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Giorgio Tosi è nato il 2 novembre 1925. Ha frequentato il ginnasio e il liceo a Riva del Garda. Ha partecipato alla resistenza in Trentino. Arrestato il 28 giugno '44, processato e condannato dal Tribunale speciale tedesco in Bolzano il 2 agosto '44, liberato il 3 maggio '45. Si è laureato presso l'Università di Padova prima in filosofia, poi in giurisprudenza. Ha esercitato la professione di avvocato per 40 anni. Vive a Padova.
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COLLANA DI PUBBLICAZIONI DEL MUSEO STORICO IN TRENTO
GIORGIO TOSI
ZUM TODE a morte
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PRESENTAZIONE
Sono trascorsi cinquant’anni dal 28 giugno 1944, da quel-
la tragica alba costellata da uccisioni, da decine di arresti e dal suo seguito di torture e di condanne a morte. Una strage preparata minuziosamente che colpì in modo fulminante la Resistenza trentina ed il suo gruppo dirigente. Dopo cinquant’anni un protagonista di quella tragedia racconta la sua storia di studente liceale, coinvolto nella lotta partigiana e per ciò arrestato, processato e condannato al carcere dal tribunale speciale di Bolzano. «Zum Tode» di Giorgio Tosi aggiunge, in tale contesto, una importante testimonianza per la ricostruzione di quella pagina di storia e di quegli eventi. Il fatto che tale pubblicazione sia resa possibile grazie alla diretta partecipazione delle amministrazioni comunali di Arco, Nago-Torbole, Riva del Garda e Rovereto assume particolare significato. Queste pagine di racconto autobiografico, correlate da una ricca sezione documentaria, possono costituire uno strumento per conoscere il nostro passato recente, ma anche un’occasione per ribadire le ragioni dell’impegno civile e, insieme ad esse, la necessità di ricordare coloro che lottarono per la libertà. Il direttore del Museo Storico in Trento
VINCENZO CALÌ
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Calzoni corti
Verso il 1939 poco prima della seconda guerra mondiale Riva era
un sonnolento paese sulla sponda settentrionale del lago di Garda. A chi veniva da fuori, a me che ero ancora un bambino, sembrava un paese di fiaba. Radi tetti rossi tra palme e olivi, alti cipressi, la distesa azzurra del lago, la Rocchetta incombente. La prima neve sospesa nel cielo sulla cupola dello Stivo. La piccola comunità viveva al rallentatore. Non c'erano eventi se non quelli di ogni giorno, sempre uguali. Un paese immobile. Nessuno avrebbe potuto immaginare i fatti che nell'immediato futuro avrebbero segnato la vita di molti e in appena qualche anno avrebbero sconvolto il paese. Ciechi più di ogni altro erano i giovani che nel 1939 avevano ancora i calzoni corti e frequentavano le prime classi del ginnasio, e nel 1944 all'ultimo anno di liceo si ritrovarono nelle file partigiane ad affrontare la guerra, il carcere, la morte. Queste pagine raccontano come, in un così breve arco di tempo, questi giovani formarono un gruppo: le loro esperienze, l'aprirsi di orizzonti nuovi, la tragica morte di alcuni. Allo scoppio della guerra il tempo si contrasse, la vita girò più in fretta. Dapprima nessuno se ne accorse ma tutto cambiò sempre più velocemente. I giovani del «Littorio» entrati balilla al ginnasio si trovarono presto al liceo, adolescenti e avanguardisti ma con la divisa che urticava, la mente arrovellata, l'animo turbato. Uno dei loro professori, Guido Gori, era un uomo severo e mite, nero di capelli e di barba, occhi lampeggianti dietro le spesse lenti. Amava la musica e la poesia sopra ogni cosa. Talvolta dalle finestre della scuola guardava trasognato verso il lago e i monti nel silenzio della classe. Poi riprendeva la lezione e nell'atmosfera culturale da lui creata bastava una terzina di Dante ad accendere gli animi contro il tiranno, rivelando all'insegnante sgomento e felice che i suoi alunni si stavano trasformando anche per suo merito in apprendisti uomini, insofferenti al regime, pronti a ribellarsi.
