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Sommario
Introduzione................................................................................................................. 9 PARTE PRIMA 1. La responsabilità vera......................................................................................17 2. Le ragioni della colonizzazione.......................................................................33 3. Alcide Degasperi e i suoi trentini..................................................................39 4. Gabriel González Videla e la sua La Serena..............................................53 5. L’immigrazione italiana e trentina in Cile......................................................63 6. L’immigrazione trentina prima del 1951.......................................................73 7. Anni cinquanta: anni sbagliati per un’emigrazione di agricoltori in Cile..........................................................................................79 8. La Colonia Vega Sur: la missione tecnica dell’ICLE in Cile e la fretta del presidente González Videla...................................................83 9. La Colonia «La Vega Sur de La Serena».....................................................93 10. L’arrivo in Cile e i primi problemi................................................................ 105 11. Un’emigrazione assistita che ebbe «quasi» successo.......................... 115 12. Il problema del debito verso l’ICLE........................................................... 127 13. Il fallimento della colonia tedesca di Vega Norte.................................... 141 14. Verso la creazione delle colonie San Manuel e San Ramon............... 145 15. La Compagnia italo-cilena di colonizzazione: una società costosa e paralizzata.............................................................. 149 16. Il primo errore: l’immobilizzo di capitale.................................................... 159 17. Il secondo errore: un confuso piano di colonizzazione......................... 165
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18. Il terzo errore: l’irraggiungibilità dei mercati............................................. 171 19. I pareri negativi di Perazzolli e Andreaus.................................................. 177 20. Arrivano i contadini: abruzzesi e trentini................................................... 183 21. Una colonia fallita in partenza..................................................................... 197 22. Il collasso della Colonia San Manuel de Parral...................................... 209 23. La seconda agonia: cacciato il direttore arrivano quindici famiglie trentine da San Ramon.................................................. 215 24. Scarsa attenzione delle autorità trentine per la sorte dei coloni di San Manuel.............................................................................. 221 25. Via anche il «progettista».............................................................................. 227 26. «Vendete quel territorio, mandate via le famiglie italiane»..................... 235 27. Dopo 18 anni un pugno di coloni italiani diventa proprietario di una parcella.......................................................................... 241 28. Trentini proletarizzati alla periferia di Santiago del Cile........................ 253 29. Terre trentine alla colonia post nazista Dignidad.................................... 261 PARTE SECONDA 1. La corsa forsennata verso la fondazione della Colonia San Ramon... 271 2. Il progetto di colonizzazione........................................................................ 285 3. Speranze e promesse: la selezione delle famiglie.................................. 297 4. Gli addii............................................................................................................ 309 5. Il viaggio pagato e il pasticcio dei bagagli............................................... 313 6. L’arrivo in Cile: un impatto avvilente e deludente................................... 327 7. La terra............................................................................................................. 339 8. I coloni non possono usufruire dei campi già seminati......................... 353 9. Personale tecnico non all’altezza, gravi problemi nei primi raccolti.... 359 10. La «carità» della CITAL................................................................................. 367 11. Il tifo e la morte dei bambini........................................................................ 373 12. I primi abbandoni, poi una emorragia di coloni....................................... 381
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13. La Regione invia a San Ramon don Giorgio Cristofolini...................... 391 14. Il Comitato delle famiglie coloniche, la cooperativa, il caseificio........ 403 15. Carlo Tomazzoli corre a San Ramon: «Misure drastiche per salvare la colonia»................................................................................... 411 16. S’incrinano i rapporti tra ICLE e CORFO............................................... 423 17. ICLE e CORFO corrono al capezzale della CITAL............................... 431 18. Le difficoltà di onorare l’«accordo ad referendum»: una «rete» cattolica per salvare San Ramon............................................ 439 19. L’irrigazione a pioggia, la malattia delle patate........................................ 447 20. San Ramon all’asfissia.................................................................................. 455 21. Le ultime convulsioni..................................................................................... 461 22. L’urlo dei coloni organizzati.......................................................................... 471 23. La soluzione finale......................................................................................... 489 24. Le famiglie rimpatriate................................................................................... 505 25. Un’altra avventura sbagliata: il Brasile...................................................... 513 26. Un nuovo viaggio........................................................................................... 521 27. Poche famiglie alla Colonia Pedrinhas...................................................... 525 28. Mandassaia: fuga di massa dalla fazenda............................................... 535 29. Famiglie verso Santiago del Cile: proletari, artigiani, piccoli proprietari........................................................................................... 545 30. I contadini che rimasero nella Colonia San Ramon............................... 561 31. Nel 1968 la dissoluzione anticipata della CITAL.................................... 571 32. Lo straordinario successo di un pugno di giovani aggregati............... 575 Conclusioni............................................................................................................. 599 Riferimenti bibliografici........................................................................................ 625 Elenco acronimi..................................................................................................... 635 Indice dei nomi...................................................................................................... 636
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INTRODUZIONE
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La vicenda dei flussi migratori verso il Cile del 1951-1953 ha profondamente coinvolto parte della comunità trentina in varie epoche, naturalmente negli anni che vanno dal 1950 al 1956, periodo in cui si svilupparono le speranze ma poi anche i drammi che coinvolsero quelle centinaia di emigrati. Quindi, quando nei decenni settanta e ottanta molti di quegli emigrati, con le loro famiglie, rientrarono nella loro terra e le pubbliche autorità trentine misero in campo norme, strutture amministrative e finanziamenti per cercare di dare loro una mano. Diversità di vedute e anche divisioni si ebbero dentro la comunità trentina sia nel periodo immediatamente successivo all’arrivo in Cile di quegli emigrati, a partire dal 1953 quando le prime voci di cattivo funzionamento di almeno due dei tre stabilimenti coloniali agricoli che li avevano accolti rimbalzarono in patria, sia nel periodo in cui molte di quelle famiglie decisero e portarono a termine il loro rientro in Trentino. Il Cile e «i cileni», insomma, dopo aver fatto parte della cronaca trentina, a distanza di quasi un sessantennio, avevano bisogno di entrare a far parte della storiografia trentina (e italiana visto che a San Manuel accanto a loro presero posto famiglie abruzzesi ma, soprattutto, visto che quei progetti di colonizzazione di terre furono messi in cantiere e poi amministrati da entità che erano state delegate a ciò dal governo italiano). Questo volume soddisfa, in prima battuta almeno, questa esigenza e cerca di farlo attraverso la riproposizione di una mole notevolissima di documenti, moltissimi dei quali per la prima volta sottoposti all’attenzione degli interessati a questa pagina di storia. Il periodo che vi viene focalizzato è quello che va dalla genesi di quei flussi, dal 1949 cioè, alla «stabilizzazione» di ciò che ne era rimasto, sostanzialmente gli anni sessanta. Sullo sfondo rimangono, ma in qualche modo il lettore ne troverà traccia più o meno cospicua, i fatti politici, economici e sociali che interessarono il Cile nel decennio degli anni settanta (il governo delle sinistre, Unidad Popular, l’opposizione, l’inflazione, la svalutazione della moneta, poi il golpe militare che portò di lì a poco al potere il generale Augusto Pinochet Ugarte) e
10 - Introduzione
anche l’attività pubblica e del volontariato trentino che cercherà di affiancare in qualche modo chi in Cile era rimasto e, più ancora, chi decise di rientrare. Questo libro, questa indagine, nasce in fieri molto tempo fa, quando, era l’aprile del 1981, un signore fermò l’automobile in cui viaggiavo assieme a tre compagni trentini e si mise a piangere sul mio braccio, appoggiato al vetro aperto del camper. Lontanamente, ricordo che l’uomo era commosso per aver visto, in lettere cubitali, su quel mezzo di trasporto, un furgone Fiat 242 da noi adattato a camper, le scritte «Italia». Le avevamo apposte in Messico, in quel viaggio attraverso le Americhe, accortici che in terra latino-americana non era «buono» essere ritenuti nordamericani e costava meno (meno astio e prezzi meno alti negli acquisti quotidiani) essere riconosciuti come italiani. Quel signore risultò essere il genero di Maria Longo vedova Zanetel, primierotta che aveva fatto parte dell’avventura emigratoria trentina di San Ramon. Del suo racconto, registrato al tempo in un cassetta audio che non è stata usata in quest’opera ma che nei suoi estremi finì in un resoconto del giornale diocesano Vita Trentina, ricordo oggi perfettamente un particolare: «Per scaldarci e cucinare, mettevamo nella fornella che ci eravamo portati dal Trentino non legna, che non c’era a San Ramon, ma lo sterco secco delle vacche»1. Sono trascorsi ventotto anni e qualche mese da allora. Nel corso di quasi tre decenni ho raccolto materiale, soprattutto documentario, ma anche bibliografico. Il volume è qui, oggi, iniziato nella sua stesura nel 2007 e concluso nel settembre del 2009 (dopo questa introduzione ho fatto altre visite all’archivio provinciale a Melta di Gardolo e a Rovereto mi sono incontrato con l’avvocato Sandro Canestrini che mi ha prestato un plico di documenti). In un trentennio ho messo da parte documentazione e bibliografia fino a disporre di una quantità di fonti, specie di prima mano, che ben pochi volumi di storia hanno potuto vantare. Più di centoquarantatrè sedute di registrazione con testimoni diretti di quell’evento storico. Furono raccolte in Trentino, in Italia (una addirittura, con la signora Maria Perazzolli, sull’Isola di Ischia, a Forio), Cile e Brasile dal settembre del 1991 al dicembre del 1992. Ero allora interno a un progetto che avrebbe voluto la creazione di un Centro di documentazione
1 Grosselli 1981.
Introduzione - 11
e studi sull’emigrazione trentina, dipendente dell’Ufficio emigrazione della Provincia autonoma di Trento (un sogno che durò due anni e tre mesi e svanì). Poi la scoperta dell’Archivio CITAL, una cospicua dote di documenti che sono stati donati alla Parrocchia italiana di Santiago (gli scalabriniani che erano stati vicini ai coloni trentini di San Ramon e San Manuel e poi a ogni immigrato italiano di Santiago che ne avesse avuto bisogno) dopo il fallimento della Compagnia italo-cilena di colonizzazione. Ma non basta: nell’arco di tre decenni una documentazione importante per qualità, quasi sempre in copia, era venuta in mio possesso, per donazioni spontanee di protagonisti di quella avventura o di chi ne era venuto a sua volta in possesso. Alcune fonti bibliografiche sono state a loro volta importanti per l’elaborazione di questa «ricostruzione storica»: tre tesi universitarie, quella italiana di Mariarosa Sartorelli e quelle cilene di Gioconda M. Calligaro Perini e di Claudio Martini, più il breve saggio di taglio giornalistico ma storiograficamente molto ben calibrato di Mauro Lando. A ciò aggiungiamo il volume, una raccolta ragionata di documenti scritti, di Mariaviola Grigolli. Potrei parlare infine della corrispondenza intercorsa, in breve lasso di tempo, tra quel Comitato che rappresentava la maggioranza dei capifamiglia di San Ramon e il parroco di un gruppo di loro, la cui copia ci fu recapitata da don Donato Vanzetta, che era diventato curatore d’anime nella parrocchia che fu di quel sacerdote. Una mole di materiale assolutamente cospicua. Mesi, anni ci sono voluti solo per la trascrizione, la catalogazione. E un’ipotesi interpretativa che è venuta avanti nel tempo, che è mutata, si è calibrata, approfondita. Per sfociare in questo volume. Non di poche pagine. I miei volumi di storia dell’emigrazione non sono mai fatti di poche pagine. La ragione non sta nell’incapacità di sintesi, io credo: ho voluto sempre mettere accanto alle fonti scritte e ai dati, all’interpretazione storiografica, le interpretazioni e i pareri dei protagonisti. E questo «porta via» pagine. Ma dà racconto, aiuta a capire meglio, a entrare nell’animo degli avvenimenti, dei tempi, delle mentalità. A respirare il profumo del tempo e ad avvertirne, proprio sotto la lingua, il sapore. Che è umanità. Avevo promesso a centinaia di emigrati trentini, rimasti in Cile o rientrati in Trentino, di cercare di fare luce su quella loro vicenda. Questo è il mio lavoro di tanti anni: di viaggi, letture, conversazioni registrate, meditazioni, ricerche in biblioteche, settimane e mesi di lavoro d’archivio.
12 - Introduzione
Di quegli emigrati io mi sono sempre sentito fratello, di terra e di cultura popolare e, anche, come loro amante dell’America Latina, della sua storia e delle sue genti. Perché la grande, grandissima maggioranza di loro, nonostante i dolori e le tribolazioni, talvolta la sconfitta, hanno continuato a portare il Cile e il suo popolo nel loro cuore. Ardea, 13 agosto 2009, giorno del ventisettesimo compleanno di mia figlia Serena-Trento, 13 settembre 2009
Ringraziamenti A Iva Berasi per aver voluto questo libro; a Stefano Brichetti, uomo buono «dell’emigrazione trentina» che, alla fine, ha pure accettato di leggere e correggere la prima stesura di quest’opera; a Renato Albertini che ci ha accompagnati «alla caccia» dei trentini sul territorio cileno nei cinquanta giorni in cui siamo stati là nel 1992 e ha organizzato nel 2007 la nostra permanenza a Santiago. Si ringraziano anche: la Fondazione Museo storico del Trentino e il suo direttore Giuseppe Ferrandi, l’amico Enrico Bolognani, per la grande fiducia, don Donato Vanzetta, nel 1993 parroco di Cogolo, l’Ufficio archivio provinciale e il suo direttore Armando Tomasi, i Padri Parrocchia italiana Santiago, il professor Claudio Rolle, Mariarosa Sartorelli, il bibliotecario di Mattarello.
PARTE PRIMA
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CAPITOLO PRIMO
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La responsabilità vera
Verso la fine di settembre del 1955 l’assessore alle Attività sociali, sanità ed emigrazione della Regione Trentino-Alto Adige, l’altoatesino Armando Bertorelle1, partì alla volta dell’America Latina. A Rio de Janeiro venne raggiunto dal vicepresidente dell’Istituto di credito per il lavoro italiano all’estero (ICLE) avvocato Ercole Chiri, in rappresentanza del presidente Vittorio Ronchi che in quel periodo era ammalato, e dal direttore generale della stessa istituzione, il trentino avvocato Carlo Tomazzoli. Il gruppo, dopo essersi diretto a San Paolo, visitò per quattro giorni alcune aziende agricole, private o stabilimenti di colonizzazione anche a capitale pubblico, in varie località del Brasile. Quindi si spostò a Santiago del Cile. Dall’8 al 14 ottobre del 1955 una commissione composta, oltre che dai tre personaggi citati, anche dal dottor Emilio Garcia Pica della Corporación de fomento de la producción (CORFO) e dal dottor Rino Giuliani gerente della Compagnia italo-cilena di colonizzazione (CITAL) si ritrovò a La Serena dove in una convulsa e densissima settimana di lavoro, fatta soprattutto di colloqui con tutti i capifamiglia trentini che partecipavano a quell’esperimento di colonizzazione, venne decisa una drastica riorganizzazione della Colonia San Ramon2. Venne anche visitato il vicino stabilimento
1 Armando Bertorelle fu un uomo importante della Democrazia cristiana di Bolzano. Fu eletto in consiglio regionale per ben sei legislature, dal 1952 al 1978, continuativamente. Oltreché assessore in una giunta presieduta dal trentino Tullio Odorizzi, fu per due volte eletto presidente del consiglio regionale, dal 14 dicembre 1964 al 13 dicembre del 1966 e dal 13 dicembre del 1968 al 13 dicembre del 1970. 2 In effetti si trattava dei Fondi di San Ramón e Santa Inés e quelli di Rinconada e Mirador. Le prime due località erano contigue e così le seconde due. Le quattro, comunque, facevano parte
La Serena 27 giugno 1951. A sinistra l’assistente sociale Maria Perazzolli che accompagnò in Cile il primo gruppo di coloni trentini, stabiliti a Vega Sur. A destra il noneso Emilio De Pretis che fece parte, come tecnico, della commissione dell’Icle che stazionò in Cile molti mesi per preparare la colonizzazione trentina.
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coloniale «trentino» di Vega Sur e nei giorni dal 20 al 23 ottobre Bertorelle ebbe l’occasione di visitare, centinaia di chilometri più a Sud, la Colonia di San Manuel e le famiglie trentine che lì vivevano, accanto ad altre famiglie italiane originarie dell’allora regione Abruzzi-Molise. Dopo quella trasferta Armando Bertorelle fece la sua relazione alla giunta regionale e, il 29 novembre del 1955, illustrò i risultati della sua trasferta al Consiglio regionale in occasione della centesima seduta della seconda legislatura. In quell’occasione Bertorelle, dopo più di tre anni in cui il Trentino (famiglie, stampa, autorità civili e religiose) era stato bombardato da una messe cospicua di informazioni e giudizi talvolta di valenza opposta sull’andamento di quel processo di colonizzazione di terre da parte di famiglie agricole trentine, che aveva visto la nascita di tre nuclei coloniali in due zone del Cile (la Colonia Vega Sur e la Colonia San Ramon presso la città di La Serena e la Colonia San Manuel nei territori del Municipio di Parral), fornì delle informazioni precise e dei giudizi che ex post possono essere giudicati come «definitivi», ovvero calibrati e frutto di profonda conoscenza degli avvenimenti che avevano preceduto quella sua trasferta sudamericana. Bertorelle rese anche edotto il Consiglio regionale delle decisioni prese da CITAL, ICLE e CORFO, su forte pressione della Regione Trentino-Alto Adige, relativamente al futuro della Colonia San Ramon, il nucleo coloniale che aveva riassunto in sé la sorte di più dell’80% delle famiglie trentine trasferitesi in Cile tra il 1951 e l’inizio del 1953. L’assessore, per spiegare ai consiglieri regionali le ragioni della sua trasferta americana, parlò di «notizie contraddittorie pervenute negli ultimi mesi relativamente alla situazione dei coloni della nostra Regione stabiliti in Cile, particolarmente di quelli della spedizione del 1952... Le notizie, infatti, che ci pervenivano da parte dei coloni erano sempre più pessimistiche; le notizie che ci pervenivano invece da parte della CITAL, a mezzo dell’ICLE di Roma, che è il maggior azionista della CITAL, sia pure rilevando le difficoltà nelle quali si dibattevano i coloni di alcune zone, prospettavano soddisfacenti soluzioni»3.
dello stesso progetto di colonizzazione, gestito dalla CITAL e lo stabilimento veniva normalmente definito come Colonia San Ramón. Noi useremo i nomi San Ramon e Santa Ines nella loro grafia italianizzata, senza accento. 3 Consiglio Regionale del Trentino-Alto Adige, II Legislatura, Seduta 100 del 29 novembre 1955. A cura dell’Ufficio resoconti consiliari. Trento: Arti Grafiche Saturnia, s.d.: 5.
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E aggiunse: «Scopo del mio viaggio era quindi di prendere contatto personale con i nostri coloni e di svolgere ogni possibile interessamento, onde poter definire nel modo più soddisfacente e rapido i problemi che travagliano la nostra colonia»4.
