greco oryza, nello spagnolo arroz, nel francese riz e nel romeno orez. Chi legge le Mille e una notte, un libro composto in Egitto alla fine del Medioevo, può rendersi conto di quanto gli Arabi fossero golosi di sorbetti, dolci, gelati. L’arancio (arabo nârang, spagnolo naranjo, francese orange) era stato portato dall’India alla costa orientale dell’Arabia. In Siria gli Arabi conobbero la praecoqua, le aggiunsero un articolo facendone albarkuk quindi la piantarono in Sicilia, nell’Italia Meridionale e in Spagna, dove fu conosciuta come albericocca, albicocca e albericoque. Anche in Siria essi avevano incontrato il malum persicum, denominandolo

firsich (tedesco Pfirsich) o firsik, e ne trassero una specie finissima, che battezzarono dorâkin, che in Sicilia e in Italia fu la «duracina». Con la villa romana era scomparso il triclinium: soltanto nel secolo XVIII verrà nuovamente distinto un ambiente speciale per i pasti. Il signore feudale visse come un contadino: famiglia, ospiti e servi mangiavano allo stesso tavolo. Nel secolo XI il Signore e la sua Dama disponevano di una tovaglia, simbolo che denotava rango e eguaglianza di nascita. Apparivano i potages, ai quali seguivano pesci e arrosti. Culmine del pasto erano gli entremets, dolci, gelatine variopinte, cigni, pavoni e fagiani arrostiti, interi maiali e vitelli. Il dessert consisteva di frutta cotta e fresca, quindi il pasto finiva con la issue, nel corso della quale si servivano pasticcerie. «Tagliare» era un’arte superiore che spettava al scissor, un ruolo che mirava alla perfezione. Signore e padrone della cucina era il queux (coquus, cuoco), che assaggiava i potages e i brodi e controllava in modo ferreo i ragazzi che lavorano con lui. Il destino del vino fu deciso dal barile di legno. L’anfora sopravvisse soltanto a Bisanzio e in Spagna. L’aringa, fondamentale per la Lega Anseatica, sfamò buona parte di un’Europa bisognosa. L’oca e il pavone erano appannaggio dei grandi. Cigno, cicogna e cormorano erano considerati commestibili, scoiattoli, ricci e orsi finivano in cucina, il capriolo e il cervo erano destinati ai re. Apice dell’arte culinaria erano i pasticci, i ragù e gli arrosti. Il Rinascimento e l’etá del barocco Nel De Civilitate (1526) Erasmo indicava regole di rispetto reciproco e buona creanza da tenere anche a tavola in un periodo nel quale il riso e i pomodori divengono il fondamento della cucina nell’Europa meridionale e la patata sostituisce i cereali nel settentrione. Si diffonde l’olio a scapito dello strutto. Bartolomeo Sacchi (1421-1481) scrisse nel 1473 l’Opusculum de obsoniis ac onesta voluptate, un saggio di filosofia e igiene che abbraccia generosamente la culinaria. Verso la metà del XVI secolo a Firenze si usa diffusamente la fuscina, la forchetta ma è a Venezia dove si trovano i cibi migliori: ostriche, pesci, tartufi,

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mortadella, salcicce, formaggio, storioni, allodole, quaglie provenienti da buona parte della penisola. Sotto Luigi XIV la Francia proietta la sua arte gastronomica a livello internazionale. L’appetito del sovrano, attestato da familiari e commensali, era formidabile: spesso il re vuotava quattro scodelle piene di minestre diverse, mangiava un intero fagiano, una pernice, un grande piatto di insalata, due grosse fette di prosciutto, carne d’agnello con sugo e aglio, un piatto di pasticceria, frutta e uova bollite. Dieci clisteri quotidiani ovviavano a eventuali indisposizioni. A Versailles il freddo era comunque così intenso da gelare il vino nei bicchieri; spesso i cibi giungevano sulle tavole già senza calore. La Francia è la patria dei potages, ben cinquecento varietà, ma sono le entrées la parte più solida di un pasto, mentre l’arrosto assurge a piatto centrale del pasto. Il gelato giunge a Parigi dall’Italia dopo il 1660 e nel XVIII secolo la pasticceria in genere toccherà lo zenith. Cavolfiori, carciofi, spinaci, melanzane, piselli, granoturco, fagioli sono ampiamente apprezzati. La patata debutta come alimento in Europa nel 1573 a Siviglia, ma solamente dopo molti decenni il suo consumo si diffonderà nelle cucine europee, al contrario di tè, cacao, e caffè. Il primo spopola a partire dal 1658 in Olanda e successivamente a Londra. La pianta di cacao era originaria del Messico; la polvere tratta dal suo seme fu utilizzata per la prima volta da Antonio Carletti sul finire del secolo XVI a Firenze e in seguito entrò lentamente nelle cucine di tutto il continente. Il caffè si afferma definitivamente in Europa a partire dal 1669 a Parigi con la sua vendita diffusa in vari negozi; nel 1721 i caffè a Parigi erano 300, ma già nel periodo della Rivoluzione il loro numero era salito a 2.000.

I gesuiti Brunoy e Bongeant, nella prefazione a un manuale di cucina apparso nel 1739, esposero un modello di culinaria moderna più semplice, più pulito e forse ancora più sapiente e consapevole. La scienza dell’artista di cucina consiste nell’analisi, nel ricavo dell’essenza intima dei cibi, dei sughi nutritivi, in una combinazione dove tutto si fa valere e nulla domina. Il suo fine è di conferire ai cibi quella composizione che dai diversi ingredienti persegue l’armonia di tutti i sapori riuniti. I cibi divenivano più fluidi, tendevano a trasformarsi anche in creme, la masticazione si faceva meno faticosa. Compito del cuoco era di mettere in atto un vero processo di metamorfosi degli alimenti e degli ingredienti. In una città di provincia francese intorno al 1740 il pranzo poteva consistere in tre portate: manzo bollito, una entrée di vitello, un hors d’oeuvre – un tacchino, legumi, insalata, crema – formaggio, frutta, marmellata. Dopo il 1700, nel corso della guerra per la successione di Spagna, apparvero i primi servizi di porcellana di Sèvres, che si imposero per l’eccelsa bellezza e qualità. Con la caduta dell’Impero romano e l’introduzione del barile al posto dell’anfora s’interrompe la produzione del vino nobile. Gli azzardi della politica estera dopo la rivoluzione inglese del 1668 ne determinarono la rinascita: questo felice avvenimento ebbe luogo in Portogallo. Dopo la scoperta del Brasile nel 1500 i navigatori portoghesi conseguirono il monopolio del commercio d’importazione

L’eta dei Lumi Quando Luigi XIV morì, nel 1715, si aprì una stagione caratterizzata da colori vivaci, tessuti leggeri, mode e costumi più spigliati. Watteau e le sue tele rappresentano l’emblema di una società nuova capace di far emergere con evidenza la nota della socievolezza e dell’arte della conversazione. Il senso del gusto e l’importanza del cibo, al di là della mera necessità di sussistenza, si affermano in larghi strati della popolazione.

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delle materie transoceaniche. I mercanti dell’Europa nordica si stabilirono nei porti portoghesi per scambiare le loro lane e i loro pesci salati con zucchero, spezie e avorio. In tal modo lo stoccafisso divenne il cibo nazionale dei Portoghesi. Ma verso la fine del secolo XVII l’Europa settentrionale cominciò a importare direttamente le merci prima di allora ricevute dal Portogallo. Nel frattempo i rapporti commerciali fra Inghilterra e Portogallo si erano intensificati e gli esportatori inglesi non volevano perdere quel mercato. Quindi andarono in cerca di altre merci di scambio e pensarono al vino. Gli inglesi accordavano ai vini portoghesi una riduzione doganale in cambio della quale i Portoghesi permettevano l’importazione delle pregiate stoffe inglesi. La bottiglia permetteva di trasportare il vino dal barile al bicchiere. Piccola e spessa era una variante della caraffa. In Inghilterra già sotto Elisabetta I il vino veniva imbottigliato e tappato con turaccioli di sughero. Poiché all’epoca non era stato ancora inventato il cavatappi, il sughero veniva introdotto nella bottiglia solo parzialmente; rimanevava all’esterno un’estremità lunga due centimetri, che poteva essere afferrata per estrarre l’intero tappo. Nel 1639 nacque a Sainte Ménéhoulde, in Francia, Pierre Pérignon. A 19 anni si ritirò nell’abbazia di Hautvillers presso Epernay dove visse fino al 1715. Nel 1688 divenne cantiniere grazie anche a un palato sensibile e a un‘eccezionale memoria dei vini. Dom Pérignon fu il primo nella Champagne a procurarsi turaccioli di sughero e grazie a questo espediente potè imbottigliare in primavera il vino delle ultime vendemmie in bottiglie tappate con sugheri fortemente legati. L’Abbazia poté così vendere a prezzi elevati champagne spumeggiante. Nel 1743 Claude-Louis-Nicolas Möet fondò la Möet

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et Chandon e dieci anni più tardi esportava in Inghilterra, Germania, Olanda, Austria e Russia. La Rivoluzione francese La Rivoluzione francese fu un periodo di grandi trasformazioni anche per la culinaria. Dalle cucine aristocratiche i cuochi migrarono nelle trattorie, che aumentarono in quegli anni rapidamente di numero: se nel 1789 a Parigi erano attorno al centinaio, nel 1804 erano salite a 600. La trattoria francese aveva caratteristiche equivalenti alla taverna inglese, mentre a un grado superiore si collocavano i restaurants. Ragù con l’aglio, la brandade di merluzzo, ostriche, insalate di pollo, tartufi, acciughe, fagioli di Genova, alcune offerte che infiammavano il gourmand, ovverossia il buongustaio, la nuova figura del tempo. Impiegare un cuoco eccellente, ordinare la cantina come una biblioteca, invitare ospiti accuratamente selezionati a una mensa elegantemente imbandita erano compiti non secondari nella buona società francese; in questo contesto si inseriscono Grimod de la Reynière e Brillat-Savarin, gli autori dei più importanti libri letterari di cucina dei primi decenni del XIX secolo. Nasce una dottrina del gusto, cioè del senso che ci mette in relazione con le cose saporite attraverso la sensazione che esse provocano. La gastronomia indaga anche l’effetto delle vivande sulla mente dell’uomo, sulla immaginazione, sullo spirito, sul giudizio, sul coraggio e sulle percezioni. L’Ottocento: il secolo dell’alta borghesia La rispettabilità quale ideale sociale maturò negli ultimi due decenni del secolo XVIII e raggiunse il suo apice tra il 1840 e il 1855, per poi spegnersi gradualmente. Il sostanzioso pasto della sera divenne un vero evento sociale.


Un ampio numero di prescrizioni sapienziali regolava la vita del signore agiato, acculturato, dignitoso: un numero massimo di dodici commensali per consentire una conversazione pacata, una scelta accurata dei convitati con affinità di gusti e tratti amabili ma senza eccessi, pietanze in numero limitato, vini di prima qualità, con una progressione corretta di cibi e bevande a decrescere per forza e sostanza, a mezzanotte tutti a letto. Questo mondo, solo per fare un esempio, è vividamente rappresentato nei Buddenbrook di Thomas Mann. Un’opera letteraria rappresentativa di una nuova mentalità fu il Geist der Kochkunst di Karl Friedrich von Rumohr (1785-1843), pubblicato nel 1882: l’arte di cucinare viene rappresentata come capacità di trasformare la natura in cultura rispettando il dogma secondo il quale bisogna percepire il sapore genuino di quello che si mangia. Questa nuova concezione,

estranea al pensiero francese, proveniva dalla corte di Hannover, dove non si soffrivano complessi di inferiorità nei confronti di Parigi e dintorni. Qui nel 1826 ebbe luogo lo storico pasto al quale Balzac invitò il suo editore Werdet e nel corso del quale il romanziere divorò cento ostriche di Ostenda, dodici cotolette d’agnello, un’anitra giovane, un paio di pernici arrosto, una sogliola, senza dimenticare gli antipasti e la frutta, mentre l’editore si accontentò di un potage e di un quarto di pollo. Sainte-Beuve, il Principe Napoleone, lo storico Taine, gli scrittori About, Flaubert e Renan il 10 aprile 1863 non furono da meno in una colossale mangiata di trote e fagiani divenuta proverbiale.

(bollito) di Spagna è quello dell’Alava (filetto a la alavesa). Piatto nazionale delle Asturie è la fabada, per la quale occorrono salcicce indigene, estongos e fagioli di prima categoria; in questa ricetta il patriottismo locale ravvisa il prototipo della cassoulette toulousaine. Madrid vanta i callos a la madrilena, una trippa speciale. In Estremadura gli embustidos, salumi, nella Mancha il pisto. A Burgos la fanno da padrone gli arrosti, a Arèvalo il tostón, il maialino di latte cotto, in Andalusia il gazpacho, a Malaga le cazuelas andaluzas, eccelse minestre. In Inghilterra svettano i pies, pasticci di tradizione medievale, l’Ham and Veal Pie (prosciutto e vitello) e il Partridge Pie, a base di pernici. Per la Francia scegliamo la Borgogna per l’armonia tra cibo e vino e il Périgord, terra di Mointaigne, ma anche di tartufi. In Italia la culinaria regionale è un mosaico di civiltà: a nord del Po la terra del riso, a sud del Volturno quella dei maccheroni (un libro di Prezzolini ne narra la storia). Altrove la vocazione centralizzatrice della nazione seppe manifestarsi anche in una haute cuisine unitaria; la cucina italiana continuò sempre a essere un’“espressione geografica” e a mantenere forti differenziazioni regionali. Torino fu la prima città d’Italia che ebbe un restaurant di livello parigino. L’Emilia e la Romagna sono le Fiandre dell’Italia: il mercato di Bologna è come quello di Anversa; «alla bolognese» indica un sugo di carne arricchito con pomodori rossi e spessi nonché molto formaggio. I maccheroni sono una caratteristica del vero napoletano, che li mangia soltanto con il formaggio; tuttavia essi sono menzionati nelle fonti più antiche lontani dalla Campania, in Sardegna o in Sicilia. In Trinacria, si trovano tutti i dolci citati nelle Mille e una notte. Chiudiamo con il menu di un celebre pranzo tedesco: Vorspeise (antipasto a base di caviale), Suppe (zuppa), Seezunge (sogliola del Mare del Nord), Masthuhn (pollastro), Süsse Speise (un semifreddo). Prosit.

L’epoca dei nazionalismi Il massimo centro gastronomico spagnolo è Bilbao, dove nasce il Gargantua di Rabelais. I suoi piatti caratteristici sono il besugo (pagellus acarne – orata), le sardine, il vitello di mare, le anguille. Il migliore cocido

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La “polizia” dei cibi

espone le avvertenze necessa“L’attenzione pel vitto non è solarie per la migliore assunzione; mente necessaria per la conseralimentazione e salute sono così ricordate le qualità, vazione della salute; ella è altresì gli effetti positivi o negativi sul importantissima nel governo de’ in Trentino corpo umano e gli eventuali mali”. Così Wilhelm Buchan, nel fra Sette e Ottocento rimedi. suo celebre trattato Medicina I medici che a più riprese nel domestica, scritto nella seconda di Rodolfo Taiani corso del Settecento tornarono metà del Settecento, sintetizad occuparsi di alimentazione zava dal punto di vista medico la ricorsero a una modalità espoduplice valenza di una corretta ed equilibrata alimentazione: da una parte strumento sitiva identica a quella proposta ancora due secoli preventivo per la tutela dell’integrità fisica e dall’altra prima da Castor Durante da Gualdo, sia nei conteindispensabile supporto a qualsiasi terapia nella cura nuti, sia nei principi di riferimento, quelli della medicina ippocratico-galenica. delle infermità. Già nei secoli precedenti numerosi autori medici si Qualcosa però era mutato nelle motivazioni e negli erano occupati di questo tema soffermandosi sulle obiettivi di chi scriveva. Questi non erano più mossi caratteristiche e le cautele di assunzione dei diversi solo dal desiderio di fornire ai singoli individui un alimenti. Basti citare, a titolo d’esempio, l’illustre bagaglio di utili suggerimenti per “vivere sano”, reimedico umbro Castor Durante da Gualdo (1529- terando la tradizione medioevale dei regimen sani1590). Costui nella sua opera Il tesoro della sanità tatis, ma anche d’istruire la popolazione nel suo (1586), che conobbe grande diffusione, dedicò complesso affinché potesse beneficiare dei vantaggi ampio spazio al tema del cibo. Accanto alle norme garantiti da un’attenta osservanza delle regole sugigieniche per ogni momento della giornata e per gerite, tanto rispetto al vivere quotidiano quanto, più ogni condizione della vita umana (il sonno, la veglia, nello specifico, all’alimentazione. Si voleva in altri il moto, la quiete, i diversi stati d’animo) l’Autore esa- termini saldare l’enunciazione medico-scientifica di mina singolarmente decine e decine di prodotti sud- principi teorici con l’azione politico-amministrativa divisi per gruppi: vegetali (frumenti, legumi, erbe, volta al perseguimento del cosiddetto “benessere radici, frutti), animali (carni e pesce), condimenti e pubblico”. bevande. Di ognuno indica le proprietà generali ed In questa prospettiva s’inserirono i fondamentali

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lavori del già ricordato Buchan, ma soprattutto di Samuel August Tissot e di Johann Peter Frank. Le loro teorizzazioni esercitarono un notevole influsso in tutta Europa e contribuirono a delineare una sorta di “mappa dei disordini” sulla cui base esercitare una preventiva e attenta sorveglianza per la tutela della “salute pubblica” anche nel settore alimentare. Tolte le caratteristiche di ogni singolo alimento che ne suggerivano il consumo in particolari combinazioni, in determinati momenti dell’anno o della giornata, in certe preparazioni o quantità, l’assillo costante di coloro che fra Sette e Ottocento si occupano di alimentazione da un punto di vista politico-sanitario sembra ricondursi univocamente al potenziale venefico che ogni prodotto, qualora utilizzato ad uno stadio di maturazione imperfetto, “inquinato” da agenti esterni o semplicemente deteriorato a causa di tempi o pratiche di conservazione inadeguati, poteva sprigionare: così il grano e i vari vegetali, ma anche carni, pesci, grassi e condimenti nonché ogni genere di bevanda. Sarebbe oltremodo lungo percorrere l’ampia casistica, che, prodotto per prodotto, i teorici della polizia medica predispongono a sostegno della visione complessiva di base. In questa sede è sufficiente ricordare quelle che potremmo definire le principali avvertenze. Si sollecita soprattutto l’attenzione nei confronti dei grani, cui si lega la “commestibilità” del suo principale e più diffuso derivato, il pane. Le alterazioni patologiche delle piante, la presenza di muffe, la commistione con “erbacce” non meglio specificate, il comportamento deliberatamente fraudolento di alcuni rivenditori e panettieri senza scrupoli erano altrettante fonti di danno per l’integrità fisica delle persone. Altra eventualità, cui viene ricondotta la casistica dei “disordini” relativi ai vegetali, è il consumo accidentale di piante tossiche, sul quale inciderebbe, secondo un’opinione diffusa, più l’ignoranza che la malizia. I funghi, che sono segnalati come la principale causa di avvelenamento, avrebbero dovuto, secondo Tissot, essere addirittura banditi dalla

tavola se non proprio dalla vendita. Anche il consumo di frutta immatura avrebbe comportato rischi per la salute umana. Una corretta normativa avrebbe dovuto garantire l’abbondanza e il giusto prezzo della frutta fresca e matura contrastando l’usanza del passato, ricordata sempre da Tissot, di proibire il consumo della frutta matura alla fine dell’estate, quando insorgevano maggiormente dissenterie e infermità intestinali. Dai vegetali alle carni il genere di preoccupazione non cambia. L’avvertenza principale suggerisce la massima cautela rispetto alla “contaminazione” occulta delle carni in caso di animali deceduti per malattia o per tecnica di macellazione errata. Anche per le bevande il timore centrale è sempre costituito dai rischi dell’adulterazione. Fra i principali imputati sono segnalati gli interventi sul vino per migliorarne artificiosamente le qualità e le caratteristiche di bevibilità, ma anche la pratica di diluire il latte con l’acqua, di venderlo scremato o addirittura d’imitarlo con una miscela di acqua, amido e zucchero. Tanto per gli alimenti solidi quanto per quelli liquidi si stigmatizza infine il pericolo di tossicità qualora preparati e conservati in recipienti non idonei a tale scopo: in particolare contenitori di piombo, di peltro o di rame. Il quadro teorico sinteticamente esposto orientava giocoforza l’osservazione finalizzata a segnalare elementi di rischio reale o presunto per la salute umana. Se ne ha puntuale riscontro guardando ad esempio all’area trentina della prima metà dell’Ottocento. In una lettera-rapporto del 6 giugno 1812, indirizzata al Podestà di Riva del Garda, il medico rivano Benigno Canella denunciava il crescente consumo nella zona in cui operava di pane confezionato con solo granoturco o con grano di cattiva qualità, prevedendo, in mancanza di serie misure di correzione del fenomeno, uno sviluppo incontrollato della pellagra (Archivio di stato di Trento, Giudizio distrettuale di Vezzano, Sanità, 1822, cart. nn.). A nulla, dunque, sarebbero valsi gli ausili della

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scienza medica e le cure dispensate alla popolazione contro la malattia che cominciava allora ad affacciarsi appena nella parte meridionale del Trentino se prima non si fosse riusciti ad assicurare ai poveri contadini un vitto sicuramente più abbondante, ma soprattutto più “sicuro” di quello consumato in quel momento. Ancora Benigno Canella, nel medesimo rapporto, criticava il consumo di una bibita diffusa specie in periodo di vendemmia. Si trattava del cosiddetto “acquarolo”, sorta di “liquore fermentato”, ottenuto dalla miscela di tanta acqua con una minima quantità d’uva di qualità inferiore. Il medico riconduceva l’insorgenza di numerosi malesseri all’uso di questa bevanda. A tale convincimento sembra far eco un rapporto del Giudizio distrettuale di Vezzano dell’8 marzo 1822, che indicava nella proibizione dell’”uso del vino derivante da uve immature e quindi acido di sua natura” un utile provvedimento per contrastare la temuta diffusione della pellagra (Archivio di stato di Trento, Giudizio distrettuale di Vezzano, Sanità, 1822, cart. nn.). In un altro rapporto del 16 luglio 1815, nel pieno della terribile carestia che imperversò nel triennio 18141816, il medico rivano torna ad esprimere i suoi timori nei confronti del drastico peggioramento registrato nella quantità e nella qualità dei cibi ordinariamente presenti sulla mensa delle frange più povere della popolazione. Mais e qualche verdura di qualità scadente formavano la gran parte del vitto caratterizzato, dunque, a suo dire da una grave penuria di carne, pane di frumento, latte e suoi derivati e perfino patate, la cui coltura doveva essersi già largamente affermata (Archivio comunale di Riva del Garda, Atti riguardanti la sanità, cart. 45). Quanto testimoniato dal medico Canella in termini di percezione ed atteggiamenti culturali trova piena corrispondenza nell’azione intrapresa dalle autorità politico-amministrative, che non solo mostrano di accogliere le cosiddette avvertenze generali elaborate dai teorici della polizia medica, ma cercano di applicarle in altrettanti interventi normativi, volti a contrastare quelle che erano ritenute “errate” abitudini alimentari. Un avviso reso noto dal Podestà di Riva del Garda il 10 maggio 1811, così come un ordine del Capitanato circolare di Trento del 23 agosto 1836, proibiva la vendita di frutta fresca non perfettamente matura. Un avviso pubblicato dal Giudizio distrettuale di Vezzano nel 1823 vietava la raccolta e la vendita delle “nocciuole immature”. Una circolare, infine, del Capitanato circolare di Rovereto, datata 29 settembre 1850, invitava i parroci a far opera di convincimento presso i fedeli, affinché rinviassero la raccolta dei “prodotti del suolo” ancora immaturi a causa di una stagione particolarmente inclemente.

