9Cento

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9cento La pittura italiana da Michele Cascella a Mario Schifano


CittĂ di Desenzano del Garda Assessorato alla Cultura

9cento la pittura italiana da Michele Cascella a Mario Schifano GALLERIA CIVICA GIAN BATTISTA BOSIO - Piazza Malvezzi, 38 - Desenzano del Garda (VR) 17 APRILE - 10 MAGGIO 2009

Sindaco Felice Anelli Assessore alla Cultura Emanuele Giustacchini in collaborazione con Arte Sgarro – Lonigo (VI) a cura di Alberto Sgarro Matteo Vanzan coordinamento Alberto Sgarro Matteo Vanzan progetti grafici Fausto Prando Matteo Vanzan videoimpaginazione Matteo Vanzan editore Arte Sgarro Edizioni


9cento


Il Novecento è stato un secolo di grandi cambiamenti, nel quale la società è più volte ripartita da zero per dimenticare i terribili accadimenti storici delle Guerre Mondiali e dove l’artista è stato eccezionale interprete del sentimento umano e ricercatore infallibile di nuove strade per esprimere il proprio io. Per la pittura mondiale, il Novecento ha rappresentato il secolo delle grandi e più significative rivoluzioni culturali. Dopo l’Impressionismo, infatti, l’arte ha vissuto un fermento continuo di ricerca con artisti che, confrontandosi e ricercando nuove frontiere espressive, davano luogo a movimenti quali il Dadaismo, il Cubismo, l’Espressionismo, il Futurismo, l’Informale, il Surrealismo, l’Astrattismo, il Realismo, il Neo Realismo e altri ancora, tutti con un furore di ricerca culturale ed espressiva. Eccezionale protagonista del rinnovamento culturale internazionale, l’Italia ha visto, in questo periodo, la nascita e la successiva consacrazione di grandi figure artistiche, tra le quali De Chirico, Carrà, Boccioni, Campigli, Sironi, Magnelli, Rosai, Fontana, De Pisis. Ma il consumo e la conoscenza dell’arte era ancora per pochi. Solo i grandi collezionisti magnati dell’industria e di quelle profes-


sioni ricche potevano, non solo per preparazione culturale, accedere a questo consumo. “9cento” vuole, in questo grande panorama artistico, fissare un periodo importantissimo per la fruizione culturale e diffusionale dell’arte. Gli artisti presenti in “9cento” sono tra quelli che, partendo da Cascella con il suo Impressionismo mediterraneo, arrivando ad alcuni artisti del Realismo italiano (Guttuso, Treccani, Migneco, ecc), passando attraverso l’Informale e l’Astrattismo (Dorazio, Turcato, Perilli, ecc) sino ad arrivare a quella forma di espressione artistica quale la Pop Art (Angeli, Festa, Rotella, Mambor) a chiudere con Schifano, son riusciti, grazie anche alla rinascita sociale avvenuta con il boom economico, ad entrare nei desideri e nell’effettiva possibilità del circondarsi d’arte di tutti. Cascella e Schifano sono, con gli artisti in mostra, quelli che, attraverso espressioni opposte, hanno permesso, grazie ad una massiccia diffusione culturale e di mercato, la fruizione totale dell’arte, sia pittorica che grafica, grazie a mostre, happening manifestazioni e performance svoltesi su tutto il territorio nazionale, televisione, giornali e riviste, a tutti i ceti sociali.



9cento


MICHELE CASCELLA Michele Cascella (Ortona, 7 settembre 1892 – Milano, 31 agosto 1989) è stato un pittore paesaggista crepuscolare italiano. Dopo aver svolto le prime attività artistiche sotto la guida del padre Basilio, nel 1907 tiene, assieme al fratello Tommaso la sua prima mostra personale nelle sale della Famiglia Artistica di Milano. Nel 1909, sempre con il fratello Tommaso, allestisce una mostra nella Galleria Druet di Parigi, partecipando l’anno successivo al Salone d’Automne. Nel 1911 organizza una mostra di disegni a pastello nel Ridotto del Teatro Nazionale di Roma. Tra il 1914 ed il 1915 collabora a “La Grande Illustrazione” pubblicata dal padre Basilio con disegni ed illustrazioni grafiche, esponendo nel 1917 al Salone dell’Associazione della Stampa e nella Galleria Centrale d’arte a Milano. Partecipa alla Prima guerra mondiale. A Roma, nel 1919, tiene una mostra personale alla Galleria Bragaglia e conosce in quella occasione Carlo Carrà che consente poi il trasferimento della mostra a Milano nella Galleria Lidel. Nel 1920 si stabilisce definitivamente a Milano dove frequenta con entusiasmo il poeta Clemente Rebora, da cui confesserà di aver tratto ispirazione per la realizzazione di alcune sue opere. Dal 1928 al 1932 viaggia tra l’Italia e Parigi dove, nel 1937, gli viene assegnata la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale. Nel 1938 esegue le scenografie dell’opera “Margherita da Cortona” rappresentata al Teatro alla Scala. Dal 1928 al 1942 è presente a tutte le edizioni della Biennale di Venezia, risiedendo quindi a Portofino dal 1938, fonte d’ispirazione delle sue opere tarde. Nel 1939 a Messina realizza un mosaico nella nuova stazione marittima, raffigurante Mussolini che, in una visita a Palermo, “elevava la Sicilia all’onere di essere il Centro dell’Impero”. Dopo la seconda guerra mondiale si fanno più frequenti le sue mostre all’estero: Parigi (negli anni cinquanta e sessanta) ma anche Sudamerica (soprattutto Buenos Aires e Montevideo) e Stati Uniti. E proprio negli USA, in California, si stabilirà per lunghi periodi di tempo, alternando periodi di permanenza in Italia (ha risieduto per alcuni anni in campagna nei pressi di Colle Val d’Elsa) ed in Europa. I soggetti più rappresentati sono fiori, campi di grano e papaveri, i paesaggi abruzzesi e Portofino. Importanti sono state le mostre antologiche di questo periodo. In occasione del centenario della nascita, a Milano, presso il Palazzo della Permanente è stata allestita una grande rassegna di opere realizzate tra il 1907 ed il 1946. Particolare rilievo è da attribuirsi ai suoi ritratti di donne, realizzati con raffinate tecniche prefuturiste. Pare che uno di questi, intitolato “Paola”, sia andato perduto nelle aste di una famiglia nobile decaduta. Il suo valore si aggira intorno al milione di euro, ma ci sono collezionisti disposti a spendere cifre ben più elevate, che meglio si adattano alla straordinaria bellezza ed alla raffinatezza del meraviglioso olio su tela del Maestro di Ortona.