Bertorelle, da subito, ricordò la mancanza di responsabilità giuridica da parte della Regione Trentino-Alto Adige circa l’organizzazione delle spedizioni di famiglie contadine che in Cile avevano occupato le aree della Colonia San Ramon: «Fu il ministro plenipotenziario José Vergara, il quale assieme ai dirigenti dell’ICLE prese contatti con le autorità regionali di allora e iniziò la selezione delle 100 famiglie, che in effetti erano di più, essendo calcolate nel nucleo familiare anche alcune famiglie di cosiddetti ‹aggregati›... La Regione, in occasione della selezione delle famiglie, svolse una attività di assistenza a favore dei coloni per quanto si riferisce alle informazioni necessarie, alle pratiche di passaporto, alle pratiche per il trasferimento dei bagagli; incaricò le assistenti sociali del compito specifico di aiutare in tutti i modi i coloni che stavano per partire. Appare quindi chiaro, ma desidero farlo rilevare esplicitamente, che la Regione non ha avuto alcuna ingerenza diretta, né ha assunto responsabilità od obblighi di sorta relativamente alla spedizione delle 100 famiglie emigrate nell’autunno del 1952, nemmeno per quanto riguarda il reclutamento e la selezione delle famiglie»5.
Poi Bertorelle iniziò a enucleare alcuni di quelli che, secondo lui, furono gli errori commessi nell’organizzazione di quella colonizzazione: «La selezione si svolse in un periodo molto breve e per questo fu affrettata e talvolta superficiale; l’aver messo nei nuclei familiari i cosiddetti ‹aggregati› risultò poi poco opportuno».
Problemi si ebbero da subito, osserva l’assessore, anche in terra cilena: «I coloni del primo scaglione non furono subito sistemati nelle abitazioni, come era stato loro promesso e convenuto nei contratti con le ditte appaltanti, ma,
4 Consiglio Regionale del Trentino-Alto Adige, II Legislatura, Seduta 100 del 29 novembre 1955. A cura dell’Ufficio resoconti consiliari. Trento: Arti Grafiche Saturnia, s.d.: 6. 5 Consiglio Regionale del Trentino-Alto Adige, II Legislatura, Seduta 100 del 29 novembre 1955. A cura dell’Ufficio resoconti consiliari. Trento: Arti Grafiche Saturnia, s.d.: 7.
32 - PARTE PRIMA / CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO SECONDO
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Le ragioni della colonizzazione
Riprendere le vie del mondo: un imperativo dopo la guerra mondiale. I governi italiani dell’immediato dopoguerra si trovarono ad amministrare un paese in gravissima difficoltà, con un’economia fortemente compromessa, una società civile non pacificata, che era uscita da una guerra anche fratricida e che in alcuni settori politici covava ancora pulsioni verso una rivoluzione di tipo socialista. In teoria le scelte politiche possibili erano varie, come ricorda Valerio Castronovo1: dalla rivoluzione al liberismo assoluto, allo statalismo o al parziale controllo statale sullo sviluppo del mercato. Quindi, dal rilancio dei consumi interni attraverso l’uso degli aiuti americani con l’obiettivo della piena occupazione, al recupero delle riserve monetarie collegato a una massiccia emigrazione. Su una cosa sia il centro dello schieramento politico, cioè la Democrazia cristiana e i suoi alleati minori, che la sinistra (Partito comunista e Partito socialista soprattutto), che inizialmente governarono assieme per poi configurarsi rispettivamente come governo del paese e opposizione più cospicua, furono quasi subito d’accordo: l’Italia doveva riprendere la sua politica emigratoria, mettere in cantiere una legislazione che superasse la norma fascista del 24 luglio 1930 e quindi il restrizionismo del regime mussoliniano. Una legge antiemigratoria che peraltro faceva seguito alla chiusura progressiva, per volontà di governi stranieri, a partire dagli anni venti, di varie delle tradizionali frontiere immigratorie dei lavoratori italiani, a iniziare da quella degli Stati Uniti che aveva di fatto azzerato la possibilità che i nostri lavoratori varcassero quella
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Castronovo 1975.
Mappa della zona cilena di Coquimbo-La Serena, predisposta dal colono trentino Willy Schwanauer, con indicazione delle zone di colonizzazione.
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frontiera. Nel 1945 in Italia era all’ordine del giorno la ricostruzione, ma dietro a questa si prospettava una situazione socio-economica caratterizzata da una povertà, da bisogni sociali ed economici che il paese non aveva mai conosciuto nella sua storia unitaria. Subito i lavoratori italiani ripresero la via dell’emigrazione e subito, già nel 1946, venne istituita la Direzione generale dell’emigrazione presso il Ministero degli Affari Esteri. In quello stesso anno, secondo l’Istituto centrale di statistica (ISTAT), partirono dall’Italia 110.000 emigranti2. Quel numero però non corrispondeva alla realtà: molti di più erano stati gli italiani che avevano scelto di varcare la frontiera e una percentuale non bassa di loro aveva scelto di farlo illegalmente o, per dirla con una frase dal sapore poetico usata dagli emigranti trentini, «col passaporto di lusso»3 e cioè con in mano un solo visto turistico, la qual cosa non li faceva figurare nelle statistiche degli emigrati (ma decine di migliaia di persone, almeno in quegli anni dell’immediato dopoguerra, in cui le frontiere si stavano organizzando così come gli apparati polizieschi e legislativi della nazioni europee, semplicemente varcavano la frontiera scavalcando una montagna). Un fenomeno, quello migratorio italiano, che durante il Novecento conobbe varie fasi ma che, alla fine, portò all’espatrio di 9 milioni di lavoratori, di cui quasi 4,5 milioni emigrarono dal 1946 al 1961. Già nel 1947 furono 254.000 gli emigrati che uscirono dall’Italia, e arrivarono a essere 329.000 nel 1961 quando iniziò a scemare il contributo dal Nord Italia. La percentuale maggiore di emigrati nel trentennio dal 1946 al 1976, si trattava di 7,5 milioni di espatri, si diresse verso l’Europa (5 milioni). L’ America, Nord e Sud quasi in parti eguali, sostanzialmente ricevette il resto: Stati Uniti e Canada (che si divisero equamente il numero di immigrati italiani), poi Argentina, Venezuela e Brasile (che ricevettero percentualmente il 53%, il 27,5% e il 13% degli emigrati italiani diretti in Sud America). L’emigrazione venne quindi, da subito, rilanciata come parola d’ordine dai governi italiani. Un nome su tutti, quello del primo ministro Alcide Degasperi, il trentino che nel suo discorso al terzo Congresso nazionale della Democrazia
2 Sui numeri confronta ISTAT, Bollettino mensile di statistica, 1975, n. 1, appendice II e anche Favero –Tassello 1978. 3 Molti sono i racconti di quel periodo che confermano il fenomeno. Si veda ad esempio Grosselli 2007.
LE RAGIONI DELLA COLONIZZAZIONE - 35
cristiana, a Venezia nel 1949, usò la formula: «Riprendere le vie del mondo» mentre, rivolgendosi ai contadini meridionali si trovò poi a dire: «Imparate le lingue e andate all’estero»4. Non era, comunque, così facile nemmeno lasciar partire milioni di lavoratori: ci volevano legislazioni adeguate in termini internazionali (e in ciò l’Italia fu immensamente favorita dall’aver stretto accordi con altri partner europei, gettando le basi sulle quasi nascerà poi l’Europa Unita), ma anche progetti migratori e danaro per metterli in atto. Era quindi importante sapersi collocare in termini internazionali. «Il mondo si stava dividendo in due blocchi e in quello occidentale il ‹la› a ogni iniziativa era dato dagli Stati Uniti che reggevano i cordoni della borsa. La loro potenza economica, che era immensa, s’era moltiplicata nel raffronto con l’impoverimento dell’Europa. Era nell’interesse di Washington che gli amici europei si rialzassero dalla rovina: per costituire un fronte contro il comunismo, ma anche per offrire un mercato ai prodotti americani. Gli Usa erano perciò disposti ad aiutare largamente gli europei, ma a certe condizioni»5.
Le condizioni poste dagli americani vennero soddisfatte quasi in toto dai governi della Democrazia cristiana che trasformarono l’Italia nel più fedele alleato degli Stati Uniti d’America dell’Europa Occidentale. Così, quel Piano Marshall (o anche European Recovery Program) messo in campo dagli USA per aiutare l’Europa a risollevarsi e, allo stesso tempo, per dare un’ulteriore mano alla propria industria bellica per trasformarsi, passò a essere un riferimento anche per il governo italiano, nel 1948 quando le sinistre furono costrette all’opposizione. I beni distribuiti attraverso il Piano Marshall ai vari paesi dell’Europa alla fine raggiunsero il controvalore di 12.384 milioni di dollari. Gli aiuti maggiori li ottennero la Gran Bretagna (23,2%), la Francia (20,8%) e l’Italia (10,9%)6. Con il Piano gli Stati Uniti avevano in mente anche altro:
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Ciuffoletti – Degl’Innocenti 1978: 3232-3235.
5 Montanelli – Cervi 2004: 391. 6 Battilani – Fauri 2005. Calligaro Perini 1986: 48-49 fornisce dati diversi, numeri più elevati. Gli USA avrebbero reso disponibili risorse per 33,8 milioni di dollari dei quali 22,8 toccarono all’Europa. Tra il 1948 e il 1952 l’Italia avrebbe ricevuto 2.470 milioni di dollari, l’11% dei programmi Erp. Sul Piano Marshall e la sua importanza nella ricostruzione dell’Italia confronta con anche Toniolo 1983 e Fauri 2001.
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CAPITOLO TERZO
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Alcide Degasperi e i suoi trentini
Alcide De Gasperi in realtà si chiamava Alcide Degasperi. Come ricorda Piero Craveri nel corposo studio dedicato allo statista trentino, la separazione del cognome fu quasi certamente dovuta all’errore di un funzionario del parlamento austriaco, in cui il politico fu eletto deputato nel 1911, «causato dalla scarsa dimestichezza con la lingua italiana e alla consuetudine con i nomi baronali della maggior parte degli eletti, pensando fosse uno di questi anche il deputato trentino»1
che invece era di famiglia modesta e profondamente cattolica. Primo di quattro figli era nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino da Amedeo Degasperi che era capoposto maresciallo maggiore in quel luogo dell’allora Tirolo meridionale, appartenente alla Corona austriaca (dal 1918 annesso all’Italia). Alcide Degasperi (questa è la scelta che noi facciamo della grafia del nome, così come da sua origine) avrà un’importanza particolare nella genesi di quei flussi migratori che portarono in Cile nei primi anni cinquanta un migliaio di suoi conterranei. Chiamato dal capo dello stato italiano a dirigere il suo primo governo della Repubblica nel luglio del 1945, lascerà l’incarico nello stesso mese del 1953, alla caduta dell’ottava compagine governativa da lui presieduta. Furono i governi Degasperi, quindi, a gestire la ricostruzione postbellica dell’Italia, anche partendo dagli aiuti americani previsti dal Piano Marshall. Le scelte dello statista e dei suoi collaboratori al governo, invero, non andarono proprio nel senso voluto dagli alleati d’oltreoceano. Quei finanziamenti, cioè,
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Craveri 2006: 16.
La casetta nella parcella 19 della Colonia Vega Sur nel 1951.
40 - PARTE PRIMA / CAPITOLO TERZO
non vennero investiti in una politica di rilancio della domanda interna, di avvio di produzioni di massa. Difesa del risparmio, pareggio di bilancio, stabilizzazione monetaria e ripresa dell’emigrazione furono le scelte degasperiane. «La severa politica di bilancio e di controllo del credito costituiva una guaina assai stretta per lo sviluppo produttivo. Nei primi nove mesi della sua attuazione gli stessi finanziamenti del Piano Marshall erano stati destinati per una quota assai ridotta all’industria e per una quota non secondaria, attraverso artifizi contabili, al risanamento di bilancio»2.
Una politica di equilibrio della bilancia dei pagamenti, affiancata alla facilitazione e anzi alla sollecitazione di nuovi flussi migratori, all’interno di un orizzonte di politica deflazionistica che all’inizio creò qualche dissapore con l’alleato americano e che in seguito avrebbe fatto dire a certi studiosi del fenomeno emigratorio italiano che la mancata politica della spesa pubblica, dell’espansione della domanda interna, basandosi anche sui finanziamenti ERP, «incoraggiò l’emigrazione a ogni costo»3. Era comunque evidente che una politica economica come quella degasperiana metteva in primo piano, in termini sociali, una politica dell’occupazione. Di qui, non solo nell’immediato, l’enfasi posta sulla necessità di flussi migratori e quindi le parole d’ordine degasperiane che abbiamo già ricordato4. La storiografia italiana «di sinistra» per decenni ha guardato alle politiche dei governi centristi dell’immediato dopoguerra, e a quelli guidati da Alcide Degasperi principalmente, con sguardo dubbioso e in gran parte accusatorio: il ritorno dello statista da un viaggio negli Stati Uniti e quel suo sventolare un assegno
2
Craveri 2006: 386.
3 Ciuffoletti – Degl’Innocenti 1978: 232. 4 «Già nel programma economico italiano a lungo termine 1948-1949 e 1952-1953, presentato nell’ottobre 1948 dal governo italiano all’OECE, si affermava che ‹l’emigrazione sarà facilitata in tutte le sue forme: di massa e individuale›, con l’aumento dei mezzi di trasporto necessari, lo sviluppo di unioni doganali e una politica di cooperazione con altri paesi carenti di manodopera. Per alleggerire sensibilmente la pressione demografica, si avanzava l’ipotesi che fosse necessaria un’emigrazione complessiva di 832.000 lavoratori in quattro anni, di cui 364.000 verso i paesi europei» (Rosoli 1990: 472-473). Va comunque ricordato che «gli aiuti del Piano Marshall, che risolsero il problema del dollar gap e permisero alle aziende di rimettere in moto la produzione e, alla grande industria in particolare, di modernizzare l’apparato produttivo grazie ai macchinari americani... furono importanti più dal punto di vista qualitativo (fornirono i beni e le attrezzature necessarie nel momento giusto) che quantitativo» (Battilani – Fauri 2005: 386-387).
ALCIDE DEGASPERI E I SUOI TRENTINI - 41
fu visto non come la notizia che l’Italia poteva rifiatare e pensare alla sua ripresa economica ma come una resa agli americani, addirittura una svendita dell’autonomia del Paese contro un aiuto economico per la sua ripresa. Non vogliamo addentrarci in questo tipo di considerazioni che potevano, o meno, avere qualche ragione di essere. Vogliamo però ricordare che recentemente altre letture autorevoli si sono fatte avanti e non necessariamente etichettabili come «di destra». Mauro Campus ad esempio afferma che «la storiografia che ha analizzato l’influenza del Piano Marshall sull’economia e sulla società italiana ha faticato non poco ad affrancarsi dalle letture ideologiche e dagli schemi politici della guerra fredda». Per lo studioso l’adesione al piano americano fu non solo necessaria per Degasperi e la sua compagine governativa ma costituì l’unica possibilità di mettersi al pari di una trasformazione sociale ed economica che in quegli anni avrebbe cambiato l’Europa, portandola in poco tempo a far parte di un sistema economico, sociale e anche ideale, modellato sul tipo di capitalismo che si era sviluppato nei decenni precedenti negli Stati Uniti d’America. «Le caratteristiche del sistema produttivo, l’esuberanza della forza lavoro, la deficienza delle risorse interne, il basso livello dei redditi, l’inadeguatezza del ritmo di formazione del risparmio e, dunque, l’esiguità degli investimenti trovavano nella dimensione offerta dall’equilibrio atlantico l’unica via per rinnovare le basi dell’economia, squassate dall’autarchia, dall’inflazione di guerra e dall’avvio della ricostruzione».
Insomma, il Piano Marshall sarebbe stato l’unico modo possibile per l’Italia di allora, di riprendersi con un certa velocità dal disastro della guerra e, anzi, di superare varie debolezze della sua struttura economica pre-conflitto, in tempi ragionevoli. Dall’altra parte, c’erano i paesi a socialismo realizzato (o in via di realizzazione) e la possibilità di iniziare un cammino di trasformazione economica e sociale certamente più difficile, meno lineare e dagli sbocchi, al tempo, ancora meno prevedibili. «La sua attuazione in Italia (del Piano Marshall) – secondo Campus, invece – fu un successo, non solo per l’importazione di innovazioni di struttura durature e riformatrici, ma anche perché portò il paese all’interno dell’unica area capace di attivarne una crescita e uno sviluppo stabile e duraturo. Tutto ciò che riguarda la stabilità del capitalismo italiano e i suoi tratti patologici non poteva essere risolto dal Piano perché questo si limitava a essere il mezzo attraverso il quale
53
Gabriel González Videla e la sua La Serena
Il 14 novembre 1950 El Mercurio, il maggiore e più prestigioso quotidiano cileno, riferiva delle intenzioni del governo di partecipare a un piano di immigrazione, finanziato con fondi del Piano Marshall che sarebbero serviti a pagare il viaggio dei coloni, acquistare le proprietà agricole, prestare loro i capitali per lo sfruttamento della proprietà. A quel punto era già nata, se non proprio un’amicizia, un rapporto privilegiato tra il presidente del consiglio italiano Alcide Degasperi e il presidente del Cile Gabriel González Videla. Non sappiamo se i due uomini si fossero mai parlati direttamente ma certo lo avevano fatto attraverso i canali diplomatici e Renzo Helfer aveva consegnato al presidente cileno una lettera personale di Degasperi. Il rapporto tra i due, cosa strana per un presidente come González Videla che era del Partito Radicale, era stato facilitato dalle alte gerarchie ecclesiastiche. In una relazione presentata alla giunta regionale del Trentino-Alto Adige, il trentino Giuseppe Andreaus che aveva visitato il Cile scrisse di essersi recato dal Nunzio Apostolico (che nel 1952 era il veneto Mario Zanin, espulso con tutti i missionari cattolici dalla Cina di Mao e, quindi, da pochi anni trasferito in Cile1): «Conosce perfettamente la situazione, – scriveva Andreaus – perché di recente ebbe a visitare la colonia (ndr dei trentini) esprimendo la sua piena soddisfazione. Mi esprime il desiderio che tale colonia venga estesa e approfitto dell’occasione, data la sua nota influenza sul presidente della Repubblica»2.
1
Mario Zanin (1890-1958) fu Nunzio Apostolico in Cile e quindi in Argentina dal 1953 al 1958.
2 Relazione presentata da Giuseppe Andreaus dopo la sua visita in Cile alla giunta regionale del Trentino-Alto Adige, 1 luglio 1952, trascritta in Grigolli Mariaviola 2005: 107.
Vega Sur nel 1952 o 1953. Fabio Bortolotti e la sua famiglia.
54 - PARTE PRIMA / CAPITOLO QUARTO
Non un presidente qualsiasi quel Gabriel González Videla. Arrivato alla presidenza nel 1946, portò a conclusione il lungo periodo di dominio radicale nel paese. Prima di lui erano morti, durante il loro mandato, due presidenti radicali: Aguirre Cerda alla fine del 1941 e il suo successore Juan Carlo Ríos che morì nel 1946. Dopo le elezioni, il 24 ottobre 1946 il congresso nazionale lo elesse presidente e il 3 novembre ci fu la trasmissione dei poteri. Sarebbe rimasto presidente sino al 3 novembre 1952. I radicali avevano governato il Cile dal 1939 a capo di coalizioni nelle quali, via via, avevano concorso partiti e raggruppamenti di tutto il panorama politico cileno. Il loro elettorato, sostanzialmente, faceva leva sui settori della piccola e media borghesia urbana. A descrivere González Videla con le parole taglienti di un cronista dell’epoca, lo si dipingerebbe così: «Era un uomo simpatico, dalla risata facile e modi di fare affettuosi. Forse era giovane per assumere la responsabilità del potere in un paese che per 140 anni aveva dato dimostrazione di maturità politica e puro spirito democratico. Dagli anni precedenti manteneva intima amicizia con alti membri del Partito comunista, cosa che non rappresentò ostacoli al suo compartire i favori anche dei liberali, conservatori, falangisti e socialisti. Tutti i suoi amici celebravano il suo umore e il suo spirito conciliatore. Nelle riunioni tra amici soleva suonare il piano e ballare animatamente il samba brasiliano, come il più entusiasta carioca. La sua contagiosa ilarità gli faceva dimostrare meno dei 48 anni che aveva quando arrivò alla presidenza. Era un politico sagace e combattivo»3.