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Altrettanto sentito appare il timore nei confronti dell’avvelenamento accidentale causato dell’ingestione di vegetali tossici, specie i funghi. A più riprese specifici avvisi pubblici con i quali s’invitava la popolazione a prestare la massima attenzione nella raccolta e nell’ingestione raccomandavano prima di ogni consumo la preventiva ispezione da parte di “esperti conoscitori”. Una circolare del Capitanato di Trento, datata 30 dicembre 1820, incaricava i vari uffici giudiziali “d’invigilare che non si portino e si vendono sulle pubbliche piazze, che quelle specie di funghi che sono riconosciuti da tutti per innocui, e di ordinare ai curatori d’anime del proprio distretto di avvertire il popolo dall’altare di non raccogliere e di non cibarsi d’altra sorte di funghi, che di quelli, che sono riconosciuti generalmente buoni”. Non mancarono neppure suggerimenti circa gli accorgimenti di cottura da adottare per eliminare eventuali tracce di veleno. Un avviso del 1837 del Capitanato circolare di Trento invitava a mangiare le spongiole solo dopo lunga cottura in abbondante acqua. Particolare riguardo è riservato ai bambini. Il Capitanato circolare di Trento, ad esempio, avvertiva nel 1822 tutti i maestri affinché istruissero adeguatamente i propri scolari sul modo di riconoscere alcune piante ed erbe palesemente pericolose e in particolare la cicuta, poiché le sue foglie e le sue radici erano spesso confuse rispettivamente con il prezzemolo e le carote. La circolare appena ricordata recepiva anche le conclusioni cui era giunta un’apposita inchiesta promossa per appurare quale genere di bacche potessero causare “cattive e funeste conseguenze” se ingerite. Altra eventualità da contrastare e della quale si trova puntuale riscontro nella normativa era il consumo di carni prelevate da bestie decedute per morbo. Un decreto governativo del 13 settembre 1829 stabiliva, nel caso di bestie “crepate”, l’obbligo della preventiva autorizzazione da parte di un medico prima di ogni uso alimentare. In simile prospettiva sarebbe stato quanto mai opportuno poter attivare in ogni paese o distretto la figura del cosiddetto “scorticatore” chiamato a svolgere funzioni di visitatore delle carni e più nello specifico a sorvegliare l’esatta applicazione delle norme che proibivano ogni tipo di illecito utilizzo dei capi di bestiame vittime d’infermità contagiosa. Innumerevoli, infine, sono gli “avvertimenti” circa lo stato dei recipienti utilizzati per la cottura e la conservazione dei cibi. Già un’ordinanza aulica del 14 aprile 1771, rinnovata il 2 agosto 1773 e infine nuovamente pubblicata per la Provincia del Tirolo il 28 marzo 1816, imponeva l’obbligo di stagnare i recipienti di rame. Successivamente un’”ordinazione concernente la vendita di veleni, il traffico di merci, ed erbe


velenose, l’uso di vasi di cucina, da tavola, e da bere, di lavoro da pentolajo, di rame, e di ottone, e finalmente la falsificazione delle bevande”, pubblicato il 18 dicembre 1829, insediò speciali commissioni giudiziali incaricate di visitare annualmente le rivendite autorizzate di veleni, le drogherie, i “trafficanti di prodotti chimico-farmaceutici”, i “negozianti d’erbe”, ma soprattutto le locande e le osterie per verificare che i recipienti in rame utilizzati per cucinare o conservare i cibi fossero perfettamente stagnati. Anche le disposizioni che si occupano di bevande riprendono, infine, gli argomenti cari alla cosiddetta “mappa dei disordini” elaborata dai teorici della polizia medica. Una circolare governativa del 10 febbraio 1821, ma non è che uno dei tanti provvedimenti, proibiva la preparazione di bevande vinose utilizzando la feccia o vini di qualità inferiore, mentre per quanto riguardava l’acqua l’attenzione era perlopiù concentrata da una parte sull’uso promiscuo delle acque delle fontane e dall’altra sulla scarsa attenzione posta nelle operazioni di imbottigliamento delle acque di fonte destinate alla commercializzazione. In un caso s’intervenne con la reiterazione di regolamenti pubblici che vietavano determinate lavorazioni nelle vasche delle fontane e dall’altra con l’emanazione di precise nome sui sistemi di chiusura da adottare o sui controlli da effettuare in relazione alle partite in giacenza nei depositi. Non esistevano altri modi per far fronte altrimenti al pericolo rappresentato dall’acqua impura o, con concetto che stava prendendo forma proprio in questo periodo, non potabile. Ad esempio una normale della Reggenza del Tirolo italiano del 3 giugno 1853, constatato che in diversi luoghi della città di Trento si vendevano acque acidule di Rabbi e di Pejo in bottiglie “mal otturate”, ordinava una visita a tutti i depositi di acque minerali della città e il sequestro immediato di tutte le bottiglie con caratteristiche non corrispondenti a quelle previste dalla normativa. L’intervento volto a favorire la più ampia diffusione possibile di comportamenti aderenti ai principi teorici affidava, tuttavia, le proprie chances di successo non solo allo strumento normativo. Altrettanto importante era ritenuta l’azione pedagogico-correttiva sviluppata attraverso un’agguerrita pubblicistica che suggeriva stili di vita più adeguati alle finalità di salute pubblica perseguite. È il caso emblematico dell’opera Uberto ossia le serate d’inverno pei buoni contadini, scritta dal religioso Francesco Tecini (già autore nel 1805 dell’Omelia contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione). In quest’opera l’autore immagina le conversazioni del saggio contadino Uberto tenute all’interno delle stalle, quando nelle lunghe e fredde serate d’inverno le persone s’incontravano a fare filò. Le conversa-

zioni, lasciate da parte quelle che l’Autore definisce “assurde fiabe”, sarebbero dovute diventare occasione preziosa per lo scambio e apprendimento di tutta una serie di utili ed elementari precetti nel campo della medicina, dell’igiene, dell’agricoltura e via dicendo. Al di là di quanto tratteggiato da alcune teorizzazioni e dalle conseguenti norme sembra però che la popolazione conoscesse il nesso alimentazione-salute e sapesse gestire i propri bisogni alimentari meglio di quanto queste fonti non facciano supporre, muovendosi con padronanza fra le risorse offerte dall’ambiente in cui vive immerso. Le voci di molti medici o altri testimoni occasionali costituirebbero in tal senso più il segnale di sensibilità e attenzioni particolarmente accentuate su determinati aspetti, che non la rappresentazione reale della gravità di una condizione o semplicemente della sua esistenza. L’impressione è che una cosa sia la situazione disegnata dalle trattazioni teoriche e altra quella corrispondente allo stato reale delle cose, almeno per tutta la prima metà dell’Ottocento. La riflessione medica stessa, fedele alle impostazioni del passato, scontava una fondamentale ignoranza rispetto ai meccanismi biologici della nutrizione e quindi di una corretta alimentazione. Siamo nel 1871 quando il medico trentino Leonardo Cloch dà alle stampe i suoi Avvertimenti al popolo per vivere lungamente sano di corpo e di mente: sono passati tre secoli ma ben poco sembra cambiato rispetto al modello prospettato da Castor Durante da Gualdo o per citare altro esempio, altrettanto noto, da Baldassarre Pisanelli con il Trattato della natura de’ cibi, et del bere (1583). Trattato della natura de’ cibi, et del bere è il titolo della fortunata opera scritta dal medico bolognese Baldassarre Pisanelli: apparsa per la prima volta a Roma nel 1583, ebbe più di 25 edizioni fino a tutto il Settecento. L’autore prende in esame i vari prodotti alimentari e di ognuno descrive le caratteristiche, “i giovamenti e i nocumenti” che tale alimento può provocare con i relativi rimedi. Pisanelli studiò a Bologna, dove si laureò in medicina e insegnò fino al 1562, quando cominciò i suoi viaggi in Tunisia per studiare la peste. Rientrò a Roma, dove fu medico all’ospedale di Santo Spirito di Saxia. La prima edizione del fortunatissimo Trattato è seguita da edizioni di formato più piccolo, dimostrazione della diffusione più popolare del testo.

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Dalla scrivania dello storico al fornello del cuoco

Abbiamo intervistato, metHa curato Il mondo in cucina: tendo a confronto fra loro storia, identità, scambi (2002); due diverse visuali, un noto con Jean-Louis Flandrin, storico dell’alimentazione interviste a Massimo Montanari Storia dell’alimentazione 1996; Massimo Montanari e un con Françoise Sabban, e Rinaldo Dalsasso apprezzato chef trentino, Atlante dell’alimentazione Rinaldo Dalsasso. Massimo e della gastronomia 2004. I a cura di Paola Bertoldi Montanari è professore ordisuoi lavori sono tradotti in nario di Storia medievale numerose lingue. Rinaldo presso la Facoltà di Lettere e Dalsasso è oggi uno dei più Filosofia dell’Università degli studi di Bologna, dove noti chef del Trentino, anche se, parlando della sua insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il professione, lui preferisce essere chiamato “brusa Master europeo in Storia e cultura dell’alimentazione padele”. Originario di Borgo Valsugana, 58 anni, dalla (attivato assieme alle università di Tours, Barcellona e fine degli anni sessanta, dopo la scuola alberghiera, Bruxelles). È codirettore della rivista Food & History, ha sempre operato nel settore e collezionato riconopubblicata dall’Institut Européen d’Histoire et des scimenti. Ha lavorato inizialmente a Verona, poi ha Cultures de l’Alimentation. Tra le principali pubblica- gestito la trattoria Celeste di Rovereto, fino a quando, zioni: L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo il 27 ottobre 1979, giorno del suo compleanno, ha (1979), Alimentazione e cultura nel Medioevo (1988), inaugurato il ristorante Al borgo di Rovereto, che l’ha La fame e l’abbondanza: storia dell’alimentazione in reso famoso ed è stato il primo in Trentino ad otteEuropa (1993), Il cibo come cultura (2004), Il formag- nere la stella Michelin. Dopo aver lasciato la guida gio con le pere: la storia in un proverbio (2008), L’iden- del Borgo nel 2004, si è trasferito, l’anno successivo, tità italiana in cucina (2010). Con Alberto Capatti ha a Besenello, dove continua a lavorare, tiene corsi di scritto La cucina italiana: storia di una cultura (1999). cucina e organizza cene e catering. Io credo che di “cultura del cibo” si possa parlare Massimo Montanari: “Le abitudini alimentari sono da sempre. In modi diversi, più o meno complessi, legate alle condizioni naturali, ma anche ai condipiù o meno elaborati, gli uomini hanno sempre viszionamenti culturali di ogni società”. suto il rapporto col cibo come qualcosa di più che un semplice gesto nutrizionale. Basta pensare alla convivialità, alla spartizione del cibo come espressione tipica della specie umana: in quel momento, il cibo non solo s e r v e, ma s i g n i f i c a. Perciò non credo esista un momento storico in cui questo accade. La storia dell’uomo coincide con la storia della cultura del cibo. Allo stesso modo, l’esigenza del piacere accompagna da sempre l’esigenza di nutrirsi. Sono tutte varianti (il bisogno, il piacere, la comunicazione) che si fondono insieme a costruire il patrimonio di saperi e di idee, le “tradizioni”, materiali e intellettuali, che conferiscono identità a un gruppo umano. È quindi possibile analizzare una società, il suo “dna” anche attraverso le abitudini alimentari? Le tradizioni gastronomiche non dipendono probabilmente solo da elementi legati alla natura e all’ambiente, ma avranno a che fare anche con la storia, l’organizzazione sociale, le credenze religiose, le abitudini culturali. Esiste cioè una sociologia della gastronomia? Certamente. Le abitudini alimentari sono legate alle Dal punto di vista storico, in che periodo il cibo condizioni naturali, ma anche ai condizionamenti culsmette di essere solo il soddisfacimento di un biso- turali di ogni società. D’altronde, la storia umana vive gno primario e diventa in qualche modo parte della sempre in questa interazione fra natura e cultura. tradizione e della storia di una popolazione? Come La cosiddetta “natura” è la pre-condizione su cui si e quando si è cioè sviluppata una “cultura del cibo”? costruisce la cosiddetta “cultura”. I due termini inte-

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ragiscono continuamente: il biologico sul culturale, il culturale sul biologico. Un aspetto importante della storia della gastronomia è la trasmissione del sapere. A questo proposito, quando nascono i primi ricettari e come vengono tramandate le tradizioni culinarie? Prevale una tendenza a divulgare ricette e informazioni oppure si tende a considerare l’abilità culinaria come un segreto da custodire e non diffondere? Direi che la tendenza principale (a parte il “gioco” dei segreti, che ogni tanto ci piace fare) è quella a insegnare e trasmettere i saperi. Ciò è il fondamento di ogni cultura. La trasmissione avviene, per quanto riguarda la cucina, sia in forma orale, sia in forma scritta. Le società che trasmettono i saperi in forma esclusivamente orale tendono a essere più statiche, quelle che si affidano anche allo scritto riescono ad “accumulare” di più, a proporre anche sperimentazioni, a essere insomma più innovative. Però questa regola conosce anche eccezioni. In ogni caso, i ricettari (o almeno, le ricette) sono scritte fin da quando – e là dove – l’uomo usa la scrittura. Ce ne sono perfino nelle tavolette cuneiformi dell’antica Mesopotamia. Viceversa, anche le società molto alfabetizzate come quelle moderne amano spesso affidare alla parola, al “consiglio” orale l’apprendimento e l’insegnamento culinario. Oggi siamo sommersi di libri di cucina, ma quando abbiamo bisogno di un’informazione telefoniamo alla mamma o a un conoscente “esperto”. Nella società occidentale sono stati messi a punto una serie di “canoni gastronomici” in occasioni di varie celebrazioni. Nell’antica Roma si celebrava il matrimonio mangiando una focaccia di farro alla presenza del pontefice massimo. Da allora è iniziata la tradizione di festeggiare le nozze sedendosi a tavola. Come si è evoluta da allora la consuetudine del banchetto nuziale, sia dal punto di vista dei cibi che della “scenografia”? Il banchetto di nozze è un momento essenziale della socialità, ossia di rituali che in tutte le società esprimono principalmente col cibo l’idea della festa e del rito. Quindi l’evoluzione del banchetto di nozze segue l’evoluzione degli usi culinari: ciò che rimane stabile è l’idea di concentrare in quell’evento una quantità di energie positive, il “meglio” di ciò che si può elaborare e offrire. Il banchetto di nozze è lo sforzo estremo di produzione e di rappresentazione della propria cultura (alimentare, ma non solo). Aggiungerei che, in passato, questo momento aveva un valore ancora più forte di oggi: nel Medioevo, per molti secoli, il matrimonio non è concepito come un rito religioso ma, fondamentalmente, come un banchetto in cui le famiglie si incontrano, si festeggiano, si manifestano all’esterno.

Come sono cambiate nel tempo, le “buone maniere” a tavola o il modo di apparecchiare? Ci sono state significative trasformazioni attraverso i secoli? Non si può parlare di “buone maniere” come se si trattasse di realtà “oggettive”. Ogni società ha le sue. Anzi: all’interno di ogni società, qualcuno definisce che cosa sono le “buone maniere” al fine, principalmente, di distinguere un gruppo, una élite dalla massa: separare chi pratica le “buone maniere” (definite tali dagli stessi che le praticano) da chi n o n le pratica. In ogni caso, non credo si possa parlare di un’evoluzione in questo campo, ma solo di realtà diverse nel tempo e nello spazio. Ciò che in Europa oggi è definito “buona maniera” può non esserlo in Giappone, o poteva non esserlo qui da noi nel Medioevo. E chi giudicherà questa “bontà”? In realtà, soprattutto in casi come questi, siamo costretti ad accettare un relativismo culturale assoluto. Nella storia della società occidentale, il cattolicesimo ha spesso considerato peccaminosi i piaceri della buona cucina, imponendo digiuni o limitando alcuni cibi. In generale, come ha influito la religione sulla tradizione culinaria? In tutte le società, la religione ha avuto un’importante influenza sui modi di vivere e di pensare. La tradizione cristiana è stata da questo punto di vista molto contraddittoria: da un lato ha condannato la gola come peccato capitale; dall’altro ha tollerato i piaceri della gola come piaceri “minori”. D’altronde proprio i pensatori medievali sottolinearono l’imperiosa necessità di domare i peccati di gola, poiché pur costituendo il primo e più semplice, all’apparenza innocente, piacere della vita, si trascinava dietro mali ben più pericolosi. Altri, però, hanno proposto immagini diverse: non tanto di penitenza, quanto di rispetto della natura e del mondo, di sobria moderatezza. La tradizione cristiana insomma propone soluzioni molto diverse. Il cattolicesimo, in particolare, ha accettato generalmente meglio i piaceri della tavola, mentre il mondo protestante ha sviluppato una maggiore severità nei confronti del corpo e dei suoi piaceri. La differenza sta nell’interiorizzare di più (per i protestanti) i meccanismi della colpa, mentre il sacramento della confessione libera il cattolico da questo peso. Ciò non toglie che, come dicevano le nostre nonne, “più una cosa è cattiva, più fa bene”. Che è un discorso dalla radice moralistica, molto legato all’idea cristiana del corpo come qualcosa di cui si deve diffidare. Molto spesso, nella storia, cibi e piatti sono stati immortalati sulle tele dei pittori. All’inizio del Novecento una delle avanguardie, il Futurismo, ha cercato persino di cambiare la gastronomia. È possibile descrivere o comunque interpretare il rapporto che nei secoli ha legato l’arte alla gastronomia?