UMBERTO LILLONI

Umberto Lilloni (Milano, 1 marzo 1898 – Milano, 1980) è stato un pittore italiano. Naque a Milano dove suo padre, di origine medolese, s’era trasferito una ventina d’anni prima a esercitarvi l’ebanisteria e il commercio dei mobili. La prima infanzia la trascorse in un tipico quartiere popolare milanese. All’età di 16 anni suo padre lo mise a dirigere lo stabilimento, ma per sua natura irrequieta, preferì intraprendere gli studi d’ingegneria navale, studi che interruppe per studiare disegno presso la scuola artigiana dell’Umanitaria. Durante questi studi scopre la propria vocazione alla pittura. Una vocazione aspramente contrastata dal burbero padre che gli tagliò i viveri e lo cacciò di casa. Nel 1915 si iscrisse all’Accademia di Brera. Suoi primi maestri furono lo scapigliato caricaturista Bignami e l’accademico cremoniano Rapetti. Infiammato dagli ideali socialisti il giovane Lilloni aumenta le preoccupazioni paterne partecipando a comizi, a scontri con la polizia, e finendo persino in carcere a San Vittore. Nel 1917 viene arruolato nei reparti d’assalto della fanteria durante la prima guerra mondiale. Nel dopoguerra si iscrive nuovamente all’Accademia di Brera sotto la guida di Tallone e di Alciati. Nel 1922 gli viene conferito il premio del Pensionato Hayez. Da questo momento la cronistoria della sua vita coinciderà perfettamente con quella della sua pittura. Avverte anche lui il problema del superamento della pittura post-impressionista e, per una breve stagione, si avvicina alle idee e alle ricerche del “Novecento” accogliendo con originale atteggiamento poetico le lezioni degli antichi. S’avvede ben presto che la tendenza novecentesca è viziata da interessi extratattici ed è, in fondo, incongrua al suo temperamento. Riprende comunque lo studio del suo dilettissimo Gola, della grande tradizione pittorica lombarda. Ed ecco finalmente, intorno al 1930, le prime esperienze di quella “pittura a fondo chiaro” che diventerà la via regia della sua arte. Nel 1927 gli viene conferito il premio Principe Umberto. Dal 1927 1l 1941 Lilloni ha insegnato all’Accademia di Brera, e dal 1941 al 1962 è stato titolare di cattedra all’Accademia di Belle Arti di Parma. Lilloni non è mai stato un grande viaggiatore, tuttavia nel 1949, per suggerimento dell’amico Carlo Cardazzo, intraprese un viaggio in Svezia e soggiornò per alcuni mesi a Stoccolma. Negli anni 1970 pose la propria dimora in Svizzera, dove trascorse molto tempo dei suoi ultimi anni di vita. Lilloni è morto a Milano nel 1980.



GIUSEPPE MIGNECO

Giuseppe Migneco (Messina, 9 febbraio 1908 - non tutti sanno che in realtà è nato nel 1903 - Milano, 28 febbraio 1997) è stato un pittore italiano ricordato come uno dei maggiori espressionisti del novecento. Nato a Messina nel 1908 (qualche mese prima del celebre terremoto che rase al suolo la città isolana), dopo aver fatto gli studi classici nella città natale, si trasferisce nel 1931 a Milano dove comincia a studiare medicina. Lì si guadagna da vivere e inizia l’ingresso nel mondo dell’arte disegnando bozzetti per il “Corriere dei piccoli” e facendo il ritoccatore per l’editore Rizzoli. In questo periodo comincia l’attività pittorica realizzando dipinti dai contenuti autobiografici. Nel 1934 avviene la svolta. Entra in contatto con Aligi Sassu, Renato Birolli, Raffaele De Grada dai quali resta incantato. Nel 1937 è tra i fondatori del movimento di “Corrente” che raggruppa artisti provenienti da diversi orizzonti culturali, con il comune intento di aprirsi alla cultura moderna europea, rifiutando l’isolamento culturale imposto dalla politica fascista. In “Corrente” affluiscono, nel tempo, artisti con visioni dell’arte molto diverse, uniti inizialmente per respingere canoni pittorici ormai superati, che prenderanno poi strade diverse, come Badodi, Birolli, Broggini, Cassinari, Cherchi, Gauli, Guttuso, Manzù, Morlotti, Paganin, Sassu, Valenti, e Vedova. Nel dopoguerra Migneco affina il suo gusto per il “realismo sociale” subendo l’influsso dei pittori murari messicani. Un suo ammiratore lo definì “intagliatore di legno che scolpisce col pennello”. Negli anni Cinquanta la fama, ormai consolidata, consacra Giuseppe Migneco fra i maestri dell’arte italiana contemporanea, espone nelle più prestigiose gallerie nazionali ed estere: Goteborg, Boston, Parigi, Stoccarda, New York, Amsterdam, Amburgo e Zurigo. Nel 1958 partecipa alla XXIX Biennale d’arte di Venezia. I suoi colori sempre forti e vivaci che ricordano la sua Sicilia dai tratti violenti e netti, i volti duri e coraggiosi rendono le sue tele espressione della lotta esistenziale, nel continuo e profondo confronto con l’umanità e con gli eventi che la assediano, nella coscienza e nella speranza di libertà e di memoria, al di là dell’assurda solitudine dell’esistenza.