Ma anche usando i termini tipici degli studiosi di scienze politiche non ci si discosterebbe poi di molto. «La riconosciuta frivolezza di González Videla contribuì alla nascita di un sentimento contrario alla politica. Una informativa del febbraio 1947 dell’ambasciata britannica al Foreign Office, assicurava che il comportamento frivolo del presidente in quei momenti di acuta crisi era condannato in forma unanime, con la sola eccezione del suo circolo più intimo, con cui lui trascorreva i suoi fine settimana a Viña del Mar, le escursioni in aereo verso le spiagge d’élite, così come pure i festeggiamenti, prolungati per vari giorni, per l’inaugurazione di un lussuoso hotel a Pirihueico»4.
3
Cannobbio 1995: 138.
4 Historia 2001: 191.
GABRIEL GONZÁLEZ VIDELA E LA SUA LA SERENA - 55
Non si trattava solo di frivolezza. Il presidente portava un amore viscerale per la sua città natale: La Serena, nel nord del paese. Durante il suo mandato furono investite somme notevoli, addirittura faraoniche, per modernizzare e abbellire quella cittadina di appena 30.000 abitanti. Ritorniamo alla penna del cronista, Mario Cannobbio, che però nel fornirci i suoi dati si avvale anche delle memorie date alla stampa dallo stesso González Videla5. Un intero capitoletto del volume di Cannobbio è intitolato «Il capriccio di La Serena»6: «Era soggetto a censure implacabili per le sue esagerate ed inutili spese volte a trasformare la vetusta cittadina di La Serena in una moderna città, con delicate rimembranze coloniali. L’abbellimento del luogo natale del presidente consumava ingenti capitali e distraeva ingegneri, architetti, urbanisti e imprese edili tra le più selezionate. Si pagavano interminabili noleggi di attrezzature inesistenti in zona. Per rendere più rapidi i lavori si asfaltò una strada di 400 chilometri. Operai specializzati dovettero andare a vivere con le loro famiglie, per anni, in quella zona. Il presidente volava lì ogni settimana per poter apprezzare personalmente l’avanzamento nella realizzazione delle opere, in compagnia di un seguito di vicepresidenti di entità che finanziavano abitazioni per ipotetici cittadini attraverso fondi previsti per altre località, che avevano reali necessità. Si costruirono scuole per popolazioni del futuro; interessanti musei di appropriata struttura e raffinate rifiniture; un carillon dai toni soavi che imitavano il famoso orologio inglese; un aeroporto fuori mano, però impeccabile; una stazione ferroviaria favolosa, per treni che l’avrebbero attraversata rare volte; ristrutturazioni e abbellimenti di templi; un palazzo per la Intendenza, con case e dipendenze per i suoi capi e impiegati; un altro per il Municipio; un vescovado degno della città dei viceré; una avenida che ricorda la via delle statue di Pompei o la spianata degli Uffizi di Firenze, con riproduzione di monumenti famosi fatti con marmo di Carrara; migliaia di abitazioni per impiegati e operai costruite in stile spagnolo: un monte di pietà realizzato al massimo livello, degno di Siviglia o Granada. E con tutto questo, e in più un solitario hotel, si era realizzato un enorme investimento assolutamente improduttivo. Gabriel González Videla, figlio de La Serena, amò la sua terra natale con spirito faraonico, ma non pensò di approfittare del suo clima e delle sue spiagge per creare un’infrastruttura turistica...
5
Videla 1975.
6
Cannobbio 1995: 147-148, 152.
148
CAPITOLO QUINDICESIMO
149
La Compagnia italo-cilena di colonizzazione: una società costosa e paralizzata
La Compagnia italo-cilena di colonizzazione, società anonima, fu costituita il primo agosto del 1951 a Santiago. Lo statuto prevedeva che il suo domicilio sociale fosse a Santiago e che la durata della società si estendesse fino al 31 dicembre 1975 (del resto l’ICLE, costituita con regio decreto legge 15 dicembre 1923 come società per azioni, aveva una durata fissata per statuto fino al 31 dicembre 1975). «Il principale oggetto della società era quello di sviluppare, dirigere e amministrare colonie agricole o forestali, mediante la parcellizzazione di proprietà che sarebbero state acquisite allo scopo e successivamente la vendita a immigrati italiani delle rispettive parcelle»1.
Il capitale sociale iniziale fu stabilito in 40 milioni di pesos, diviso in 40.000 azioni di 1.000 pesos ciascuna: il 40% delle azioni toccò all’ICLE (furono definite «azioni di serie A»), il 40% alle cilene CORFO e Cassa di colonizzazione (azioni di serie B), il 20% a persone fisiche o giuridiche cilene (azioni di serie C)2. Dunque all’ICLE toccarono 16.000 azioni, altre 16.000 in parti eguali furono assegnate a CORFO e Cassa di colonizzazione agricola mentre 8.000 azioni, di serie C, furono assegnate al signor Italo Bianco3. 1 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, «Comitato finale di estinzione della CITAL S. A.», documento datato 22 ottobre 1984. 2
Calabrò 1953: 406.
3 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, «Comitato finale di estinzione della CITAL S. A.», documento datato 22 ottobre 1984.
San Ramon 1954. Giuseppina Moreschini e Olga Lucchi a caccia sulle terre della colonia.
150 - PARTE PRIMA / CAPITOLO QUINDICESIMO
Perché mai l’ICLE, che era finanziata in grande parte, per questi progetti di colonizzazione, dai fondi messi a disposizione dal Piano Marshall, volle, o dovette, mettersi in società con organismi che erano diretta propagazione del governo cileno? Lo spiega Pasquale Calabrò che nella missione italiana in Cile studiò gli aspetti giuridici del complessivo piano di colonizzazione e che, probabilmente, fu colui che propose la creazione della CITAL. «Poiché l’ICLE, nella sua qualità di ente bancario, non può svolgere attività diverse da quelle sancite dalle sue norme statutarie, fu necessario creare una persona giuridica nuova anche se così strettamente legata all’ICLE da costituirne quasi un’emanazione... La forma prescelta fu quella di società anonima che, anche in Cile, consente di agire con maggiore libertà»4.
Ma perché coinvolgere nella CITAL la CORFO e la Cassa di colonizzazione cilene? Perché l’ICLE pretendeva che i suoi finanziamenti fossero garantiti dal governo cileno (e quindi ecco la CORFO, mentre la Cassa di colonizzazione non poteva certo essere esclusa in Cile da progetti di distribuzione di terre in quanto proprio questa era la sua ragione di essere). «Si deve tener presente che la CORFO è l’unica responsabile della restituzione delle somme corrispondenti ai crediti concessi dall’ICLE di Roma». Il meccanismo di elezione delle cariche all’interno della CITAL fu così stabilito: erano i direttori di serie B (CORFO-Cassa di colonizzazione) a eleggere il presidente, quelli della serie A (ICLE) a eleggere il vice5. Le operazioni sociali erano finanziate principalmente per mezzo di crediti che l’ICLE concedeva alla CORFO che a sua volta concedeva prestiti alla CITAL; una situazione che già in partenza pose problemi enormi di agilità alla nuova Compagnia e che sarà una delle ragioni del fallimento della sua opera. Ogni decisione di investimento, infatti, era presa a Santiago dalla CITAL ma doveva avere il beneplacito dall’ICLE che stava a Roma (e che a sua volta doveva ottenere i fondi, nelle maniere e con le modalità previste, negli Stati Uniti) e, inoltre, doveva anche attendersi un simile beneplacito dalla CORFO e dalla Cassa di colonizzazione, che naturalmente ogni volta dovevano riunire i propri organi decisionali e deliberare. Da tenere conto anche che la vicenda si svolgeva in tempi in cui i mezzi e i sistemi di co4
Calabrò 1953: 406.
5 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, fascicolo CITAL 4 gennaio 1976.
LA COMPAGNIA ITALO-CILENA - 151
municazione non erano diversificati e rapidi come oggi e dovevano comunque collegare due paesi che stavano in due continenti diversi (pervasi da culture burocratiche e politiche sociali ed economiche molto diverse). Perché la presenza di azionisti privati cileni (inizialmente uno solo, in seguito più d’uno)? «Perché la CORFO non può partecipare a società né sollecitare dal governo alcuna garanzia qualora i prestiti siano fatti a enti o società nei quali il capitale cileno non possegga la maggioranza delle azioni»6.
Il direttivo della CITAL doveva essere formato da nove membri: quattro di emanazione ICLE, due dalla CORFO, due dalla Cassa di colonizzazione, uno eletto dagli azionisti privati. Le delibere erano prese a maggioranza semplice, ma era necessaria una maggioranza qualificata (ci voleva la maggioranza sia dei rappresentanti dell’ICLE che quella dei rappresentanti di CORFO e Cassa di colonizzazione) per la nomina o la rimozione del «gerente», per stabilire le deleghe del direttivo e per acquisti, ipoteche o altro, di particolare entità7. Qualunque proposta che non riguardasse l’ordinaria amministrazione doveva quindi trovare il consenso di ICLE, CORFO, Cassa di colonizzazione. Il presidente della CITAL doveva essere eletto tra i consiglieri cileni, «il vice esecutivo, e cioè quello che nelle nostre società anonime è l’amministratore delegato, fra i direttori della serie A (ICLE)... La legislazione cilena prevede inoltre la figura del «gerente» che è praticamente il direttore generale responsabile dell’ordinaria amministrazione. Nella CITAL il gerente e tutto il personale direttivo e tecnico sono, per espresso accordo fra le parti, di nazionalità italiana»8.
In realtà, durante la vita della CITAL i due veri poteri si dimostrarono il gerente e il presidente. Oltre a questo bilancino dei poteri, e dei possibili veti, era stato esplicitato che i progetti di colonizzazione, messi sul tavolo dalla CITAL, dovevano comunque avere la preventiva approvazione di ICLE e CORFO, con un dato aggravante che riguardava la situazione economica del Cile che conosceva una «costan-
6
Calabrò 1953: 407.
7
Calabrò 1953: 407.
8
Calabrò 1953: 407.
158
CAPITOLO SEDICESIMO
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Il primo errore: l’immobilizzo di capitale
Il 7 ottobre del 1953, solamente un anno dopo l’arrivo a San Manuel de Parral dei coloni italiani, una cinquantina dei quali trentini, il direttore dell’ICLE, il noneso Carlo Tomazzoli (che si era recato in Cile in missione nel periodo tra il 27 giugno e il primo settembre), decretava l’impossibilità di funzionamento, soprattutto per ragioni finanziarie, di quella colonia. E anzi sottolineava come il progetto di colonizzazione che stava alla base della nascita di quello stabilimento contenesse in sé delle enormi incongruenze. Tomazzoli sosteneva che la CITAL stesse soffrendo, da subito, di «mancanza di disponibilità liquide»: «Questa situazione si è verificata per avere la Compagnia, al momento della sua costituzione, immobilizzato più di un terzo del suo capitale (pesos 15.600.081) nell’azienda San Manuel. Tale immobilizzo avrebbe potuto costituire una misura opportuna per difendere il capitale della Compagnia dalla svalutazione, se l’azienda avesse prodotto redditi proporzionati al costo. Oltre all’acquisto della tenuta, la Compagnia ha ritenuto di far luogo a una valorizzazione della stessa, partendo da criteri che purtroppo la realtà ha dimostrato essere assai discutibili, e ha finito con l’immobilizzare nell’azienda di San Manuel (gestioni dirette e colonizzazioni) non solo la totalità del suo capitale, ma anche i finanziamenti concessi dall’ICLE a copertura del prezzo del terreno destinato ai coloni».
Si era all’inizio di tutto un complesso programma di colonizzazione che interessava tre paesi, Italia, Cile e Stati Uniti d’America, e prevedeva un investimento minimo di più di 11 milioni di dollari ma il meccanismo che si era messo in piedi rischiava di incepparsi subito, dopo che l’oceano era stato attraverSan Ramon, marzo 1953. Aldina Bertolini nella sua parcella con la bara del figlioletto Luigi, morto in colonia a 19 mesi.
160 - PARTE PRIMA / CAPITOLO SEDICESIMO
sato solo da poche decine di emigranti. Si perché, per dirla con Tomazzoli, la CITAL si trovava già «completamente priva di liquidità per far fronte alle spese generali dell’ufficio di Santiago (che almeno parzialmente dovrebbero venire caricate ai coloni, con rimborso peraltro dilazionato nel tempo)»1.
Ma seguiamo nei particolari le fasi della nascita della Colonia San Manuel. Fu la missione tecnica italiana, il 18 dicembre 1950, ad acquistare dalla Cassa di colonizzazione, ente pubblico cileno, in asta pubblica (in cui solo questa offerta di acquisto venne presentata) il Fondo San Manuel, o anche Hacienda San Manuel2. Una azienda agricolo-forestale di grandi dimensioni, ma non grandissime visti i parametri americani, che copriva un’area di 31.120 ettari. I terreni si trovavano nella Provincia di Linares, Comune di Parral. Più precisamente San Manuel stava a 38 chilometri a est di Parral che costituiva il centro abitato più vicino. Quella colonia quindi sarebbe nata a circa 1.350 chilometri a sud di La Serena dove nel 1951 erano giunte le prime venti famiglie di contadini trentini. L’Hacienda venne gestita direttamente dal personale della missione italiana, diretto da Giuseppe Venturoli Orlandi per sei mesi e mezzo, sino al 31 luglio 1951, quando la proprietà venne girata alla CITAL (che era stata costituita il primo agosto). Transitò dall’ICLE alla CITAL quale proprio apporto di capitale azionario alla nuova compagnia. Si trattava di un azzardo in quanto immobilizzava in terreni una parte consistente del capitale della società di colonizzazione. Ma la cosa era stata decisa considerando le potenzialità produttive dell’intera azienda di San Manuel che arrivava alla CITAL «in funzionamento». Su quel territorio erano stanziati un migliaio di contadini-allevatori, c’erano terreni piantati a pini, poi una segheria e un mulino tra le altre strutture. Nel frattempo erano state progettate ed eseguite varie opere, sia per una proficua e corretta gestione dell’azienda, sia in previsione dell’imminente colonizzazione di parte dei suoi terreni.
1 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Carlo Tomazzoli, «Relazione sulla missione svolta in Cile nel periodo 27 giugno-1 settembre 1953», 7 ottobre 1953. 2 Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero 1953: 246. Che si sia trattato dell’unica offerta lo dice Martini 1991.
IL PRIMO ERRORE - 161
«Questa gestione – scrisse Venturoli Orlandi – si concluse con un notevole attivo e con un proficuo riordinamento amministrativo e produttivo»3.
Non era la ricchezza di aggettivi che mancava a Venturoli Orlandi. Ma di che tipo di azienda si trattava? Intanto le sue terre erano ubicate in una zona profondamente differente da quella di La Serena. La temperatura media annua qui era di 14°, con una minima assoluta di -4,5°, massima assoluta di 39,2°. Molto più freddo, ma anche molto più caldo rispetto a La Serena. A San Manuel si potevano prevedere una trentina di giorni di gelate annuali, da aprile a ottobre. Ma soprattutto in quei luoghi pioveva molto più che al Nord, una media di 970 millimetri di precipitazioni annue4. In definitiva, si trattava di un clima non troppo dissimile da quello che i trentini lasciavano in patria: meno freddo in inverno e più caldo in estate però con precipitazioni di intensità pressoché eguale (cosa che invece non si poteva dire per La Serena in cui non pioveva quasi mai). E i terreni agricoli di San Manuel come erano? Qui incominciavano i problemi. Chi aveva deciso l’acquisto di quell’azienda e ne aveva poi progettato lo sviluppo osservava che la terra mostrava un ventaglio di valori che andavano dal pessimo all’ottimo in termini agricoli. Ma un riassunto tra qualità agricole dei terreni e clima della zona, proposto dagli stessi tecnici della missione italiana, era questo: «Costituzione chimico-fisica e biologica, nonché il clima, imprimono a queste terre l’indiscutibile qualifica di terre povere»5.
Non si trattava di una considerazione al limite dell’impudicizia da parte di chi aveva comperato quelle terre e si apprestava a immettervi un mezzo migliaio di contadini italiani? Per come poi andarono le cose a San Manuel si sarebbe tentati di rispondere affermativamente alla domanda. Va però considerato che i tecnici venuti dall’Italia avevano pensato, o almeno così scrissero, di acquistare quello stabilimento per usarne, ai fini della colonizzazione, solo una piccola parte, certamente la migliore in termini agricoli. In effetti si veniva subito a sapere che nel Fondo San Manuel si trovavano 109 case per inquilinos
3
Venturoli Orlandi 1953: XVI.
4
Venturoli Orlandi 1953: 250.
5
Rossi Ugo 1953: 260.
164
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
165
Il secondo errore: un confuso piano di colonizzazione
In termini di colonizzazione la missione tecnica aveva approntato un progetto di massima per San Manuel: si era prodotta la planimetria di 1.700 ettari di territorio, si erano progettate strade di collegamento interno, la realizzazione di un centro coloniale «nonché il piano produttivo ed economico generale e parcellare»1. Il progetto di colonizzazione era stato studiato da Manfredo Mariottini che di lì a poco sarebbe diventato il primo gerente della CITAL. Non si trattava propriamente di un progetto poco costoso: chi lo aveva steso valutava che alla fine sarebbe costato 574.728 dollari americani. In pratica, coi 10 milioni di dollari stanziati dal Piano Marshall per la colonizzazione italiana in America Latina si sarebbero potute realizzare diciassette colonie del costo di quella di San Manuel. Era prevista però l’immigrazione di sole settantasette famiglie per un totale di cinquecentosei persone, in tre anni a partire dal 1952 e sino al 19542. Su 31.120 ettari dell’Hacienda, 1.320 ettari dovevano essere parcellizzati, formando cinquantotto parcelle che sarebbero state assegnate a famiglie coloniche (più tre parcelle a disposizione della direzione). L’unità poderale, come era definita, sarebbe stata costituita mediamente da 15,20 ettari di terreno per ogni famiglia colonica. «Irrigui» diceva il piano di Mariottini. A questi però si aggiungevano altri 7,55 ettari di terreno «non irrigui, compresi incolti». Poi anche «12 ettari di superficie in zona di riforestazione» cioè nella parte alta
1
Venturoli Orlandi 1953: XVII.
2
Rossi Ugo 1953: 250.
San Ramon 1954. Matrimonio di un Flaim con una Panizza. Sul parafango dell’automobile si erge Attilio Callegari.