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L’arte medievale, legata a soggetti prevalentemente sacri, rappresenta il cibo e la tavola soprattutto come sfondo occasionale di episodi sacri, oppure come elemento centrale di episodi sacri (per esempio le Nozze di Cana). In età moderna il cibo e la tavola vengono rappresentati più direttamente, come soggetti che interessano di per sé. Il realismo della “vita quotidiana”, o quello delle “nature morte”, diventa un vero genere artistico. Oggi mi pare che prevalga una visione piuttosto metaforica del cibo, che viene rappresentato soprattutto come immagine di qualcos’altro (stati d’animo, rapporti interpersonali, ecc.). Oggi siamo abituati a fare attenzione ai cibi più salutari, più ricchi di sostanze benefiche per il nostro corpo, in grado di prevenire certe malattie. Questo aspetto caratterizza solo la nostra epoca oppure ha radici più lontane? Quando nasce l’interesse per l’educazione alimentare? Il tema della salute accompagna fin dall’antichità il rapporto col cibo. Anzi, i medici antichi (fino al Medioevo) erano profondamente convinti che il piacere e la salute sono funzionali l’uno all’altro: che solo un cibo che piace può fare bene. In ogni caso, la riflessione dietetica è sempre andata di pari passo con l’elaborazione gastronomica: quest’ultima, direttamente o indirettamente, ha sempre recepito e rielaborato le idee trasmesse dalla scienza dietetica. Molti modi di cucinare, di abbinare le vivande, di ordinarle nel menu hanno avuto, storicamente, origine nella cultura dietetica, che era la prima e principale competenza che si richiedeva dai medici. Sbaglieremmo perciò a pensare che l’interesse per la salute sia tipico del nostro tempo. Anche se sono cambiati, ovviamente, i modi di interpretare la realtà. Ogni epoca ha avuto una sua dietetica e di conseguenza una sua gastronomia. Il suo ultimo libro, L’identità italiana in cucina, propone uno studio sulla cucina italiana e sul suo contributo a rafforzare lo spirito identitario degli italiani. Anche alla luce del 150° anniversario dell’unificazione del Paese, si può parlare di modelli alimentari e gastronomici come elementi che hanno in parte aiutato e sostenuto l’unità d’Italia? Sicuramente sì. Credo che un paese, prima ancora che un’unità politica, si definisca come una realtà culturale. E poiché la cucina è un elemento essenziale della cultura, ritrovare un’identità culinaria “italiana” almeno fin dal Medioevo (come io propongo in questo libro) è un modo per riconoscere che gli italiani esistevano ben prima dell’Italia. Una cucina “italiana” esisteva, fin da allora, come “rete” di saperi e di pratiche locali, che però si confrontavano e si conoscevano reciprocamente. Ecco il punto: la cultura italiana è una rete di realtà locali. Il problema è: chi usa questa rete, chi ne è partecipe? Per molto tempo, poche persone: l’aristocrazia di corte, i maggiorenti cittadini che potevano permettersi di

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spostarsi, o comunque di frequentare realtà diverse dalla loro; questa circolazione di idee, uomini (anche i cuochi), libri (ricettari), prodotti (attraverso i mercati cittadini) era prerogativa di pochi. In età moderna e contemporanea, gli utilizzatori di questa “rete” sono cresciuti di numero e l’unificazione anche politica dell’Italia ha certamente aiutato il fenomeno. Decisivo è stato il libro di Pellegrino Artusi, che ha diffuso questi saperi fra la piccola borghesia. Decisiva la prima guerra mondiale, che per la prima volta ha messo fianco a fianco anche gli umili, i contadini, che hanno potuto confrontare le loro abitudini. Attraverso tutti questi meccanismi si è allargato il pubblico che condivide una cultura “italiana” della tavola. Ciò che non è cambiato, e che ancora rimane, è il metodo del confronto, della condivisione, del mettere insieme le esperienze locali. La cucina italiana, come la cultura italiana in genere, ha avuto sempre un carattere “dialettale”, senza codificazioni unitarie, omogenee. Questo, credo, è il segreto della sua ricchezza.

Il più celebre manuale di cucina italiana è senz’altro La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene dello scrittore e gastronomo Pellegrino Artusi. Nato a Forlimpopoli (provincia di Forlì-Cesena) il 4 agosto 1820, pubblicò il testo nel 1891. Dopo un iniziale insuccesso divenne uno dei libri più letti dagli italiani e ad oggi conta 111 edizioni, con oltre un milione di copie vendute. Si tratta di un volume che raccoglie 790 ricette, dai brodi ai liquori, passando attraverso minestre, antipasti, secondi e dolci. L’approccio è didattico (“con questo manuale pratico – scrive Artusi – basta si sappia tenere un mestolo in mano”), le ricette sono accompagnate da riflessioni e aneddoti dell’autore. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene costituì un vero e proprio spartiacque nella cultura gastronomica dell’epoca. Ad Artusi va il merito di aver dato dignità a quel “mosaico” di tradizioni regionali, di averlo per la prima volta pienamente valorizzato ai fini di una tradizione gastronomica “nazionale”.


Negli ultimi anni assistiamo, anche in Trentino, alla Rinaldo Dalsasso: “Il vero cuoco deve cercare di sempre maggiore attenzione verso cibi genuini, bioricordare e rispettare la tradizione che lo ha prelogici e privi di sostanze chimiche. Come si possono ceduto, la storia dell’arte culinaria, la cultura della interpretare questi nuovi bisogni dei consumatori? cucina”. Bisogna premettere che spesso si tratta più di una questione di marketing che non di una reale sensibilità verso cibi più sani. Io collaboro con la Cooperazione e da anni vado nei supermercati e cerco di aiutare le persone ad acquistare prodotti di qualità, cercando anche di farli risparmiare. Fino a 5 o 6 anni fa c’era solo un piccolo scaffale con la merce biologica, mentre adesso la maggior parte delle cose esposte viene presentata con questa etichetta. È chiaro che a questo punto molto dipende da cosa intendiamo esattamente per alimento biologico perché spesso vengono semplicemente applicati diversi anticrittogamici alla frutta e alla verdura, ma questo non corrisponde ad una maggiore qualità. Inoltre, sono gli stessi consumatori che vogliono una mela che sia allo stesso tempo biologica e bellissima, senza una ammaccatura. La cosa importante è offrire una reale qualità anche al di là delle diverse definizioni che cambiano in base alle tendenze del momento. Un’altra tendenza di quest’ultimo periodo riguarda Lei lavora in questo settore da più di 40 anni. In la riscoperta di cibi che facevano parte della cucina generale quali sono stati i principali cambiamenti povera di un tempo e che oggi vengono sempre più nei modelli alimentari e nel modo di rapportarsi alla apprezzati, grazie anche a iniziative come lo slow scienza gastronomica? food. È possibile spiegare questo cambiamento? Negli anni è cambiato l’approccio alla tavola, al ser- Lo slow food è un progetto buono e lodevole, contrivizio e alla presentazione dei piatti. In questi ultimi buisce a riscoprire e valorizzare storia e cultura di un decenni lo stile di vita delle persone si è molto modi- territorio. Uno degli aspetti più rappresentativi della ficato ed ha allargato le opportunità, basti pensare ricchezza della nostra tradizione è la grande varietà alla tecnologia o alla possibilità di spostarsi, che della proposta culinaria. Mi spiego: se noi proviamo prima era molto più limitata di adesso. Lo stesso vale lo stesso piatto in due valli diverse del Trentino, ci per l’arte culinaria. Oggi possiamo conoscere i gusti accorgiamo che il primo non avrà lo stesso sapore e i sapori delle altre tradizioni e questo permette con- del secondo, anche solo per qualche sfumatura nel taminazioni e incroci fra le diverse gastronomie. Inol- gusto. Il tortel di patate della val di Non è diverso tre oggi possiamo contare su mezzi impensabili fino da quello della val di Sole e questo vale anche per il a qualche tempo fa dal punto di vista della cottura e resto d’Italia, perché, ad esempio, il radicchio treviconservazione dei cibi, come i forni polivalenti, l’ab- giano è diverso da quello di Chioggia e di Mantova. battitore, il microonde, la tecnica del sottovuoto. Tutti La cucina italiana è fatta di dettagli, di maestria, di questi cambiamenti non devono però farci dimenti- paziente preparazione. È un’arte ed è questo che care la filosofia di base dell’arte culinaria che è stret- distingue la nostra cucina dalle altre, nonché quello tamente legata all’aspetto storico. Spesso, infatti, che ci rende grandi nel mondo. abbiamo cose belle ma con meno gusto, oppure ci Per quanto riguarda il Trentino, quali sono gli troviamo in luoghi dove non si mangia più nei piatti aspetti critici dell’offerta della cucina proposta dai di foggia tradizionale, ma in quelli con forme geome- ristoranti del territorio? triche strane che vogliono solo imitare la moda. Io credo che il problema principale stia proprio Il vero cuoco deve cercare di ricordare e rispettare nell’incapacità di puntare sulle nostre specificità e di la tradizione che lo ha preceduto, la storia dell’arte valorizzare i nostri piatti più tipici. Faccio un esempio: culinaria, la cultura della cucina, pur avvalendosi dei su 100 ristoranti trentini, noi troveremo gli spaghetti nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnica. È allo scoglio in più di 96. Ma solo in 4 o 5 ci sarà sul in questa filosofia di fondo che io credo profonda- menu un canederlo al formaggio o alle verze. Questo mente ed è per questo che ho un nome dopo 40 anni perché la tendenza è quella di uniformare tutto, che faccio el brusa padele. senza offrire una maggiore e più diversificata offerta.

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Questo ha naturalmente delle ricadute sul turismo perché a chi decide di passare le vacanze in Trentino dovrebbero essere offerte le nostre specialità. Gli spaghetti allo scoglio sono indubbiamente molto buoni, ma li si può mangiare ovunque. Lo stesso non vale per un buon piatto di canederli preparato come si deve. Come si potrebbe fare per rimediare a questo deficit dell’offerta locale? È necessario agire sulla preparazione dei cuochi affinché tutti gli elementi che fanno parte della ricchezza culinaria e che hanno a che fare con storia e tradizione si radichino e vengano trasmessi. Al giorno d’oggi la maggior parte dei cuochi che lavorano nelle nostre cucine non sono trentini; sono ottime persone con una grande voglia di lavorare, ma non hanno nessuno che insegna loro le ricette tipiche. Io credo che da parte delle istituzioni o delle varie associazioni di categoria dovrebbe esserci uno sforzo per garantire una adeguata formazione. Al momento la situazione è piuttosto stagnante e mi chiedo cosa succederà fra 10 o 20 anni se nessuno avrà trasmesso alla nuova generazione di professionisti il nostro sapere e le nostre tradizioni culinarie. Quando il 70% o 80% dei cuochi saranno stranieri c’è da un lato la possibilità di avere nuove espressioni culinarie, ma dall’altro anche il rischio di una perdita di un patrimonio importante. Così come è importante valorizzare le Dolomiti, che rendono unico il nostro territorio, allo stesso modo dobbiamo salvaguardare e tramandare le ricette di piatti tradizionali, resi unici dalla grande varietà delle nostre valli. Salvaguardare le ricette più tradizionali non limita in un certo senso la creatività di un cuoco? Non si tratta di un limite, anzi; questa motivazione viene usata quasi come scusa facile per evitare di confrontarsi con la storia che ci ha preceduti. È appunto in questa sfida che emerge l’intelligenza e la sensibilità di un vero professionista. Faccio un esempio: perché i canederli devono essere grandi come una mela? Io preferisco farli più piccoli perché a mio parere sono più belli, più facili da mangiare e hanno un sapore più moderno. E nessuno mi vieta di usare, nell’impasto, del prosciutto cotto al posto del lardo. Questo non significa snaturare le ricette del passato, tutt’altro: è proprio grazie ad una costante ricerca e curiosità nei confronti della tradizione che è possibile mettere passione nella creazione di piatti tipici e portare avanti il nostro grande patrimonio culturale, che vive anche attraverso le produzioni gastronomiche. Quanto è importante oggi educare le persone ad un corretto approccio nei confronti della loro alimentazione? Direi che è molto importante, non solo per un discorso esclusivamente legato alla salute, ma anche per le

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sue implicazioni sociali. Io non sono contrario a Mc Donald’s, anzi. Penso che vada bene andarci qualche volta, ma la cosa fondamentale è non fare propria la “cultura” del fast food. Oggi in famiglia entrambi i coniugi lavorano e non c’è più molto tempo, ma questo non deve diventare un pretesto per evitare di sedersi tutti attorno a un tavolo, almeno una volta al giorno. La mia filosofia in cucina è la semplicità, io non faccio cose straordinarie, però metto molta attenzione nella scelta delle materie prime. Io credo che sia sufficiente un po’ di attenzione per preparare piatti buoni e sani che contribuiscono, allo stesso tempo, a tenere unita la famiglia. Mangiare un minestrone fatto in casa, anche se semplice e non buonissimo, non è la stessa cosa che consumare lo stesso piatto fatto con il preparato in busta. Mettere un po’ di cuore anche nella preparazione di cibi semplici rappresenta un valore aggiunto che alla lunga può dare tanto all’unione e armonia della famiglia. Non dobbiamo infatti dimenticare che la cucina è una specie di “anticamera”, è forse l’unico luogo della casa dove si riesce a parlare. Quali sono secondo lei le caratteristiche che deve avere un buon cuoco al giorno d’oggi? Il buon cuoco di oggi deve essere come quello di ieri, con il vantaggio di avere a disposizione strumenti più avanzati. Direi che deve avere un’ottima conoscenza della materia prima, deve rispettare la cultura, la tradizione e avere una grande sensibilità in modo da apprezzare e sentire come suo tutto il patrimonio di conoscenze e abilità che lo hanno preceduto. E infine, un buon cuoco deve avere cuore, una dote che è il segreto di chi fa bene questo lavoro oggi come ieri.


Le ricette di Rinaldo Dalsasso... Baccalà (stoccafisso) in umido alla trentina di Mamma Rosa Ingredienti per 6 persone circa: 1,200 Kg di baccalà bagnato (stoccafisso), 1 litro di latte circa, 1 bicchiere di vino bianco, 1 bicchiere di olio extra vergine di oliva, 2-3 patate (pelate, lavate e tagliate a pezzi), 150 g di sedano rapa (pulito e tagliato a quadretti), 4-5 filetti di acciughe o 2-3 sardelle sotto sale lavate e pulite, 1 cipolla tritata, 2 spicchi d’aglio tritati, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 100 g di formaggio grana grattugiato, 50 g di farina bianca, sale q.b., pepe in abbondanza. Procedimento: In una pentola d’acqua bollente salata mettete i pezzi di baccalà e fateli bollire leggermente per 3-4 minuti. Scolateli e una volta raffreddati un po’, privateli della pelle e delle lische. Ponete il baccalà in una teglia da forno dai bordi alti e aggiungete la cipolla e l’aglio tritati, le acciughe/sardelle, il prezzemolo, la farina, il grana grattuggiato, le patate, il sedano rapa, sale e pepe. Mescolate bene allargando il tutto nella teglia. Aggiungete il latte, l’olio e il vino e mettete sul fuoco, mescolando con un cucchiaio di legno fino a bollore. A questo punto mettete la teglia con il baccalà nel forno a 160°-170°. Lasciate cuocere per circa 1 ora mescolando di tanto in tanto. Servite con polenta fumante. Grazie a mamma Rosa che tanti anni fa mi ha insegnato a farlo così! NB: Come tutti gli umidi, se si preparano la mattina per la sera o addirittura il giorno prima, una volta riscaldati sono più buoni. Minestrone di pasta e fagioli alla moda del “Borgo” Ingredienti per 6/8 persone circa: 600 g di fagioli borlotti secchi, 1 cipolla pulita e tagliata a pezzi, 1 carota pulita e tagliata a pezzi, 3-4 patate pulite e tagliate a pezzi, ½ gambo di sedano tagliato a pezzi, ½ porro tagliato a pezzi, 2 spicchi di aglio puliti. Condimento: 250 g di olio extravergine di oliva, 2 rametti di rosmarino (solo gli aghi), 4-5 foglie di salvia, 5 spicchi di aglio puliti e tagliati a metà, 1 cipolla pulita e tagliata a julienne, sale e pepe q.b. Procedimento: Mettete a bagno i fagioli secchi in abbondante acqua fredda (per 8-12 ore). Dopo averli scolati mettetene 100 g in una pentola con abbondante acqua fredda (l’acqua deve coprire bene i fagioli) e cuocete per 45-50 minuti. Poi metteteli da parte aggiungendo il sale a fine cottura. Mentre i fagioli cuociono, in un’altra pentola capiente mettete i rimanenti fagioli e tutte le verdure pulite e tagliate a pezzi, aggiungete abbondante acqua fredda e cuocete per circa 2 ore, mescolando di tanto in tanto. Se necessario aggiungete altra acqua (anche in questo caso il sale va aggiunto a cottura ultimata). In un pentolino preparare il condimento, mettendo l’olio, la cipolla tagliata a julienne, il rosmarino, la salvia e l’aglio, cuocete a fuoco medio-basso finché le cipolle e il resto delle verdure sono ben dorate. Dopo circa 2 ore, una volta cotta la zuppa, passatela al frullatore o passaverdure, rimettetela nella pentola aggiungendo i 100 g di fagioli cotti separatamente in precedenza (se la zuppa risulta troppo densa si può aggiungete anche l’acqua di cottura dei fagioli). Rimettete sul fuoco e far riprendere il bollore, continuando a mescolare perché il minestrone tende ad attaccare. Mentre il minestrone bolle passate al colino il condimento soffritto e versarlo nel minestrone mescolando finché è ben assorbito, aggiustate di sale e pepe. Aggiungete 1 o 2 nidi di pappardelle sminuzzate e fate cuocere per 3 minuti continuando a mescolare, quindi spegnete e lasciate riposare per almeno mezz’ora. Servite impiattando aggiungendo un filo di olio extravergine del Garda e una macinata di pepe fresco. … e le ricette quattrocentesche di Martino de Rossi rielaborate da Aldo Bertoluzza nel volume Libro di cucina del maestro Martino De Rossi, Trento, UCT, 1993, p. 67: Brodetto bianco per dieci minestre Per fare del brodetto bianco per dieci minestre piglia mezza libbra di mandorle dolci e pestale bene, unendovi un po’ d’acqua fresca affinché non facciano l’olio. Prendi poi venti bianchi d’uovo, un po’ di mollica di pane, un po’ d’agresto, un po’ di brodo di carne, o di cappone, un po’ di zenzero bianco e pesta tutte queste cose assieme con le mandorle, passandole poi per una stamigna e facendole infine cuocere […] Brodetto con pane, formaggio e uova Per fare un brodetto con pane, formaggio e uova fa bollire del pane grattugiato per un quinto di ora nel brodo di carne. Prendi poi del formaggio grattugiato e sbattilo insieme a delle uova, mentre lascierai alquanto raffreddare il pane bollito nel brodo. Poi gettavi dentro le uova e il formaggio, e mescola tutto bene assieme. Fa in modo che tale minestra diventi di un colore giallo, per lo zafferano che vi spargerai, e alquanto spessa.

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Il cucchiaio dello scapolo di mondo

L’esperienza del cibo, e della se non in rare occasioni. Solo sua preparazione, non risparegli può, se desidera, mangiare mia alcun essere umano, di alla sua ora, digiunare e cuciqualunque epoca, estrazione le ricette di monsieur Momo, nare se e come crede. Volendo e cultura. Lapalissiano, certapuò essere cuoco anticonvenal secolo Henri de Toulousemente. Eppure molto spesso zionale e anarchico, votato al i ricettari e l’immaginario che solo e puro piacere della gola, Lautrec, artista e viveur li accompagna rimandano al godimento di sé medesimo nella maggior parte dei casi ad e, se desidera, dei suoi comdi Maria Letizia Tonelli interni familiari, a massaie d’un mensali e ospiti. Se mangiare tempo e a moderne donne di in compagnia è certo un piacasa, a cuochi di fama, a culcere, cucinare e consumare il tori di sapori antichi e a gastronomi amanti di com- pasto da soli può far raggiungere le vette del piacere plicate acrobazie del gusto, se non a cucchiai d’oro di solitudini perfette ed incomparabili. Certo, vale e d’argento, perfino a conventi e a suore, germane solo per gli amanti del genere… o meno che siano. Ma non occorre essere né un Il nostro uomo, con il suo originale ricettario, è uno gastronomo né una madre di famiglia per avere un scapolo di mondo nella Parigi del tardo Ottocento. ricettario. Scritto o mandato a memoria che sia, pub- Aristocratico di nascita, borghese per scelta, segnato blico o segreto, ognuno di noi, anche il più scalci- per destino personale, Henri de Toulouse-Lautrec nato degli umani, ha un proprio ricettario minimo. (1864-1901), meglio noto come monsieur Momo In quest’epoca di scapoli e donne nubili, separati e nella cerchia degli amici, oltre che grande artista fu divorziati, che godono tutti dell’esotica denomina- anche un amante della buona cucina nonché cuoco zione di single, e di cibi precotti sempre più diffusi dilettante ma decisamente capace e originale. Ospite – che siano quattro salti in padella o tre nel micro- capace di stupire i suoi invitati con i sapori e l’origionde – vogliamo riproporvi la cucina dello scapolo nalità delle pietanze di sua produzione, si dilettava di d’antan, quando il termine aveva ancora una valenza cucina e dedicava ai fornelli parte delle sue artistiche a suo modo totalizzante, come il suo equivalente energie. A testimonianza della sua estrosa maestria femminile – seppur iniquo – zitella. rimane un ricettario, opera condotta a due mani, a Uno scapolo di mondo, certo, nonché d’eccezione: beneficio di chi si voglia misurare sul campo con infatti tra le raccolte di ricette di golosi e cucinieri il menu dello scapolo mondano della Parigi di fine d’ogni sorta spicca un’operina di pubblica utilità Ottocento: Henri il cuoco e l’artista, il suo fido amico creata da due amici e sodali Maurice l’ideatore della pubbliche tra l’altro si dilettavano di cazione dello speciale ricettario. cucina. Dal loro maschio intePerfetta fusione di arte e gastroresse per la gastronomia nasce nomia, questo piccolo manuale un ricettario decisamente fuori del gusto corredato da bellisdall’ordinario, rivolto peralsime illustrazioni è uno dei frutti tro a un interlocutore altretdel profondo e duraturo raptanto originale, ovvero il celibe porto di amicizia che legò i due. (nell’originale francese, céliVicinissimo a Toulouse-Lautrec bataire). Categoria speciale e sin dagli anni di scuola, Maurice specifica di cuoco e amante Joyant (1864-1930) fu amatore e del gusto, solo miseramente conoscitore di cose d’arte, uomo potremmo tradurne la valenza brillante e ben inserito nell’amcon il moderno e malnato terbiente mondano; sostenitore mine di single (ma il francese, fin dagli esordi delle prove articuriosamente o più laicamente, stiche dell’amico carissimo, nel ha conservato ancor oggi il ter1890 sostituì Theo Van Gogh, mine célibataire senza varianti fratello del più celebre Vincent, di sorta). I suoi desideri e le nella galleria d’arte Boussod & sue possibilità non sono unicaValdon. Curatore dell’eredità di mente dettate, orientate, limiToulouse-Lautrec, Joyant ne fu tate dalla necessità ed urgenza anche il primo biografo nonché di sfamare o dilettare coniuge fondatore del monumentale o figliolanza o altro parentame, museo intitolato all’artista ad

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Maurice Joyant, La Cuisine de Monsieur Momo, célibataire, Editions Pellet, Paris 1930 (illustrato con 24 acquarelli e disegni di Henri de Toulouse-Lautrec, frontispizio di Vuillard). Successive edizioni sono comparse in Francia, Svizzera e in Gran Bretagna. In Italia è stato pubblicato da Mondadori e più di recente (2005) da Ibis edizioni di Pavia.