REMO BRINDISI

Remo Brindisi nasce a Roma il 25 aprile 1918. Frequenta dapprima la Scuola d’Arte di Penne, dove suo padre insegna scultura in legno e, dal 1935 per breve tempo, i corsi di scenografia del Centro Sperimentale di Roma e le lezioni alla Scuola Libera di nudo dell’Accademia di Belle Arti di Roma, fino a quando ottiene una borsa di studio per l’Istituto Superiore d’Arte per l’Illustrazione del Libro di Urbino. Chiamato sotto le armi, durante la seconda Guerra Mondiale, a seguito dello sbandamento dell’esercito italiano, arriva a Firenze, dove vive una pausa felice nel circolo di amici artisti, quali Felice Carena, Ardengo Soffici, e Ottone Rosai. Negli anni ‘40 e ‘50 Brindisi partecipa praticamente a tutte le Biennali di Venezia ed alle Quadriennali di Roma, distinguendosi per il grande impegno politico e civile, utilizzando caratteri espressionisti nell’ambito della Nuova Figurazione, con chiare tendenze informali. Trasferitosi a Milano dal 1947, dove Cardazzo ha aperto la Galleria Il Naviglio, Remo Brindisi entra nella polemica tra realisti ed astrattisti, in corso in quegli anni, e si schiera aderendo al Gruppo “Linea” con Dova, Kodra, Meloni, Paganin, Porzio, Quasimodo, Joppolo e Tullier, si appropria di nuovi elementi e le sue figure assumono il tipico appiattimento cubista. Remo Brindisi dipinge grandi opere con temi ciclici, molti suoi quadri affrontano temi sociali, facendosi testimone di una “sofferenza collettiva” la cui rappresentazione dà alle opere un carattere epico. Amante dell’arte e della cultura, nel 1970 Remo Brindisi fonda a Lido di Spina, in provincia di Ferrara, il “Museo Alternativo”, intestato a suo nome, dove sono raccolte opere dei maggiori artisti contemporanei d’ogni nazione. Nominato presidente della Triennale di Milano, Remo Brindisi è stato per parecchi anni docente e direttore dell’Accademia Di Belle Arti di Macerata, ricevendo la medaglia d’oro della Pubblica Istruzione per meriti culturali. La critica internazionale ha sottolineato ogni esposizione con il suo consenso, promuovendo Remo Brindisi all’altezza dei Pittori più conosciuti, facendolo diventare uno dei pittori maggiormente citati e noti della pittura italiana del nostro secolo. Brindisi ha ottenuto numerosi premi ed ha tenuto esposizioni personali a Palazzo Reale a Milano alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma, ai Musei d’Arte Moderna di Trieste a Palermo, a Parigi, Nizza, al Cairo, a San Paolo del Brasile. Il pittore che, dai primi anni ‘70 vive tra Milano e il Lido di Spina, qui muore il 25 Luglio 1996.



RENATO GUTTUSO

Renato Guttuso (Bagheria, 26 dicembre 1911 - Roma, 18 gennaio 1987) è stato esponente della cultura di area comunista. Figlio di Gioacchino, agrimensore e acquarellista dilettante, e di Giuseppina d’Amico - che preferiscono denunciare la nascita a Palermo il 2 gennaio 1912 per contrasti con l’amministrazione comunale di Bagheria dovuti alle idee liberali dei coniugi - il piccolo Renato manifestò precocemente la sua predisposizione alla pittura. Influenzato dall’hobby del padre e dalla frequentazione dello studio del pittore Domenico Quattrociocchi e della bottega del pittore di carri Emilio Murdolo, il giovane Renato iniziò appena tredicenne a datare e firmare i propri quadri. Si tratta per lo più di copie (paesaggisti siciliani dell’Ottocento ma anche pittori francesi come Millet o artisti contemporanei come Carrà), ma non mancano ritratti originali. Nel 1928, appena diciassettenne partecipa alla sua prima mostra collettiva a Palermo. Sentendo sempre più forte l’inclinazione alla pittura, si trasferì a Palermo per gli studi liceali e poi all’Università, mentre la sua formazione si modella sulle correnti figurative europee, da Courbet a Van Gogh a Picasso e lo porta a Milano e a viaggiare per l’Europa. Nel suo espressionismo si fanno via via sempre più forte non solo i motivi siciliani come i rigogliosi limoneti, l’ulivo saraceno, il Palinuro, tra mito e solitudine isolana che, inviati nel ‘31 alla I Quadriennale di Roma, confluirono in una collettiva di sei pittori siciliani accolti dalla critica come “una rivelazione, un’affermazione siciliana”. Tornato a Palermo apre uno studio in Corso Pisani e con la pittrice Lia Pasqualino e gli scultori Barbera e Nino Franchina forma il Gruppo dei Quattro. Rifiutato ogni canone accademico, Guttuso s’inserisce nel movimento artistico “Corrente”, che con atteggiamenti scapigliati s’oppone alla cultura ufficiale e denota una forte opposizione antifascista. Si trasferisce intanto a Roma, con studio in Via Margutta e frequenta la cerchia di artisti più significativi del tempo: Mario Mafai, Corrado Cagli, Antonello Trombadori, tenendosi anche in contatto col gruppo milanese di Treccani, Giacomo Manzù, Aligi Sassu. L’artista non cesserà mai di lavorare in anni difficili come quelli della guerra ed alterna, specie nelle nature morte, gli oggetti delle case umili della sua terra, a squarci di paesaggio del Golfo di Palermo a una collezione di disegni intitolata “Massacri”, che circolarono clandestinamente poiché ritraggono le repressioni naziste, come quello dedicato alle Fosse Ardeatine. Guttuso si spense malinconicamente in isolamento, dopo la morte della moglie, riavvicinandosi, secondo una testimonianza di Giulio Andreotti, alla fede cristiana, di cui aveva condiviso a suo modo i valori umani e di pietà per gli oppressi.



ALIGI SASSU Aligi Sassu è nato a Milano nel 1912. Il padre, legato da una forte amicizia a Carlo Carrà, lo ha condotto nel 1919, a soli sette anni, all’Esposizione Nazionale Futurista presso la Galleria Moretti di Palazzo Cova, che vedeva riuniti i più grandi futuristi e le giovani leve. All’inizio del 1921 la famiglia Sassu si è ritrasferita in Sardegna, dove Aligi ha frequentato la scuola elementare ed ha conosciuto per la prima volta i cavalli, che diventeranno poi il suo marchio, ed i colori accesi della Sardegna che permeeranno la sua pittura. Dopo una permanenza di tre anni, la famiglia è ritornata a Milano e qui Aligi ha mostrato ancor più il suo interesse per la lettura e l’arte futurista. Insieme all’amico e designer futurista Bruno Munari, si è presentato a Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo. Questo incontro è stato proficuo: nel 1928 è stato invitato da Marinetti a partecipare con le sue opere alla Biennale di Venezia. Poco tempo dopo, insieme a Bruno Munari, ha definito il Manifesto della Pittura “Dinamismo e riforma muscolare” (che rimarrà inedito fino al 1977), assumendo come presupposto di base la rappresentazione di forme dinamiche anti-naturalistiche. Negli anni fra il 1927 e il 1929 ha dipinto in maggioranza quadri di piccole dimensioni, aventi spesso come soggetto lo sport, le industrie e le macchine; nascono così i Ciclisti, I minatori, L’operaio, Pugilatori e gli Uomini rossi. Con Giacomo Manzù, Nino Strada, Candido Grassi, Giuseppe Occhetti, Gino Pancheri, nel 1930 è riuscito ad allestire a Milano la sua prima mostra importante, recensita anche da Carlo Carrà. Nel 1935 ha formato il Gruppo Rosso con Nino Franchina, Vittorio Della Porta ed altri. Nel frattempo il suo impegno politico è aumentato e, quando in Spagna è scoppiata la Guerra civile, è diventato un attivo antifascista. Antifranchista e simpatizzante dei partigiani spagnoli ha dipinto la Fucilazione delle Asturie. Accusato di complotto, rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, ha attraversato un periodo piuttosto problematico alla fine del quale ha ripreso con la pittura. Ritornato in Sardegna nel 1950 ha tratto ispirazione dai paesaggi che lo circondavano ed ha dipinto scene della vita contadina e marinaresca, quali le Tonnare. Nel 1965 suoi disegni e sculture vengono esposti alla Galleria Civica di Monza; sarà poi la volta di una mostra antologica a Bucarest e, successivamente, alla Galleria d’Arte Moderna di Cagliari (dove, nel 1967, era presente anche Foiso Fois). Al 1968 appartengono vari dipinti di grandi dimensioni, fra i quali il Che Guevara, donato al Museo de L’Avana. Nel 1969, alla Biennale, gli viene attribuito il 1° premio del muro dipinto. Al Vaticano gli è stata dedicata una sala nella Galleria dell’Arte moderna. È del 1984 una prima mostra antologica a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, e poi a Roma a Castel Sant’Angelo, a cui è seguita quella di Milano, al Palazzo Reale. Successivamente sono state allestite mostre a Siviglia, in Germania, a Madrid, a Toronto, Montreal e Ottawa. È morto a Pollença il 17 luglio del 2000, all’età di 88 anni, proprio il giorno del suo compleanno.