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La strage
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a spia fotografa nel suo rapporto l'entità del movimento di resistenza, la sua organizzazione, i collegamenti, e coglie il momento cruciale del passaggio a una fase militare più attiva: «...due bande provenienti dal vicentino sono in marcia per il Trentino... è stato deciso di attuare una serie di atti di sabotaggio possibilmente nella medesima notte... e di sopprimere gli elementi fascisti... in quasi tutti i paesi di montagna ci sono seguaci del movimento... in diverse zone i Carabinieri si uniscono al movimento rivoluzionario». Il rapporto mette in evidenza i contatti essenziali con Trento, Milano e Brescia, l'inserimento della brigata «Cesare Battisti» nelle formazioni militari del CLN, il ruolo politico fondamentale di Manci, di Ferrandi, del generale Masini (comandante nazionale delle «Fiamme Verdi»), di Franchetti responsabile militare per il Trentino. I nazisti comprendono di non poter più aspettare. La politica inaugurata dal gauleiter Hofer subito dopo l'8 settembre 1943 corre il rischio di fallire. Hofer aveva dato molte garanzie ai trentini: aveva soppresso il partito fascista, chiuso le sedi, proibito di vestire la divisa e di portare i distintivi fascisti; misure accolte con favore a causa del naturale antifascismo dei trentini che avevano conosciuto l'Italia per la prima volta attraverso la dittatura fascista. Aveva assicurato il rifornimento di viveri e di sigarette alle città e ai paesi. Aveva infine promesso, e sostanzialmente mantenuto, che i trentini non sarebbero stati mandati a combattere al fronte: i giovani di leva sarebbero stati arruolati in un corpo di sicurezza che avrebbe operato all'interno della provincia con compiti di polizia. Inoltre con mossa abile aveva posto a capo della amministrazione civile un trentino molto stimato, già irredentista e moderato antifascista, l'avv. De Bertolini. Come contropartita Hofer aveva preteso obbedienza assoluta. Nessuna ribellione sarebbe stata tollerata in Trentino, dove passava la linea strategica del Brennero, vitale per la Wehrmacht. Al minimo
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Carcere e torture
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eci così il mio ingresso in carcere. Cella di isolamento, la n. 17. Mi stesi sul pagliericcio e mi addormentai quasi subito. Rimasi da solo per quasi un mese. Dopo due settimane però mia madre che aveva bussato a tutte le porte, dal parroco al vescovo, dal comando SS al Commissario prefettizio avv. De Bertolini, aveva ottenuto un permesso di colloquio. L'incontro con la mamma fu sconvolgente. Avevo sopportato bene l'isolamento e gli interrogatori. Mi stavo indurendo in una sorta di stoicismo laico. Giorno dopo giorno, interrogatorio dopo interrogatorio, pur senza sapere nulla del massacro (le SS che mi interrogavano mi avevano tenuto all'oscuro di tutto) avevo capito che le cose si mettevano male, che avrei anche potuto non uscire vivo dalla vicenda. Insomma mi preparavo a morire, a «morire bene», senza pensare ad altro. I miei, mia madre, che pure adoravo, tendevo a dimenticarli. Era una difesa inconscia, ora lo so. Ma quando per la prima volta nel parlatorio del carcere vidi mia madre, pallida, vestita di nero, col volto segnato dalla sofferenza, provai vergogna di me, mi venne da piangere. Mia madre mi strinse al petto, mi baciò, mi accarezzò la fronte. Dovette raccontarmi la tragedia in tutta la sua terribile e sanguinosa dimensione. Rimasi atterrito. Eugenio, il mio compagno di banco, ucciso? Ucciso Enrico? Catturato Franchetti? Era la fine. Il vecchio soldato della Wehrmacht che assisteva al colloquio aveva intuito il turbine che mi sconvolgeva, l'angoscia di mia madre per me. Ebbe un gesto umano, quasi fraterno: «Io non essere tedesco» disse «io buono tirolese. Io capire. La guerra finire. Voi parlare piano. Io non sentire. Tu mamma sorridere. Tuo figlio vivere». Il mese di isolamento nel carcere di Trento trascorre veloce. Durante l'ora d'aria veniamo inseriti in cubicoli di cemento senza soffitto, ciascuno nel suo. Siamo condotti insieme, a gruppi di cinque o sei, e lungo il corridoio della prigione possiamo scambiarci occhiate e gesti. Io capito proprio nel cubicolo tra quello di Remo Ballardini e