Albi, città d’origine di Henri. Il volume che raccoglie il sapere e l’estro culinario di Toulouse-Lautrec fu pubblicato solo nel 1930, dunque molti anni dopo la morte dell’artista, con il titolo di La Cuisine de Monsieur Momo, célibataire e con una ricca veste grafica di mano dello stesso Henri. Le ricette propongono sostanzialmente la cucina francese classica, pur con molte originali varianti e con un senso estetico degno dell’autore. Rampollo di antica famiglia della Francia meridionale, i gusti di Henri erano certo stati educati al desco nobiliare di tradizione, arricchito dai sapori della campagna albigese, poi raffinati alla mensa parigina e rinverditi dalla frequentazione di cucine straniere in occasione dei suoi viaggi. Antipasti, entrée, hors d’oeuvre, relevé, potage, carni e pesci, verdure, salse, dessert e dolci, nulla manca al ricettario dello scapolo di classe, la cui cucina sapeva stupire i commensali, coniugati o meno che fossero, sia per i sapori che per la presentazione delle pietanze. La sapienza gastronomica di Toulouse-Lautrec si univa ad una vasta conoscenza

dei vini di Francia e di liquori di varia natura, anche se il suo gusto per le bevande alcoliche degradò tristemente nell’alcolismo. Nonostante la nascita altolocata, le notevoli possibilità economiche e la grande acutezza d’ingegno, il giovane Henri non ebbe, infatti, vita facile a causa dei suoi gravi problemi di salute. Di lui resta l’esito altissimo della sua esperienza artistica e questo piacevole breviario del gusto che ben illustra l’uomo, il suo desiderio di godere dei piaceri della vita, la sua privata passione per la cucina, il suo modo di essere parte di una socialità mondana che lo vide tra i protagonisti della scena parigina del suo tempo. Frequentatore assiduo di ristoranti e di locali notturni – oltre che di case d’appuntamento ove in quanto célibataire amava eleggere il suo domicilio –, l’artista fece di questi luoghi e della fauna umana che li abitava uno dei principali soggetti della sua opera; molte le scene di sua mano che illustrano gente a tavola, che si intrattiene a bere e a mangiare, molti i riferimenti alla convivialità, numerosi gli aneddoti della sua biografia che riportano al profondo rapporto che univa Toulouse-Lautrec al cibo, alla sua preparazione e degustazione, nonché al piacere di condividerlo con gli altri, come nelle occasioni in cui amava riunire alla sua tavola una decina di commensali ben assortiti per interessi e spirito e dar loro in pasto le sue golose ricette.

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Il banchetto

Il principio del nutrire regge il mondo e corre attraverso il mondo, diceva Goethe. Ma è forse nell’opera di Rabelais che assistiamo alla messa in opera più spettacolare delle immagini conviviali legate al cibo e ai riti a esso collegati. Più precisamente al banchetto, che si svolge durante la festa popolare. La strabordante abbondanza del bere e del mangiare diventa la nota dominante, quale lievito sfrenato, gioioso e tellurico quanto il gigantesco pane che lo incorpora. Il corpo che mangia e che è mangiato è il riflesso organico di uno spettro articolato di azioni; la macellazione del bestiame ad esempio, ma anche lo smodato spalancare della bocca e il vorace inghiottire e deglutire. Per non parlare di ventri sbracati nell’atto fertile della nascita, che precede la crescita tumultuosa e irregolare di corpi che sfidano la propria spazialità, la stessa norma di un tempo che è solo proprio. L’incontro dell’uomo con il mondo avviene nella propria bocca: sgranocchiare, dilaniare, masticare, assaporare, sono azioni che consentono di assaggiare il gusto del mondo, e accanto a questo c’è l’incanto della parola, della conversazione, della battuta di spirito, del witz. Il mangiare è l’altra parte del mondo, l’emisfero che compensa il lavoro, un avvenimento sociale e individuale insieme, alieno alla tristezza, vicino alla festa vitale, alla pienezza del vissuto, lontano dalla morte, che è per definizione assenza di vita come la perfezione. Il banchetto che si concepisce come u n’ a f f e r m a z i o n e della vittoria, del trionfo, si accompagna alla conversazione conviviale, al simposio (non

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necessariamente antico o classico, ma pure alla modernità di un Beethoven e ai suoi straordinari discorsi conviviali). Mangiare e parlare, cibo e verbo, sembrano essere fraterni amici, origini di un linguaggio comune. E se il pane del Pantagruel è simbolo di abbondanza smisurata, ecco che l’olio costituisce il simbolo magro della serietà devota, un’accezione estranea alla concezione liberatoria di Rabelais. Il pane e il vino scatenano la parola, la vivificano dall’interno, in una dimensione che è tutta terrena e lontana da ogni suggestione mistica, mentre l’alterazione dell’ubriachezza porta verso il futuro: l’immaginazione di ciò che deve ancora essere, nella voce sciolta senza limiti che fluttua in un pensiero dilatato e contagiato di speranza. Il banchetto in Rabelais incarna la potenza e l’ardore di una parola liberata, in grado di andare oltre la pietà e la paura divina, per dirigersi decisamente verso il gioco gioioso e disinibito. In questo senso il vino e il pane si ergono a paladini di una sazietà possibile, di un’abbondanza giustificata da una propria intima verità: la libertà impavida della forza umana, materiale e corporea, dove non vige la paura ma la temerarietà. Per parte nostra mettiamo il Folengo a rappresentare la tradizione delle nostre terre. Lui descrive la cucina degli dei con il verso; il tono è qui parodico, letterario, e la gioia folle del banchetto piega in altra direzione, il simulacro del cibo si profana nello smascheramento e nel travestimento, nella sottolineatura del maccheronico, metaforico e parallelo universo di un’irrisione vertiginosa ma diversa dal Rabelais, vicina ma non aderente a essa.


“Un gioco quasi saporito”

Germania 1917-1918. Tra il “durante la fame, non si parlò dicembre 1917 e il gennaio 1918, mai d’arte e di letteratura, né presso il campo di prigionia di di matematica e neppure di Celle (Hannover), vennero inviati donne, noi che avevamo poco ricettari di prigionia 2.921 ufficiali e sottoufficiali itapiù di vent’anni e che, entro liani fatti prigionieri durante la il filo spinato, da mesi non di Quinto Antonelli rotta di Caporetto. Dopo giorni e vedevamo più viso di donna. giorni di viaggio, giunti stremati Lugubre, pesante scendeva il al lager di Celle, furono abbanbuio della sera su quelle nostre donati a se stessi e dovettero cucce di legno, ripiene di aghi affrontare con mezzi del tutto di abete, allineate in fila come inadeguati il freddo e la fame. Anche se la loro sorte bare; il silenzio era il solo commento della giornata fu migliore di quella dei soldati semplici, il cui livello o un parlottìo discreto, che rievocava lontani pranzi di mortalità per fame raggiunse cifre spaventose, e cene”. Perché, come ricorda ancora Tecchi, era pure l’esperienza vissuta dagli ufficiali fu terribile. un gioco “quasi saporito” mischiare ricordi e fantaIl cibo divenne per tutti un pensiero ossessivo: “La sie, “come se anche il sogno, nel ricordo lontano, fame continuata non ci faceva pensare che al man- potesse per un momento ingannare la fame”. giare, al mangiare, al mangiare; si parlava di questo, In altre baracche il gioco “quasi saporito” di rimesi pensava questo, si ricordava questo”. Scrivono i morare i cibi di casa e della vita civile prende letsuperstiti nelle loro memorie. “Quando si discorre, teralmente corpo nei quaderni dei prigionieri che si l’argomento è sempre lo stesso, e cioè il mangiare”. trasformano in veri e propri ricettari. Due sottote“La fame, a poco a poco, divenne una vera idea deli- nenti, Giuseppe Chioni e Giosué Fiorentino, ognuno rante: non si parla che di mangiare, non si aspetta per conto suo, si fanno promotori di una raccolta di che l’ora in cui sarà distribuita la misera scodella di ricette interpellando i compagni di baracca. Così che brodaglia”. “dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desiInutilmente sperarono nell’intervento dello Stato deri”, come scrive Chioni, nascono più di un quaitaliano che al contrario aveva adottato una politica derno intitolato all’arte culinaria. punitiva nei confronti dei prigionieri e aveva preso “Questa raccolta di ricette di culinaria, fatta nel campo la scellerata decisione di impedire l’invio di aiuti sia di prigionia di Celle, è il frutto di uno dei più strani da parte della Croce Rossa, che da parte dei privati. fenomeni psicologici senza il quale sembrerebbe Come scrive Giovanna Procacci “l’attribuzione della inspiegabile come tante giovani energie, come tanto rotta di Caporetto a un fenomeno di diserzione collet- rigoglio di vita e di giovanilità fervida non abbia trotiva – a seguito della nota interpretazione di Cadorna vato modo migliore di manifestarsi ed espandersi. del disastro – spinse infatti gran parte dell’opinione E chi non è vissuto fra noi, chi non ha avuto un’idea pubblica, e tra questa Sonnino, a credere che la delle nostre sofferenze fisiche e morali potrebbe sormaggioranza dei militari catturati si fosse volontaria- ridere ironicamente pensando alla metamorfosi che mente arresa al nemico. D’Annunzio bollò i prigio- ci ha mutato da guerrieri in cuochi; però se si pensa nieri con l’attributo di “imboscati d’oltralpe”; su vari ai lunghi digiuni che ci costringono a stare rannichiati giornali – e in particolare su quelli di trincea – essi per sentire meno i crampi della fame, a non muoversi vennero raffigurati come uomini finiti, distrutti dalla per intere giornate onde sprecare meno energie, che colpa e dalla paura”. ci rendono delizioso Durante il lungo inverno, i come una goloprigionieri passavano i sità il famoso giorni perlopiù coripane Rappa e se cati, economizsi pensa che la zando le energie, fame presente aspettando con ha un triste ansia l’ora della risalto con l’abmensa. Bonabondanza traventura Tecchi, scorsa sembrerà recluso con Carlo naturale come Emilio Gadda ognuno risoe Ugo Betti gnando il domenella Baracca stico focolare 15c, scrive che abbia ricordato

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le squisite pietanze e gli intingoli appetitosi preparati dalle mani premurose e delicate della mamma o della sposa lontana; abbia ripensato ai tempi in cui felice presiedeva all’allestimento di essi e dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desideri ne sia scaturito questo ricettario. L’utilità di esso è discutibile, non fosse altro ci farà ricordare di tante ore tristi e monotone in tempi migliori che con un simile riscontro sapremo salutare traendone insegnamenti ed esperienza”. Sono ricettari nazionali, forse più rappresentativi delle diversità regionali della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi. Chioni e Fiorentino, genovese il primo e siciliano il secondo, mettono insieme ricette che provengono dal nord come dal sud, dal Piemonte come dall’Abruzzo o dalla Puglia, dal Veneto come dalla Sardegna. Ma esprimono, a ben leggere, anche un immaginario di opulenza, espressione di un sogno che conduce oltre il filo spinato della prigionia, verso un paradiso gastronomico dove è possibile mangiare e bere a dismisura, un mondo capovolto rispetto a quello del campo. Grassi, ripieni e condimenti la fanno da padroni. Ecco la ricetta del riccio al forno: “Si riempie il riccio molto grasso e grosso, con prosciutto, funghi, sedano e qualche pezzetto di corteccia di formaggio pecorino, noce moscata, zenzero. Con detto composto si riempie pure la gobba del riccio, si cuce e si pone in un testo insieme a patate condite con lo strutto, sale, pepe, prezzemolo”. Si aggiungono il guanciale di maiale all’arrabbiata, la lepre in salmì, il coniglio ripieno al forno, le costate di maiale al latte, le lasagne imbottite, la polenta con lardo e prosciutto grasso o pasta di salsiccia. Germania 1943-1945. Di nuovo la fame. I prigionieri dei nuovi lager nazisti vivono in condizioni materiali ancor più precarie, a volte ai limiti della sopravvivenza: sono tormentati da una fame continua che riappare monotona e ossessiva nelle note dei diari che registrano la pessima qualità del cibo, le dosi insufficienti delle razioni alimentari, il rito della divisione del pane, e poi la nostalgia dei cibi di casa,

l’ansia e la preoccupazioni per i pacchi familiari che non arrivano. Il pasto principale è una brodaglia di rape con l’aggiunta di una fetta di pane di segala, o in alternativa 20-25 grammi di margarina, un cucchiaio di marmellata, 25 grammi di zucchero, 500 grammi di patate ogni due o tre giorni, crauti crudi, un mestolo di brodo nero detto caffè. L’ossessione alimentare ritorna perfino nei sogni come scrive nel suo diario Giuseppe Volpe, internato a Sandbostel: “Quante volte mi sogno di trovarmi a casa tra i miei che mi offrono pietanze su pietanze di ogni specialità e abbondantemente… Questo perché? Perché il nostro subcosciente, anche nel sonno, continua a battere sulle nostre necessità impellenti: mangiare. Ieri mi raccontavo il nuovo piatto che certamente dovrà essere squisito: maccheroni al forno. Ieri sera a letto vi ho lungamente pensato. Questa volta ho sognato di aver fatto scorpacciate di maccheroni con sugo abbondante. E stamane poi mi sono alzato con un buco”. Così non è un caso che il ricettario di prigionia di Ferruccio Fanizza, in appendice al suo diario, sia intitolato “I nostri sogni”: nostri, perché anche in questo caso si tratta di una raccolta messa insieme trascrivendo le ricette dei commilitoni che provenivano da ogni parte d’Italia: troviamo i mezzarelli alla siciliana (pasta, pomodoro, melanzane fritte, mozzarella, parmigiano) e l’agliata provenzale; la cucina meridionale dell’olio d’oliva e quella settentrionale del burro; le verdure mediterranee e la carne; le minestre e le creme francesi. Le fantasiose annotazioni di ricette, come testimonia una recente antologia di lettere e diari degli internati militari, sono più frequenti di quello che è dato immaginare, perché, come scrive Riccardo Zipoli a commento del ricettario del padre, “Piatti casalinghi e locali del perfetto gefangene e di Chelm”, la dimensione alimentare e culinaria permea “gran parte della vita sia materiale sia immaginaria del lager, configurandosi, tale dimensione, non solo quale aiuto per la sopravvivenza fisica ma anche come sfogo e conforto mentale degli internati”.

Le informazioni sul lager di Celle e la condizione dei prigionieri italiani sono riprese dal volume di Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; la citazione di Bonaventura Tecchi è tratta dal suo libro Baracca 15c, Milano, Bompiani, 1962; i ricettari di Giuseppe Chioni e Giosuè Fiorentino sono pubblicati nel volume La fame e la memoria: ricettari della Grande Guerra: Cellelager 1917-1918, a cura di Quinto Antonelli e Gianfranco Bettega, con saggi introduttivi di Fabio Caffarena e Annarita Caputo, Feltre, Agorà, 2008; il brano di Giuseppe Volpe si trova nell’antologia di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani: diari e lettere dai lager nazisti: 19431945, Torino, Einaudi, 2009; il ricettario di Ferruccio Fanizza è conservato, insieme al diario, presso la Fondazione Museo storico del Trentino-Archivio della scrittura popolare; la citazione di Riccardo Zipoli è tratta dall’introduzione a Gefangenennummer 40148: memorie dai lager nazisti del capitano Mario Zipoli, Venezia, Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, 2003.

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A carnevale… ogni cibo vale!

Il carnevale è un momento Festa dell’uguaglianza per dell’anno dove anche per la eccellenza, nella piazza cargola ci sono delle deroghe…: nevalesca regnava la forma alcuni studiosi fanno derivare particolare del contatto famil’origine del nome da carnem liare e libero tra le persone Marta Villa levare indicando in questo (Mikhail Mikhailovich Bachmodo non la festa ma il periodo “Il carnevale è un pezzo di storia della religio- tin, L’opera di Rabelais e la successivo, quello della Quare- ne e il riso carnevalesco, la prima blasfemia. cultura popolare, Einaudi, sima dove la liturgia cristiana È una pausa, l’interregnum tra un’abdicazio- Torino, 2001, p. 13). Nell’imimponeva l’astinenza dal con- ne e un’ascesa al trono; perciò è una proces- maginario collettivo il carnesumo di carne. Gli Statuti di sione, un corteo; l’immagine di un processo vale ha come caratteristica Trento, ad esempio, prescrive- celeste: dalla processione delle stelle fino a peculiare la possibilità di vano che i prezzi della carne che l’astro-sovrano dell’Anno Vecchio non è non sottostare alle regole, dovessero essere regolati da completamente declinato e l’astro-sovrano anzi di rovesciarle o stravolun particolare calmiere soprat- dell’Anno Nuovo è salito sulla sommità del gerle, per cui erano note fin tutto nel periodo carnevalesco, trono” dall’epoca moderna crida di quando l’aumento del con- (Florens C. Rang, Psicologia storica del car- autorità cittadine per frenare sumo causava una lievitazione nevale) scherzi e burle. Ne abbiamo dei prezzi. Festa probabilmente una emanata dal principe cristianizzata e quindi inserita vescovo Sigismondo Franall’interno del periodo che va cesco d’Austria nel 1663 che dall’epifania alle ceneri, il carnevale imponeva restrizioni tra cui quella di non mascheha però origini più lontane: sopratrarsi il volto “occultando e nascondendo la tutto in area alpina trova ancora cognizione loro”, “ne manco mutare abito adesso una ritualità legata alla over travestirsi” pena il pagamento di fertilità, ai riti agricoli stagio39 ragnesi, se il malcapitato era nali, alla volontà di scacciare trovato senza armi e del doppio l’inverno e di propiziarsi se invece le portava. una buona stagione. Un tempo carnevale significava Per Rang si può scoranche trasgressione alimentare, gere l’origine della festa o meglio grande abbuffata: infatti, nel lontano 3000 a.C. in venivano organizzate, ora non più, Caldea; in una delle più delle vere e proprie gare per vedere antiche epigrafi della storia è scritto chi riusciva a mangiare più polenta, che si celebra una festa dove pasta o gnocchi. In molti carnel’ancella prende il vali storici abbiamo iperboli posto della signora e lo legate al cibo come le salschiavo incede nel rango sicce giganti del carnevale di del signore e i potenti staetà moderna di Norimberga vano in basso come uomini o le medievali montagne di comuni (Florens C. Rang, Psimaccheroni al ragù dove cologia storica del carnevale, cascava una nevicata di Bollati Boringhieri, Torino, parmigiano che riempivano 2008, p. 49). Per Bachtin, il i sogni del paese di cuccacarnevale, in opposizione alla gna descritte dallo stesso festa ufficiale, era il trionfo, in Boccaccio. Eco di queste una specie di liberazione usanze si ritrova ancora oggi temporanea dal regime nella distribuzione gratuita di esistente, l’abolizione dei bigoi o maccheroni al ragù rapporti gerarchici, di prio con le sarde, maltagliati al vilegi, regole e anche tabù. sugo, gnocchi. I dolci, oltre Autentica festa del tempo e del alla pasta, fanno da sovrani rinnovamento, si opponeva ad ogni nella festa carnevalesca di fissità e ad ogni termine definitivo: ogni paese: abbiamo ricette era la festa dell’avvenire incompiuto. tramandate per grostoli, fri-