ORFEO TAMBURI

Orfeo Tamburi è nato a Jesi nel 1910. Compie gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e nel 1936 si reca per la prima volta a Parigi dove entra in contatto con alcuni dei pittori più importanti dell’epoca. Tornato in Italia partecipa alla Quadriennale di Roma e l’anno successivo alla Biennale di Venezia dove ha l’opportunità di conoscere lo scrittore Curzio Malaparte. Negli anni successivi continua a partecipare sia alla Quadriennale di Roma che alla Biennale di Venezia allestendo nel contempo mostre personali nelle più importanti città d’Italia. Alla fine della seconda guerra mondiale torna a Parigi e da qui estende la sua attività, partecipando a mostre personali in Belgio, Francia, Svizzera e Olanda. Rientrato in Italia continua ad esporre nelle più importanti città della penisola e fra il 1955 e il 1956 viaggia negli Stati Uniti dove espone a Los Angeles, San Francisco e New York, presso importanti musei. Tornato in Europa continua a viaggiare visitando per la prima volta Londra nel 1960 per poi visitare la Grecia e l’Austria. In questo periodo allestisce un numero sempre maggiore di mostre in tutte le più importanti città italiane. Con l’avanzare degli anni dirada i suoi viaggi ma continua ad esporre le sue opere nelle più importanti gallerie a Milano, Roma, Firenze e Venezia. Orfeo Tamburi ha sempre saputo cogliere ed estrinsecare, con maestria e con emozione, il bello che ci circonda, il cuore della realtà. Gli anni e l’attività sempre più intensa e variamente arricchita del grande pittore marchigiano non hanno mai incrinato o travisato quelli che sono stati la sua iniziale dedizione e il suo continuo dono a chi sa percepire la dolcezza e lo splendore di una spirituale sensibilità, di una superiore e raffinata visione della realtà. Si accendono come bagliori improvvisi anche paesaggi ricchi di naturale splendore che Orfeo Tamburi ha saputo da sempre cogliere ed estrinsecare con la maestria che tutti gli riconoscono e con l’emozione di chi sa cogliere, nel bello che ci circonda, il cuore di una realtà che non è solo fatta di alberi, di palazzi, di colline, di fiumi, di monumenti ma anche e soprattutto - per un vero poeta, appunto, del pennello, della penna e della matita - di armonia e di fantasia. Nel 1994 muore a Parigi dove si era trasferito negli ultimi anni della sua vita.



ANTONIO BUENO

Antonio Bueno nasce il 21 luglio, figlio dello scrittore e giomalista Javier Bueno. Trascorsa l’infanzia in Spagna si trasferisce poi con la famiglia a Ginevra dove si iscrive, dopo aver frequentato il liceo, all’Accademia di Belle Arti. Esordisce nel 1938 a Parigi esponendo al Salon des Jeunes delle illustrazioni per “Le vojage au bout de la nuit” di L.F.Céline. Nel 1941-1942 tiene le prime mostre a Milano (Galleria Manzoni e Galleria Ranzini) e a Firenze (Galleria Botti) insieme al fratello Xavier con nature morte e ritratti. Nel 1947 intrattiene rapporti con i pittori della Realtà e con De Chirico e, nello stesso anno riceve il primo invito alla Quadriennale di Roma. Nel 1956 espone per la prima volta alla Biennale di Venezia con composizioni di pipe di gesso, gusci d’uovo e gomitoli di spago che la critica definisce neometafisiche. Nel 1961 fa parte a Firenze dell’equipe di Quadrante; espone a Parigi, presentato da G.C. Argan, e promuove un incontro operativo tra pittori, musicisti e poeti d’avanguardia fondando con essi, l’anno dopo, il Gruppo 70. Nel 1969 allestisce, presentato da Lucien Goldman e da Bernard Pingaud, una mostra personale alla Galleria G30 di Parigi, intitolata “Mostra neopassatista”, nella quale espone il quadro “Il pompiere e la modella”, tema fortunato che tornerà a rappresentare, con numerose variazioni, fino all’ultimo periodo. Annuncia la sua uscita dal Gruppo 70 e dall’avanguardia con una lettera a Sergio Salvi nella quale si autodefinisce pittore di ”neoretroguardia”. Si dedica definitivamente alla raffigurazione delle sue emblematiche donnine, tema che non abbandonerà più. Nel 1982 torna a Milano con una personale al Centro Annunciata; partecipa alle fiere internazionali di Basilea, Stoccolma e Francoforte. Nel 1984 è invitato e partecipa alla 41° Biennale di Venezia. Antonio Bueno è un’ artista eclettico, anticonformista e apprezzato dai collezionisti di tutto il mondo.un artista che curava le sue opere con perfezione maniacale. Spagnolo di nascita, ma italiano per scelta, nel nostro paese ha potuto esprimere ed elaborare la sua personalissima forma di pittura che si è contraddistinta per i forti momenti di ribellione al conformismo dilagante negli anni del dopoguerra.