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Il processo e la sentenza
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l 2 agosto '44 verso le 11 insieme alla gavetta di minestra mi viene consegnato un foglio scritto in tedesco. Traduco. È l'atto di accusa contro di me «nemico del popolo tedesco» e l'avviso che quello stesso giorno alle 14 sarei comparso avanti il Tribunale speciale tedesco per essere processato. Un foglio di poche righe. Nessun nome salvo il mio, nessuna imputazione specifica. Mi convinco che il processo lo faranno a me solo. A chi altri, se da Trento solo me avevano tradotto a Bolzano? Nell'anticamera del Tribunale la sorpresa: vedo Franchetti, come me ammanettato, e altri tre che non conosco: Porpora, Ferrandi, Lubich. Ci tolgono le manette, io e Franchetti ci abbracciamo, mi presenta gli altri. Saremo processati insieme. Franchetti mi chiede notizie. Anche lui non sa ancora nulla. Gli racconto ciò che ho appreso da mia madre, gli dico di Eugenio Impera e di Enrico Meroni. Franchetti ha un gemito, si siede sulla panca, mi guarda con occhi allucinati e mormora: «i miei ragazzi, i miei ragazzi... ora posso morire anch'io». Nell'attesa che chiamino il processo concordiamo una linea di difesa comune. Continuare a negare tutto, per chi poteva. Giustificare certi fatti e l'organizzazione della brigata soprattutto con l'intenzione di tutelare l'integrità del Trentino e la sicurezza delle popolazioni: sia nel momento in cui in seguito a una ulteriore ritirata tedesca e a un rallentamento della avanzata alleata si fosse determinato in Trentino un vuoto di potere, foriero di disordini; sia, successivamente, per garantire l'autonomia della provincia. Si, lo ammettiamo, noi diamo per scontato il collasso tedesco a breve termine, non è un crimine, e ci preoccupiamo del futuro cercando anche alleanze e collegamenti con le forze partigiane delle altre regioni. Ma il nostro scopo - diciamo - non è attaccare la Wehrmacht bensì garantire il futuro del Trentino. Era una linea di difesa impresentabile e risibile di fronte alle SS,
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A Silandro
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giorni e le notti trascorrono uguali, monotone, in quell'agosto del '44 nelle arroventate celle del carcere di Bolzano. Noi siamo nella solita cella dei «politici», il che vuol dire amicizia, solidarietà, aria pulita, ma anche terrore delle rappresaglie. Accade infatti ogni tanto che dalle celle dei politici vengano prelevati uno o due detenuti che verranno fucilati o impiccati, di solito in un paese del Veneto, prevalentemente nel Bellunese. Un giorno, avendo chiesto di mettermi a rapporto col direttore per ottenere un libro, vengo portato all'ufficio matricola. Vedo subito mio padre, con le manette ai polsi, appoggiato al banco tra due SS, magro, pallido, non rasato. Anche lui mi vede e in un balzo mi abbraccia. Siamo divisi rudemente, redarguiti, allontanati. Quel fugace incontro è causa di felicità e di disperazione. È vivo, non avevo notizie di lui da mesi, siamo vivi, anche lui non sapeva nulla di me. Siamo dentro per la stessa causa. Il padre riscopre uomo il figlio adolescente. Quel breve contatto ci comunica con il linguaggio del corpo più cose che lunghi discorsi, una emozione intensa, una totale intesa. Parliamo di mia madre, sola a resistere, privata del marito e del primogenito. Che situazione orribile! Immagino la mamma come un grumo di dolore, e il volto di mio padre me lo conferma. Ci rivedemmo qualche giorno dopo nelle cantine del carcere. Durante i bombardamenti aerei degli alleati, i tedeschi e i secondini italiani ci portavano di corsa in cantina e poi scendevano nei loro rifugi. Alcuni bombardamenti furono assai pesanti. Una volta un grappolo di bombe colpì un'ala del carcere e alcuni detenuti riuscirono a fuggire. Per noi ogni bombardamento era una festa. Potevamo stare insieme senza guardie, parlare liberamente. Passai un'intera notte con mio padre. Mi addormentai mentre parlavo e mi svegliai con la testa appoggiata alla sua spalla.