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tole, crafuns, krapfen e straboi (o stroboi). Altro piatto tipico del giovedì grasso è lo smacafam, uccidi la fame, “onto e bisonto soto tera sconto, sconto ‘n te ‘na cassetta se te ‘ndovini ten dago ‘na fieta”: lo smacafam viene cotto sotto la cenere e ha come ingredienti farina bianca, latte, olio, lucanica fresca, pancetta affumicata, burro e sale. Un carnevale che non si svolge più è quello dei Gallinari delle valli del Noce. Interessante perché vedeva coinvolti i ragazzini dai 12 ai 14 anni che dal 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, fino alle Ceneri giravano per le case vestiti da eremiti e recitavano a memoria il De Profundis e il Miserere in cambio di offerte di cibo, prevalentemente grasso e farina, che veniva raccolto e poi cucinato il giovedì grasso e distribuito a tutta la comunità dai giovani della zona. A Condino i ragazzi il giovedì grasso giravano travestiti con maschere paurose per il paese trascinando una slitta con sopra la giubiana (strega) e chiedendo in offerta farina, frutta e fiaschi di vino. Altro carnevale particolare si svolge a Romarzollo, frazione di Arco. La tradizione qui impone la costruzione dei carnevali, delle piramidi di legno di bambù decorate con alloro, gusci d’uovo, salsicce, arance e biscotti che vengono portati in processione per le vie del paese e poi bruciati sul doss del carneval, una altura sopra la frazione al canto della filastrocca dialettale: “Carneval buta ‘jal/butel bèm. Smaca i ovi nel capel/‘l capèl l’è descosì./Tuti i ovi for de lì./Viva la Quaresima/che ‘l carneval l’è na./Polenta e pessatine/doman se magnerà!” Al termine del falò ora vengono distribuite torte, frittelle, vino caldo. A Varone, invece, nel comune di Riva del Garda, abbiamo la consueta polenta e mortadella, di origini settecentesche, ancora oggi come allora, organizzata da un apposito comitato. La polenta è quella gialla di Storo

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e la mortadella viene confezionata secondo particolari ricette segrete sia per la mistura di carne che di spezie, tramandata dagli organizzatori di generazione in generazione, segrete sono le essenze di legno che vengono impiegate per affumicare il salume. Nelle vicine Giudicarie invece si prepara il capu(s), che, a dispetto dell’assonanza con il termine dialettale impiegato per indicare il cavolo cappuccio, non comprende fra gli ingredienti questo ortaggio: sono pacchettini di pane grattato mescolato a verdura verde, formaggio grana, uova, burro, uva sultanina, sale, pepe e aglio che, dopo una lunga cottura, vengono gustati con saporiti insaccati. In un ricettario del Settecento redatto da don Felice Libera troviamo come ricetta tipica del carnevale trentino la culata di porco fresco cotta in umido e servita con gnocchi di pane e verza. Dalla vicina Verona il Trentino ha assunto la tradizione de el vendro sgnocolàr. Carnevale antico e risalente al Rinascimento, quello di Verona si impone per grandiosità e partecipazione ancora oggi. Interessante è notare che avviene una vera e propria elezione con regole, candidati, schede elettorali e pubblicità per nominare el Papà del Gnoco, il re del Bacanal del Gnocco, figura centrale della rappresentazione. L’elezione avviene circa un mese prima della festa nel quartiere di San Zeno dove vengono allestite le cabine elettorali: i diversi candidati si presentano e pubblicizzano con manifesti e grida la loro candidatura. È un onore diventare Papà del Gnocco cui si prestano anche i giornali locali che pubblicano a tutta pagina il nome e il volto dell’eletto. Migliaia di cittadini, fino agli anni ottanta solo i residenti sanzenati poi tutti i veronesi, votano nella piazza di San Zeno, attendono con pazienza il proprio turno e ottengono in cambio un piatto di gnocchi; in città molti ricor-


dano ancora l’elezione del 1984 con il Papà eletto con 22.000 preferenze, un vero record. Figura importante, sia nel periodo della festa che durante tutto l’anno, il Papà deve far conoscere la tradizione del carnevale, e per un giorno (il venerdì) ha in mano le chiavi della città consegnategli direttamente dal sindaco in piazza Bra all’inizio della sfilata, e insieme ai gobéti, suoi aiutanti, dispensa caramelle a tutti i bambini. Cavalca una mula che viene mangiata al termine del carnevale sotto forma di pastissada e ha in mano lo scettro con il simbolo del suo potere: una forchetta con infilzato un grosso gnocco. Il costume abbonda le sue forme, in particolare evidenza la pancia piena e il volto rubicondo dalla barba fluente. In tutte le case e osterie si cucinano i tradizionali gnocchi di patate al sugo o al ragù. La festa di piazza dura parecchie ore e sempre più quartieri della città e paesi della provincia concorrono con carri e maschere. Un altro rito che si svolge il sabato grasso, ma che forse ha poco a che fare con il carnevale come lo intendiamo oggi, è il Plufziehen di Stilfs in Vinschgau. Letteralmente è il tiro di un vecchio aratro per le strade del paesino che vede coinvolti tutti i giovani, maschi, divisi in due gruppi, i contadini, con il Bauer e la Bauerin che guidano l’aratura e i loro aiutanti, e dall’altro lato le streghe e i rappresentanti della modernità, ossia tutti quei mestieri fatti da ambulanti girovaghi interpretati negativamente dagli abitanti dei masi perché portatori di novità ma stranieri. Il rito vede una vera e propria “battaglia” tra i personaggi del bene (i contadini) e i personaggi del male che tentano di rubare l’aratro e di interrompere così la semina e la battitura. Vi sono anche dei distributori di uova sode alle ragazze in età da marito, segno propiziatorio anche per l’arrivo della nuova stagione. Il canovaccio nella sostanza è sempre uguale, tramandato oralmente da generazioni, ma c’è un ampio margine di improvvisazione nei dialoghi. Il rito si conclude sempre nella piazza della chiesa dove c’è, come ultima azione rituale, il furto dei canederli bollenti fatto dalle streghe e impedito dal Bauer. Poi avviene la distribuzione gratuita dei canederli rimasti a tutti. Risulta quindi evidente quanto sia importante il cibo e l’azione del mangiare nelle feste carnevalesche e non solo, dove venivano portati in processione anche gli utensili della cucina o venivano esagerate le stesse dimensioni dei cibi preparati. Possiamo allora concludere invitando a curiosare tra i carnevali della nostra regione e con l’eccellente consiglio di un saggio medico, François Rabelais, per condurre una vita felice:”ho sentito una volta in un bel giardino, in un giardino segreto, sotto un bel frascato, intorno ad una bella siepe di bottiglioni, giamboni, pasticci e ad alcune quagliette con busto, dei bei musicisti che cantavan graziosamente…”.

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Mangiare sul lavoro

Non è molto che l’uomo ricerca Schio” di Alessandro Rossi. nel cibo una dimensione colLe prime mense moderne lettiva; è probabile che l’uomo all’interno degli stabilimenti cacciatore e successivamente industriali fanno la loro comil cosiddetto raccoglitore vivesparsa nel primo dopoguerra. di Carlo Pedrolli sero il pasto nella sua dimenÈ del 1929 l’inaugurazione sione famigliare e di piccolo a Trento della prima mensa gruppo. presso la Michelin, assieme L’inizio di una dimensione più al pensionato femminile per ampia trae sicuramente la sua le operaie residenti fuori città; prima esemplificazione nel sia la mensa che il pensionato convento medievale. I pellefemminile furono ospitate in grinaggi, infatti, hanno posto i un primo tempo (si può immaconventi nella necessità di forginare la precarietà della situanire dei pasti a una miriade di zione) presso il vicino Palazzo viaggiatori, pellegrini, che ad un delle Albere. tempo chiedevano un cibo, ma In seguito è incominciata anche erano anche portatori di nuove per le mense operaie la queabitudini alimentari e anche a stione del razionamento bellico tipi di preparazioni sconosciute (si parla del secondo conflitto ai monaci o comunque ai responsabili delle cucine mondiale); esso è stato affrontato in vario modo da di tali istituzioni. Anche le collettività militari hanno diversi stabilimenti industriali; per esempio in Lomvia via posto lo stesso problema; soprattutto quelle bardia la Falk, la Vanzetti e l’Unione Industriale detconfinate in spazi molto ristretti, come per esempio tero origine al Servizio approvvigionamenti stabilile navi, con oggettive difficoltà di rifornimento e di menti industriali (SASI), per favorire la fornitura delle conservazione degli alimenti. mense industriali in modo collettivo ed economicaCon la rivoluzione industriale, infine, il problema mente vantaggioso. Le forze di occupazione tedesche si estese progressivamente anche al mondo del obbligarono altre industrie “storiche” milanesi come lavoro. In Italia ciò accadde soprattutto con la cosid- la Siemens, la Breda, la Borletti, la Magneti Marelli ad detta seconda rivoluzione industriale, quando l’ope- aderire alla SASI. Il problema principale era rappreraio fu costretto a subire un inquadramento che lo sentato allora dalla disponibilità del secondo piatto, collocava in una posizione di netto subordine, in cui obbligatorio per legge, dal momento che ricadeva le stagioni e le necessità della famiglia non avevano sotto la responsabilità delle aziende; il primo invece più importanza; l’operaio diventa parte di un ingra- ricadeva sotto la responsabilità della società pubblica naggio produttivo in cui il lavoro si presta 14-16 ore SEPRAL. Nel 1944 il SASI venne d’autorità incorpoal giorno e all’interno di tale periodo è praticamente rato nella Sezione provinciale per l’alimentazione obbligatorio inserire una pausa per mangiare; la cosa (SEPRAL, società pubblica istituita con R.D.L. 18 interessante è che nel momento iniziale di tale rivolu- dicembre 1939, n. 2.222, quale organo periferico del zione industriale pochissime sono le fabbriche dotate Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, per quanto non solo di una mensa, ma neppure di una cucina, riguardava il “Servizio degli approvvigionamenti per per cui la breve pausa pasto viene fisicamente con- l’alimentazione nazionale in periodo di guerra”, e del sumata dove si lavorava, in condizioni igieniche e di sicurezza assai precarie; spesso i refettori e i dormitori, soprattutto per la manodopera femminile, sono comunicanti con la sala stessa dove le persone lavorano. In certe industrie tessili del Biellese è documentato che le tessitrici consumavano il loro vitto al telaio con le macchine in funzione! D’altra parte anche le lotte sindacali alla fine dell’Ottocento avevano ben altro da tutelare e difendere che non la pausa pranzo: si pensi solo alla piaga del lavoro minorile e alla mancanza di qualsiasi tutela per la donna. Esistevano tuttavia delle oasi, del cosiddetto paternalismo padronale, dove era prevista una mensa come nell’industria “Nuova

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Ministero delle Corporazioni, relativamente al “Servizio della distribuzione dei generi alimentari e del controllo degli stabilimenti dell’industria alimentare”). La situazione portò ad un fatto veramente paradossale; gli industriali pur di potersi approvvigionare per i loro operai erano di fatto autorizzati a ricorrere alla borsa nera tanto che si stimò che per il secondo piatto le disponibilità alimentari provenissero per 1/5 da carte annonarie, e per i restanti 4/5 dalla cosiddetta “borsa nera”. Le cronache dell’epoca, comunque, parlavano per gli operai della FIAT motori di Torino di un calo ponderale medio, negli anni di guerra, di 10-15 kg. Non va poi taciuto come, di fatto, le mense delle grosse concentrazioni industriali di Milano, rimaste in piedi durante la guerra, siano diventate un centro politico di primo livello sia in senso antifascista prima che di militanza politica ai tempi del CLN poi. La mensa diventò dopo la seconda guerra mondiale un fatto acquisito, ma vissuta dal lavoratore più che come una conquista in sé, come una parte integrante del salario che se non veniva goduta doveva essere in qualche modo risarcita; e la cosa divenne ben presto motivo di frizione con i cosiddetti “padroni” della fabbrica che vedevano invece nella mensa un fatto assistenziale che doveva aumentare la produttività della forza lavoro in fabbrica. La cosa portò a vivaci vertenze sindacali in cui la mensa si pretendeva venisse inserita nel salario come parte integrante del lavoro e quindi computata nella retribuzione imponibile ai fini del calcolo dei contributi assicurativi; la cosa durò non meno di dieci anni con risposte non sempre omogenee non solo di tipo legislativo ma anche di tipo giuridico. Nel complesso le mense del dopoguerra si presentavano in modo molto diverso; si andava dalle mense della Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, la Stalingrado di Italia, in cui il vitto era ultra controllato sia nella sua qualità che nella quantità da un’apposita commissione; gli operai ricevevano un’indennità mensa mensile di £ 1.500 e per 25 pasti al mese spendevano £ 1.970; quindi con £ 470 l’operaio mangiava tutto il mese e talora talmente bene da preferire il pasto della mensa a quello di casa. Ma già negli anni sessanta altre industrie “pilota”, come ad esempio la Breda di Milano, affidavano per la prima volta in gestione a terzi il servizio mensa, modalità che venne seguita da altre industrie. Non mancavano i lavoratori che, per ottenere l’indennità mensa in contanti, preferivano consumare un pasto portato da casa e contenuto nel cosiddetto “baracchino” (chiamato in Trentino soprattutto dagli operai edili “gamela” e che era costituito da un contenitore di alluminio diviso internamente da una sorta di coperchio che separava la parte bassa con il cibo liquido, di solito minestra, dalla parte alta con il secondo piatto e il contorno; il baracchino veniva

spesso mal conservato e il contenuto consumato in condizioni igieniche assai precarie, spesso proprio nei locali di lavoro, alle temperature più varie. Negli anni sessanta gli operai passarono dalla civiltà della “sussistenza” alla società del “benessere”; si incominciò a guardare non solo alla quantità del cibo fornito dalla mensa, ma anche alla sua qualità. Il tutto con delle contraddizioni stridenti se è vero che lo stabilimento FIAT di Rivalta, inaugurato nel 1967, non prevedeva nel progetto iniziale né sala mensa né cucine. Si incominciavano ad affacciare i primi sistemi rivoluzionari di cucina come per esempio i cosiddetti cibi surgelati. La mensa nel ‘68 e negli anni delle lotte sindacali presenta ulteriori peculiarità: alcune rivendicazioni spostano l’obiettivo dal diritto alla mensa alla possibilità di monetizzare il valore del pasto; diventa quindi sempre meno importante la qualità del vitto, passaggio sancito anche dal fatto che progressivamente si tende ad effettuare un outsourcing della mensa, cioè ad attribuirne la responsabilità e la gestione all’esterno della fabbrica stessa. In altre parole si passa dalla figura di industriale che notoriamente assaggiava di persona il vitto degli operai e ne consentiva la distribuzione solo se di gusto soddisfacente, a un cibo spersonalizzato posto sotto il controllo di personale esterno all’azienda e quindi, in tal senso, deresponsabilizzato. Emerge chiaramente dall’analisi dei documenti sindacali del tempo come la mensa fosse più sentita come locale di ritrovo e quindi “spazio di lotta” piuttosto che luogo dove si doveva consumare un pasto. La mensa diventa soprattutto il luogo delle assemblee sindacali, il luogo dove i lavoratori si trovano per discutere i proprio diritti, luogo di aggregazione per ogni forma di lotta, anche clandestina. Finita la stagione delle grandi lotte sindacali, incominciata la crisi industriale degli anni ottanta e novanta, la mensa subisce tutti i contraccolpi; molte fabbriche di grandi dimensioni chiudono o vengono ridimen-

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sionate nei loro organici, prosperano gli stabilimenti pasto con una compartecipazione della loro ditta industriali di piccole dimensioni, spesso artigianali, ed una personale; si tratta di mense che di solito che non sono in grado di fornire da soli il servizio forniscono un servizio dal punto di vista nutriziomensa. É tempo allora di altre grandi novità: nale più che dignitoso. 1. la mensa che serve più di uno stabilimento, non 2. I cosiddetti buoni pasto: il lavoratore ottiene un legata ad una singola industria ma al distretto dove voucher del valore di alcuni euro che può spendere si trova; su di essa convergono le maestranze di presso bar, ristoranti convenzionati. Se il buono varie fabbriche, di solito molto vicine e che ragnon è sufficiente a coprire la spesa, il lavoratore giungono a piedi la mensa dove consumano un paga di tasca propria la quota restante. Spesso questo sistema ha dato luogo a degli abusi, nel senso che il lavoratore non si è fatto dare il corrispettivo dovuto, ma altri prodotti alimentari di pari prezzo da consumare poi in famiglia; inoltre questo sistema ha favorito l’utilizzo indiscriminato dei “fast food” peggiorando notevolmente, dal punto di vista nutrizionale ma anche relazionale, il momento del pasto. Appare quindi evidente come seguendo le modalità del pasto collettivo nei secoli, si riassuma gran parte dello sviluppo dell’uomo; quanto poi questo sviluppo abbia significato un reale miglioramento delle condizioni di vita e di relazione dell’uomo, lasciamo giudicare al lettore.

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Identità italiana in cucina, di Massimo Montanari (Laterza, 2010) “L’Italia è fatta, facciamo gli italiani” proclamò Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità nazionale. In realtà gli italiani esistevano da secoli, ben prima che l’Italia nascesse come entità politica. Erano pochi, certo: solo una piccola élite. Ma erano e si sentivano italiani, pur vivendo in Stati diversi. L’identità del paese non coincideva con le sue forme politiche, ma si realizzava piuttosto nei modi di vita, nei gusti letterari, artistici e anche gastronomici. Se per “cucina italiana” vogliamo intendere un modello unitario, codificato in regole precise, è abbastanza evidente che essa non è mai esistita e non esiste tuttora. Se però la pensiamo come “rete” di saperi e di pratiche, come reciproca conoscenza diffusa di prodotti e ricette provenienti da città e regioni diverse, è evidente che uno stile culinario “italiano” esiste fin dal Medioevo, soprattutto negli ambienti cittadini che concentrano e rielaborano la cultura alimentare delle campagne, e al tempo stesso la mettono in circolazione, attraverso il gioco dei mercati e i movimenti di uomini, merci, libri. Si forma così un sentimento “italiano”, un’identità non teorica né utopistica, ma concreta e quotidiana, fatta di sapori, di prodotti, di gusti. L’unità politica del paese non fa che accelerare questo processo, allargandolo progressivamente a fasce più ampie della popolazione. Cibo, gioco, festa, moda, a cura di Carlo Petrini e Ugo Volli (vol. VI de La cultura italiana, diretta da Luigi Luca Cavalli Sforza, Utet, 2009-2010) Quali sono le discipline, gli ambiti di indagine che hanno contribuito a costituire e modificare quella che oggi chiamiamo la cultura italiana del cibo? Di quali elementi si compone l’italianità di questa cultura? E ancora: dove occorre andare a ricercare le caratteristiche che la rendono riconoscibile e distinta in quanto cultura italiana? Queste le domande da cui ha mosso i primi passi il gruppo di lavoro che ha partecipato alla stesura dei 20 saggi che compongono questo sesto volume dell’enciclopedia Utet La cultura italiana. L’intento di ogni singolo saggio, che si concentra su discipline differenti, è quello di rispondere sempre alla stessa domanda: come si è stratificata la cultura italiana rispetto alle questioni ambientali, alle diverse agricolture, al mondo del vino, al diritto alimentare, ai consumi, alla ristorazione, all’alimentazione?