XAVIER BUENO Xavier nasce a Vera de Bidasoa il 16 gennaio 1915, figlio dello scrittore e giornalista Javier Bueno, allora corrispondente a Berlino del quotidiano ‘ABC’ di Madrid. Trascorre parte dell’infanzia in Spagna dove frequenta l’Accademia di San Fernando a Madrid con Velasquez Diaz, ma nel 1935 si trasferisce con la famiglia a Ginevra dove si iscrive, dopo aver frequentato il liceo, all’Accademia di Belle Arti. Nel 1937 si trasferisce a Parigi e presenta le sue opere, caratterizzate da una forte impronta di realismo “spagnolo”, al “salon des Tuileries”, al “Salon d’Automne”, al “Salon des Indipendents” e al “Salon d’Art Mural”; inoltre espone al Padiglione Spagnolo della Mostra Universale di New York. Nel gennaio del 1940 si trasferisce in Italia, qui si unirà insieme al fratello Antonio ad Annigoni e Sciltian nel gruppo dei “Pittori Moderni della Realtà”. L’esperienza della guerra civile spagnola prima e di quella italiana poi, indirizza sempre più l’artista verso un realismo legato a motivi di forte contenuto sociale. Alla fine degli anni ‘40, in concomitanza con la crisi del gruppo, dopo anni di percorso comune, i rapporti fra Xavier e il fratello Antonio cominciarono a mutare. Le cause sono da ricercarsi nella progressiva diversificazione delle loro rispettive personalità artistiche: specialmente per Antonio, il minore dei due, parve vitalmente necessaria una rivendicazione d’indipendenza dal fratello, ex maestro d’arte e detentore di un’autorità (vera o presunta). Si trattava tuttavia di un dissenso più stilistico-concettuale che non umano-personale. Dopo la separazione, la collaborazione tra i due andò man mano esaurendosi. Ci fu tempo solo per un’ultima mostra comune, tenutasi nel 1952 alla galleria fiorentina di “Numero”; da questa data, prima di vederli tornare a esporre insieme, trascorreranno ben sedici anni. Un’attenzione particolare meritano le nature morte di Bueno sollevate nello spazio senza fondo, in cui gli spessori sono creati dal ritmo degli oggetti, sottratti ad una assenza metafisica. Tra il 1959 e il 1964, Xavier crea il ciclo dei “bambini”, immagini sofferenti e malinconiche, opere simboliche di un’umanità avvilita ed oppressa, che l’artista presenta alla rassegna “Espana libre”. Da allora la sua ricerca ha sempre più approfondito questa direttrice, proponendo le sue caratteristiche immagini di teneri volti ed acerbi corpi di adolescenti. Il 17 luglio 1979 muore, nella sua adottiva Fiesole.



GIOVANNI CAPPELLI

Giovanni Cappelli, nato nel 1923, era un romagnolo di Cesena dalla solida personalità. Aveva una forza interiore «che gli consente di considerare gli uomini e le cose nella loro condizione diverità», dice di lui il critico Mario De Micheli. Quando lavorava, la sua concentrazione morale non gli permetteva scappatoie: persone e cose vengono raffigurate in modo apparentemente freddo, ma, avverte sempre De Micheli: «Questo non vuoI dire che egli rinunci ad ogni commento, o che dalle sue tele esuli ogni emozione: vuoI dire soltanto che la sua emozione è quella che nasce davanti alle cose, alle situazioni, alle tante contraddizioni della realtà». Il palcoscenico delle sue raffigurazioni è, infatti, tra i più amari. Non c’è dipinto in cui la presenza di persone e oggetti non paia soffocata da un dolore immanente, senza spiragli di luce; non c’è composizione di nudi in un interno, o di fiori dimenticati, avvolti nella carta di giornale, che non sia segnale di un mondo in cui la disperazione è ormai sinonimo di allucinazione. Questo di Giovanni Cappelli è il copione di un profondo male esistenziale, che si svolge all’esterno e all’interno di personaggi e cose. Per sottolineare la situazione angosciante della solitudine, Cappelli giocava tutto sull’ esssenzialità spoglia: lo dimostrano spesso i suoi personaggi, seduti in uno spazio vuoto con l’atteggiamento di chi lascia trascorrere passivamente il tempo. Altre volte, con pochi ed efficaci passaggi cromatici e con il segno duro dei contorni, descrive uomini distesi, dormienti, avvolti in lenzuoli che ricordano un sudario. C’è da chiedersi se siano personaggi semplicemente addormentati nella loro povertà, oppure, ormai, poveri fantocci senza vita. Il successo, comunque, non gli porterà la felicità interiore: “La campagna dei miei ultimi quadri non è più la campagna del lavoro, bucolica e drammatica. Il mio è un ritorno al deserto, agli sterpi secchi. Non è più terra fertile, ma è terra secca, dissanguata”. E lo diceva mentre una luce ricca di forza e di calore si rifletteva sul lago, lontano. Anche nel corso degli anni ’70 persistono nella pittura di Cappelli immagini iconiche di una civiltà dei consumi, fino alla fase di lavoro più recente, quando affiora pure un bisogno contemplativo, come dimostrano taluni paesaggi, sia quelli gardigiani dipinti dal vero che quelli tratti dalle giovanili memorie adriatiche. Giovanni Cappelli muore a Milano nel 1994.



ANTONIO PEDRETTI

Nasce il 2 febbraio 1950 a Gavirate in provincia di Varese. La sua formazione avviene, dapprima, alla scuola di pittura del Castello Sforzesco e poi all’Accademia di Brera che abbandona nel 1972. Nel frattempo, all’età di sedici anni, ha già allestito la sua prima personale alla Galleria Ca’ Vegia di Varese con opere dipinte a spatola in cui erano rappresentati, con un certo sentimentalismo e una pregevole, precoce abilità tecnica, paesaggi, casolari, fiori, alberi, acque stagnanti. Soggetto quest’ultimo che resterà una costante all’interno del percorso dell’artista, nato sulle rive del lago e dunque intimamente legato a questo genere di paesaggio naturale. Dopo aver partecipato ad alcune collettive, fra le quali ricordiamo il Premio Nazionale Varese Arte, ordina nel 1970 una seconda personale alla Galleria Ghiggini di Varese con alcuni nudi che ricordano certe dolcezze segniche di un De Pisis o un Bonnard, e con una serie di paesaggi dedicati alla Sicilia. Dopo una seconda mostra alla Galleria Ghiggini di carattere riassuntivo, inizia per l’artista una pausa di riflessione, un periodo di ripensamento durante il quale si ritira dall’attività pubblica per una silenziosa e pensosa opera di ricerca. I primi risultati di questa appartata fase di sperimentazione sono una serie di paesaggi immaginari composti solo di onde marine e di vaganti nubi fissati in atmosfere sospese percorse di vivida luce. E’ il gesto, alla maniera di Pollock, ad assumere importanza in queste opere della seconda metà degli anni ‘70, un gesto ampio e disteso che consente alla materia pittorica di espandersi e corrugarsi, di brillare in vividi colori e di disegnare trame allusive. Abbandonate, a partire dalla metà degli anni ‘80, le velleità delle avanguardie contemporanee, ritorna in una certa misura a quel senso della natura delle origini, a liriche evocazioni paesistiche, memori però della gestualità informale e soprattutto della lezione di tre grandi maestri del genere: Constable, Segantini e Morlotti. Dei primi due ritroviamo nelle immagini di Pedretti il sapiente uso delle scansioni cromatiche e la grande capacità di strutturare l’insieme per giochi chiaroscurali; del terzo, appare evidente il rapporto terragno con la materia, la quale sempre tende più a solidificarsi e ad acquistare spessore. Indubbiamente queste sono solo referenze culturali, le solide basi su cui poggiano le costruzioni pittoriche di Pedretti il quale si affida a sensazioni visive, ma soprattutto ricrea in studio sul filo della memoria visioni che già sono depositate nel suo immaginario fin dall’infanzia, che affiorano e si accumulano ad ogni esperienza. E, se dapprima rendeva delle ampie panoramiche dei paesaggi lacustri, delle erbe di palude e dei canneti, ora pare immergervisi, in un rito quasi di sapore simbolico, per evidenziare un dettaglio, per isolare un particolare, per mettere a fuoco uno stelo o un fiore o un intero cespuglio.