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La battaglia di Riva
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entre aspettavamo il documento si svolgeva a Riva uno scontro militare di grandi proporzioni per la liberazione della città, uno dei più rilevanti avvenuto in tutto il nord dopo il 25 aprile. Durò tre giorni, con la partecipazione di grossi contingenti: tedeschi, fascisti repubblichini in fuga da Verona e da Salò, la formazione partigiana «Eugenio Impera», le forze alleate che erano risalite lungo la Gardesana orientale fino a Malcesine e avevano puntato le artiglierie su Riva. Dopo la strage del 28 giugno '44 e la distruzione della brigata «Cesare Battisti» i superstiti erano confluiti nella formazione garibaldina guidata da Dante Dassatti, il cui nome di battaglia era «Dario». Furono mesi di lenta preparazione, accompagnata da una intensa e accorta opera di propaganda fra la popolazione trentina. Dopo il 28 giugno il clima era cambiato. La gente era rimasta inorridita dal bagno di sangue e dagli arresti. Gli eventi della guerra, sfavorevoli alla Germania, e i primi bombardamenti su Trento fecero il resto. L'indifferenza o la ostilità che circondavano i partigiani si trasformarono in simpatia e in aiuti concreti. I vari gruppi intensificarono gli atti di sabotaggio e gli attacchi armati potendo contare sull'appoggio della popolazione. Ma il racconto delle vicende militari in Trentino nel periodo che precede la Liberazione non fa parte di questo libro. È sufficiente ricordare che la formazione garibaldina «Eugenio Impera», erede della «Cesare Battisti», aveva raggiunto un alto livello di preparazione e di addestramento, e fu in grado di affrontare con successo la grossa battaglia di Riva. Con alterne vicende Riva fu liberata, occupata, nuovamente liberata. Racconta nel suo diario Dante Dassatti, comandante del battaglione garibaldino «Eugenio Impera», che l'azione partigiana si era intensificata nel mese di aprile quando era ormai chiaro che la guerra, volgendo alla fine, si avvicinava di giorno in giorno a Riva. Il 25 aprile cominciò la ritirata in massa delle truppe tedesche dislocate in Italia. I patrioti attendevano da un momento all'altro
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Ritorno a casa
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entre a Riva si combatte e si vince, Lubich e io a Silandro aspettiamo protetti dal carcere. Finalmente il lasciapassare arriva. Sono due documenti uguali, uno per me e uno per Lubich. Il mio dice in italiano e in tedesco che «il sig. Tosi Giorgio di Riva del Garda, essendo sprovvisto di documenti d'identità, si è legittimato presso questo ufficio. Fatte le opportune indagini, questo ufficio ha accertato l'identità e la libertà da ogni vincolo del predetto, il quale in forza del presente lasciapassare può circolare per raggiungere la propria residenza in Riva del Garda. Pretura di Merano 3 maggio 1945. Firmato: il Pretore». Provai un senso di avvilimento e di nausea. Mi aspettavo di essere definito per quello che ero: un partigiano catturato, condannato e liberato in seguito alla sconfitta dei nazisti. Almeno «detenuto politico» che riacquistava la libertà per la fine della guerra. Invece no: avevo perso la carta di identità, mi ero presentato e «legittimato» di fronte al Pretore, il quale aveva fatto le opportune indagini e aveva accertato che ero «libero (sic) da ogni vincolo» e potevo quindi tornarmene a casa. Che tristezza! Ora tanti anni dopo, più di mezzo secolo, mi prende il furore guardando il documento che mi aveva avvilito ma non mi aveva aperto gli occhi. Non avevo capito che nonostante il crollo dell'impero nazista, la sconfitta dei fascisti, le fiamme insurrezionali e la vittoria alleata, il nucleo oscuro del potere era rimasto intatto. Il potere di sempre, quello che organizza gli uomini ogni giorno sotto la dittatura o in democrazia, il potere che regola la vita quotidiana e tiene saldamente le briglie anche durante le rivoluzioni, ebbene il potere non aveva abbandonato il timone e rivelava la sua vera e straordinaria potenza in quel documento, falso da cima a fondo. La guerra partigiana? Gli interrogatori e le torture? Il proces-
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La strage del 28 giugno 1944 il processo di Bolzano e le indagini del dopoguerra Nota storico - documentaria
di
GIUSEPPE FERRANDI
In questa nota si intende integrare la lettura del testo di Giorgio Tosi, offrendo alcune indicazioni di carattere storico - documentario. Si tratta principalmente di indicazioni relative al contesto generale entro cui il 28 giugno 1944 assume significato e ai materiali documentari e bibliografici disponibili per l’approfondimento del tema trattato. Nell’ultima parte ci si soffermerà su di un importante documento diffuso pubblicamente dalla stampa trentina già nel novembre 1945 e che viene ripubblicato in copia anastatica nelle ultime pagine di questo volume: si tratta del rapporto di polizia redatto dal dott. De Simone, frutto delle indagini svolte nei primi mesi dopo la liberazione sugli autori e sulle modalità di quella azione criminale. 101
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INDICE
Presentazione di VINCENZO CALÌ
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Calzini corti Rapporto della Spia - 7 giugno 1944
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La strage Rapporto del servizio di sicurezza - 29 giugno 1944
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Carcere e torture
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Il processo e la sentenza Atto di accusa - 31 luglio 1944 La sentenza - 2 agosto 1944
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A Silandro
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La battaglia di Riva
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La strage del 28 giugno 1944 e il processo di Bolzano e le indagini del dopoguerra Relazione de Simone - 20 novembre 1945
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