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Cucina a porter

Archistrato di Gela, nato nel IV sec. e, quando involontariamente a.C., può essere considerato uno ingenua, assolutamente straorquando l’estetica dei più grandi trattatisti gastronodinaria. Con il binomio Gastromici di tutti i tempi; contemporanomia-Aesthetica il sapere e è nel piatto neo di Alessandro, uomo ecletl’esperienza della bottega si tico, colto, poeta e grande viagmescolano alla sensibilità che sa di Silvia Bertolotti giatore, nel 330 a.C. ca. compose cogliere qualità e bellezza, e all’iun poemetto in esametri dal titolo stinto personale; il “buon gusto” Hedypátheia, I piaceri del gusto, fa da trait d’union autorevole e o come alcuni molto più liberaassoluto. La gastronomia segue mente traducono Vita di delizie. (e allo stesso tempo ne è compoLa ragione che rende immediatanente imprescindibile) lo spirito mente singolare e notevole, ma del tempo. La cucina futurista di soprattutto ardita, l’operazione Marinetti (il cui Manifesto uscì in letteraria di Archistrato, è quella Italia sulla Gazzetta del Popolo di aver voluto piegare la solennità di Torino il 28 dicembre 1930) e il riconosciuto valore universale propugnava una nuova filosofia del verso epico ad una materia alimentare, una rivoluzione ottiassolutamente umile, quotidiana mista dei costumi della tavola, e prosaica. Viaggiare per mare un “progetto nutrizionista”, una e per terra, spingersi sempre più riforma totale che enunciava tra lontano al fine di scoprire ricette i suoi capisaldi l’abolizione del dal valore straordinario, dove “quotidianismo mediocrista dei qualità e stile si fondono ai maspiaceri del palato”, auspicava simi livelli, superando così il vinuna cucina chimica e dichiarava colo del pregiudizio e dei campaguerra alla pastasciutta, che nilismi, sembra essere la più vera induceva a scetticismo, pessicifra della ricerca gastronomica mismo, inattività nostalgica, in di Archistrato. Tutto ciò facendo un’ottica politica, ideologica, ma incontrare l’alto con il basso, il anche estetica; alla pastasciutta serio con il faceto e chiamando si preferiva il riso. La poetica in causa la propria esperienza e futurista è stata per certi aspetti un acutissimo senso dell’osserprofetica nel cogliere, infatti, il vazione e una predilezione per processo di estetizzazione della le specialità ittiche. Il termine prassi e dei riti della vita quotigastronomia, che nasce perciò diana, che ha poi portato ai nostri all’interno dell’orizzonte culturale giorni ad una sorta di pericolosa della Grecia antica, significa in risoluzione immateriale e virtuale senso letterale “leggi-regole del del mondo, un fluttuare infinito ventre”; ma, ci possiamo chiedere, di quali regole e di immagini gettate in rete, una spettacolarizzazione di quali leggi si tratta? Dettate dalla necessità? Dalla della realtà che si va sostituendo all’anima delle cose ragione? In grado di decretare il buono e il bello? L’e- e al vissuto personale. Nella società post-moderna, a satto equilibrio tra gli ingredienti? partire dalle classi medie il cibo ha subìto inoltre un Il termine gastronomia enuclea la presenza di una forte processo di simbolizzazione, divenendo metadualità teorica e propone senz’ombra di dubbio un fora di fobie e ossessioni e risponde non più solo alle interessante spunto dialettico; il termine racchiude esigenze biologiche e alle pratiche della necessità, in sé sia un’accezione alimentare e un intrinseco rife- ma a una sorta di rituale estetico in cui si riscontrano rimento alla tecnica di elaborazione dei cibi, sia un’i- forti valenze culturali e identitarie. stanza estetica, che postula la facoltà di assaporare e La cucina oggi assume sempre più i connotati di un giudicare il grado di bontà delle pietanze medesime. mondo aperto, fucina del gusto, naturalmente, ma Ecco che la figura di Archistrato, gourmand raffi- anche amplificatore e catalizzatore di suggestioni e nato e cosmopolita, ci indica la direzione di un per- tensioni contemporanee, ha saputo trasformare se corso fatto anche di speculazione filosofica. Estetica stessa in un laboratorio straordinario spalancando ed edonismo si incontrano in cucina e da un felice le proprie porte a fotografi, architetti, designer. La connubio nasce una gastronomia sapiente, colta cucina è il cuore pulsante, il fulcro vitale da cui si

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irradiano le esperienze tecnico-artigianali della tradizione e, nel medesimo tempo, le spinte di sperimentazione e di rinnovamento di ciascun milieu culturale. È l’immagine a dominare il mondo dell’alimentazione e della nicchia gastronomica e la gastronomia a sua volta rientra ormai a buon diritto nell’area della visual culture, materia privilegiata dei cosidetti visual studies, un ambito di ricerca sviluppatosi sulla scia degli studi culturali anglosassoni. Il concetto di design e di applicazione fotografica all’arte gastronomica, alle pietanze e alle sue materie prime, è un fenomeno fortemente veicolato e diffuso in special modo attraverso i più attuali media, quali web, blog e social network. Canali di comunicazione costantemente attivi, mutanti e dinamici che in tempo reale registrano mode e umori, rappresentando la più chiara cartina di tornasole di una società perennemente instabile e alla ricerca del proprio senso. Da sempre piace parlare di segreti ai fornelli, sapori, creatività, sensazioni del gusto; il mondo degli ingredienti e delle preparazioni alimentari intrattiene un rapporto molto stretto con la pagina scritta e con il linguaggio, per Roland Barthes il cibo rappresenterebbe del resto un’unità funzionale di comunicazione, in possesso di una grammatica propria (le ricette), di un lessico (l’ordine delle vivande nel menù) e di una retorica (il comportamento dei conviviali). La gastronomia contemporanea ha compiuto un ulteriore passo avanti, ha coniato un proprio vocabolario: foodies, food-design, still-food, food photography, food-writers all’interno di una galassia di fenomeni culturali che vengono ad incrociarsi e ciascuno ad apportare un originale contributo, ed il nuovo codice, ormai alla portata di tutti, è mutuato dalla lingua inglese. È avvertita sempre più inoltre l’esigenza di conoscere passato e presente dei prodotti alimentari, in un’ottica di riscoperta della tradizione, ma anche di grande attenzione al benessere e a una cucina della salute e del rispetto dell’ambiente; parallelamente la materia gastronomica intrattiene i lettori con una infinita serie di argomentazioni tutte miranti alla creazione di atmosfere, scenografie e spazi dell’immaginario, di volta in volta sempre nuovi e creati in occasione e in onore di una tavola esteticamente studiata, una tavola che diviene innanzi tutto espressione d’arte. E’ chiaro come oggi la curiosità per la cucina abbia una natura duplice e contrastante, se da un lato

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ci si appassiona alla cucina essenziale e di recupero (ammirata per la sua sobria eleganza), spesso legata alla tradizione rurale e ai cicli stagionali, dall’altra, una tensione assolutamente dinamica e centrifuga è alla ricerca di una tavola trasgressiva, pronta ad accogliere neo-ricette e preparazioni fusion. L’editoria gastronomica, che va moltiplicando esponenzialmente il proprio successo, è lo specchio più veritiero di tutte queste curiosità e tendenze. Aumentano le case editrici specializzate e le riviste di settore, anche il pubblico dei fruitori è diversificato, compare un lettore molto più attento, preparato e sperimentatore; i nuovi lettori sono in particolare quelli che vengono chiamati foodies, vale a dire i buongustai dell’era moderna, appassionati insuperabili in grado di rasentare picchi di vero e proprio fanatismo enogastronomico, e pronti a sobbarcarsi ore e ore di viaggio pur di assaporare un prodotto tipico o una ricetta in via d’estinzione. Tuttavia, il dato forse più rilevante fra tutti è che l’immagine fotografica dei cibi conquista un ruolo di assoluto primo piano. Nel grande calderone dell’editoria culinaria i generi, ovvero le categorie attente a rispondere ai miti contemporanei quali, tra i più ricorrenti, il biologico, la filiera corta, la genuinità, il melange multietnico, il cibo come elisir di salute e giovinezza, sono indubbiamente innumerevoli, ma a essere prediletti dai lettori sono principalmente due filoni, quello narrativo e quello fotografico. La produzione editoriale gastronomica predilige, sulla scorta dell’eredità artusiana, la forma del racconto, narrando si tramandano le ricette della memoria, si descrivono viaggi ed esperienze biografiche che assumono la veste del romanzo, si spiega l’incrocio di diverse culture, si racconta del territorio attraverso un suo prodotto principe. Lo stesso connubio letteratura-fotografia trova un discreto successo attraverso il recupero, la citazione e lo studio di scrittori e poeti che abbiano tematizzato nella loro opera la materia gastronomica. Dall’altra i migliori ricettari del mondo, ma anche i più agili manualetti per dilettanti, sono accompagnati da immagini di raffinate, golose o rustiche preparazioni immortalate da grandi fotografi internazionali e non. La gastronomia è sempre più di frequente “in posa” e la rete è un vero proliferare di scatti fotografici che hanno il cibo come unico protagonista. La gastronomia viene interpretata e rappresentata da questi creativi dell’immagine in modo sempre nuovo


e personale. La fotografia rappresenta un medium dalle funzioni molteplici. Incontriamo veri e propri “grand tour fotografici” nel gusto e nel paesaggio, dove i cibi e i prodotti immortalati si fondono con la natura e la suggestione dei luoghi in cui trovano origine; sono geografie dell’immagine e dei sapori che tracciano un “atlante delle emozioni” e che possono condurci dalla campagna toscana al bistrot di Parigi, da Central Park alle coste del Nord Africa. Con la food photography si sviluppa un incredibile ventaglio di tipologie fotografiche che vanno dall’ingrediente, al piatto realizzato, dall’utensile di cucina, al ritratto dello chef al lavoro, senza dimenticare l’ambiente circostante, ovvero la particolare location e gli aspetti legati alla mise en place. Il cibo è esperienza squisitamente sensoriale, un’esperienza che inizia innanzi tutto attraverso la vista. I portfolio di molti fotografi ormai includono anche sezioni tutte dedicate allo still life del cibo. Pensiamo (solo a titolo di esemplificazione) al “cibo fatale” degli scatti di Daniela Edburg, agli incredibili “paesaggi alimentari” dell’inglese Carl Warner, alla grazia equilibrata e composta di Jacob Stanley, alla sensualità di Amelie Lombard. Daniela Edburg con la sua serie Drop Dead Gorgeous ricostruisce set surreali di forte impatto emotivo, che interpretano il cibo come fattore di pericolo, di insidia dalla quale è difficile trovare scampo, eleggendo ingredienti ed alimenti a metafora visiva, di quei mostri e fantasmi che abitano l’inconscio della nostra epoca; viaggiando nel suo portfolio possiamo incontrare giovani donne che fuggono sotto la minaccia di nuvole di zucchero filato rosa, o sopraffatte da biscotti, gelatine di frutta e altri dolciumi. Amelie Lombard associa invece l’immagine del cibo ad una sensualità tutta femminile, sono immagini seducenti, languide, dove i cibi alludono ad atmosfere e giochi voluttuosi. Carl Warner realizza straordinari foodscapes luoghi immaginari che mostrano cascate, mari, foreste, montagne, utilizzando pane, verdure, frutta, formaggi e affettati. La “fede estetica” ha perciò convinto celebri stilisti, architetti, ricercatori, designer e grandi realtà aziendali ad investire notevoli risorse nel futuro del fooddesign. Questa nuova disciplina trova le sue regole e le sue norme unendo i parametri delle arti visive con il concetto di “polisensoriale”. Le applicazioni pratiche del food-design sono molte: interior, product e

industrial design, tecniche sempre più aggiornate di mise en place, creazione di ambienti, fino a influenzare o condizionare il contenuto dei piatti stessi. Si comprende come la finalità del food-design sia funzionale-emozionale e trovi la sua matrice e origine storico estetica nei movimenti del Bauhaus, del futurismo e dell’Espressionismo, ma anche tangenze e notevoli punti di raccordo con la Nouvelle cuisine e la gastronomia molecolare. Può capitare così che laboratori, studi e cucine operino in una sorta di simbiosi progettuale attraverso la cromatologia, la modellazione 3D, la chimica, le ricette tradizionali o contemporanee. Una simbiosi non solo ideale, ma soprattutto operativa, che ha scelto come base sulla quale costruire e applicare le proprie metodologie la cosiddetta “cultura di progetto” per la quale il food-design lavora in tre direzioni: per il cibo, con il cibo e per la progettazione di portata. Al food-design sono dedicati “eventi” e locali show-room, si realizzano (solo per menzionare alcuni tra i numerosissimi esempi possibili), articoli per packaging, catering, soluzioni per banqueting, ristorazione e degustazione di finger-food, ovvero i tradizionali stuzzichini, ma in chiave estremamente rivisitata. Ecco che i piatti-foglia in morbido silicone tramandano in chiave moderna e contemporanea la tradizione della cultura giapponese, mentre gli “aperitivi luminosi”, ovvero porzioni di molluschi, formaggi o frutta in gelatine, comportandosi come piccole fibre ottiche diffondono invitanti bagliori. Può capitare che siano gli stessi chef a diventare dei food-designer appropriandosi di ulteriori linguaggi tecnico-artistici e creando oggetti d’arte materiati di sfumature e capaci di rivelare la filosofia che sottende alla preparazione dei piatti, ma non di meno un’interpretazione tutta personale ed originale degli ambienti; così nel progetto “Alajmo design” elementi e materiali quali il vetro, il legno, il ferro, la modulazione della luce, il diffondersi del profumo sono concepiti come ingredienti e concorrono alla ideazione e realizzazione di calici, posate, elementi d’arredo e profumi d’ambiente, in grado di offrire agli ospiti della tavola un’esperienza poli–sensoriale in cui la convivialità è condivisione di suggestioni, parole ed emozioni, dialogo ininterrotto tra anima immateriale e materiale, ma anche spazio privilegiato per la memoria.

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Anche chi si occupa, all’interno del mondo gourmand, della tanto discussa cucina molecolare non può non fare a meno di riflettere sul quid estetico della gastronomia. La cucina molecolare, com’è noto, nasce in Francia, presso il Collège de France di Parigi, alla fine degli anni Ottanta ad opera del fisico e gastronomo Hervè This e di Pierre Gilles de Gennes (premio Nobel per la Fisica nel 1991). È una disciplina scientifica che studia e spiega i meccanismi che stanno alla base dei processi di trasformazione degli alimenti durante la loro preparazione. Rappresenta una nuova frontiera dell’alimentazione che si propone di investigare e studiare i detti e i proverbi popolari, sviluppare le ricette classiche e inventarne di nuove, introdurre infine nuovi ingredienti, metodi e utensili in cucina. Hervè This in un’intervista per il Gambero Rosso spiega che la sua è una cucina fatta di note a note, ovvero tocco su tocco, potremmo dire pennellata su pennellata; si tratta fondamentalmente di arte, e l’arte culinaria non va considerata come differente dalle altre forme artistiche, le si possono applicare le stesse teorie estetiche e il medesimo tipo di critica. È la “dimensione” dell’arte in cucina a fare la differenza, rispetto ad esempio ad una pratica culinaria di concetto e impostazione artigianale. C’è un’idea di sublimazione dell’ingrediente e una filosofia tutta specifica alla base della gastronomia molecolare: innanzi tutto lo scienziato-chef gioca con le “consistenze” degli alimenti, con la loro texture e la loro destrutturazione. Ma soprattutto si evince una fortissima e prioritaria idea progettuale; è su di una progettazione ben codificata che nasce il piatto moleco-

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lare. L’atteggiamento “futurista” degli chef molecolari è inequivocabile, la cucina deve avere un approccio quasi ludico con la materia, deve dominarla e superare di slancio le ricette “passatiste”. Hervè This, Pierre Gilles De Genne, Ferran Adria, o gli italiani Davide Cassi ed Ettore Bocchia fanno della cucina una chimica estetica, un’arte che viene definita “multisensoriale”: la cui finalità è anche di confutare o chiarire, dopo averle analizzate, le credenze popolari e di affidare poco alla sapienza misteriosa che ci è stata lasciata in eredità dai nostri avi; una cucina che sembra anche sbarazzarsi del cosiddetto “segreto dello chef”; tutto è scientificamente concatenazione di fenomeni, perciò di relazioni causa-effetto. Compaiono in tavola i “dolci frattali”, dolci con una struttura che si ripete su scala diversa, gli “gnocchi molecolari”, il “rombo assoluto”, filetto di rombo fritto in una miscela di zuccheri fusi, la “salsa tartara di lecitina di soia”, il “gelato estemporaneo all’azoto liquido”. Tutt’oggi il dibattito attorno a questa concezione di mettersi ai fornelli con il modus operandi di chimici e fisici è estremamente acceso e controverso i detrattori di tale disciplina scientifico-culinaria richiamano l’attenzione in particolare nei confronti dell’utilizzo di additivi chimici e della possibilità di adulterazione e contraffazione delle sostanze alimentari, tendenti perciò ad alterare il gusto e la genuinità dei cibi; ma gli chef molecolari si difendono a spada tratta in nome di Lavoisier, in nome di un inesausto desiderio di scoperta e apertura al futuro, e in nome di un ideale per cui “il bello è il buono”. Filippo Tommaso Marinetti sosteneva: “mangia con arte, per agire con arte”.


Dialogo sulla qualitá del cibo Guido Barilla – Carlo Petrini

Riprendiamo da La Stampa di domenica 28 novembre 2010 pp. 16-17 un interessante dialogo sul rapporto industria e stili alimentari, fra Guido Barilla, noto imprenditore dell’industria alimentare e Carlo Petrini, fondatore, fra le altre cose dell’Associazione Slow food. Barilla. La nostra idea è portare alla gente alimenti tradizionali, con ricette tradizionali, nel modo più semplice e diretto possibile. Penso che l’industria alimentare abbia fatto negli ultimi 50 anni passi enormi in questa direzione. La gente ha avuto a disposizione alimenti comunque salubri con ricette sempre migliorabili e migliorate nell’arco del tempo, a prezzi accettabili. Petrini. Io penso che siano due cose diverse che hanno diritto tutte e due di stare non solo sul mercato ma anche nella vita quotidiana della gente. Non c’è dubbio che l’industria ha dato un grande contributo a far uscire il Paese dalla carenza alimentare del dopoguerra. Ma la vera questione è un’altra. Strada facendo questo processo ha mortificato le piccole produzioni. Con un disastro per quel che riguarda l’agricoltura mai così grave come oggi. Oggi infatti le piccole produzioni di qualità vanno scemando. Slow Food e il sistema Madre Terra lavorano per la difesa di questi piccoli produttori. Il che non vuol dire delegittimare gli altri perché in una società complessa hanno tutti diritto di esistere. Guai però se il vaso di coccio viene stritolato. E la piccola produzione in questo momento è il vaso di coccio. Barilla. Condivido i principi teorici di Petrini, non la colpevolizzazione in termini pratici di una parte del settore agroalimentare. L’industria ha fatto un mestiere a cui il mercato la chiamava. Questo imperatore che chiamiamo mercato vive sulla domanda e questa è mediata dalla distribuzione che svolge un ruolo importante per la capacità di raggiungere i consumatori ma che sovente, attraverso le promozioni, li alletta con il miraggio di prezzi sempre più bassi. E quello del prezzo è un argomento fondamentale su cui discutere. L’industria non ha distrutto

il piccolo commercio. Ha fatto un percorso a volte di successo, altre no. In questi anni molte aziende ci hanno lasciato le penne. La buona industria si è affermata con politiche di straordinaria attenzione alla qualità. Che molti piccoli produttori siano scomparsi non dico che sia nella logica dei fatti, ma forse ha una spiegazione nella mancanza di propositività e di competitività. Rifiuto completamente l’individuazione del fantomatico colpevole nella grande industria e nei suoi marchi. Petrini. Mi sembra una scusa non richiesta. Non ho detto che la colpa è della grande industria. Barilla. Ma lo sottintendi spesso. Hai detto in passato cose abbastanza gravi sulla grande industria. Hai sostenuto che cela informazioni sulle filiere dei prodotti per far sì che siano competitive. È un’accusa pesante. Petrini. Ma questo è successo. Barilla. Non da parte di tutti. Dicendo genericamente grande industria colpevolizzi tutto il settore. Petrini. Allora dirò che la colpa è di Bajon, come cantava mia nonna. O che se dobbiamo individuare un colpevole va cercato su vari fronti compresi i consumatori, cioè noi tutti. Stiamo vivendo una crisi le cui proporzioni sono sottovalutate. Una crisi cui si danno risposte vecchie come l’incitamento a consumare, quasi fosse l’unica strada per risollevare l’economia. Alla crisi bisogna rispondere invece con alleanze che impegnino tutti in un processo virtuoso. In primo luogo la difesa dell’ambiente, poi quella della biodiversità e qui c’è anche la diversità culturale dei piccoli. Poi la giustizia sociale perché un Paese come il nostro che mostra sulle televisioni di tutto il mondo come tratta i neri che raccolgono i pomodori non fa una bella figura. Non possiamo però dimenticare che le

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politiche di Bruxelles non sono determinate dai piccoli produttori ma dalle multinazionali. Poi c’è da dire che la distribuzione è quella che mangia la torta più grande a scapito sia dei piccoli produttori che delle industrie. La via nuova che tutti dobbiamo seguire è tornare a dare valore al cibo che abbiamo ridotto a merce. Barilla. Su questo ultimo punto sono d’accordo. È necessario tornare a dare valore al cibo. Fare capire sia alla gente che alla distribuzione che la corsa al prezzo sempre più basso è un meccanismo non virtuoso ma folle. Perché genera un abbassamento della qualità. Inoltre abbiamo avuto la fortuna di un lungo periodo di prezzi stabili delle materie prime e la crisi porterà in futuro uno strutturale aumento di questi prezzi. Bisogna ricominciare a dare alla gente più informazioni su cosa è un cibo di qualità e cosa comporta produrlo. Che cosa sono le filiere, come nascono i vari alimenti e quali sono i costi della qualità. Petrini. Sono convinto anch’io che il ruolo dell’informazione sarà sempre più importante e anche la pubblicità da immaginifica dovrà diventare informativa. Non è possibile che alleviamo i nostri figli senza che sappiano cosa significa la fermentazione del pane, come si fa la pasta o come si coltivano i pomodori. Si sta diffondendo una forma gravissima di ignoranza che la società contadina non aveva. In Italia e in America buttiamo tonnellate di alimenti ogni giorno. Nei nostri frigoriferi ci sono cibi che chiedono pietà, li compriamo e poi non li mangiamo. E questo è anche frutto di prezzi troppo bassi. Ho detto che vendere Barolo a due euro è una follia. Ne sono profondamente convinto, significa distruggere i produttori seri. Barilla. Aggiungerei che ci si scandalizza per il prezzo di quel che mangiamo ma si dimenticano i milioni di euro buttati ogni giorno nel gioco d’azzardo o in altri consumi superflui. Petrini. Non sono per l’esasperazione del Made in Italy. Credo che significhi saper portare il nostro savoir faire, anche utilizzando materie prime di altri Paesi. Credo che su questo terreno l’industria potrebbe fiancheggiare i piccoli produttori. C’è da sottolineare poi che la nostra tradizione non è genericamente italiana ma si rifà ai vari territori.