166 - PARTE PRIMA / CAPITOLO DICIASSETTESIMO
della colonia che era stata piantata a pini. Il tutto formava parcelle di 34,75 ettari. Ancora un particolare: la CITAL metteva a disposizione dei coloni italiani anche un’area di 2.600 ettari di pascolo che doveva essere a godimento collettivo ma anche a coltura cerealicola «in conduzione unita tra tutti i coloni»3. Sottolineiamo qui che i dodici ettari di bosco erano definiti «corpo aggregato dell’unità poderale» e quindi parte della parcella che ogni colono sarebbe venuto a possedere. Se erano 77 le famiglie che il piano di Mariottini prevedeva di far arrivare dall’Italia, ed erano solo cinquantotto le parcelle da distribuire ai nuovi arrivati (più tre come riserva), ciò significava che altre famiglie italiane sarebbero giunte a San Manuel per svolgere attività diversa da quella agricola. Infatti diciannove famiglie erano quelle di dirigenti, impiegati, ma anche artigiani ed operai. Riassumendo, l’ICLE aveva acquistato dalla Cassa di colonizzazione un’azienda agricola di 31.000 ettari di estensione divisa in quattro grandi aree. La prima di 710 ettari era adatta al lavoro agricolo. La seconda, per un totale di 696 ettari, era costituita da bosco di pini considerato «sfruttabile» da parte dei coloni. Il terzo settore rappresentava aree di pascolo di un’estensione totale di 2.600 ettari che si sarebbero dovute usare per sviluppare attività di allevamento. Una quarta area, di suolo «cordillerano» e cioè montano di circa 27.000, ettari sarebbe rimasta a disposizione della CITAL. Come afferma Claudio Martini che sulla Colonia San Manuel scrisse una tesi di laurea, «era un’area di declivio montano per la quale non si vedeva nessuna possibilità di sfruttamento razionale»4. L’azienda di San Manuel quando fu acquisita, come si diceva, era comunque in funzione e, tra l’altro vi si trovava la segheria che avrebbe dovuto continuare la sua attività. Si trattava di un’azienda artigiana esterna alla colonia che si sarebbe affiancata ad altre per la prestazione ai coloni di servizi agricoli di livellamento delle terre, aratura, erpicatura ma anche semina e trebbiatura. Dal seno stesso della colonia invece sarebbe anche dovuto nascere un caseificio5. Operai e artigiani fatti venire dall’Italia avrebbero dovuto costruire le case (e il mobilio delle stesse) che avrebbero in seguito ospitato i coloni. Ma pure una
3
Rossi Ugo 1953: 329.
4
Martini 1994: 51.
5
Rossi Ugo 1953: 335.
IL SECONDO ERRORE - 167
casa per il direttore, per un medico e per il contabile, una chiesa e la casa del prete, una scuola e l’abitazione del maestro, uno spaccio cooperativo e, naturalmente, le case per quegli operai e artigiani che sarebbero rimasti in Cile anche in seguito per far funzionare la segheria6. Poi quegli operai avrebbero dovuto continuare, col legname prodotto in zona, a realizzare prodotti artigianali, suppostamente per la colonia ma anche per il mercato nazionale. Il progetto di sviluppo del Fundo o Hacienda San Manuel era, per dirla così, misto. Da un lato, nella parte considerata più fertile, doveva nascere una colonia in cui lotti di terra sarebbero stati distribuiti a famiglie di immigrati italiani. Dall’altro lato la CITAL avrebbe dovuto gestire il resto dell’azienda in modo da farle produrre utili come una normale entità produttiva privata. Oltre alla segheria (e anche falegnameria) sul territorio aziendale erano presenti 107 famiglie di inquilinos, 1.050 persone in tutto che si occupavano di allevamento, agricoltura e, probabilmente, anche di legname. «Molti degli inquilinos – scriveva Ugo Rossi che aveva fatto parte della missione tecnica italiana che aveva deciso di comperare quelle terre – sono nati e cresciuti sul fundo. Il contratto [nda, sottoscritto con loro dalla precedente proprietà ed ereditato dalla CITAL] è annuale e tacitamente rinnovabile... Gli operai agricoli ricevono una paga giornaliera compresa tra 12 e 20 pesos oltre a due pani di 1 chilo e a una minestra di legumi con riso o pasta. Le assegnazioni variano a seconda della località e della natura dei terreni, dai 20 ai 40 ettari»7.
Per capire quanto poco ricevesse quella gente vogliamo qui segnalare che nel 1950 un chilo di formaggio si vendeva in quella zona cilena a 51,87 pesos, il foraggio valeva 152 pesos il quintale, il chilo di manzo costava dai 12 ai 14 pesos, un sacco di carbone di legna di 33,5 chili valeva 50-55 pesos (ma solo 30 in primavera)8. Detto questo, non può non apparire paradossale la situazione che stava vivendo quell’azienda agricola complessa. Da lì a pochissimo avrebbero dovuto conviverci: 1) una colonia agricola in cui famiglie contadine europee avrebbero ottenuto una serie di vantaggi che avrebbero dovuto permettere loro di stabilirsi definitivamente in quel posto e produrre derrate alimentari; 2)
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Rossi Ugo 1953: 374-376.
7
Rossi Ugo 1953: 306.
8
Si tratta di prezzi forniti dalla stessa missione italiana, confronta Istituto 1953: 308-311.
per il lavoro italiano all’estero
nazionale di credito
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
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Il terzo errore: l’irraggiungibilità dei mercati
Il clima a San Manuel era buono, la piovosità sufficiente anche se non ben distribuita durante l’anno. Cadevano in media 970 mm di pioggia all’anno «in gran parte concentrata nel periodo invernale e con periodi estivi molto asciutti. L’umidità relativa media annua è del 73%; da aprile a ottobre sono frequenti le gelate e qualche volta cade la grandine»1.
La terra non era eccezionale, nemmeno tutta la terra da assegnare alle famiglie italiane. Ugo Rossi, della missione tecnica italiana, al dire di Claudio Martini, dopo aver partecipato alla scelta di quel territorio, aveva messo su carta un progetto di massima per la nascita di una colonia agricola. Si sarebbero dovute costruire le case per i coloni, evidentemente. Una stalla e un forno in ogni casa. Ma si sarebbe realizzato anche un centro coloniale, che col tempo avrebbe dovuto trasformarsi nel centro urbano della colonia. Ci doveva essere la casa del direttore e quella del contabile, la chiesa, la scuola, il centro cooperativo, le officine artigianali, il cimitero e anche una casa per ospitare i visitatori (chi se non la gente di CITAL, ICLE e CORFO?). L’indirizzo che avrebbe dovuto avere l’Azienda, e cioè i consigli che gli agronomi avrebbero dato ai coloni italiani che avrebbero preso terra a San Manuel, doveva essere «prevalentemente cerealicolo-zootecnico con possibilità di sviluppo della frutticoltura». A ogni famiglia di agricoltori sarebbe toccata una «casa colonica con tre camere, cucina, gabinetto, legno o muratura»2. 1 Sartorelli 1993-1994: allegato, «Le caratteristiche dell’Azienda San Manuel», documento spedito al Comune di Aldeno da Alcide Saltori, segretario dell’assessore regionale Rosa. 2
Sartorelli 1993-1994.
San Ramon 1953. A cavallo don Giorgio Cristofolini inviato dalla Regione per cercare di dare soluzione ai molti problemi della colonia. Con lui il geometra Paoli, trentino che per un certo tempo lavorò per la Cital.
172 - PARTE PRIMA / CAPITOLO DICIOTTESIMO
Ugo Rossi sapeva bene che l’azienda che l’ICLE aveva comperato presentava un altro, gravissimo, problema. Era quello delle comunicazioni viarie. «La strada a fondo naturale della larghezza media oscillante tra 3 e 5 metri, raggiunge Parral dopo chilometri 35 di percorso». Per 9,2 chilometri, osservava ancora Rossi, ci sono cunette e tombini ed è «transitabile in ogni stagione. Per il resto è intransitabile durante le piogge con mezzi meccanici, ma solo con carrette e con cavalli. Costituendo ciò un gravissimo inconveniente per la stessa vita del fundo»3.
Aumentavano un poco i chilometri nelle comunicazione che la Regione Trentino-Alto Adige di lì a qualche tempo avrebbe fatto avere ai Comuni, interessandoli a questo tipo di colonizzazione: «La stazione ferroviaria più vicina è Parral che dista 38 km dall’Azienda. La viabilità esterna comprende i suddetti 38 km di strada provinciale fino a Parral con pochissimo dislivello, a fondo naturale per km 10 e su ghiaia per km 28. Non esiste servizio pubblico di autotrasporti fra San Manuel e Parral»4.
Un problemaccio per quei tempi, se le cose non fossero cambiate prima dell’arrivo dei contadini italiani. Claudio Martini parla di «una sola strada, verso Parral, di terra battuta, intransitabile in inverno per le precipitazioni che in diversi punti la interrompevano. Ma all’interno della colonia la situazione era simile ed esisteva solo un mezzo per raggiungere tutti gli angoli del fondo, il cavallo»5.
Chiaro, la missione tecnica italiana aveva definito da subito la necessità di realizzare migliori vie di comunicazione, sia all’interno della colonia che verso l’esterno. Il fatto è che la fretta di condurre immigrati in quelle terre e la scarsità di risorse finanziarie, da subito sofferta dalla CITAL, renderanno il progetto irrealizzabile. E del resto, già dall’inizio si presentava come molto costoso: si trattava di quasi 40 chilometri di strada che avrebbero dovuto essere resi transitabili da camion e automobili, in un paese in cui erano ben altre, anche in termini di comunicazioni, le priorità delle autorità. 3
Rossi Ugo 1953.
4 Sartorelli 1993-1994: allegato, «Le caratteristiche dell’Azienda San Manuel», documento spedito al Comune di Aldeno da Alcide Saltori, segretario dell’assessore regionale Rosa. 5 Martini 1994: 52.
IL TERZO ERRORE - 173
I coloni di San Manuel, quindi, da subito furono costretti sostanzialmente all’isolamento, e cioè a dover fare i conti con la grande difficoltà di commercializzare i loro prodotti a prezzo equo. Se il problema era il trasporto, avrebbe potuto pensarci la compagnia, la CITAL. Ma come vedremo questo non accadrà. Perciò, le famiglie coloniche furono costrette a ritornare a una economia di sussistenza: ciò che producevano era per il loro consumo o per pagare le rate della parcella e solo poco, pochissimo del loro prodotto arrivava a Parral ed era loro pagato a prezzi infimi. Ecco allora le considerazioni dei trentini che a San Manuel ci vissero. Angelo Andrighi Serra: «Eravamo troppo distanti dalla città, ciò che si coltivava era per la casa, non era per il commercio»6.
Ma era difficile anche arrivare a quel centro abitato, che del resto non costituiva che un piccolo villaggio, anche per altre ragioni, problemi di salute ad esempio. «Non c’era il pullman i primi anni, dovevi rimanere lì, se uno si ammalava bisognava pagare un’auto jeep. La colonia aveva due camionette e una jeep, ma le usavano per noi solo in caso di emergenza».
Ettore Seppi, che trovammo proprio a San Manuel de Parral nel 1992, afferma: «Si era lontani e Parral era un paese piccolo, che non permetteva un gran mercato. Se uno piantava pomodori in quantità, non li poteva vendere a Parral. Non si potevano vendere i prodotti e il poco che vendevi era a buon mercato. Il frumento non valeva niente, le patate non valevano niente, il mais non valeva niente. Lavoravi ma alla fine non valeva niente. Non si poteva comperare una camicia, un paio di scarpe, una gonna o andare a una festa»7.
Col tempo un qualche tipo di comunicazione regolare si stabilì, ma era poco. Teresa Panizza ricorda che «il pulmino veniva una volta al mese e si andava a Parral a comprare quelle due o tre cose che occorrevano»8. Evidentemente,
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Conversazione con Angelo Andrighi Serra, San Nicolas, 1 marzo 1992.
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Conversazione con Ettore Seppi, San Manuel de Parral, 1 marzo 1992.
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Conversazione con Teresa Panizza, Santiago del Cile, 3 marzo 1992.
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CAPITOLO VENTINOVESIMO
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Terre trentine alla colonia post nazista Dignidad
Anche la famiglia Andrighi di Vermiglio ebbe vita dura in Cile. Quattro figli e i due genitori (papà Riccardo, a detta del figlio Angelo, in Trentino era minatore, non possedeva terra e non aveva mai fatto il contadino) fu uno dei nuclei familiari che alla fine vendette la parcella a Paul Schäfer che, ai confini con la Colonia San Manuel, gestiva la Colonia Dignidad. Al proposito ecco alcuni ricordi di Angelo Andrighi: «Io sono rimasto a San Manuel dal 1953 al 1989. Mia sorella nel 1960 è andata a Santiago a lavorare. Poi si è bruciata con il ferro da stiro, è morta carbonizzata, con la mano bagnata e la corrente elettrica, nel 1961. Poi è andato via mia fratello più vecchio, il Paolo, nel 1967 più o meno. È andato a cercare lavoro, dove eravamo non si poteva vivere. È andato a Chillan a lavorare con i mobili. Poi è andato via il fratello più giovane, Gualtiero, nel 1971. È andato a fare l’operaio in una fabbrica a Santiago, poi il sorvegliante in una casa, la notte. Viveva più o meno, andava alla parrocchia dove gli davano sempre qualcosa. Mia madre era morta nel 1956 a San Manuel. Mio padre è morto nel 1980, sulla parcella, e l’ultimo rimasto lì sono stato io. Si viveva da soli, come in una selva. Non sono rimasto là perché mio fratello aveva deciso che si doveva vendere la parcella. Era divisa in quattro parti, una a me, una a mio fratello di Chillan e due alle due figlie di mia sorella che era sposata con un cileno. Poi mio padre ha legittimato lui le due ragazze, come se fossero sue figlie. La parcella è stata venduta nel 1989, io allora ero sposato e avevo quattro figli. Mio fratello e le due hanno fatto senza di me. Sono andati dal tedesco e hanno venduto le loro parti. Il tedesco della Colonia Dignidad è venuto poi da me: ‹O vendi anche la tua parte o ti sistemiamo noi›. Allora ho venduto anch’io. Non si poteva vivere con una sola parte e con quella gente vicino ancora meno. Ti avrebbero messo al muro. Volevano la terra.
Miniera El Salvador, a 100 chilometri da Chañaral. Il negozio di Giuseppe Bimbo Serra di pellami, scarpe e abiti da minatore.
262 - PARTE PRIMA / CAPITOLO VENTINOVESIMO
Era gente strana, vivevano bene ma con gli italiani parlavano poco e con i cileni ancora meno. Non ci sono famiglie, casette. È tutta una società con uno che comanda. Sono stato lì dentro, lavorano bene. Le donne dormono di qua, gli uomini di là. Bambini ce ne sono, tanti. Si sposano ma poi vengono separati. Verso il 1970 io sono andato a lavorare per loro. Mi davano dieci chili di farina, un pane di due chili e 200 pesos al giorno. Si guadagnava bene. Producevamo la barbabietola. Loro avevano macchine che venivano dalla Germania. Non potevi fare amicizia, buongiorno e arrivederci, e basta. Parlavano puro tedesco. Molta disciplina, quelli che lavoravano non erano contenti, parlo dei tedeschi. Molti sono andati via, scappati. Ho parlato con Müller che è tornato in Germania. Diceva che dentro si lavorava per vestire e mangiare, niente altro. Se si voleva uscire, non si poteva. Erano armati anche ma lo stesso scappavano in tanti. La maggior parte da soli. Uno che era qui, in un bowling, è scappato con la moglie. Aveva un locale dove si gioca e si mangia. È andato all’ambasciata del Canada e poi lo hanno mandato in Germania. È scappato con tre milioni, ha venduto l’auto, una Mercedes Benz. Non era il capo ma uno di fiducia. I miei hanno venduto a loro per poco, la parcella valeva 25 milioni e hanno ricevuto 9 milioni di pesos. Io ho dovuto vendere per tre milioni, perché mi pagavano uguale agli altri. Poi ho cercato questo pezzetto, due ettari di terra. Coltivo un ettaro, mais e un po’ di patate, per il consumo. Per vivere devo lavorare in un fondo di San Nicolas. Il proprietario è uno nato in Svizzera. Lavoro da lui dalle 8 alle 12 e dalle 2 alle 6, tutti i giorni. Otto ore al giorno e prendo 1.500 pesos [nda, al cambio del 1992 si trattava di 3.850 lire al giorno, un salario molto basso]. È duro ma non ho altro. I miei figli sono piccoli, il più vecchio ha 14 anni e il più piccolo soltanto 4, tre di loro vanno a scuola. Sarebbe stato meglio restare in Italia. È andata male, sono in Cile da quasi quarant’anni, solo lavoro e mani vuote. Mancavano i macchinari per poter lavorare, mancavano un poco di soldi. Qui ho messo su un piccolo spaccio, bibite e cose del genere, dà solo per il mangiare, ci sta la moglie»1.
Il fondatore e capo assoluto di quella colonia, che confinava con le terre trentine e abruzzesi di San Manuel, era Paul Schäfer, nato a Troisdorf, Germania, il 4 dicembre 1921. L’uomo da giovane si era affiliato alla Gioventù hitleriana e aveva poi servito nell’esercito come infermiere, raggiungendo il grado di caporale. Dopo la guerra aveva creato una specie di casa di accoglienza per bambini, legata a una setta evangelica, e nel 1959 la Missione sociale privata
1
Conversazione con Angelo Andrighi Serra, San Nicolas, 1 marzo 1992.
TERRE TRENTINE ALLA COLONIA POST NAZISTA DIGNIDAD - 263
con scopi caritatevoli2. Nello stesso anno l’uomo fu accusato di abusi sessuali su due bambini e quindi scappò dalla Germania con alcuni suoi adepti, si dice aiutato dalla rete di autoprotezione nazista «Odessa». L’entrata in Cile sarebbe provata a partire dal 1961. Schäfer nella zona di San Manuel de Parral creò la Società benefattrice ed educativa Dignidad che diverrà la famigerata Colonia Dignidad3. I primi coloni tedeschi giunsero con lui in Cile. Nel 1966 erano già duecentotrenta. Sull’esterno Schäfer iniziò allora a proiettare, attraverso la stampa ma anche mettendo in circolazione dei filmati, l’immagine «bucolica» di un’isola felice in cui, in costumi bavaresi, la gente viveva tra il lavoro dei campi, le faccende di casa, feste e commemorazioni. Come abbiamo saputo dalla testimonianza trentina che abbiamo proposto però, qualcuno da quella istituzione riusciva a fuggire, pur se le possibili vie di fuga erano guardate a vista da persone armate. Verso la metà degli anni ottanta un tedesco scappò di là e si rifugiò in Germania dove denunciò alle autorità le violenze a cui erano sottomessi gli abitanti della colonia tedesca da parte del suo leader. Nel 1985 si aggiunse a ciò la scomparsa del russostatunitense Boris Weisfeiler che stava girando il Sud del Cile con uno zaino sulle spalle e di cui le ultime notizie venivano proprio dalla Colonia Dignidad. Si deve pensare però che al tempo al governo del Cile c’era il dittatore Augusto Pinochet Ugarte che a un certo punto aveva pure visitato la colonia in cui peraltro la figlia Lucia trascorreva di tanto in tanto i suoi fine settimana con la famiglia. La gente della colonia conduceva una vita assolutamente appartata, parlando strettamente il tedesco, lavorando in modo organizzato, con una certa profusione di investimenti (da subito Schäfer aveva acquistato una proprietà di circa 15.000 ettari di terreno). Venne creato un buon ospedale, una scuola. I servizi della struttura medica potevano essere anche usati dai vicini cileni, e dai pochi italiani rimasti a San Manuel, gratuitamente. Ma aldilà di ciò Colonia Dignidad era una zona franca, praticamente territorio indipendente in mezzo al Cile, in cui vigevano solo le leggi imposte da Schäfer. Nessuno dei 2 Un libro di riferimento è Heller 2006. Della vita della Colonia Dignidad, su cui i giornali cileni, ma anche internazionali, hanno speso pagine e pagine, si possono trovare cospicui materiali in Internet. A partire da Wikipedia che dedica due capitoli proprio a Paul Schäfer e a Villa Baviera (così in seguito venne chiamata Colonia Dignidad). 3 In seguito il fondo su cui era stabilita la colonia venne chiamato Villa Baviera.