ERNESTO TRECCANI

Ernesto Treccani nasce a Milano nel 1920, figlio del senatore Giovanni Treccani degli Alfieri fondatore dell’Istituto Treccani che cura la pubblicazione dell’omonima enciclopedia. Nel 1938, a soli diciotto anni, fonda e dirige il periodico “Vita Giovanile”, grazie ai mezzi ed alla fiducia messi a disposizione dal padre. “Vita Giovanile” diventa presto “Corrente di Vita Giovanile” e poi la rivista “Corrente”, uno strumento per organizzare ed esprimere la propria opposizione politica ma anche artistica. Treccani si ritrova improvvisamente ad avere a che fare con personaggi, seppur giovani, di una generazione più matura di lui e di grande rilevanza: attorno alla sua rivista vengono infatti a riunirsi Birolli, Migneco, Sassu, Argan, Ungaretti, Saba, De Grada, Quasimodo, Montale e altri ancora che influirono notevolmente sulla crescita artistica, culturale e politica del giovane Ernesto. Frequentava all’epoca la facoltà di ingegneria e per questo ha avuto modo di entrare in contatto con i movimenti di avanguardia del fascismo. Intorno al 1940 inizia a dipingere, e prende parte alla mostra collettiva che si svolge presso la Bottega di Corrente. Con l’inizio della guerra la pubblicazione della sua rivista viene soppressa e come risposta aderisce al Partito comunista diventandone un attivista. Nel dopoguerra, forte dell’esperienza nel partito e delle nuove conoscenze partigiane, entra nella redazione de “Il ‘45” una rivista su cui scrivono, tra gli altri, Elio Vittorini, Mario De Micheli e Raffaele De Grada. Successivamente, sempre con personaggi del nuovo establishment si distingue all’interno del gruppo di “Pittura”, cui prendono parte nomi noti come Giuseppe Ajmone, Alfredo Chighine, Franco Francese e Giovanni Testori. La sua prima mostra personale risale al 1949 presso la Galleria del Milione. Nel frattempo, ormai noto al grande pubblico, entra nel nuovo movimento realista italiano, cui appartengono molti scrittori ex partigiani. Nel 1971 fu tra i firmatari del documento pubblicato sul settimanale L’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Nel 1978, a Milano, ha dato vita alla Fondazione Corrente, con un programma mirante allo studio del periodo storico compreso tra la nascita del movimento di Corrente e gli anni del Realismo, oltre al dibattito di temi dell’attualità culturale. A partire dal mese di novembre 2005 la sua opera è promossa, valorizzata e tutelata dal Comitato per la tutela dell’opera di Ernesto Treccani, con sede presso la residenza milanese del Maestro.



GIANNI DOVA

Gianni Dova nasce a Roma nel 1925 da Edmondo Dova, romano di adozione, ma di origine piemontese e da Maria Rauchensteiner originaria di Monaco di Baviera. A 16 anni si trasferì a Milano con la famiglia e qui dal 1942 frequentò il Liceo Artistico di Brera e si diploma nel 1945 all’Accademia di Brera, dopo aver seguito i corsi di Funi, Carpi, Carrà. Conobbe e frequentò gli artisti che si riunivano nei caffè letterari e che avevano tra gli altri come punto di riferimento il giornale edito da Ernesto Treccani, “Corrente”, tra i quali Renato Guttuso, Emilio Vedova, Renato Birolli, Ennio Morlotti, Bruno Cassinari, Giuseppe Migneco e insieme a loro riconobbe l’importanza dell’opera di Pablo Picasso: Guernica come simbolo della lotta degli artisti contro la barbarie. Già impegnato nella rivista “Numero” (1941) e aderente (assieme ad altri, tra cui Morlotti e Cassinari) al manifesto Oltre Guernica (1943), costituisce con Joppolo, Porzio, Tullier e i pittori Casorati, Meloni, Kodra, il Gruppo di Linea (1947), ribadendo un deciso orientamento pittorico neocubista. Nel 1947 espose alla Galleria del Cavallino a Venezia ed alla Galleria del Naviglio a Milano. Sempre nel 1947 aderì al Movimento Spazialista con Lucio Fontana, Roberto Crippa, Giorgio Kaisserlian, Beniamino Joppolo, Milena Milani, Antonio Tullier, Sergio Dangelo, Carlo Cardazzo, Cesare Peverelli, Gian Carozzi. Dova, fu tra i protagonisti di questo movimento cresciuto intorno alla Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo e ne firmò diversi manifesti tra cui: il quarto (Manifesto dell’Arte Spaziale), Milano 26 novembre del 1951; il quinto (Lo Spazialismo e l’arte Italiana del secolo XX°); il sesto: (Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione), Milano 1952. Aderì in seguito, al movimento della pittura Nucleare con Enrico Baj e Sergio Dangelo. Nel 1956 risiede ad Anversa, dove studia i dipinti di Bosch. L’anno seguente è premiato alla Biennale di San Paolo del Brasile. Nel 1959 espone al Salon de Mai (Darmstadter Sezession); partecipa quindi a diverse mostre (dell’arte italiana in Francia e a Torino; alle gallerie Michaud a Firenze e La Nuova Pesa di Roma ecc) ed è ospitato in più di un’edizione della Biennale di Venezia (nel 1962 ha una sala personale) e della Quadriennale romana. Soggiorna in Bretagna tra il 1967 e il 1969. La cospicua produzione di Dova, morto a Milano nel 1991, versa su grafica, pittura, scultura e ceramica, decorazione murale.Tra le presenze espositive si segnalano le mostre monografiche a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (1980), alla Galleria Cafiso in Milano e l’antologica curata dal Comune di Messina nel 1982.