Barilla. Il nostro simbolo è quasi un marchio di italianità. Il Made in Italy per noi però non è legato alla materia prima, ma piuttosto alla competenza e alle macchine che trasformano i prodotti. Pensare che tutta la materia prima di quel che facciamo nel mondo sia italiana è una stupidaggine. I prodotti che distribuiamo in America escono dai due stabilimenti che abbiamo lì. Sono identici a quelli che escono dagli stabilimenti italiani perché gli standard qualitativi nella produzione della pasta sono identici. In più in America vanno i nostri tecnici e portano competenze accumulate in 100 anni di esperienza nel fare la pasta in Italia. Direi che il Made in Italy sta più nell’esportare un concetto, un modello ed è questo che ci viene riconosciuto. Petrini. Anche se non coltiviamo il caffè, non possiamo dire che il nostro caffè non sia Made in Italy. Ma vado in collera quando vedo che i pastori sardi sono sempre più poveri perché per fare il pecorino pecorino romano o sardo si usa il latte di pecora che viene dalla Romania e costa meno di quello locale. In questo caso non si tratta di pecorino Made in Italy ma di un falso che depaupera i nostri piccoli produttori. Barilla. I nostri prodotti non contengono organismi geneticamente modificati. Sotto questo nome esiste un’enorme varietà di mutazioni genetiche, dalle più aggressive alle più dolci. La tecnica della ibridazione è nata con gli Egizi. Dobbiamo chiederci quali passi possa fare la scienza per permetterci di fronteggiare l’incremento della popolazione. Non c’è da essere contrari all’innovazione e alle possibili scoperte purché garantiscano la salubrità e non siano un pericolo. Petrini. Gli esiti dell’incrocio fra regno animale e vegetale né la storia né la pratica né l’osservazione a medio termine possiamo garantirli. Pensa al fenomeno di mucca pazza esploso a 25 anni di distanza dall’inizio dell’alimentazione dei bovini con farine animali. Non demonizzo l’ibridazione: nel secolo scorso ha salvato i nostri vigneti dalla peronospora. Grave è che siano tre multinazionali a detenere i brevetti degli Ogm. Confondere gli Ogm con le biotecnologie è un errore. La scienza deve dialogare con i saperi tradizionali senza pensare che la verità stia solo da una parte.

Slow Food è un’associazione internazionale senza scopo di lucro nata nel 1986 a Bra in provincia di Cuneo e si pone come obiettivo la promozione del diritto a vivere il pasto, e tutto il mondo dell’enogastronomia, innanzitutto come un piacere. Fondata da Carlo Petrini e pensata come risposta al dilagare del fast food e alla frenesia della vita moderna, Slow Food studia, difende e divulga le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni parte del mondo. Attraverso progetti, pubblicazioni, eventi e manifestazioni si è impegnata per la difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva, le manipolazioni genetiche.

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Academia Barilla nasce a Parma nel 2004 con l’obiettivo di essere centro internazionale di riferimento dedicato alla diffusione della cultura gastronomica italiana, in grado di offrire formazione, servizi e prodotti rigorosamente selezionati, scelti dal patrimonio gastronomico regionale e nazionale. Academia Barilla mira all’obiettivo di difendere e tutelare i prodotti alimentari italiani dalle contraffazioni e dagli usi impropri di denominazioni e marchi, promuovendo e diffondendo la conoscenza dei prodotti e della cucina italiana nel mondo, cercando di sviluppare e sostenere la gastronomia italiana. La biblioteca gastronomica è ricca di oltre 7.500 volumi relativi a tutti i settori e temi dell’alimentazione, è organizzata in oltre 825 differenti sezioni tematiche, tra cui: vino, pasta, verdure, dolci, pane, cacciagione, frutta, pesce e formaggi sono le più fornite. Esistono anche sezioni riferite ad aree specifiche dell’editoria alimentare, come la storia e la cultura del cibo, i ricettari dei grandi chef, gli interessi culinari di uomini famosi, i problemi dietetici e igienico-sanitari, le materie prime alimentari e il loro corretto utilizzo. Vi sono rappresentate le cucine regionali italiane e le principali cucine nazionali del mondo. Una sezione comprende volumi storici dell’Ottocento. Si possono consultare una quarantina di riviste specializzate in aggiunta a una rassegna significativa di pubblicazioni aziendali. I testi sono individuabili al sito: http://opac.unipr.it. Notevoli le stampe della collezione Barilla con alcuni pezzi di grande suggestione artistica e immaginativa. Academia Barilla è dotata di una straordinaria serie di attrezzature state of art per la pratica culinaria che consentono di saggiare in prima persona la cultura gastronomica italiana sul campo, guidati da chef d’eccezione. Siamo in presenza di un vero centro culturale del territorio con respiro internazionale, basti pensare alla rilevanza dell’azienda sul mercato del grano con un giro d’affari primario a livello internazionale in grado di alimentare il più grande pastificio del mondo che si trova a Parma. Per informazioni: www.academiabarilla.it

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Le ricette diventano best sellers

Le statistiche ci dicono che a come sono cambiate le strategie negli ultimi anni è aumentato il di comunicazione di grandi e numero di italiani che sceglie piccoli, vecchi e nuovi editori per un libro come regalo da mettere promuovere scrittori e libri. sotto l’albero. È noto che nel Va detto anche che questi periodo natalizio le vendite testi campioni di incassi non salgono ma se a dicembre dello hanno, non solo almeno, una di Paola Bertoldi scorso anno si consultavano i funzione didattica: lo scopo non siti con le classifiche dei libri più è insegnare come preparare un venduti, tutti segnalavano una piatto ma intrattenere, raccontare novità: il successo dei libri di una storia, divertire. Ultimamente cucina, i protagonisti delle top la tendenza dei libri di cucina è ten natalizie. Questo dimostra che le pubblicazioni uscire dal tono del semplice ricettario e condire dosi di carattere culinario non sono più semplici libri e preparazioni con aneddoti e riflessioni personali dove scovare qualche ricetta, ma sono usciti da un dell’autore. Forse è per questo che vanno a ruba in settore di nicchia e, specialmente in certi periodi, librerie e auto-grill, o forse è perché per muoversi riescono a colonizzare il mercato. Nella settimana nella densa vita di tutti i giorni servono anche in del 20 dicembre 2010, al primo posto della classifica cucina dei trucchi salva tempo. dei libri più venduti c’era Benvenuti nella mia cucina Ma una cosa è certa: l’interesse per i libri a sfondo di Benedetta Parodi, al terzo Cotto e mangiato della culinario non è in diminuzione ma è anzi un stessa autrice, mentre al quinto si trovava Antonella genere che sta esplorando nuove possibilità e Clerici con Le ricette di casa Clerici. contaminazioni. Solo per fare due esempi, all’inizio È curioso che pubblicazioni di questo tipo diventino dell’anno fra le novità editoriali in uscita c’era Volevo best sellers e tengano testa a “pezzi da novanta” come essere un grande chef di Loredana Limone, un’opera Umberto Eco e Ken Follet. E infatti i commenti lasciati a metà fra il romanzo e il libro di ricette visto che da chi naviga in rete non sono spesso molto benevoli. ad ogni capitolo corrisponde una ricetta alla quale Questi libri vengono accusati di essere raccolte di è connesso un piccolo frammento di storia, un “ricette nazionalpopolari fatte per vendere ma che non racconto, una parte del romanzo generale. Tra le si possono certo definire capolavori letterari” e che novità di fine gennaio c’era anche il nuovo libro del propongono una “rassicurante quanto stereotipata cuoco e scrittore americano Anthony Bourdain, che versione della donna in cucina, grembiule-munita”. con Al sangue mette in luce come negli anni molte Quindi, come si spiega questo inaspettato successo? cose nell’ambito della gastronomia siano cambiate. Secondo i dati della classifica generale, è evidente Lo fa analizzando le cucine dei ristoranti e svelando ai l’influenza della televisione e dei suoi personaggi sulle lettori cosa nasconde la porta dalla quale i camerieri scelte del grande pubblico. Secondo l’Istat, infatti, sfilano mentre portano le “prelibatezze” ai tavoli. 25 milioni e 300 mila in Italia sono i lettori abituali, anche se non con cifre molto alte: in media queste persone leggono almeno un libro l’anno, ovvero il 45,1% della popolazione. La fascia d’età col più alto numero di lettori è quella scolare, fra gli 11 e i 17 anni, mentre crescendo la tendenza alla lettura diminuisce sempre di più. Senza dubbio, però, le donne risultano essere lettrici più accanite, a dispetto di età e zona di residenza, rispetto agli uomini, mentre le percentuali di lettori si concentrano maggiormente nelle regioni del Nord Italia. E se alcuni fattori socio-economici restano indicativi per capire chi e cosa compra, le scelte di lettura degli italiani sono oggi più che mai cambiate in rapporto alle nuove tecnologie: si pensi anche

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I custodi degli antichi sapori

Michele all’Adige l’anno prima Dalla confraternita del cacio aveva visitato in Francia le coltivapecorino a quella del prezzezioni viticole del bordolese ed era molo, dall’ordine dei cavalieri entrato in contatto con le assodella grappa all’arcisodalizio per le confraternite ciazione bacchiche. La Provincia la ricerca del culatello supremo: enogastronomiche stava intanto sensibilizzando i sono centinaia in tutta Italia le contadini per la sostituzione dei associazioni create con specifidi Paola Bertoldi vecchi ceppi vitati: c’era in quel che finalità enogastronomiche. periodo molta confusione nei Spesso hanno nomi curiosi o vigneti, venivano allevate piante comici che ricordano la goliardi vario genere e molte di queste dia ma il loro obiettivo è nobile e erano poco adatte a produrre vini ambizioso: difendere i prodotti di qualità. Nello stesso tempo si pensava alla valoe le ricette dei nostri antenati, che caratterizzano la rizzazione dei vini, così come alla loro promozione, gastronomia di un paese o di una regione, con l’ated ecco che su questo tema, oltre al rafforzamento tenzione di evitare la tanto odiata globalizzazione. dell’allora Comitato vitivinicolo, si è pensato alla È per questo che esiste addirittura un organismo fondazione della Confraternita della vite e del vino. europeo che le rappresenta, il Ceuco, il Consiglio Da allora sono trascorsi cinquant’anni, nel corso dei Europeo delle Confraternite vinicole, gastronomiquali la Confraternita, tra alti e bassi, è sempre proche e dei prodotti agro alimentari. sperata promuovendo incontri, dibattiti, assemblee Iniziative di questo tipo non mancano in Trentino, e naturalmente cercando di migliorare e di diffonterra che vanta numerosi prodotti tipici. La più nota è forse la Confraternita della vite e del vino, la più dere, sia tra i propri aderenti che nel pubblico, la conoscenza e la cultura del prodotto “vino”. antica associazione bacchica d’Italia, fondata il 22 Fondata in anni più recenti a Sporminore, è la Conaprile del 1958. Era da poco terminata la ricostrufraternita della torta e del tortel de patate, nata nel zione postbellica ed il paese si stava muovendo 1998 su iniziativa di un gruppo di amici che ha come velocemente per guadagnare posizioni e naturalmotto quello di far conoscere e divulgare la torta e mente nuove opportunità di lavoro e di sviluppo. il tortel de patate. Dai 15 componenti iniziali la ConUn gruppo di ex allievi dell’Istituto agrario di San

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fraternita conta oggi ben 290 confratelli che abitano in 3 continenti diversi. A questo proposito è curioso il rituale per l’elezione di nuovi confratelli, che è riservata al Capitolo e avviene nel corso di una cerimonia di intronizzazione. Ogni candidato deve essere presentato da almeno due confratelli che allegano alla proposta un breve curriculum attestante la personalità del candidato ed i suoi meriti. Il candidato, dopo aver promesso di promuovere e diffondere la ricetta tradizionale, viene proclamato confratello. Il Gran Maestro recita la formula di rito ponendo la

grattugia (che si usa per la preparazione del tortel) sulla spalla destra. Queste non sono le uniche due confraternite presenti in Trentino, ma ne esistono altre dedite alla memoria e promozione delle specialità tradizionali. Per fare due esempi si possono citare la Confraternita dello Smacafam, depositaria della ricetta originale di questo piatto rustico e vigoroso che non può mancare a carnevale, e il Cenacolo roveretano, che si occupa del recupero storico di ricette, della formazione di cuochi e che ha l’obiettivo di promuovere le tradizioni enogastronomiche trentine.

ALTRE CONFRATERNITE IN ITALIA Ordine obertengo dei cavalieri del raviolo e del gavi (AL) Confraternita del cacio pecorino piceno (AP) Ordine dei cavalieri della polenta (BG) Emerita confraternita della patata di Bologna (BO) Confraternita della nocciola “tonda gentile di langa” (CN) Venerabile confraternita del cappellaccio di zucca alla ferrarese (FE) Ordine dei cavalieri della confraternita del pesto (GE) Ordine dei cavalieri del “grappolo d’oro” (IM) Confraternita del pampascione salentino (LE) Confraternita della chiocciola... detta anche lumaca (MN) Confraternita del capunsel (MN) Nobile accademia del prezzemolo (MI) Confraternita del gorgonzola di Cameri (NO) Confraternita del nepente (NU) Eccellente arcisodalizio per la ricerca del culatello

supremo (PR) Confraternita del cotechino caldo (PV) Confraternita del cotechino magro (PV) Venerabile confraternita del baccala’ alla vicentina (VI) Confraternita della tagliatella (RA) Circolo “gusto sapiens” (RE) Confraternita del bavarolo (RO) Confraternita del moscato di Gallura (SS) Confraternita del capocollo (TA) Sovrano ordine dei cavalieri della grappa e del tomino (TO) Congrega dei radici e fasioi (TV) Confraternita del pancucco (VA) Club dei 12 apostoli dell’enogastronomia (VE) Confraternita del vino e della panissa (VC) Confraternita del radicchio rosso veneto (VR)

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Gli italiani e il cibo: appetiti, digiuni e rinunce dalla realtà contadina alla società del benessere, di Paolo Sorcinelli (Clueb, 1995) Attraverso un secolo di storia italiana, questo libro insegue le tracce dei digiuni e degli appetiti insoddisfatti, dei guasti patologici, delle culture e dei riti legati al cibo. Dalla “frugalità” e dalla “sobrietà” delle polente, fino all’esubero calorico e proteico degli ultimi decenni, quando, in concomitanza con il “miracolo economico”, si è potuto mangiare di più e meglio e l’abbuffata, che generazioni di italiani avevano sognato e accarezzato, poteva dirsi a portata di mano. Eppure i nuovi ritmi di vita e di lavoro hanno fatto sì che si continuasse a mangiare in maniera precaria, nelle mense, nei fast food e nelle tavole calde, o addirittura a saltare i pasti. Anche se non si trattava più di una questione di mancanza ma di abbondanza, si riproponevano le regole della rinuncia e dei condizionamenti, tanto che l’appagamento del mangiare con gusto e piacere forse non è durato neppure il tempo di una generazione. Al desiderio del cibo che non si aveva, è subentrata infatti l’ansia di averne troppo e di non poter soddisfare gli appetiti in nome della “leggerezza” culinaria e della sbrigatività gastronomica, degli effetti dietetici e delle conseguenze sanitarie.

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Fondazione Museo storico del Trentino, in collaborazione con il Museo degli usi e costumi della gente trentina, con il MART, con il Castello del Buonconsiglio e con il Museo tridentino di scienze naturali, ha organizzato l’iniziativa dal titolo “A tu per tu con il Museo. Giornate aperte 2010”. I due pomeriggi di incontro e conoscenza con insegnanti ed educatori impegnati nel sociale si sono svolti presso le Gallerie di Piedicastello, dove è stato possibile prendere visione in modo unitario delle attività didattiche e laboratoriali proposte per l’anno scolastico 2010-2011.

INFO M USE O

SETTEMBRE 2010 Storia dell’alfabetizzazione Trentino

in

Domenica 5 settembre si è tenuto l’ultimo degli appuntamenti per il 2010 organizzati alla Frabica delle scritture di montagna in Val Canali al Prà del Cimerlo. L’incontro, dal titolo “Quando il popolo incominciò a leggere…Note sull’alfabetizzazione in Trentino” è stato condotto da Quinto Antonelli, che ha tracciato un profilo storico della scuola trentina e dato conto di una ricerca in corso che cerca di stabilire il grado di alfabetizzazione in Trentino nei primi decenni dell’Ottocento. Festa di via Veneto All’interno della tradizionale “Grande festa di via Veneto” che sabato 11 settembre ha animato la via cittadina con mercatino del riuso, laboratori per bambini e ragazzi, giochi di una volta e prove sportive, la Fondazione Museo storico del Trentino ha proposto una piccola mostra foto-documentaria sulla costruzione e la vita nei «Casoni», curata da Elena Tonezzer. A tu per tu con il Museo Il 22 e il 23 settembre il Laboratorio di formazione storica della

Parole nel tempo. Piccoli editori in mostra a Belgioioso Per la prima volta, anche le pubblicazioni del Museo storico sono state presenti alla mostra mercato “Parole nel tempo. Piccoli editori in mostra”, il consueto appuntamento di fine settembre con l’editoria di qualità, giunta al ventesimo anniversario. Nelle belle sale del Castello di Belgioioso (Pavia) il 25 e il 26 settembre è stato possibile trovare quei nomi che ormai da alcuni anni si sono affermati nel panorama editoriale, ma anche i marchi emergenti da poco affacciatisi sul mercato.

OTTOBRE 2010

La “Strada di De Gasperi” al Religion Today Filmfestival

Il 9 ottobre, presso il teatro San Marco di Trento, nell’ambito della XIII edizione del Religion Today Filmfestival (8-21 ottobre 2010), è stato proiettato il documentario “La strada di De Gasperi”, prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino per la regia di Elena Negriolli. Assieme alla regista hanno partecipato alla serata la figlia dello statista Maria Romana De Gasperi, Maurizio Gentilini della Direzione generale del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino. Il documentario, attraverso una serie di testimonianze, racconta la parabola umana di Alcide De Gasperi in modo non cronologico ma geografico, seguendo l’evento straordinario che fu il viaggio della sua salma da Sella Valsugana a Roma. La vita in uno scatto

Il Coro Bianche Zime alle Gallerie di Piedicastello Il 9 ottobre il coro Bianche Zime di Rovereto, diretto dal Maestro Mattia Culmone, ha tenuto un concerto sui canti di trincea presso le Gallerie di Piedicastello. L’iniziativa ha preso il titolo dalla mostra “Parole e musica dei soldati” allestita a Trento nel dicembre 2009.

Il 12 ottobre, presso la residenza sanitaria assistenziale Margherita Grazioli di Povo, è stata inaugurata la mostra “La vita in uno scatto. Immagini, racconti, oggetti di un tempo”. L’esposizione, rimasta aperta fino al 5 novembre 2010, è stata realizzata in collaborazione con il Comune di Trento e la Fondazione Museo storico del Trentino.

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Ora Veglia La Compagnia aria Teatro e la Compagnia teatroBlu hanno messo in scena il 12 ottobre, al Teatro Cuminetti di Trento, lo spettacolo “Ora Veglia. Il silenzio e la neve” (drammaturgia di Susanna Gabos e regia di Nicola Benussi). Lo spettacolo, incentrato sulla Resistenza in Trentino e in Veneto, è stato realizzato con il sostegno della Provincia Autonoma di Trento, Ufficio per le pari opportunità e la collaborazione dei Comuni di Pergine Valsugana, Trento, Borgo Valsugana e Bolzano, dell’Anpi, dell’associazione Terre del fuoco e della Fondazione Museo storico del Trentino.

Mostra fotografica sulla Sloi

storico-Piedicastello ed è rimasta aperta al pubblico fino al 30 novembre 2010.

Attività per gli studenti universitari Il 20 ottobre, nell’ambito della manifestazione “Associati! Opera fuori dall’aula”, dedicata alla presentazione delle associazioni studentesche, la Fondazione Museo storico del Trentino è stata presente dalle 19.30 alle 23.30 presso il bar dello Studentato di San Bartolameo a Trento per far conoscere agli studenti universitari le proprie attività didattiche e culturali.

In ricordo di Fabio Giacomoni

della Cooperazione, Luigi Blanco dell’Università di Trento e Alberto Ianes, responsabile del Centro sulla storia dell’economia cooperativa della Fondazione Museo storico del Trentino.