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CAPITOLO PRIMO
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La corsa forsennata verso la fondazione della Colonia San Ramon
Alla fine di febbraio del 1952 in Trentino nessuno conosceva nemmeno per nome le località San Ramon, Santa Ines, Rinconada e Mirador. Eppure, dopo solo sette mesi e mezzo sarebbero partite per quella destinazione le prime famiglie trentine e a ruota tante altre fino a formare il contingente di gran lunga più importante del flusso migratorio trentino verso il Cile. Una corsa folle. Ma vediamo di chiarire, sulla base della documentazione scritta, come si sviluppò quel rush. Il 27 febbraio del 1952 l’assessore Riccardo Rosa, che offriva ai sindaci trentini la possibilità di partecipare alla selezione per l’invio di dieci-quindici famiglie di agricoltori verso la colonia San Manuel, aggiungeva: «Si fa presente inoltre che non è prevista in un prossimo futuro, e difficilmente per quest’anno, alcuna operazione di emigrazione nella zona di La Serena e che la rinuncia al concorso per l’espatrio di questa operazione potrebbe significare l’abbandono di ogni prospettiva di emigrazione»1.
In realtà, se a Trento a quel punto le autorità, che pur speravano di aver iniziato con la fondazione della Colonia Vega Sur un flusso di emigrazione di consistenti dimensioni verso il Cile, parevano propense a pensare che ci sarebbero voluti molti mesi per concretizzare altre iniziative, in Cile il presidente Gonzàlez Videla fremeva. Il suo mandato sarebbe scaduto verso fine anno e non c’erano dubbi di sorta sul fatto che il suo successore, chiunque esso fosse stato e di
1
Sartorelli 1993-1994: 76.
Rinconada (La Serena), verso 1954/55. Visita del Nunzio Apostolico.
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qualsiasi schieramento politico, non avrebbe continuato a privilegiare la città natale, e gli interessi, del predecessore. Prima della comunicazione di Rosa ai sindaci però, il 15 febbraio del 1952, l’Adige di Trento, quotidiano del partito al governo, aveva annunciato che «altre duecento famiglie emigreranno in Cile»2. A questo punto va ricordato che tra il 7 e 10 marzo il trentino Giuseppe Andreaus fu in Cile con l’incarico della Regione di portare notizie più accurate sulla situazione a Vega Sur, dare un’occhiata a San Manuel che avrebbe dovuto ricevere un pugno di famiglie trentine e, probabilmente (ma questo lo diciamo noi e Andreaus al tempo lo negò), capire come e in quali zone avrebbe potuto svilupparsi il flusso migratorio trentino. Il presidente cileno aveva già parlato di duecento nuove famiglie e chiaramente pensava alla sua La Serena. Una boutade di cui le autorità trentine non sapevano altro e che doveva ancora essere meglio specificata dalle autorità cilene? Insomma, si sapeva già quali avrebbero dovuto essere le terre per quelle duecento famiglie trentine e, quindi, ad Andreaus venne dato mandato di visitarle? La cosa non è di poco conto visto che in molti, e tra questi centinaia di trentini emigrati in Cile, accusano Andreaus di essere uno dei responsabili di fatto del fallimento di quel terzo esperimento di colonizzazione trentina in Cile. Ciò che noi possiamo dire è che in quell’inizio di marzo ancora nessun documento ufficiale parlava delle aziende agricole dei fratelli Coll su cui si svilupperà la colonia San Ramon. Le date quindi: a metà febbraio i giornali parlarono di duecento famiglie trentine in Cile. Agli inizi di marzo partì Andreaus. Dalla sua relazione3 sappiamo che quasi certamente aveva avuto l’incarico di dare un’occhiata a Vega Norte, dove invece nel successivo ottobre sarebbero giunte famiglie tedesche, in quanto scrive in premessa: «10.3.52 visita alla nuova zona oggetto di colonizzazione (Vega Norte)».
Abbiamo anche riferito della sua visita a San Manuel. Ciò dovrebbe dimostrare la sua «innocenza», anche tenendo in conto che quando la sua relazione scritta fu pronta, nel settembre del 1952 cioè (chiaramente a voce si era fatto
2
l’Adige. Trento, 15 Febbraio 1952.
3 Relazione presentata da Giuseppe Andreaus dopo la sua visita in Cile alla giunta regionale del Trentino-Alto Adige, 1 luglio 1952, trascritta in Grigolli Mariaviola 2005.
LA CORSA FORSENNATA VERSO LA FONDAZIONE DELLA COLONIA SAN RAMON - 273
sentire in Regione già al rientro), nessun contenzioso era in atto a San Ramon e Andreaus non aveva quindi bisogno di difendersi da qualsivoglia accusa. Rimane però un dubbio, che le stesse successive testimonianze di Andreaus fanno nascere. Nella sua relazione egli sconsigliò le autorità trentine di inviare contadini a San Manuel, ma spese parole importanti sui benefici che sarebbero potuti venire al Trentino e alla sua gente con l’invio di più cospicui flussi di emigrazione verso La Serena. È fuori di ogni ragionevole dubbio il fatto che, accompagnato nei suoi lunghi spostamenti da autorità cilene, Andreaus sia stato «imbeccato» in questo proprio da loro e da quei tecnici italiani, di ICLE e CITAL, che stavano già lavorando a nuove imprese. Giuseppe Andreaus, lo ricordiamo, nel novembre successivo si sarebbe presentato nelle liste della Democrazia cristiana alle elezioni regionali; era quindi persona vicina, ad esempio, all’onorevole Helfer. Dopo queste considerazioni riusciremo a capire meglio le annotazioni che seguono, tratte dalla sua «Relazione». Dopo aver sconsigliato la colonizzazione a San Manuel scrisse che le cose sarebbero andate meglio: «concentrando maggiormente il nostro nucleo colonico nella zona del Norte e precisamente a La Serena, ove esistono certamente condizioni e fattori più idonei e più vicini alle esigenze e alla mentalità della nostra popolazione rurale... È perciò qui rigoroso e giusto, per debito di riconoscenza, mettere in rilievo l’intelligente opera svolta dalla nostra precedente missione formata dall’on. Helfer, dottor Marchi e dottor De Pretis i quali, dopo aver minutamente visitato tutto il Cile, indicarono e scelsero come la zona per noi più adatta, quella dove attualmente il nucleo trentino sta mettendo radici e ampliandosi».
Se fu questo anche il succo delle sue comunicazioni verbali al presidente Odorizzi e all’assessore Rosa, le sue responsabilità sul fallimento di San Ramon si rivelerebbero evidenti. Ma Andreaus visitò o no le terre di La Serena che il presidente Videla aveva già in testa di colonizzare? Sentiamo lo stesso Andreaus che una trentina di anni dopo rilasciò un’intervista al giornalista Mauro Lando: «Proprio dai coloni a La Serena [nda, di Vega Sur] venni a conoscenza del possibile arrivo di altre famiglie trentine. Mi fu detto che sarebbero state insediate in un’altra zona che mi venne descritta come inadatta perché aveva terreni magrissimi e privi di acqua. Io però non andai a visitarla, l’ho solo vista nel viaggio di ritorno dall’aereo e ho avuto solo le indicazioni dai coloni... Non avevo nessun compito [nda, dalla Regione]. Ripeto che i coloni mi dissero anche che
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CAPITOLO SECONDO
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Il progetto di colonizzazione
Molta gente, nel corso dei decenni, ha avuto accesso alla documentazione italiana e cilena relativa alla colonizzazione di San Ramon. Vari documenti hanno lasciato le sedi deputate. Così, ad esempio, in una raccolta di documenti cospicua e piuttosto completa come quella presentata per i tipi del Museo storico in Trento da Mariaviola Grigolli manca il progetto di colonizzazione di San Ramon. Viene presentato solo un documento dal titolo «Prospettive per una nuova colonizzazione trentina nella zona di La Serena redatta dall’ICLE, Roma giugno 1952» non molto approfondito1. Nemmeno le nostre indagini nell’Archivio CITAL conservato presso la Parrocchia italiana di Santiago hanno dato esito a questo proposito. Relativamente a quel progetto di colonizzazione, questi sono i ricordi, e i sospetti, di Vito Campostrini di Sabbionara di Avio: «I tecnici italiani che erano stati in Cile avevano fatto uno studio. Il dottor Picchio e un altro. Sotto il fascismo avevano lavorato anche in Libia. Erano andati via e avevano fatto uno studio».
Campostrini era entrato in possesso di quel progetto. Nel 1955, a suo dire (ricordiamo che Campostrini era un cattolico fervente), l’assessore Bertorelle che era a San Ramon nel 1955 per riorganizzare definitivamente quella colonia: «me lo chiese... L’ho prestato a Bertorelle, lui non l’aveva mai visto, mi ha chiesto di prestarglielo. Gli ho detto di stare attento che era un documento. Mi ha detto
1
Grigolli Mariaviola 2005: 81-86.
Nuova casa costruita dai Baldessari, parcella 14, Vega Sur 1957/58.
286 - PARTE SECONDA / CAPITOLO SECONDO
di stare tranquillo che poi me l’avrebbe restituito. Era rimasto lì in Cile un mese e quando è venuto a salutarmi mi ha detto che lo aveva dimenticato sul tavolo in albergo. Lui doveva partire subito e prendere l’aereo. Quindi ho preso la bicicletta e sono andato subito all’albergo. Ma non c’era niente»2.
Anni dopo il figlio di un colono trentino che aveva preso terra a San Ramon ci fece avere la velina (d’epoca) di un documento scritto in spagnolo di settantasei pagine, cui manca però l’intestazione e quindi è senza titolo, autore e data (porta invece alla fine un sommario). Si tratta con tutta probabilità di copia del piano di colonizzazione di San Ramon stilato in fretta dall’ingegnere agronomo italiano Picchio3, con la collaborazione di qualche altro tecnico. È databile dopo il 20 giugno del 1952 in quanto riporta indicazione di quella data e della pubblicazione sul Diario Oficial della norma che stanziava da parte del governo cileno 52.500.000 pesos a favore dei progetti di colonizzazione4. In effetti il progetto ICLE per San Ramon venne approvato il 30 luglio 1952. «Questo studio, – è detto nel documento – [è] il primo che la CITAL elabora dalla sua creazione... Il presente lavoro non costituisce il progetto definitivo, in condizioni già di essere applicato ma solo un pre-progetto di linee generali».
La documentazione insomma rappresentava uno studio agronomico ed economico mentre erano appena abbozzati gli aspetti di ingegneria «specie in relazione alle opere di irrigazione, strade coloniali e rifornimento dell’acqua potabile». A meno di un mese dalla partenza dei primi trentini dall’Italia la CITAL non aveva assolutamente chiaro che cosa si dovesse fare per risolvere alcuni problemi fondamentali delle nuove terre agricole acquisite: l’irrigazione in una zona in cui praticamente non pioveva mai, e la realizzazione di pozzi e di strade interne ed esterne della colonia (il progetto definitivo ed esecutivo delle opere
2
Conversazione con Vito Campostrini, Sabbionara (TN), 4 dicembre 1991.
3 Dell’agronomo Picchio sappiamo poco. Era in Paraguay nel 1951, quando venne chiamato in Cile e messo a capo dell’ufficio tecnico della CITAL con contratto a scadenza. Già un anno dopo voleva lasciare quella terra per l’Italia ma, da quanto risulta dalla documentazione che abbiamo visionato, abbandonò il Cile solo nel maggio del 1953. 4 D’ora in poi questo documento sarà da noi indicato come Trento, Archivio Renzo Maria Grosselli, copia velina «Progetto di colonizzazione delle terre di San Ramon, Santa Ines, Rinconada e Mirador dell’ingegnere Picchio».
IL PROGETTO DI COLONIZZAZIONE - 287
di irrigazione, strade coloniali e acqua potabile avrebbe dovuto essere preparato a partire da nuovi studi che, si diceva, sarebbero stati messi in cantiere immediatamente). Vogliamo ricordare che il progetto stilato a suo tempo per la creazione della Colonia Vega Sur diceva al suo attacco: «Nella zona di La Serena l’agricoltura è legata quasi esclusivamente alla possibilità di irrigare»5.
I terreni acquistati dalla CITAL ai fratelli Coll misuravano 1.715 ettari. Le comunicazioni con La Serena e Coquimbo erano «generalmente buone», diceva lo studio. C’erano 6-8 chilometri tra La Serena e Santa Ines-San Ramon e 14 tra La Serena e Rinconada-Mirador (Santa Ines e San Ramon distavano a loro volta 7 chilometri da Rinconada e Mirador). Anche le strade interne, a detta del progetto, «sono in condizioni molto buone» (fatto che i nostri testimoni contestano assolutamente). L’estensore dello studio osservava che: «Mirador e Rinconada mancavano completamente di sorgenti e acque sotterranee per il rifornimento di acqua potabile per l’attuale popolazione e i futuri coloni».
A Santa Ines e San Ramon c’erano invece due pozzi, uno però ubicato in terreni esterni a quella proprietà. Il secondo, interno, non era al momento in funzione: «Si stima che la sua acqua sia potabile». Seguiva a ciò un’analisi dei terreni coltivabili e non coltivabili delle varie zone e l’informazione che nell’annata agricola 1951-1952 erano stati coltivati in quelle terre dei Coll solamente 260 ettari di terra su 1.144. L’estensore dell’indagine assegnava molto interesse al fatto che i futuri coloni di San Ramon avrebbero avuto a disposizione aree di pascolo per l’allevamento bovino: quelli di Santa Ines-San Ramon in terreni esterni alla colonia e in «comunità di altri allevatori cileni, previo pagamento», quelli di RinconadaMirador su terreni della colonia. Ma era «molto difficile valorizzare le possibilità di questi pascoli, perché erano stagionali, soggetti alle variazioni pluviometriche». In termini di energia elettrica:
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Grigolli Mariaviola 2005: 20.
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CAPITOLO TERZO
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Speranze e promesse: la selezione delle famiglie
In Trentino, naturalmente a rotta di collo, venne iniziata la selezione delle famiglie che avrebbero partecipato al nuovo progetto di colonizzazione di quella che fu definita inizialmente Colonia Nuova Serena1 ma che in effetti verrà sempre conosciuta semplicemente come San Ramon. Probabilmente all’inizio la Regione operò una selezione oculata. Si ammettevano famiglie contadine che racchiudessero forza lavoro sufficiente per mettere a frutto da subito una parcella di terra. Tanto che tra le famiglie che partirono ce ne furono alcune che non avrebbero avuto l’impellente bisogno di mettersi sul mercato dell’emigrazione. Si lasciarono lusingare da promesse che facevano loro balenare l’idea che avrebbero trovato una parcella di grandi dimensioni (rispetto alle grandezze medie della proprietà in Trentino) e una bella casa in una zona a clima paradisiaco. Col passare delle settimane e dei mesi, e sempre sotto la pressione della fretta, queste condizioni divennero meno rigide e iniziarono a essere ammessi anche capifamiglia non contadini. La maggior parte di questi avevano comunque una tradizione contadina in famiglia e da giovani avevano aiutato i genitori a lavorare la terra e nella stalla, anche se ce ne furono di quelli, pochi, che non sapevano proprio nulla di agricoltura. Si permise anche che il nucleo familiare fosse composto in realtà di più famiglie: talvolta parenti, talaltra solo amici o compaesani. Erano i cosiddetti aggregati che, in percentuali molto minori, erano stati inviati anche alla Colonia Vega Sur. Ci furono casi di varie coppie di giovani che, messe assieme, formarono un unico nucleo familiare.
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Sartorelli 1993-1994: 178.
Ida Abolis a cavallo e Guglielmo Abolis con un operaio su un carretto, La Serena 1955 circa.
298 - PARTE SECONDA / CAPITOLO TERZO
Tra quelle cento famiglie c’era di tutto. Gente delle plaghe trentine più agricole (la val Lagarina e quella dell’Adige, la val di Non), gente dei paesi di montagna più alti (i solandri di Dimaro e Vermiglio, famiglie della valle di Pejo, altre della montagna di Brentonico, gruppi minori di Vallarsa, Alta val Rendena, Pinetano e Primiero). Qualcuno non possedeva nulla, altri vendettero tutto per andarsene in Cile. Una cospicua maggioranza vendette una parte dei suoi beni (normalmente una casa e pochi appezzamenti di terra) e un’altra parte pensò di non alienarla, affidandola a qualche parente. Avrebbe potuto essere venduta in caso di bisogno: magari per fare degli investimenti in Cile ma, soprattutto, nel caso che ci fosse stato bisogno di tornare in Trentino, per pagarsi il viaggio e, chi ne aveva di più, per poter ricominciare a vivere e produrre al ritorno. Evidentemente, alcuni si portarono molte cose in Cile, altri, oltre ai vestiti solo pochi attrezzi agricoli e qualcuno (pochi) solamente gli stracci che aveva addosso. Ricordando che il Trentino del secondo dopoguerra era ancora una terra in cui il settore più importante era quello primario, anche se in via di rapida trasformazione, possiamo dire che la grande maggioranza di quei capifamiglia e aggregati erano contadini e molti lo erano stati in gioventù o lavoravano i pochi campi che avevano nei ritagli della loro nuova professione (manovali, minatori, boscaioli, artigiani di varie tipologie e anche operai di fabbrica e braccianti). Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi di che tipo di agricoltori si trattava: i veri e completi agricoltori di pianura non costituivano la parte preponderante di quegli emigranti. Ma forse non era di loro che c’era esclusivo bisogno: il progetto di colonizzazione di San Ramon, ad esempio, prevedeva che nei primi tempi di colonia i contadini vivessero soprattutto dell’allevamento di qualche vacca, e della produzione di latte, burro e formaggio. Ecco allora che i migliori allevatori erano proprio delle valli alte, e così i casari che venivano dalla val di Sole o anche dalla Valsugana e dal Primiero. Gente che durante l’estate lavorava nelle malghe trentine in quel gruppo ce n’era molta. Dobbiamo anche ricordare che quelle parcelle stavano le une attaccate alle altre, formando se non proprio un nucleo urbano almeno una comunità abbastanza coesa. Ci sarebbe quindi stato bisogno anche di artigiani. Uno dei testimoni, che era muratore, ci disse che riuscì a convincere i selezionatori affermando proprio che i contadini di lì a poco avrebbero avuto bisogno di allargare la casa, o di realizzare una stalla. Certamente anche la Regione aveva previsto di lasciar partire qualche capofamiglia artigiano. Come lui, altri
SPERANZE E PROMESSE: LA SELEZIONE DELLE FAMIGLIE - 299
giovani che quasi sempre erano aggregati a una famiglia contadina, non moltissimi in verità, partirono proprio con l’idea di svincolarsi subito dalla terra e dalla colonia per cercare di mettere a frutto una loro diversa professionalità in città. San Ramon avrebbe potuto essere una colonia completa, con ogni professionalità disponibile (anche perché molti tra i contadini sapevano comunque fare dell’altro, com’era consuetudine atavica sulle Alpi, dove i lunghi inverni costringevano gli agricoltori a cercare un’integrazione del reddito annuale, anche fuori dalla loro comunità). «C’era un avvocato di La Serena – ci raccontò Vito Campostrini – che era entusiasta della nostra colonia, diceva che era una colonia perfetta, voleva che traducessimo per lui lo statuto della nostra Cooperativa. È venuto da noi un paio di sere. Lui ammirava il nostro statuto. Vedendo che c’era il fabbro, il muratore e tanti altri artigiani, considerava la nostra una colonia perfetta. Se avesse avuto successo sarebbe stata un gioiello per il Cile»2.