EMILIO SCANAVINO Emilio Scanavino è nato a Genova il 28 febbraio 1922. Nel 1938 si iscrisse al Liceo Artistico Nicolò Barabino di Genova, dove conobbe il professor Mario Calonghi, figura di grande stimolo culturale per la sua prima formazione. Nel 1942 fece la sua prima mostra personale presso il Salone Romano di Genova. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Architettura dell’Università di Milano. Nel 1947 Scanavino si recò per la prima volta a Parigi dove soggiornò per qualche tempo ed ebbe modo di incontrare poeti e artisti come Edouard Jaguer, Wols, Camille Bryen. L’esperienza parigina si rivelerà fondamentale nel suo percorso stilistico. Nel 1949 nacque il primo dei due figli. Nel 1950 espose alla XXV Biennale di Venezia. Nel 1951 in occasione di una mostra personale alla Apollinaire Gallery visse per qualche tempo a Londra, dove conobbe e frequentò Philip Martin, Eduardo Paolozzi, Graham Sutherland, Francis Bacon. Nello stesso anno aprì il suo primo studio a Milano in una mansarda di Foro Bonaparte. Il critico Guido Ballo e i galleristi Guido Le Noci, Arturo Schwarz si occuparono del suo lavoro. L’anno dopo, 1952, lavorò anche nella fabbrica di Ceramiche Mazzotti ad Albissola Marina, dove incontrò numerosi artisti e strinse amicizia con alcuni di loro, tra questi Lucio Fontana, Asger Jorn, Guillame Corneille, Sebastian Matta, Wifredo Lam, Giuseppe Capogrossi, Enrico Baj, Sergio Dangelo, Roberto Crippa, Gianni Dova, Agenore Fabbri, Aligi Sassu e altri. Nel 1952 nacque la seconda figlia Paola. Nel 1954 espose alla XXVII Biennale di Venezia e l’anno dopo ricevette il Premio Graziano, nel 1958 vinse il Premio Lissone e partecipò con una sala alla Biennale di Venezia, vinse il Premio Prampolini. Nello stesso anno firmò un contratto con la Galleria del Naviglio diretta dal grande gallerista Carlo Cardazzo con il quale intrattenne un importante rapporto di amicizia e di lavoro. Si trasferì con la famiglia a Milano. Molti critici si occuparono della sua opera tra cui Enrico Crispolti, Guido Ballo, Giampiero Giani, Edouard Jaguer, Gillo Dorfles, Roberto Sanesi, Franco Russoli e Alain Jouffroy. Nel 1960 vinse il Premio Spoleto, il Premio Sassari, il Premio Valsesia e il Premio Lignano e venne invitato, con una sala personale, alla XXX Biennale di Venezia. Nel 1962 acquistò una vecchia casa a Calice Ligure, che trasformò in atelier. A Milano conobbe il collezionista Gianni Malabarba con il quale in seguito ebbe un intenso rapporto di amicizia. Nel 1963 ricevette il Premio La Spezia proprio mentre Carlo Cardazzo, che per sette anni aveva sostenuto Scanavino con l’impegno d’amico, moriva improvvisamente: questo lutto colpì profondamente il pittore. Renato Cardazzo proseguì il lavoro del fratello come mercante d’arte e contribuì ad allargare la fama di Scanavino in Italia e all’estero. Nel 1966 alla XXXIII Biennale di Venezia, dove espose nuovamente in una sala personale, vinse il Premio Pininfarina. Nel 1982, nonostante il progressivo aggravarsi della malattia, continuò a lavorare e ad avere una intensa attività espositiva in spazi pubblici e privati e nel 1986 venne invitato ad esporre alla Quadriennale d’Arte di Roma. Morì a Milano il 28 novembre del 1986.



PIERO DORAZIO Piero Dorazio nasce a Roma nel 1927. Dopo l’iscrizione alla facoltà di Architettura partecipa giovanissimo alla difficile evoluzione dell’arte astratta italiana del dopoguerra, già nel 1946 nel Gruppo Arte Sociale con Perilli, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini fino alla redazione (1947) del manifesto e delle mostre “Forma 1” insieme a Consagra, Turcato, Accardi e Sanfilippo. Quando nel 1947 Dorazio incomincia a presentarsi in un gruppo programmatico (era appunto il momento, nell’immediato dopoguerra, della costituzione di gruppi fortemente teorizzati) egli non solo prende violenta posizione contro i neorealisti, e l’arte cosiddetta figurativa in genere, ma non condivide neppure le tendenze di orientamento informale; le radici della sua pittura partono dal mondo futurista-suprematista, rifuggendo tuttavia da un’adesione all’astrattismo che distrugga a poco a poco la consistenza strutturale dell’opera (e infatti niente avrà mai a che vedere, nella sua produzione, con le formule concettuali): è il Bauhaus che corrisponde ai suoi ideali creativi e alle sue concezioni formali. Questa precisa impostazione non esclude peraltro l’interesse da parte sua per artisti contemporanei di varia personalità, specie quelli di scuola americana; la sua idea dell’arte non è indice di una restrizione di campo, bensì di una scelta precisa e motivata entro un’ampia veduta culturale. Altrettanto precoci la curiosità e la passione, artistica e politica, per le esperienze degli altri Paesi, coltivate con coerenza durante tutta l’attività con lunghe permanenze di studio e di lavoro, oltre alla presenza in mostre ed altre manifestazioni. Dalla fine degli anni quaranta è così successivamente presente ed attivo con lunghi soggiorni a Parigi e a Praga, ancora a Parigi, ad Harvard e a Berlino, fino al decennio 1960 - 1970 in cui organizza e dirige il dipartimento delle Belle Arti dell’Università di Pennsylvania, soggiorno inframmezzato con significative parentesi in Italia e altrove (otto mesi a Berlino nel 1968). Espone con mostre personali alla Biennale di Venezia nel 1960, nel 1966 e nel 1988. Espone più volte a Londra, a New York e in gallerie svizzere e tedesche. Nel 1974 si stabilisce a Todi e ivi lavora e insegna nella Scuola Atelier per la Ceramica moderna e nel proprio studio. Nei primi anni ottanta una sua grande mostra del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris viaggia nei principali musei americani e si conclude alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1985 e nel 1986 il debutto a Tokyo e a Osaka. In seguito le esposizioni continuano ad allargare e consolidare la sua presenza culturale nelle più importanti città europee, mentre ottiene prestigiosi riconoscimenti: membro dell’Accademia di San Luca; dell’Akademie der Kunste di Berlino; insignito dei Prix Kandinsky e del Premio internazionale della Biennale di Parigi; del Premio Michelangelo dell’Accademia dei Virtuosi. Fra il 1993 ed il 1996 ha ideato il progetto per l’esecuzione di cinquanta grandi mosaici di artisti internazionali nella metropolitana di Roma. Muore nel 2005