Conferenza su Leopoldo Pergher A cinquant’anni dalla scomparsa del dott. Leopoldo Pergher, illustre medico chirurgo, la sezione cultura del Circolo Comunitario di Montevaccino, il Punto di Prestito di Montevaccino, la Fondazione Museo storico del Trentino e la Circoscrizione Argentario hanno ricordato la sua figura proponendo per il 22 ottobre la serata dal titolo “Un medico e il suo tempo: Leopoldo Pergher e le nuove sfide del Novecento”. L’incontro, presso il Centro sociale di Montevaccino, è stato introdotto da Gianko Nardelli del Centro di documentazione storica “Ceresa Costa”; in seguito ha presentato la sua relazione Rodolfo Taiani della Fondazione Museo storico del Trentino. Iniziative per i quarant’anni della Whirlpool

La mostra fotografica di Franco Visintainer “A 620 metri da casa mia. Sloi, trent’anni dopo” è stata inaugurata il 15 ottobre 2010 nelle Gallerie di Piedicastello. L’esposizione, che ripercorre l’interno della fabbrica abbandonata ex SLOI, oggi luogo spettrale e rifugio di disperati, è stata realizzata grazie alla collaborazione dell’Arci del Trentino, della Fondazione Museo storico del Trentino e della Circoscrizione Centro

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A un anno dalla sua scomparsa, la Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino il 20 ottobre ha ospitato l’incontro dedicato al ricordo di Fabio Giacomoni. La figura di Giacomoni, docente di Storia economica presso l’Università di Trento ed editorialista del Corriere del Trentino, è stata tratteggiata da Giuseppe Ferrandi, direttore generale della Fondazione Museo storico del Trentino, Franco Panizza, assessore provinciale alla cultura, rapporti europei e cooperazione, Diego Schelfi, presidente della Federazione Trentina

La fabbrica Whirlpool fa parte della storia del Trentino dal 1970; per festeggiare questi quarant’anni di storia, di persone, di lavoro, di passione, la direzione dello stabilimento, in collaborazione con il Comune di Trento – Politiche Giovanili, la Fondazione Museo storico del Trentino e la Fondazione Galleria Civica di Trento, ha organizzato una serie di eventi. Sabato 23 e domenica 24 ottobre, presso lo stabilimento Whirlpool, gli attori Andrea Castelli e Andrea Brunello, volti noti della scena teatrale trentina, hanno proposto lo spettacolo “Whirlpool, la fabbrica delle emozioni”. Il martedì successivo, alle Gallerie di Piedicastello, è stata invece inaugurata la mostra “Whirlpool Art”: 7 giovani artisti trentini emer-


genti sono stati chiamati a reinterpretare 7 frigoriferi Whirlpool. Le sette opere d’arte – realizzate all’interno dello stabilimento di Spini di Gardolo da David Aaron Angeli, Flavia Decarli, Ilaria Bassoli, Marta Bettega, Federico Lanaro, Jacopo Mazzonelli e Marco Merulla – sono rimaste esposte al pubblico fino al 28 novembre 2010. Storia dell’agricoltura in val di Non Nell’ambito del ciclo di conferenze “Le Radici e il Tempo” i Musei di Ronzone e la Fondazione Museo storico del Trentino il 29 ottobre hanno organizzato la conferenza dal titolo “Paesaggi agrari. Il cambiamento. Cento anni di storia in Val di Non”, con proiezione del docu-film “Paesaggi in movimento. Storia e agricoltura in Val di Non”. Sono intervenuti Alessandro de Bertolini, ricercatore della Fondazione Museo storico del Trentino, e il regista Lorenzo Pevarello. La conferenza e il filmato hanno preso spunto dalla mostra, ospitata presso il Portale della storia e della memoria del Val di Non (Loc. Santa Giustina – Tassullo) fino al 31 ottobre 2010, che ha illustrato il mutamento della valle nel corso di un secolo, da fine 800 quando l’agricoltura serviva quasi esclusivamente per soddisfare i bisogni familiari, a fine 900 con l’esportazione della frutta sui principali mercati internazionali.

Trekking urbano Il 31 ottobre L’APT Trento, Monte Bondone, Valle dei Laghi ha proposto la Giornata nazionale del trekking urbano: un percorso inedito alla riscoperta dell’antico quartiere di Piedicastello, intervallato da degustazioni enogastronomiche, momenti di intrattenimento e approfondimento storico-culturali. Presso le Gallerie di Piedicastello un operatore della Fondazione Museo storico del Trentino ha condotto i partecipanti in una breve visita alla galleria nera.

NOVEMBRE 2010 La fabbrica del freddo La sera del 10 novembre il Cinema Astra di Trento ha ospitato la proiezione del documentario “La fabbrica del freddo”, prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino, per la regia di Micol Cossali e Valentina Miorandi. Erano presenti in sala le registe, Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino e Lucia Maestri, assessore alla cultura, turismo e giovani del Comune di Trento. Le registe Cossali e Miorandi hanno costruito un ritratto di gruppo a partire dai racconti soggettivi degli uomini e delle donne che hanno lavorato e lavorano nello stabilimento Whirlpool, conducendo una campagna di interviste e una ricerca di carattere storico e sociale che investe gli ultimi 40 anni del complesso rapporto tra società e fabbrica in Trentino.

tore del Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni Culturali dell’Università degli Studi di Trento, hanno presentato le loro relazioni Leonardo Gandini (Università di Modena e Reggio Emilia), Constantine Verevis (Monash University, Melbourne), Vera Dika (New Jersey City University), Emiliano Morreale (Università di Teramo), Sara Zanatta (Università di Trento), Paolo Caneppele (Österreichisches Filmmuseum), Gianluca Farinelli (Cineteca di Bologna), Andrea Bellavita (Università di Trento), Adriano Filippucci (Fox Channels Italy), Micol Cossali (regista).

Riflessione sugli anni settanta

L’ombra del passato. Seminario su mass media e memoria Il seminario annuale su mass media e memoria, promosso dalla Fondazione Museo storico del Trentino e giunto alla sua terza edizione, quest’anno si è tenuto il 17 novembre presso la Facoltà di Economia di Trento. All’incontro, dedicato alla nostalgia tra cinema e televisione, dopo i saluti del direttore della Fondazione Museo storico del Trentino Giuseppe Ferrandi e di Andrea Giorgi, diret-

Prendedo spunto dal testo teatrale di Angela Demattè “Avevo un bel pallone rosso” – dedicato alla storia di Margherita Cagol e al conflitto generazionale esploso negli anni settanta – il 29 novembre, presso la Fondazione Museo storico del Trentino, si è tenuto un confronto-dibattito dal titolo “Leggere gli anni settanta”, moderato dallo storico Vincenzo Calì. Vi hanno partecipato Angela Demattè e Andrea Castelli, interpreti dello spettacolo sulla Cagol, Roberto Antolini, autore del romanzo “Ivan il terrorista”, Alberto Conci, curatore del volume “Sedie vuote: gli anni di piombo dalla parte delle vittime”, Tersite Rossi (pseudonimo di Marco Niro e Mattia Maistri), autore del romanzo “È già sera, tutto è finito”.

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DICEMBRE 2010

anche quest’anno ha dato la possibilità alle piccole case editrici di far conoscere le proprie proposte.

Convegno sul paesaggio Nell’ambito del convegno internazionale “Di monti e di acque. Le rughe e i flussi della terra. Paesaggi, cartografie e modi del discorso geostorico“ (Trento – Palazzo Geremia e Biblioteca comunale, 1-4 dicembre 2010) il 1° dicembre Alessandro De Bertolini, ricercatore della Fondazione Museo storico del Trentino, ha parlato di “Fonti e metodi per una storia del paesaggio. La testimonianza orale e la fotografia: il caso della Val di Non”. Il 3 dicembre Vincenzo Calì, vice-presidente dell’Associazione Museo storico in Trento, ha presentato invece la relazione dal titolo “Una porta d’Italia col tedesco per portiere: Battisti, Tolomei, Salvemini e il confine settentrionale”.

Mostra sulle chiese tradizionali rumene nelle Gallerie Il 4 dicembre nelle Gallerie di Piedicastello, alla presenza del Console Onorario di Romania per il Trentino-Alto Adige, è stata inaugurata la mostra fotografica curata da Aurel Chiriac dal titolo “Miracoli di legno. Chiese tradizionali di Romania”. Il racconto fotografico e di video-immagini è rimasto a disposizione del pubblico fino al 13 febbraio 2011.

Conferenza su Andreas Hofer Il 7 dicembre la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento ha ospitato la conferenza del Prof. Laurence Cole (University of East Anglia) su “Il mito di Andreas Hofer”. L’incontro è stato realizzato dal Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni Culturali dell’Università di Trento in collaborazione con la Fondazione Museo storico del Trentino. Incontri in Galleria

Alle 17 si è tenuto l’incontro con la narratrice di Sarajevo Kanita Focak. A seguire è stata inaugurata la mostra, con illustrazioni di Jimi Angelo Trotter e testi di Quinto Antonelli, dal titolo “Quello che, per tutto il corso di sua lunga vita... Scene dalle Memorie di Angelo Michele Negrelli”. Alle 19.30 il Comitato feste S. Apollinare e l’Associazione Romeni del Trentino Alto Adige hanno offerto una cena a base di specialità trentine e romene. La serata si è conclusa con uno spettacolo di musica e danza popolare romena a cura dell’Associazione Romeni del TrentinoAlto Adige, “ARTA-A”.

L’invenzione di via Verdi L’11 dicembre la sala di Palazzo Calepini a Trento ha ospitato l’inaugurazione della mostra “L’invenzione di via Verdi. Una strada di Trento tra Otto e Novecento”, curata da Elena Tonezzer, ricercatrice della Fondazione Museo storico del Trentino. L’esposizione, aperta fino al 27 febbraio 2011, è composta da oggetti originali e da grandi riproduzioni di immagini e mappe. Anche grazie all’uso della moderna tecnologia multimediale, ha permesso al visitatore di ripercorrere i cambiamenti di questa importante via della città di Trento.

I libri della Fondazione alla Fiera “Più libri più liberi” Come di consueto un’ampia selezione delle opere edite dalla Fondazione Museo storico del Trentino sono state presenti a “Più libri più liberi”, la fiera nazionale della piccola e media editoria di Roma, giunta alla nona edizione, che, dal 4 all’8 dicembre presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur,

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Il 10 dicembre le Gallerie di Piedicastello sono state teatro di varie iniziative organizzate dal Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani e dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

L’emigrazione italiana in America La Fondazione Museo storico del Trentino e la Presidenza del Consi-


glio Regione Trentino-Alto Adige hanno inaugurato il 18 dicembre la mostra “Partono i bastimenti” che ripercorre, attraverso fotografie e documenti, la storia dell’emigrazione italiana oltre Atlantico.

EDIZIONI

P RES E NTAZ I O N I 18 settembre 2010, Darzo Nell’ambito della manifestazione “Darzo in sagra”, che dal 17 al 19 settembre ha animato il paese della Valle del Chiese, è stato presentato il libro di Andrea Petrella “L’oro bianco di Darzo. Ritratto di un paese”.

Nuova donazione di volumi da parte di UCT L’Associazione Uomo città e territorio di Trento ha donato alla Fondazione Museo storico del Trentino oltre un migliaio di volumi che documentano i vari settori di indagine e di studio sviluppati in tanti anni di attività. Già in passato la medesima Associazione ha contribuito ad accrescere il patrimonio librario e documentario della Fondazione, versando materiali librari e archivistici, di UCT confluiti nel Centro di documentazione Mauro Rostagno. Rivolgiamo un particolare ringraziamento per la sua sensibilità al direttore Sergio Bernardi.

30 settembre, 2010, Trento ”Nagoyo, la vita di don Angelo Confalonieri fra gli aborigeni d’Australia 1846-1848”, il volume curato da Angelo Pizzini, è stato presentato presso la Sala Depero del palazzo della Provincia di Trento, all’interno della seconda edizione di “Sulle rotte del mondo”, iniziativa della Provincia autonoma di Trento e dell’Arcidiocesi di Trento che, tra il 27 settembre e il 2 ottobre 2010, ha voluto “riportare a casa”, per qualche giorno, i quasi 500 missionari trentini impegnati nei cinque continenti. 22 novembre 2010, Rovereto Il Palazzo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto ha ospitato la presentazione del libro di Andreas Oberhofer “Andreas Hofer (1760-1810). Dalle fonti alla storia”. Assieme all’autore è intervenuto Hans Heiss, archivista e docente di storia moderna e contemporanea all’Università di Innsbruck.

16 dicembre 2010, Trento Presso il cinema Astra è stato presentato il libro di Alberto Ianes “Cuore di comunità. Alle radici della Cassa Rurale di Trento (1896-1950)”, pubblicato in occasione del 10° anniversario della nascita della Cassa Rurale di Trento. Contestualmente si è tenuta la presentazione del dvd di Lorenzo Pevarello “Testimoni di cooperazione. La Cassa della città e la sua gente”, allegato al volume. Assieme agli autori sono intervenuti Giorgio Fracalossi e Michele Sartori, presidente e direttore della Cassa Rurale di Trento, e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino.

16 dicembre 2010, Trento Nella biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione, e Günther Pallaver, professore all’Università di Innsbruck, hanno presentato il volume “Università e nazionalismi. Innsbruck 1904 e l’assalto alla Facoltà di giurisprudenza italiana”, curato dallo stesso Pallaver. L’incontro è stato moderato da Vincenzo Calì.

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EDIZIONI

NOVITÀ Lorenzo Gardumi (a cura di), Feuer! I grandi rastrellamenti antipartigiani dell’estate 1944 tra Veneto e Trentino, pp. 95, € 12,00

Catalogo dell’omonima mostra che, tra agosto e settembre 2010, il Museo storico del Trentino ha allestito presso maso Spilzi a Costa di Folgaria. La mostra ha posto sotto una diversa e più approfondita luce i «rastrellamenti antipartigiani» organizzati dalle forze di occupazione nazifasciste tra l’estate e l’autunno 1944. Le operazioni di repressione attuate dai Comandi militari germanici furono dirette ad annientare le «formazioni partigiane» che, a partire dall’estate 1944, avevano messo in pericolo i collegamenti stradali e le vie di transito lungo la fascia di confine tra il Veneto e

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la Zona d’operazione delle Prealpi (Alpenvorland). In gioco vi era il controllo strategico della linea di comunicazione del Brennero attraverso la quale giungevano truppe e rifornimenti dalla Germania all’esercito tedesco schierato sul fronte italiano. Sono state poste in risalto le diverse formazioni partigiane attive e operanti nell’estate 1944. Contemporaneamente, l’attenzione si è concentrata sui reparti nazifascisti, sui singoli militari, impegnati nell’intero ciclo operativo di rastrellamento e sulla loro esperienza bellica, di fatto compiutasi sul fronte orientale e nell’Italia centro-settentrionale nei mesi precedenti. È in questo quadro che è stato inserito l’episodio di malga Zonta anche attraverso il difficile e complesso rapporto tra civili, tedeschi e partigiani sull’altopiano, nonché il tema della «memoria» legata alle varie commemorazioni dell’eccidio compiutosi il 12 agosto 1944. Completa il catalogo un glossario informativo e di approfondimento.

La memoria e il cinema hanno, non da oggi, un destino comune, nel segno di un reciproco interesse a promuovere la propria immagine pubblica e la propria funzione sociale. Dopo oltre un secolo di percorsi e destini paralleli la memoria e il cinema si trovano oggi a un punto di convergenza che si configura, a tutti gli effetti, come un luogo d’ibridazione. È ancora possibile parlare di un rapporto fra memoria e cinema, alla luce del fatto che qualsiasi relazione prefigura un incontro, più o meno articolato, fra due entità contestuali, ma distinte e differenziate? O invece le dinamiche della compenetrazione e della contaminazione sono tali da imporre una riflessione legata in modo imprescindibile alla dimensione memoriale del cinema e alla dimensione cinematografica della memoria? A queste domande tentano di rispondere i saggi contenuti in questo volume che raccoglie gli atti del convegno svoltosi a Trento nel dicembre 2009.

Leonardo Gandini, Daniela Cecchin, Matteo Gentilini (a cura di), Memorie riflesse: lo schermo tra vero e falso, pp. 117, € 10,00 (Quaderni di Archivio trentino; 26)

Luigi Blanco e Elena Tonezzer (a cura di), L’invenzione di via Verdi. Una strada di Trento tra Otto e Novecento, pp. 129, € 14,00 Catalogo che accompagna la mostra omonima; si avvale di importanti collaborazioni scientifiche ed è punto di sintesi e divulgazione delle ricerche storiche in corso relative allo scorcio di fine XIX secolo dedicate a Trento. La mostra “L’invenzione di via Verdi” ci racconta, attraverso la voce dei protagonisti e la documentazione dell’epoca, la storia di una piccola ma fondamentale parte del centro storico della città. Via Alessandro Vittoria - divenuta poi via Verdi - ha una data di nascita ben precisa: nel 1888 il Municipio decide di abbattere una casa che si trovava di fronte


all’entrata del Duomo e così nasce l’idea della nuova strada. Oggi via Verdi ospita palazzi che si riconducono prevalentemente alla vita universitaria della città, ma nella loro evoluzione hanno rivestito funzioni significative del momento storico in cui sono stati costruiti.

Alberto Ianes, Cuore di comunità. Alle radici della Cassa Rurale di Trento (1896-1950), pp. 255 + dvd, € 25,00 Il libro documenta le origini, i binari di partenza di quattro ceppi cooperativi, le Casse di Povo, Villazzano, Vigo Cortesano e Sopramonte, quattro realtà che rimasero autonome e separate per tutto l’arco temporale qui considerato (dal 1896 al 1950) e per un lungo tratto ancora, prima di avviare un percorso che le avrebbe condotte alla sintesi unitaria, dando vita alla Cassa Rurale di Trento. La storia narrata è anche la storia delle donne e degli uomini che hanno fatto le quattro Casse, di coloro che hanno scandito i passaggi cruciali e vi hanno trovato le forme e i modi, molto personali, ma anche collettivi del riscatto. Il libro è anche (e forse soprattutto) il racconto di una società che cambia, il riflesso di una fine Ottocento e di una prima metà Novecento, segnate da due guerre mondiali, e, nel caso del Trentino, da un cambio di confini. Ne esce un affresco, una sorta di concerto collettivo in cui

le vicende delle realtà del credito cooperativo non emergono da soliste, ma da importanti coriste, inserite, come sono, in una amalgama con il tessuto sociale. Il testo è corredato da un apparato iconografico che completa lo scritto e lo impreziosisce. Beatrice Primerano, Ernesta Bittanti e le leggi razziali del 1938, pp. 200, € 17,00 Il Diario di Ernesta Bittanti è una delle rare «cronache» della quotidiana infamia dell’applicazione delle leggi razziali del 1938, raccontata per di più non dalla voce di chi subiva quell’infamia come oggetto dell’odio razziale, ma dalla voce di chi, contro la sua volontà e coscienza, assisteva alla tragedia con la consapevolezza di veder crollare un intero ordine etico-giuridico, quello dei valori post-risorgimentali del progresso morale e sociale nella libertà e nell’eguaglianza, sotto le garanzie dello Stato di diritto. Il lettore troverà nel volume il senso di una viva e umana partecipazione, che sono il segno tangibile della sensibilità storica verso un documento che resta pur sempre la storia di un’anima (e di un’anima grande, quale fu quella di Ernesta Bittanti). DVD Lorenzo Pevarello (regia e sceneggiatura), Testimoni di cooperazione. La Cassa della città e la sua gente, 60’, € 8,00 In questo documentario rivivono - attraverso una coralità di voci - alcuni momenti fondamentali della storia del novecento del Trentino e della nostra Città. Sono storie del passato, che i Soci della Cassa Rurale raccontano con lo sguardo rivolto al futuro perché, anche grazie a queste testimonianze, le generazioni che verranno sappiano custodire e rivalutare la storia della nostra Comunità.

Lorenzo Pevarello (regia e sceneggiatura), Spinale e Manez. Le antiche regole ritrovate, 50’, € 8,00 (Memorie di comunità; 8) “Nella proprietà collettiva, accanto al primato della cosa, emerge il primato della comunità sull’individuo... Il regime dei beni si compenetra col regime sociale generalmente identificato in una sorta di consorzio soprafamiliare...un intreccio fra lavoro, produzione, sangue e terra...”. Le Carte della Regola (diffuse in Trentino in epoca medioevale) erano la trascrizione di antiche usanze, dapprima trasmesse a viva voce e solo in seguito per mezzo della scrittura, che regolamentavano le attività agricole, silvo-pastorali e i criteri di convivenza in generale. Il documentario, attraverso la testimonianza di alcuni regolieri (Zeffirino Castellani, Miriam Endrizzi, Elisa Fedrizzi, Pio Ferrari, Livio Giovanella, Angelo Cipriano Leonardi, Battista Leonardi, Clemente Lorenzi, Cornelio Lorenzi, Giovanni Paoli, Livio Paoli), ripercorre la storia recente della “Comunità delle Regole di Spinale e Manez”. Una storia fatta di battaglie che questa piccola comunità ha dovuto sostenere nel corso del secolo scorso per far sopravvivere il suo “altro modo di possedere”.

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FONDAZIONE

MUSEO STORICO

DEL TRENTINO

IERI, DUE GALLERIE TRAFFICATE. OGGI, UN LUOGO UNICO PER ATTRAVERSARE LA STORIA.

www.legallerie.tn.it

T. M 0 0 7 A SOLI STAZIONE DALLA RENTO DI T TRENTO

LE GALLERIE

PIEDICASTELLO

Le Gallerie. Scavare nel passato. 48


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