L’impressione che si ha però, ascoltando i testimoni dell’epoca e leggendo i resoconti scritti, è che alla fine la Regione, per il bisogno che aveva di mettere insieme in fretta le cento famiglie (in realtà molte di più se si considerano appunto gli aggregati), abbia accettato le pressioni di sindaci e Comuni che in quel momento vivevano con più disperazione problemi di disoccupazione di fasce della cittadinanza. Tra questi alcuni Comuni della val di Sole, Vermiglio soprattutto, da cui partirono molte famiglie i cui capifamiglia essenzialmente nella loro vita lavorativa erano stati minatori o anche artigiani. L’opinione è espressa anche da Renato Albertini, giunto con la famiglia in Cile all’età di vent’anni e che alla fine seppe imboccare la carriera di docente universitario di successo a Santiago: «Dicono che la scelta delle famiglie per il primo turno di partenza fu fatta da un signore di nome Vergara. Coloro che lo accompagnarono in Trentino scelsero famiglie che erano legate all’agricoltura. Ma appena Vergara tornò in Cile, la scelta delle famiglie passò ai Comuni. Questi cominciarono a mettere in lista famiglie che erano scomode al Comune»3.
2
Conversazione con Vito Campostrini, Sabbionara (TN), 4 dicembre 1991.
3
Conversazione con Renato Albertini, La Serena (Cile), 12 febbraio 1992.
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CAPITOLO QUARTO
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Gli addii
Le partenze vennero distribuite su cinque scaglioni, dal settembre al dicembre del 1952. Nei villaggi trentini si susseguirono scene che erano state tipiche degli anni settanta e ottanta dell’Ottocento quando decine di migliaia di contadini trentini avevano lasciato la loro terra per cercare una sorte migliore specialmente in Brasile, Argentina, Uruguay, ma anche Messico, Venezuela e persino Guatemala. Di seguito il ricordo del valsuganotto Lino Rosso: «Quando sono partito da Olle è arrivata la corriera e c’era la piazza piena di gente che piangeva. C’eravamo noi, i D’Andrea, il Boccher e un altro, Giacometti aggregato del Boccher. C’erano tutti quei pianti per la gente che partiva per il Cile. C’era il prete anche»1.
Ancora più emozionanti furono le partenze da Vermiglio da dove presero il volo decine di famiglie. Queste le impressioni ex post di Paola Longhi: «Di Vermiglio c’erano un centinaio di persone, forse di più. Non c’erano che lacrime, tra quelli che vedevano disfatta la famiglia e quelli che partivano. In generale erano gli uomini che volevano andare via. Quando siamo partiti ci hanno fatto un pranzo a Trento, ma le donne erano tutte fuori sul corridoio, col fazzoletto. Avevamo i figli piccoli, era quella la differenza»2.
Da Dimaro partì Guido Valentini:
1
Conversazione con Lino Rosso e Pia Boschele, Borgo Valsugana (TN), 24 luglio 1992.
2
Conversazione con Carlo Pangrazzi e Paola Longhi, Vermiglio (TN), 16 aprile 1992.
Gruppo di coloni trentini a Rinconada (La Serena) nel 1955. Tra loro Daprà, Olivieri, Panizza, Delpero, Abolis, Pangrazzi.
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«C’erano altre quattro famiglie oltre a noi. Siamo partiti insieme dalla piazza. Era dopo pranzo, tutti gli alunni della scuola sono venuti a darci l’addio. C’era la neve e un bus. È una cosa che mi è rimasta impressa fino a oggi»3.
La partenza era verso una possibile «fortuna». Ma anche verso l’ignoto. Era quindi meglio premunirsi. Ci fu chi fece impartire ai figli il sacramento della cresima, visto che non si sapeva proprio bene dove si sarebbe andati a finire. Elda Albasini ha questo ricordo: «I preparativi sono durati tre mesi, perché andavo ancora a scuola. Noi quattro fratelli più grandi abbiamo fatto la cresima assieme, per partire».
Altri, tra gli aggregati soprattutto, ma anche tra i figli maggiori di qualche capofamiglia, organizzarono in fretta il proprio matrimonio prima di salire su quel pullman, recarsi a Trento a prendere il treno e quindi salire sulla nave a Genova. Tullio Bertolini di Vermiglio: «Era venuta una propaganda che diceva che avevano bisogno di centoventi famiglie per il Cile. Noi giovani ci eravamo messi d’accordo di andare: ‹Nen en Mèrica› dicevamo, anche se non sapevamo nemmeno dove fosse il Cile. Poi abbiamo scoperto che era in America del Sud. Così sono venuto giù dalla montagna, ero in malga, ho consegnato gli animali. Era il 18 settembre. Ho fatto le carte e il 4 ottobre mi sono sposato. In tanti si sono sposati a Vermiglio, forse quindici matrimoni. In quel momento ci siamo sposati in due, io e il Depetris»4.
Il Depetris in questione era Pietro, da tutti chiamato Pierino: «Mi sono sposato il 4 ottobre del 1952 e siamo partiti il 28 ottobre. In me si era ormai svegliato un desiderio di partire, perché avevo visto che non c’erano spazi in quei tempi. Si lavorava, si lavorava, e vedevo che le paghe di mio papà, la mia e quella di mio fratello a mala pena servivano per tirare avanti. Allora è venuta l’emigrazione in Australia e per il fatto che avevo la morósa che non voleva che io andassi, non sono andato. Poi è venuta l’opportunità di andare in Cile e ho fatto domanda. Ero disposto a fare l’agricoltore perché credevamo che
3
Conversazione con Guido Valentini, La Serena (Cile), 18 febbraio 1992.
4 Conversazione con Tullio Bertolini, Paine (Cile), 1 marzo 1992. Gina Coser Zanol, che era arrivata in Cile l’anno prima, a Vega Sur, ricorda che quando il marito le disse che sarebbero andati in America «gai fat na comedia! I diséva che ghèra salvadeghi. ‹Ndo vat mai en quel Messico›, i diseva el Messico» (conversazione con Gina Coser Zanol, La Serena (Cile), 10 febbraio 1992).
GLI ADDII - 311
l’agricoltura in Cile fosse come quella delle nostre pianure. Poi si sapeva che con la volontà si può fare qualsiasi mestiere. Infatti in Cile l’abbiamo dimostrato, ho fatto l’agricoltore, il carpentiere, l’amministratore, l’autista».
Pierino Depetris non lo dice, ma in seguito arrivò a essere un imprenditore di grande successo. «La mia fidanzata si chiamava Fede Deflorian. Mio suocero era un uomo rigido, rigoroso. Però quando ho chiesto la mano di sua figlia mi ha detto: ‹Bravo Pierino, la fortuna sorride agli audaci›»5.
Non avrebbe voluto fare il contadino, e in effetti non lo farà, un altro giovane cittadino di Vermiglio, Attilio Callegari, che nel volgere di alcuni decenni in Cile metterà insieme una vera e propria fortuna, immobiliare e commerciale soprattutto: «Sognavo sempre di andare in America ma pensavo agli Stati Uniti. Poi è uscita l’opportunità di andare in Cile. Anche lì volevano famiglie numerose. C’era però la famiglia di Mario Panizza che aveva otto figli e una figlia. Siccome era una bella ragazza, ho pensato di sposarmi con lei per andare in Cile, ma con l’idea, una volta là, di andare negli Stati Uniti»6.
5
Conversazione con Pietro (Pierino) Depetris, Copiapò (Cile), 22 febbraio 1992.
6
Conversazione con Attilio Callegari ed Eligia Panizza, La Serena (Cile), 31 gennaio 1992.
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CAPITOLO QUINDICESIMO
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Carlo Tomazzoli corre a San Ramon: «Misure drastiche per salvare la colonia»
La permanenza di Giorgio Cristofolini in Cile e la sua relazione finale «conflagrarono» in Italia e poi anche in Cile. In Trentino ebbero l’effetto di una potente sveglia sul governo locale (anche se la cosa venne sostanzialmente celata all’opinione pubblica, quindi ai giornali e al mondo politico). Le pressioni su Roma si fecero violente1: l’ICLE doveva ormai pensare a soluzioni drastiche per rimettere in carreggiata le colonie trentine, soprattutto San Ramon. In Cile è molto probabile invece che già l’incarico conferito al sacerdote non fosse piaciuto affatto al mondo politico e amministrativo locale. È ben vero che i radicali non si trovavano più al governo ma la cosa non aveva incrinato la tradizione laica della macchina statale2. L’ICLE dovette prendere provvedimenti rapidi, non potendo più fidarsi delle rassicurazioni che le venivano dai suoi uomini in Cile. Dovette farlo soprattutto il direttore generale Carlo Tomazzoli, un trentino che in tutta questa operazione aveva svolto la funzione di collante tra governo centrale e governo regionale. Fu lui a decidere di trasferirsi all’ombra delle Ande per una permanenza che non fu breve. La sua trasferta infatti durò dal 25 giugno al primo settembre del
1 Disse l’assessore Bertorelle al consiglio regionale del 16 ottobre 1953: «La Regione intervenne subito presso l’ICLE perché prendesse le misure necessarie per eliminare gli inconvenienti lamentati» (Grigolli Mariaviola 2005: 148). 2 Il 3 novembre del 1952 arrivava a La Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago, Carlos Ibáñez Del Campo, il dittatore che aveva retto le sorti del paese dal 1927 al 1931, stavolta per via elettorale.
San Ramon verso il 1953. battuata di caccia. Da sinistra Lino Vareschi e Luciano Gabrielli.
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1953. Gli ultimi trentini erano giunti a San Ramon da non molti mesi e le cose, in linea teorica almeno, avrebbero potuto ancora essere sistemate. Già il 17 luglio Tomazzoli inviò a Roma «un sommario rapporto», segno che gli erano immediatamente balzate agli occhi le ragioni del pessimo funzionamento della macchina colonizzatrice italo-cilena3. Poi, siglata il 7 ottobre 1953, ecco la «Relazione sulla missione svolta in Cile». Si trattava di diciassette pagine fittamente scritte a macchina a cui se ne aggiungevano quasi altrettante di allegati (situazione dei conti di ognuna delle colonie trentine e nuove idee, anche delle autorità cilene, relativamente a possibili nuove colonizzazioni, in considerazione dello sviluppo della situazione economica generale del paese latinoamericano)4. Tomazzoli era il direttore dell’ICLE, quindi le sue considerazioni dovrebbero essere intese come «risolutive» relativamente alle varie questioni affrontate. In Cile in quella occasione ebbe al suo fianco il direttore dei Consorzi irrigui di San Donà di Piave, dottor Luigi Fassetta5. Appena giunto in Cile, Tomazzoli decise la rimozione di Manfredo Mariottini da gerente della CITAL (come vedemmo seguendo le vicende della Colonia San Manuel). Già in luglio, infatti, al direttivo della Compagnia giunse una richiesta di dimissioni dell’uomo. Si trattava della sconfessione più clamorosa non solo della politica di colonizzazione portata avanti a San Ramon ma del complesso di studi e progetti che l’ICLE aveva creato sul territorio cileno. Mariottini, infatti, era stato un personaggio di spicco della missione italiana, era suo il progetto di organizzazione dell’azienda di San Manuel e quindi anche di colonizzazione di quella zona. Si dovevano a lui, in quanto gerente della CITAL, molte decisioni relative a San Ramon.
3 Trento, Archivio Renzo Maria Grosselli, Carlo Tomazzoli, «Situazione della Colonia trentina ‹San Ramon› (la Serena) in Cile», velina di dattiloscritto senza data ma certamente immediatamente successivo al primo settembre 1953. 4 Quasi ogni punto trattato dalla «Relazione» di Tomazzoli venne discusso anche dal direttivo della CITAL nelle sedute a cui partecipò pure il direttore dell’ICLE. Ne abbiamo prova dai verbali delle stesse. 5 La presenza del tecnico è annotata in Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 1 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 7 settembre 1953 e nel già citato documento «Situazione della Colonia trentina ‹San Ramon› (La Serena) in Cile», sunto della definitiva e più lunga relazione di Tomazzoli.
CARLO TOMAZZOLI CORRE A SAN RAMON - 413
Non erano solo errori teorici che il direttore dell’ICLE imputava al gerente della CITAL. Lo accusava anche, davanti al suo consiglio direttivo, di essere poco presente sul territorio, di non frequentare affatto le colonie di San Manuel e San Ramon che in quel momento stavano esplodendo. Tomazzoli perciò chiese subito la testa di Mariottini. E parve averla vinta in poco tempo. In realtà dovettero trascorrere alcuni mesi visto che Mariottini trovò certi appoggi a Roma e in Cile. Sarà solo nel maggio del 1954, dopo aver preteso ed ottenuto una gratificazione, che Manfredo Mariottini lascerà il Cile con sua moglie. Tomazzoli, probabilmente da tempo, aveva intuito comunque come l’intera ossatura della CITAL fosse inadeguata. In primo luogo già da mesi l’organizzazione mancava di un presidente (che per statuto doveva essere espresso dalla CORFO). Il primo presidente, Palma Vicuña, che era stato ministro delle Terre, già nel 1952 aveva lasciato l’incarico in quanto decaduto dal consiglio di amministrazione della CORFO con la chiusura dell’esperienza di governo di González Videla. Si era in attesa che il nuovo esecutivo e la Compagnia di sviluppo indicassero un nuovo presidente e, nel frattempo, era l’italiano dottor Amilcare Fiammenghi, nominato in consiglio in rappresentanza dell’ICLE, a ricoprirne le funzioni. Tomazzoli stava facendo pressioni sulla CORFO affinché si addivenisse a breve alla nomina di un nuovo presidente che fosse «una figura di prestigio». Perché? Perché potesse «dedicare un po’ di tempo alla Compagnia, dato che i consiglieri italiani sono persone molto impegnate nelle loro private occupazioni e in considerazione del fatto che Fiammenghi da tempo intende dimettersi da vicepresidente».
Gli altri consiglieri italiani, del resto, «partecipano alla vita sociale intervenendo alle sedute del consiglio e prestando altre forme di collaborazione allorché il gerente lo richieda».
In pratica, la struttura della CITAL risultava da un equilibrio voluto tra parte italiana e cilena che non sempre offriva garanzie di buon funzionamento. Solo il gerente lavorava a tempo pieno e solo il presidente aveva il tempo e il potere per valutarne le decisioni e, nel caso, correggerle. Da mesi però la CITAL era senza presidente e molte decisioni, probabilmente troppe, potevano essere prese dal solo Manfredo Mariottini.
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CAPITOLO SEDICESIMO
423
S’incrinano i rapporti tra ICLE e CORFO
In tutto questo bailamme di proteste (dei coloni), proposte (di Regione e ICLE), accuse (di Regione e ICLE alla CITAL) non si avvertiva, almeno negli atti ufficiali, la voce della parte cilena, del governo e soprattutto della CORFO. Ci vollero alcuni mesi ma infine, nel gennaio del 1954 la posizione dell’organizzazione divenne palese e fece conflagrare all’interno della CITAL un feroce dibattito. È chiaro, chiarissimo, che i verbali delle sedute del consiglio direttivo della CITAL riportano solo, o quasi solo, le decisioni e le considerazioni condivise mentre gli screzi, le proposte divergenti e i tentativi di mediazione, avvenivano fuori da quelle porte, in colloqui personali tra i rappresentanti ICLE e quelli di CORFO e Cassa di colonizzazione, su linee telefoniche arroventate che si attivavano tra Santiago e Roma e viceversa. Ma quando le divergenze si facevano tanto acute da portare alle dimissioni di un presidente, della CITAL in questo caso, non potevano certo non lasciare traccia sugli atti ufficiali. ICLE e CORFO non avevano la stessa opinione circa le cause che stavano rendendo drammatica la vita della Colonia San Ramon. CORFO e Cassa di colonizzazione non erano disposte, come invece lo erano ICLE e Regione Trentino-Alto Adige, a capire i gravi disagi delle famiglie coloniche che, una volta in Cile, avevano verificato come i patti non fossero stati rispettati e come, infine, fosse stato messo in piedi un progetto di colonizzazione con poche possibilità di riuscita. I cileni notavano il malcontento dei coloni, annotavano i loro atti di ribellione e ritenevano la nuova organizzazioni degli stessi, il Comitato, né più né meno come un gruppo di sediziosi che si permetteva di imporre condizioni a chi (i governi cileno e italiano) stava spendendo un’enormità di danaro in quell’impresa. Gruppo di coloni solandri nelle «desolate» terre di San Ramon.
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Questo atteggiamento era certamente dovuto a una serie di fattori. Tra questi va considerato il fatto che le autorità cilene non subivano nessun tipo di pressione «elettoralistica» da parte dei coloni. Al contrario, la stampa e le autorità locali spingevano nel senso di dare soluzione, una volta per tutte, ad una situazione che stava degenerando e che agli occhi dei locali risultava incomprensibile. Che cosa volevano quei contadini europei, arrivati in Cile senza mezzi e che qui erano stati ospitati in casette nuove e sistemati in terreni agricoli che sarebbero diventati ben presto di loro proprietà? Non era forse la norma, in Cile, che una massa enorme di contadini poveri girasse raminga per il paese, cercando e trovando, non sempre, un lavoro a condizioni spesso indecenti senza mai raggiungere la possibilità di diventare proprietaria di un pezzo di terra? A questo va aggiunto anche il fatto che risultava assolutamente vero che dopo mesi e mesi di lamentele vane, incomprensioni, richieste rifiutate e solo parzialmente accettate, tentativi riusciti e non riusciti di migliorare questo o quell’aspetto della vita coloniale a San Ramon, una frazione sempre maggiore di capifamiglia si stava convincendo di una cosa: non era più possibile rimettere sui binari quella colonia e si doveva ottenere da Cile e Italia che un nuovo territorio fosse scelto per stabilirvi quelle famiglie. Forse, in questo senso, un’azione di forza, come l’allontanamento da San Ramon di qualche «capopolo» avrebbe potuto dare più tempo alla riorganizzazione della colonia e sfatare la credenza che il gruppo unito avrebbe potuto imporre le sue condizioni. Forse. Ma la Regione Trentino-Alto Adige, la sua influenza sul governo italiano e quindi sull’ICLE, rendeva poco praticabile una decisione di quel tipo. Del resto, se era vero che la CITAL si muoveva su decisioni che erano condivise tra parte italiana e parte cilena, era anche vero che i quadri tecnici che avevano messo in piedi i progetti di colonizzazione di San Ramon e San Manuel erano italiani (la missione tecnica, poi Picchio e Mariottini) e che gli stessi quadri tecnici che agivano sul territorio per la CITAL erano pure italiani, come lo era, per statuto, il gerente della Compagnia, e cioè il vero motore della stessa. I pasticci maggiori che avevano portato a quella situazione di difficoltà a San Ramon erano dovuti soprattutto alla parte italiana. All’inizio di gennaio del 1954, pochi mesi dopo il termine della missione di Tomazzoli (mesi che sospettiamo densi di un fitto dibattito e di divisioni anche, tra ICLE e CORFO e tra i loro rappresentanti dentro la CITAL), abbiamo noti-
S’INCRINANO I RAPPORTI TRA ICLE E CORFO - 425
zia delle dimissioni rassegnate dal presidente della CITAL, Enrique Kaempter Rojas, che all’interno dell’organizzazione rappresentava la CORFO1. La sua lettera di rinuncia era datata 16 dicembre 1953 e specificava la ragione essenziale di quella decisione. Qualche tempo prima, affermava il presidente dimissionario, il vice-gerente si era opposto «al necessario e urgente allontanamento» da San Ramon di alcuni coloni, deciso da alcuni membri del consiglio direttivo della CITAL, pur se in quell’occasione al direttivo non si era raggiunto il numero legale dei presenti. La non applicazione di quella misura, a detta di Kaempter Rojas «ha portato grave pregiudizio alla Compagnia, pregiudizio che in mia opinione ogni giorno che passa sarà più irreparabile e serio».
La CORFO quindi era per l’uso del pugno di ferro nei confronti dei coloni, o almeno verso qualcuno tra loro, suppostamente i leader del Comitato. Il presidente ricordava quindi un suo trasferimento a San Ramon e un certo atteggiamento sfrontato dei presunti capi dei coloni. Successivamente, il 4 dicembre, egli aveva ricevuto la lettera di un colono, scritta in italiano, diretta alla CITAL che «minacciava» la rottura. Infine, in seguito aveva saputo dell’ultimatum di un altro colono, quindici giorni, posto alla Compagnia e anche del fatto che altri coloni stavano organizzando una «protesta collettiva contra la Compagnia». Insomma, la situazione di insubordinazione che si respirava a San Ramon era grave tanto che un avvocato della CITAL aveva raccontato allo stesso Kaempter Rojas di un colono che si era permesso di minacciare i vicini, armi in pugno. Si trattava di informazioni che gli atti ufficiali della CITAL non avevano mai preso in considerazione. In quei mesi, a quanto pare, la Compagnia aveva però iniziato ad agire in un certo modo nei confronti dei coloni, ad esempio cercando di separare l’erba buona da quella cattiva2.
1 Annotiamo che negli atti ufficiali della Compagnia l’uomo risultava essere stato eletto alla carica di presidente il 17 aprile del 1953. Non riusciamo quindi a comprendere le considerazioni di Carlo Tomazzoli che nei mesi successivi, nella sua «Relazione» vergata nell’ottobre del 1953, scrisse che «la Compagnia è per ora presieduta dal vicepresidente dottor Fiammenghi. Dovrebbe verificarsi quanto prima la nomina del presidente da parte della CORFO... Ho chiesto che ricada su una persona di prestigio» (Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 1 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 13 gennaio 1954). 2 Abbiamo notizia di problemi disciplinari nella Colonia San Ramon dal verbale della seduta del consiglio direttivo della CITAL del 3 dicembre (Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO
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ICLE e CORFO corrono al capezzale della CITAL
Già nel 1953 era chiaro che lo schema messo in atto dalla missione tecnica italiana, che stava alla base dell’azione della CITAL non poteva funzionare. Da una parte si erano instaurati rapporti finanziari e di credito-debito tra CORFOCITAL e CITAL-coloni che erano valutati sulla base del peso cileno che aveva un valore molto fluttuante sul mercato delle valute e che doveva scontare, sul mercato interno, un processo inflattivo di proporzioni elevate. Dall’altra parte c’erano rapporti di credito-debito tra ICLE e CORFO e anche tra ICLE ed entità statunitensi che provvedevano alla liquidazione delle somme previste dal Piano Marshall: su questo versante la moneta di riferimento era il dollaro che però doveva essere necessariamente coniugato al valore delle due più deboli monete, la lira italiana e il peso cileno, visto che comunque i bilanci di CORFO e ICLE erano espressi in moneta nazionale. Già alla fine del 1953 era pure chiaro che il progetto che stava alla base della nascita della Colonia San Ramon per mille ragioni era fallito e si trattava di sostituirlo in corsa, con un altro che prendesse in considerazione la necessità di diminuire il numero di famiglie coloniche e quindi di parcelle (cosa già prevista nella «Relazione» di Carlo Tomazzoli). Tra l’altro era ormai indefettibile la necessità di definire il debito coloniale di ogni famiglia, stabilendo quindi una volta per tutte quale fosse il valore delle parcelle, poi quale fosse l’entità delle spese generali sostenute dalla CITAL che doveva essere fatta calare sui coloni. Già alla fine del 1953 era evidente che i meccanismi messi in essere dagli accordi italo-cileni e che avevano portato alla nascita della CITAL in meno di due anni stavano portando allo strangolamento della stessa per difficoltà finanziarie. Se la trasferta cilena di Carlo Tomazzoli era servita a proporre immediati Vito Francesconi e la moglie Regina a Santiago, primi anni settanta.
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cambiamenti nella gestione delle colonie San Manuel e San Ramon (rotazione di personale, diminuzione delle spese e, per quanto riguarda San Ramon, aumento dell’acqua per irrigazione, realizzazione di un acquedotto, suggerimento di abbandono di alcune parcelle), ora era assolutamente necessario che nuovi accordi venissero stipulati tra ICLE e CORFO per permettere alla CITAL di superare definitivamente i suoi problemi finanziari, la mancanza di danaro liquido che l’aveva perseguitata dal primo giorno della sua nascita, ma anche per definire una volta per tutte i valori del debito delle famiglie coloniche e la ristrutturazione di questo debito, cioè un piano di ammortamento che tenesse conto della disastrosa storia della colonia in quei due anni. Alla fine del 1953 era chiarissimo che il grande progetto di colonizzazione di terre cilene con famiglie contadine italiane stava soffrendo di un gap di credibilità visti gli esiti dei primi tentativi e che era necessario rilanciarlo con nuove idee e nuova voglia di fare. Il 13 gennaio del 1954 al consiglio direttivo della CITAL fu comunicato che stava arrivando in Cile il presidente dell’ICLE Vittorio Ronchi. Nella seduta del 20 marzo il presidente della CITAL dava il benvenuto a Ronchi che il 18 marzo del 1954, a Santiago, aveva sottoscritto assieme al vicepresidente esecutivo della CORFO, Mario Sarquis Y, un accordo che prevedeva tra l’altro la ristrutturazione della Colonia San Ramon ma anche di «promuovere in futuro piani di colonizzazione a mezzo di coloni italiani in Cile». Purtroppo già nel preambolo risultava lampante che i due personaggi non disponevano di un mandato esecutivo: «È subordinato alla ulteriore approvazione dei consigli direttivi dell’ICLE e della CORFO»1.
Erano sostanzialmente tre i paragrafi in cui era stato stilato l’accordo2.
1 «Accordo tra il presidente dell’ICLE Ronchi e la CORFO sulla ristrutturazione della Colonia trentina nella zona di San Ramon, Santa Ines, Rinconada e Mirador, 18 marzo 1954» (Grigolli Mariaviola 2005: 160). 2 Il quarto prevedeva appunto che solo con l’approvazione dei consigli direttivi di CORFO e CITAL l’accordo si potesse dire perfezionato. E impegnava anche l’organizzazione cilena a sollecitare il governo ad emanare un decreto che disponesse che «la garanzia dello Stato concessa all’ICLE per il debito contratto da parte della CORFO con detta entità, si mantenga alle stesse condizioni, nonostante le modificazioni introdotte nei contratti rispettivi» (Grigolli Mariaviola 2005:165).
ICLE E CORFO CORRONO AL CAPEZZALE DELLA CITAL - 433
Nel primo paragrafo le due organizzazioni si impegnavano a realizzare «immediatamente, attraverso la CITAL, uno studio tecnico del piano di colonizzazione» di San Ramon. Per la prima volta ufficialmente era detto che in quella colonia vi erano delle famiglie «esuberanti» che saranno distribuite (come aveva consigliato Tomazzoli) «nel fondo di San Manuel, a Parral, o in quegli altri terreni che la CITAL otterrà allo scopo». Ma c’era di più: «A loro richiesta, dette famiglie potranno essere trasferite nel territorio della Repubblica Argentina, oppure potranno stabilirsi in Cile, comunque senza alcun impegno od obbligazione da parte della CITAL».
Un impegno quest’ultimo che dovette costare molto a Sarquis: lo Stato cileno avrebbe impegnato risorse e tempo per portare sul suo territorio dei contadini italiani, per poi vederseli «soffiare» dai cugini argentini, mai troppo apprezzati, che tra l’altro vantavano flussi secolari di imponente immigrazione italiana. Per quanto riguardava la ristrutturazione del debito dei coloni si era deciso di rinviare la stipulazione del contratto di compravendita delle parcelle per un periodo di due anni a partire dal primo giugno del 1954. Però entro trenta giorni dalla firma dell’accordo, e cioè entro il 17 aprile 1954, ogni colono avrebbe dovuto sottoscrivere con la CITAL un contratto di affitto della parcella assegnatagli e una promessa di compravendita della stessa: l’affitto sarebbe durato due anni a partire dal primo giugno 1954. C’erano evidentemente da regolare i conti per quanto riguardava il periodo trascorso dai coloni a San Ramon fino a quel momento. Chi avrebbe pagato? Quali debiti sarebbero rimasti a carico delle famiglie? Tutto ciò sarebbe stato oggetto di un accordo separato che sarebbe comunque confluito nel contratto di compravendita delle parcelle. La CORFO dimostrò in quell’occasione di volere andare a fondo sulla verifica delle qualità di ogni singola famiglia colonica: «Per aver diritto al contratto promesso – era scritto nell’accordo – il colono dovrà aver dimostrato, nei due anni indicati, di possedere sufficienti capacità tecniche e di lavoro, e ciò a giudizio di una commissione composta dal Direttore nazionale dell’agricoltura e da un rappresentante nominato dall’Ambasciata italiana in Cile».
Se il giudizio non fosse stato favorevole al colono, la CITAL dopo i due anni avrebbe potuto vendere quella parcella ad altri.
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
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Le difficoltà di onorare l’«accordo ad referendum»: una «rete» cattolica per salvare San Ramon
Gli incontri, e l’accordo scaturito tra Ronchi e Sarquis, costituirono l’ultimo tentativo bipartisan di cercare una soluzione praticabile per rimettere sui binari la vita della Colonia San Ramon. Fu chiaro da subito che le firme in calce a quel documento avevano un valore relativo e, comunque non portarono alle decisioni conseguenti. L’ICLE voleva risolvere il caos della colonia de La Serena, la CORFO pensava che la stessa fosse ormai perduta o che, comunque, si dovesse agire con durezza allontanando molti coloni. La CORFO voleva piuttosto che fosse portato avanti il progetto di colonizzazione di terre cilene con famiglie italiane mentre l’ICLE, dopo l’esperienza di San Manuel e San Ramon, era molto scettica sulla cosa. A Trento però, ai massimi organi del governo regionale, giungevano da Roma notizie che parevano confortanti. Un documento stilato il 24 aprile del 1954 dall’assessore Bertorelle e sottoposto alla visione del presidente Odorizzi dimostrava che i trentini pensavano all’accordo Ronchi-Sarquis come a un passo decisivo, nel senso della soluzione dei problemi di San Ramon. La colonia non era più quella che si era formata inizialmente comunque: «Durante il primo periodo di permanenza in Cile gli aggregati [nda, non solo uomini singoli ma spesso anche piccoli nuclei familiari] si erano staccati dalle famiglie con le quali erano venuti in Cile e tre famiglie sono ritornate in Italia».
Nove famiglie si sarebbero spostate di lì a poco a San Manuel e tre sarebbero partite per l’Argentina. Ora c’era una novità che riguardava un’altra quindicina di nuclei familiari. Ferruccio Iori, Maria ed Enrico Oliva alla colonia Pedrinhas in Brasile.
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«Scelti tra quelli più piccoli, si è deciso che saranno sistemati, tramite la Giunta Cattolica per l’Emigrazione, esistente in Cile e presieduta dall’ingegner Unterrichter, nella zona adiacente a Santiago, parte in terreni a mezzadria e parte nell’artigianato locale, a seconda delle specifiche capacità dei capofamiglia. L’ICLE per la sistemazione è disposta a versare una somma che va dai 2 ai 3 milioni di pesos per famiglia. Rimarranno quindi nel fondo settanta famiglie e le parcelle abbandonate dai coloni trasferiti altrove verranno suddivise tra i coloni che possiedono i fondi meno produttivi e più disagiati. La sistemazione così attuata dovrebbe portare a un soddisfacente assetto» 1.
A quanto pare di capire quindi, l’ICLE stava cercando di realizzare un «suo» piano di salvataggio di San Ramon mentre più volte la CORFO aveva specificato che toccava a lei, adesso, mettere mano alla faccenda e trovare una soluzione. Questo piano si avvaleva di una rete di collaboratori di fiducia dei governi trentino e italiano. Gli articolatori di questa rete sul territorio cileno potevano essere l’ambasciatore italiano e il Nunzio Apostolico (le autorità trentine si rivolgevano comunque più spesso al secondo piuttosto che al primo). Qualche mese dopo l’«accordo ad referendum», Sebastiano Baggio2 scriveva all’assessore Armando Bertorelle: «La mia impressione è che la colonizzazione della Serena sia stata un errore, principalmente per la cattiva scelta dei terreni. Ma credo che sarebbe un errore ancora più grave abbandonare tutto e dichiarare il fallimento. Quindi bisogna tenere il morale a oltranza. Son convinto che se non fosse stato per l’opera persuasiva del sacerdote [nda, Cristofolini? Guadagnini?], si sarebbero avuti inconvenienti e incidenti assai dolorosi. La CITAL da sola – continuo ad esporre il mio personale punto di vista – sembra che non sia in grado di superare la crisi, ma ci sono due fattori importanti che incoraggiano a bene sperare. 1) Il fatto che la responsabilità di risolvere la questione per ciò che riguarda il governo cileno è stata assunta dal ministro della difesa col. Tobias Barros Ortiz, ex
1 Trento, Archivio Renzo Maria Grosselli, Armando Bertorelle: «Relazione della visita all’ICLE del 22 corrente mese, Trento 24.4.1954». 2 Sebastiano Baggio, vicentino, sacerdote e laureato in Diritto Canonico, nel 1938, al servizio della Santa Sede, iniziò il suo lavoro nelle Nunziature Apostoliche. Prima El Salvador, poi Bolivia, Venezuela, Colombia. Nel 1953 papa Pio XII lo nominò Nunzio Apostolico in Cile, nel 1959 Delegato Apostolico in Canada, nel 1964 Nunzio Apostolico in Brasile. Paolo VI lo elevò alla porpora cardinalizia e in seguito sarebbe stato nominato presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina e della Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo.
LE DIFFICOLTÀ DI ONORARE L’«ACCORDO AD REFERENDUM» - 441
ambasciatore del Cile presso il Quirinale. Egli è persona intelligente, affettiva, dotata della massima influenza presso il governo, amico sincerissimo dell’Italia e degli italiani e buon cattolico. Come dice l’eccellentissimo ambasciatore d’Italia dottor Guido Borga, se non ci riesce lui, non ci riesce nessuno. È merito grande dell’ambasciatore essere riuscito a persuadere il ministro Barros ad accettare l’impegno; 2) Il fatto che si sta finalmente prospettando come realtà il Comitato Nazionale Cattolico Cileno dell’Emigrazione, composto di personalità competenti ed influenti. La sua organizzazione definitiva è questione di giorni. Si avrà così un organismo efficace che fiancheggerà il delegato della Commissione cattolica internazionale di Ginevra nella soluzione ‹in loco› dei problemi più urgenti».
A quel punto Baggio dava l’idea che si trattasse di un cerchio che si chiudeva: «Ho parlato anche recentemente col signor Pietro Misseroni, che è venuto a vedermi e che è partito rasserenato. È una persona equilibrata e di buon criterio, ma purtroppo la necessità è cattiva consigliera e l’ambiente di San Ramon rimane inquieto»3.
Quindi, preoccupazioni e inquietudini dei coloni trentini, attraverso il Comitato diretto da uomini fieramente cattolici che avevano avuto esperienze cooperativistiche o anche acliste in Trentino (come Pietro Misseroni e Vito Campostrini) erano condivise con gli scalabriniani che assistevano la colonia, padre Guadagnini su tutti. Mentre il Comitato cercava di entrare in contatto con le autorità civili, l’ICLE in Italia ma soprattutto la Regione Trentino-Alto Adige e l’assessore Armando Bertorelle, poi l’ambasciatore italiano in Cile gli scalabriniani e le stesse autorità trentine trovavano il contatto con la Nunziatura Apostolica di Santiago che a sua volta vantava un buon rapporto con l’Ambasciata italiana. Il tutto era facilitato dal fatto che al potere a Trento e a Roma c’era un partito cattolico e che ai vertici dell’ICLE c’era un trentino che a sua volta era molto vicino al presidente della Regione Trentino-Alto Adige. Questa ragnatela di contatti era evidentemente legittima e il suo scopo era quello di portare a soluzione una vicenda che ogni giorno di più stava dimostrando segni di cancrena. Era chiaro però che quella che oramai era diventa-
3 Trento, Archivio Renzo Maria Grosselli: Lettera del Nunzio Apostolico Cardinale Sebastiano Baggio all’assessore Armando Bertorelle, Santiago del Cile 4 dicembre 1954.
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Famiglie verso Santiago del Cile: proletari, artigiani, piccoli proprietari
Furono meno chiare le proposte che la commissione venuta dall’Italia, ChiriTomazzoli-Bertorelle, fece alle famiglie che decisero di rimanere in territorio cileno quando la Colonia San Ramon venne «bombardata». Si disse loro che un qualche aiuto sarebbe stato concesso. In Consiglio regionale Armando Bertorelle, subito dopo la sua trasferta in Cile nel 1955, affermò: «La situazione di queste famiglie [nda, quelle che si sistemeranno in Cile, al di fuori del comprensorio di San Ramon] verrà esaminata caso per caso una volta risolto il problema delle famiglie che opteranno per il Brasile. L’ICLE potrà effettuare interventi di carattere creditizio, onde consentire alle famiglie stesse di iniziare o consolidare la propria attività tanto nel settore agricolo come in quello artigiano. In via eccezionale potrà farsi luogo anche a qualche sovvenzione a titolo gratuito».
L’unica cosa chiara era che anche a costoro sarebbe stato abbonato il debito accumulato durante il tempo di permanenza in colonia1. Carlo Tomazzoli, in una lettera a Giuliani, per questa gente si era espresso in modo anche più sfumato:
1 Consiglio Regionale del Trentino-Alto Adige, II Legislatura, Seduta 100 del 29 novembre 1955.
San Ramon, 1954: Agnese Vanzi.
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«L’ICLE ha fatto presente, ripetutamente, di essere pronto a effettuare eventuali sacrifici finanziari a proposito delle famiglie che dovranno essere allontanate da San Ramon»2.
Ma in quelle convulse giornate in cui la commissione trattò con ogni capofamiglia di San Ramon, la promessa a coloro che non intendevano lasciare il Cile, pur accettando forzatamente di lasciare San Ramon, fu quella di aiuti. Lo conferma padre Antonio Mascarello che in quelle giornate fu a La Serena: «È vero che si promisero alla gente che si sarebbe trasferita in Cile degli aiuti. All’inizio erano poche le persone e volevano rimanere unite. Io avevo una vecchia moto e spesso accompagnavo la gente che arrivava [nda, a Santiago] in giro per trovare una casa, un appartamento, una parcella... Finché erano rimasti Campostrini e Misseroni... poi per le autorità la questione era già risolta, anche perché non c’era più l’arma del ricatto, il gruppo unito non c’era più»3.
In seguito, quando le famiglie fatte scivolare verso Santiago incominciarono a lamentarsi, perché talvolta in serie difficoltà, Tomazzoli negò queste promesse. Scrivendo a Unterrichter nel 1959 affermò: «È un evidente malinteso, determinato dal desiderio di don Cristofolini e dello stesso padre Guadagnini di assecondare quanto più possibile le richieste dei coloni. Non c’è stata da parte nostra alcuna promessa che l’ICLE avrebbe acquistato una tenuta nei dintorni di Santiago per sistemare taluni coloni come Misseroni, Campostrini eccetera... non mi sono mai lasciato andare a promesse di acquisto di comprensori anche perché non credo all’utilità di iniziative di questo genere, dato che l’esperienza ci ha dimostrato quanto sia difficile mettere d’accordo più famiglie in una gestione cooperativa»4.
Non disponiamo però di calcoli certi circa il numero di quelle famiglie, di quelle persone. Non dovettero essere molte quelle che, subito o quasi, lasciarono San Ramon per dirigersi verso l’hinterland agricolo di Santiago o altrove in
2 Trento, Archivio Renzo Maria Grosselli allegato alla lettera di Carlo Tomazzoli a Tullio Odorizzi, di data 4 agosto 1955. Si tratta dell’estratto della lettera di Tomazzoli a Rino Giuliani del 21 luglio 1955. 3
Conversazione con padre Antonio Mascarello, Santiago del Cile, 4 marzo 1992.
4 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Raccolta veline dal 3 giugno 1956 al 14 dicembre 1961, lettera di Tomazzoli a Unterrichter del 20 aprile 1959.
FAMIGLIE VERSO SANTIAGO DEL CILE - 547
Cile. Bertorelle nel suo rapporto al Consiglio regionale aveva detto di aver trovato ancora stabilite nelle parcelle di San Ramon settantadue famiglie. Di queste tra le venticinque e le trenta sarebbero rimaste lì, una ventina furono quelle che si trasferirono in Brasile, una ventina quelle che rientrarono in Trentino. Da questo calcolo rimarrebbero escluse, quindi, solo dalle due alle sette famiglie, che probabilmente furono di più, visto che il concetto di «famiglia» usato nei diversi calcoli non era univoco. Le settantadue famiglie rimaste a San Ramon erano certamente quelle di settantadue «capifamiglia» arrivati in Cile. Ma poi, tra le famiglie conteggiate tra le partenti per l’Italia e per il Brasile o tra quelle rimaste a La Serena, varie erano quelle di figli di immigrati o di aggregati. Noi sappiamo che verso il 1958 erano trentasette almeno le famiglie trentine che chiedevano alle autorità cilene il rimpatrio per non aver la controparte rispettato i patti sottoscritti. Erano capifamiglia che avevano perduto la terra e si trovavano a vivere come fittavoli ma anche come camionisti o ciabattini, da La Serena a Santiago, da Coquimbo a Maipo, Los Angeles. In altri documenti, sempre di fine anni cinquanta si parlerà di numeri maggiori5. Chiaro, non tutti questi avevano lasciato San Ramon a seguito delle decisioni prese dalla commissione a fine 1955, la maggioranza era scivolata via dalla colonia durante gli anni precedenti ma anche successivi (e qualcuno era stato colono di San Manuel). Il problema dell’aiuto a questa gente si pose ancora per vari anni. Cristoforo Unterrichter nel 1958 consigliò alla direzione dell’ICLE di investire ancora sull’immigrazione italiana in Cile, forse anche pensando a queste famiglie. Ma Tomazzoli ritenne che la cosa fosse poco praticabile: «Non escludiamo in linea di principio un interesse dell’Istituto per l’insediamento in Cile di famiglie coloniche italiane. Ma non possiamo tuttavia non richiamarci ai gravissimi inconvenienti che si sono verificati nelle precedenti iniziative, sia per quanto riguarda quelle di San Ramon, Rinconada e San Manuel, sia per quella di La Serena 1 [nda, Vega Sur], inconvenienti che si riferiscono in particolar modo alle difficoltà di sistemazione delle famiglie coloniche italiane, nonché alle garanzie di cambio e di recupero dei nostri crediti. Certo si è che
5 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL «Corrispondenza ICLE dal 29.12.1961 al 1972», elenco delle famiglie coloniche trentine già dipendenti della CITAL e residenti in Cile.
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I contadini che rimasero nella Colonia San Ramon
Anche la storia delle famiglie che, alla fine, poterono addivenire alla proprietà di una parcella a San Ramon dimostra come la volontà della Regione TrentinoAlto Adige e dell’ICLE nel 1955 fosse stata soprattutto quella di disperdere i nuclei colonici trentini e con loro il «fuoco dello scandalo». In documenti ufficiali e nelle scarse e poco documentate ricostruzioni storiche di quella vicenda, sommariamente si afferma che dopo il 1955 a San Ramon le parcelle vennero raddoppiate di area e distribuite a un certo numero di famiglie che di lì a vari anni ne sarebbero diventate proprietarie. Ma non accadde proprio esattamente così. Non certo da subito. Proponiamo ad esempio i ricordi di Dario Migazzi: «Nel 1955 me ne sono andato da San Ramon, a Coquimbo, con la moglie e un figlio piccolo. A fare il camionista... Ma avevo sempre la volontà di tornare nelle parcelle, perché erano tutte libere, tranne una a San Ramon, dove c’erano le sei famiglie. Allora un giorno sono andato a La Serena e ho comprato il giornale ‹El Dia›, per caso. Diceva che la Compagnia Italo Cilena avrebbe fatto la nuova parcellizzazione e che gli italiani (diceva italiani e non trentini) che volevano tornare sulle parcelle e prenderne una, avrebbero avuto un mese di tempo per fare domanda. Solo due anni dopo hanno fatto la nuova parcellizzazione. Ho fatto domanda e me l’hanno subito accettata. Sono andato sulla parcella e ci ho portato le cose che avevo. La CITAL aveva seminato il frumento, lo aveva raccolto e io trovavo la parcella pelata come dicono loro, contratto notarile di acquisto e quindici anni per il pagamento. Il prezzo non era fisso, era sulla base del prezzo del frumento e del latte, quindi variava. Quando l’ho comprata pagavo 200 pesos ogni sei mesi. Dopo dodici anni sono andato a pagare il saldo delle quote e pagavo allora 40.000 pesos all’anno, ma si comperava più all’inizio che alla fine. Caterina e Attilio Gabrielli col figlio a San Ramon. La casa della parcella.
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Io però continuavo a lavorare lo stesso col camion. Facevo due o tre viaggi alla settimana. Loro erano contenti e anch’io. Avevo due operai, continui, cileni. I primi due anni avevo due parcelle, con un canale in mezzo, e una l’avevo data in affitto a un cileno, a un negoziante che ci aveva messo una famiglia di operai. Lui mi pagava l’affitto e io ne avevo abbastanza. Loro lavoravano molto a buon mercato. Io producevo patate, fagioli, granoturco, pomodori, cavolfiori. La vendita di patate andava bene perché la zona de La Serena aveva le primizie e quindi quando le portavi a Santiago se le rubavano dalle mani»1.
Adesso i ricordi di Pasquale Piffer che nel 1955 con la famiglia andò a Santiago: «A San Ramon è rimasto mio fratello Poldo, da solo. Questo perché era uscita la possibilità di poter fare i mezzadri in un campo vicino a Santiago. I miei hanno lasciato lì mio fratello per non perdere il diritto alla parcella»2.
Quindi Giuseppina Darigo la cui famiglia era scivolata verso Sud nel 1956: «Nella parcella rimasero un fratello e una sorella, l’Ilario e la Rina. Ma dopo la morte del papà hanno cercato una parcella a Santiago e sono venuti via anche loro»3.
Il piano, progettato «in corsa» da Tomazzoli e Bertorelle per disinnescare la Colonia San Ramon, e in corsa fatto ingoiare a CORFO e Cassa di colonizzazione, aveva completamente destrutturato lo stabilimento e lo aveva lasciato nella situazione in cui si trova un pugile dopo un ko. Le ferite erano evidenti: la parte italiana della CITAL se l’era praticamente battuta alla chetichella, la parte cilena accettava a malavoglia questo sviluppo, dovuto peraltro anche a suoi comportamenti passati, e si stava incattivendo con i coloni. Nessun progetto concreto di ristrutturazione della colonia era sul tavolo e le famiglie trentine rimaste rischiavano molto e dovettero vivere qualche anno in una situazione confusa, senza nessuna garanzia. Il senso della colonia era però ormai svanito del tutto e si trattava solo di recuperare il recuperabile. Vari coloni rimanevano sull’appezzamento di terra solo per non perdere il diritto alla futura proprietà e facevano lavorare i campi da famiglie cilene. Altri avevano affittato parte delle
1
Conversazione con Dario Migazzi, Celledizzo (TN), 11 agosto 1992.
2
Conversazione con Pasquale Piffer, Borgo Sacco (TN), 13 agosto 1992.
3
Conversazione con Giuseppina Darigo, Borgo Sacco (TN), 28 novembre 1991.
I CONTADINI CHE RIMASERO NELLA COLONIA SAN RAMON - 563
loro terre e solo un certo numero di famiglie trentine stava lavorando la terra assegnata loro nel 1952 o inizio del 1953. Ancora nel dicembre del 1955 al direttivo della CITAL (dove peraltro continuavano a sedere i rappresentanti dell’ICLE) si parlava dell’urgenza di riparcellizzare San Ramon. Si chiese di farlo a Giuliani che si era già dimesso dalla carica di gerente e che si trasferì a La Serena assieme a un rappresentante della Cassa di colonizzazione4. Intanto, velocemente, il personale della CITAL veniva «cilenizzato»: a Santiago ormai i dipendenti erano tutti cileni, a San Ramon due cileni e due italiani, a San Manuel quattro cileni e due italiani. Nel frattempo CORFO e Cassa cercavano di usare la mano pesante con chi era rimasto in colonia e non era di loro gradimento. Si intimò ai coloni Tonolli e Giovanazzi di abbandonare lo stabilimento e si cercò di farlo anche con padre Guadagnini5. La CITAL agonizzava. Dopo dispute dure e infinite ai coloni che avevano lasciato lo stabilimento era stato abbonato il debito anche perché era chiaro che nessuno lo avrebbe più saldato. A fine marzo 1956 il direttivo prese atto del disastro contabile: «Il giorno 30 giugno, data in cui terminerà l’esercizio finanziario della Compagnia, i libri di contabilità segnaleranno un debito superiore al 50% del capitale sociale, come conseguenza dei condoni e delle perdite che si sono avute con la partenza dei coloni per il Brasile e per l’Italia. Tale perdita costituisce un motivo legale di liquidazione della Società».
C’era però un escamotage per aggirare l’ostacolo. Il valore di mercato delle parcelle, a quel punto, era molto maggiore del loro costo iniziale. In questo modo si poteva coprire il buco di bilancio6. Solo in aprile si ebbe sentore del nuovo progetto di riparcellizzazione. Da ottanta lotti si era passati a trentasei, raddoppiandone mediamente l’area.
4 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 1 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 27 dicembre 1955. 5 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 1 degli atti delle sessioni del direttivo, sessioni del 27 dicembre 1955; del 22 marzo, del 18 maggio e del 17 luglio 1956. 6 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 1 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 22 marzo 1956.
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Nel 1968 la dissoluzione anticipata della CITAL
Nel 1964 si venne a sapere che mille azioni della CITAL erano passate dal portafoglio della CORFO a quello della CORA, l’ente che stava portando avanti la Riforma Agraria. Il Cile, ormai, non aveva più bisogno di immigranti contadini europei e aveva piuttosto deciso di dare la possibilità a molte migliaia di famiglie di peones locali di giungere dopo secoli alla proprietà di un piccolo appezzamento di terra. Come abbiamo visto, anche qualche trentino alla fine ebbe occasione di approfittare di quella riforma1. Non c’era più bisogno della CITAL. Negli anni immediatamente precedenti il governo cileno aveva qualche volta tentato di fare pressione su quello italiano per riattivare i flussi immigratori ma l’ICLE aveva nicchiato: si era studiato qualche progetto ma controvoglia e tutto era rimasto sulla carta. Così, all’assemblea generale degli azionisti della CITAL dell’8 giugno del 1967 il presidente della Compagnia propose la dissoluzione della stessa: «Propone di indire un’assemblea generale straordinaria degli azionisti per dissolvere anticipatamente la Società, in considerazione del fatto che l’oggetto sociale principale per cui fu creata la Compagnia nell’attualità è impraticabile, la qual cosa fa sì che questa Società sia inoperante. Fa presente che in virtù di questo fatto si è prodotta la totale decapitalizzazione della Compagnia»2.
1 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 3 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 29 aprile 1964. 2 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 3 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 8 giugno 1967.
San Ramon, 1953: da sinistra a destra Luciano Galvagni, Edda e Giuseppe Bagattini.
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Morì proprio in quelle settimane il presidente dell’ICLE, Cifaldi, e si dovette tardare un poco. Ma nel marzo del 1968 tutto era pronto: La Junta General Extraordinaria de Accionistas acordó la disolución antecipada de la Compañia3. Il complesso iter legale per lo scioglimento si protrasse per molti anni e si concluse solo nel 1984. Nell’atto finale il liquidatore scrisse: «A Santiago, il 22 ottobre del 1984, davanti alla rispettiva Assemblea generale straordinaria degli azionisti della Compagnia Cileno-Italiana di Colonizzazione, l’ultima Commissione Liquidatrice nominata presenta i conti finali della sua gestione».
La CITAL era stata costituita il primo agosto del 1951: «Il principale oggetto di questa società era quello di creare, dirigere e amministrare colonie agricole o forestali, mediante la parcellizzazione di proprietà che si sarebbero acquisite a questo scopo e la successiva vendita a immigrati italiani delle parcelle... Ma nell’Assemblea generale degli azionisti celebrata il 22 marzo del 1968 si decise la dissoluzione anticipata della Società. Era necessario visto che si trovava in un accelerato processo di decapitalizzazione che la obbligava a vendere beni del suo attivo per pagare le remunerazioni del suo personale e (anche) al fatto che nel paese si iniziava il processo della riforma agraria».
Lo scioglimento era stato autorizzato il 15 ottobre del 1968, l’ultima Commissione Liquidatrice fu designata il 28 dicembre del 1979 e i suoi atti pubblici furono portati dal notaio il 4 marzo 19804.
3 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, Libro 3 degli atti delle sessioni del direttivo, sessione del 22 marzo 1968. 4 Santiago del Cile, Parrocchia italiana Nostra Signora di Pompei, Archivio CITAL, «Junta final Extinción CITAL S. A.», 22 ottobre 1984, «Antecedentes».
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Lo straordinario successo di un pugno di giovani aggregati
Vari tra coloro che in qualche modo ebbero responsabilità nella creazione e poi nel successivo sviluppo delle colonie agricole trentine in Cile, trentini, italiani e cileni, con il tempo si trovarono a proporre considerazioni negative relativamente alla presenza nelle leve contadine trentine di aggregati, spesso giovani e talvolta senza famiglia. Si disse che i nuclei familiari aggregati, non avendo diritto a vedersi intestata una parcella di terra e dovendo sostanzialmente dipendere dalla volontà del capofamiglia, al cui seguito erano giunti in Cile, quasi da subito furono costretti a lasciare la colonia, a trovare una soluzione diversa per lo sviluppo della loro vita indebolendo così la struttura coloniale. Decine e decine di persone, insomma, trasferite dall’Europa all’America con danaro pubblico per realizzare progetti di sviluppo agricolo che ben presto si liberarono degli impegni presi e seguirono una propria strada. Si trattava in parte di considerazioni ragionevoli. Ma a cinquant’anni di distanza da quegli avvenimenti non è possibile non proporre un altro tipo di considerazioni: proprio tra quegli aggregati e soprattutto tra quei giovani aggregati (e se vogliamo, tra quelli che venivano da zone di alta montagna, zone di allevamento e scarsa agricoltura) si riscontrarono in Cile i casi più frequenti di successo economico, quasi sempre non in campo agricolo, e in alcuni casi (non pochi) si può parlare di successo straordinario. Le ragioni sono in gran parte ovvie. In primo luogo si trattava di uomini soli o di giovani coppie che avevano magari contratto matrimonio proprio per poter partecipare a quelle spedizioni. Questa gente poteva permettersi di avere meno timori: senza altre bocche da sfamare poteva tentare l’avventura sul terSan Ramon, 1952: Bruno Dalbosco sul trattore di famiglia trasferito in Cile.
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ritorio cileno, peraltro con più possibilità di riuscita. Poi, si trattava di giovani e giovanissimi, uomini e donne, che in Trentino erano nati nel ventennio fascista ed erano entrati nella giovinezza in quel secondo dopoguerra, facendo propri valori che avevano sempre più a che fare con una società che si stava avviando alla marginalizzazione del settore agricolo e alla valorizzazione di quello artigianale se non proprio industriale. Era gente che in Trentino, ad esempio, aveva partecipato alla rivoluzione bianca, quella dell’energia elettrica, che aveva lavorato o sperato di poterlo fare alle dipendenze delle grandi compagnie di elettrificazione che avevano invaso la regione negli ultimi decenni. Oppure, erano giovani che avevano potuto prestare la loro opera di artigiani per quelle centinaia di operai e manovali che formavano i cantieri che sulle Dolomiti scavavano cunicoli e gallerie, imbrigliavano acque, erigevano dighe. E tra le giovani donne molte erano quelle che erano state richiamate in famiglia proprio per partire alla volta del Cile. Ragazze che si trovavano a servizio soprattutto in Lombardia (Milano e Varese le destinazioni più comuni) e in Veneto, ma anche in altre regioni italiane1. Questi giovani non erano già più come i loro padri ma erano pronti a fuoruscire dal solco di quella cultura contadina e montanara millenaria per intraprendere le vie dell’urbanizzazione, della ricerca di una propria soddisfazione professionale e anche del proprio successo economico e sociale. Il Cile del 1952 in gran parte era un paese che si stava aprendo all’economia capitalistica avanzata, un paese in cui nei settori dell’industria e del commercio molto ancora c’era da fare. Un paese, infine, che concedeva spazi notevoli e pressoché vergini a un giovane europeo con una minima base di scolarizzazione, qualche esperienza lavorativa magari nel settore artigiano e la voglia e la determinazione di farsi strada. Quei giovani trentini peraltro erano pronti all’emigrazione. Molti di loro, se non proprio tutti, prima di «fare le carte» per andarsene in Cile, avevano tentato (o sognato) di ottenere il visto per l’Australia o per il Canada, qualcuno per gli Stati Uniti. I loro nonni erano stati in America, ma anche in Francia, Belgio, in varie regioni austriache o in Germania. Le tradizioni di mobilità in certi casi venivano ancora da prima dell’Ottocento. In val di Sole, da dove proveniva la maggior parte di questi giovani aggregati, era stata secolare la vicenda dei
1
Sulle cosiddette «serve» confronta Grosselli 1998 e Grosselli 2007.