GIULIO TURCATO

Giulio Turcato nasce a Mantova il 16 marzo 1912. Nel 1920 si trasferisce con la famiglia a Venezia, dove segue saltuariamente l’Accademia. Nel 1934, durante il servizio militare a Palermo, avverte i primi sintomi di una malattia polmonare che segnerà gran parte della sua esistenza. Nel 1937 si stabilisce a Milano, dove, ammalatosi spesso, passa per vari ospedali, riuscendo comunque a realizzare delle prospettive architettoniche per l’architetto Muzio di Milano, ad allestire la sua prima mostra personale e ad entrare in contatto con il Gruppo di Corrente, senza aderirvi. Negli anni 1942 - 43 esordisce alla XXIII Biennale con l’opera Maternità. Nel 1943 giunge a Roma, dove partecipa alla IV Quadriennale e ad una mostra alla Galleria dello Zodiaco, insieme a Vedova, Donnini, Purificato, Leoncillo,Valenti e Scialoja. Il 15 marzo 1947 firma a Roma con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli e Sanfilippo (insieme ai quali frequenta lo studio di Guttuso in via Margutta) il manifesto Forma, pubblicato in aprile nel primo ed unico numero della rivista “Forma”, ove appare anche il suo articolo Crisi della pittura. Negli anni a seguire partecipa alla V Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, tiene numerose personali a Milano, Roma e Torino ed il suo dipinto Rivolta (1948) entra a far parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1952, con Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Vedova, entra a far parte del “Gruppo degli Otto”, promosso da Lionello Venturi, col quale espone alla Biennale di Venezia. A partire dal 1960 espone con Novelli, Perilli, Dorazio, Consagra, Bemporad, Giò e Arnaldo Pomodoro nell’ambito delle rassegne intitolate Continuità, promosse in diverse gallerie italiane da Giulio Carlo Argan. Nel 1973 la città di Spoleto gli dedica una prima mostra antologica, curata da Giovanni Carandente, seguita a distanza di un anno da un’altra, più vasta, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Il 24 febbraio 1984 si inaugura presso il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano la mostra “Giulio Turcato”. Partecipa alle rassegne storiche dedicate a Forma 1 a Bourg-en-Bresse e a Darmstad (1987). È presente nuovamente alla Biennale di Venezia, ospitato nella sezione intitolata “Opera Italiana” (1993). In seguito ad una crisi respiratoria, muore a Roma il 22 gennaio 1995.



MARIO SCHIFANO Nasce il 20 settembre 1934 a Homs, in Libia. Dopo il trasferimento della famiglia a Roma il giovane Schifano dapprima lavora come commesso e in seguito affianca il padre, archeologo restauratore al Museo Etrusco di Valle Giulia. Comincia nel frattempo la sua attività artistica come pittore. I suoi debutti si possono situare all’interno della cultura informale con tele ad alto spessore materico, solcate da un’accorta gestualità. Inaugura la sua prima personale nel 1959 alla Galleria Appia Antica di Roma. L’ anno successivo alla Galleria La Salita in compagnia di Angeli, Festa, Lo Savio e Uncini, la critica comincia ad interessarsi del suo lavoro. In questo periodo la pittura di Schifano subisce una svolta per certi versi radicale. L’artista dipinge ora quadri monocromi; delle grandi carte incollate su tela e ricoperte di un solo colore uniforme e superficiale quasi una sorta di schermo nel quale si annullano tutti gli eventi e tutti gli oggetti. Nel corso del 1962 Schifano visita gli Stati Uniti dove entra in contatto con il movimento della Pop Art e resta colpito dall’opera di Dine e Kline. Sue opere saranno esposte alla Sidney Janis Gallery di New York nella mostra The New Realist. Ritornerà negli States sul finire del 1963, dopo aver allestito diverse personali in alcune delle grandi città europee (Roma, Parigi e Milano). L’artista opera ora per cicli tematici e verso la fine del 1964 accentua quell’interesse verso la rivisitazione della storia dell’arte che Io porterà, l’anno successivo, ai notissimi pezzi dedicati al Futurismo. Nello stesso 1965 realizza “lo sono infantile”, un’opera legata alle illustrazioni destinate all’infanzia, che rappresenta pure il ritorno - tutto mentale - a una dimensione temporale lontana, eppure sempre presente nell’arte di Schifano. Si occupano in questa fase del suo lavoro tanto critici attenti, come Maurizio Calvesi, Maurizio Fagiolo e Alberto Boatto, quanto scrittori illustri, quali Alberto Moravia e Goffredo Parise. Allo Studio Marconi presenta nel 1967 il lungometraggio “Anna Carini vista in agosto dalle farfalle”, cui farà seguito la trilogia di film composta da Satellite, Umano non umano, Trapianto, consumazione e morte di Franco Brocani. Le sue prime esperienze cinematografiche risalgono comunque al 1964 e risultano in perfetta sintonia con l’attenzione critica che Schifano presta all’ininterrotto flusso di immagini prodotto dalla nostra civiltà tecnologica. Fra il 1966 e 1967 realizza le serie Ossigeno ossigeno, Oasi, Compagni compagni. Quest’ultima emblematizza il preciso impegno che condurrà Schifano, in questi anni tormentati, a una crisi ideologica e d’identità tale da portarlo a dichiarare di abbandonare la pittura. Agli inizi degli anni Settanta comincia a riportare delle immagini televisive



direttamente su tela emulsionata, isolandole dal ritmo narrativo delle sequenze cui appartengono e riproponendole con tocchi di colore alla nitro in funzione estraniante. Dapprima è il materiale raccolto negli Stati Uniti durante i sopralluoghi per la progettazione del film, mai realizzato, Laboratorio umano a essere oggetto di rielaborazione, poi il patrimonio di immagini che quotidianamente trasmettono le nostre stazioni televisive. Nel 1971 partecipa alla mostra “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70”, curata da Achille Bonito Oliva; in seguito tiene personali a Roma, a Parma, a Torino e a Napoli ed è presente alla X Quadriennale di Roma e a Contemporanea, rassegna allestita nel parcheggio di Villa Borghese, sempre a Roma e ancora a cura di Bonito Oliva. Nel 1974 l’Università di Parma gli dedica una vasta antologica di circa 100 opere che consentono di leggere per intero la sua avventura pittorica e definirne le linee portanti. Nel 1976 Schifano partecipa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Bologna alla mostra “Europa / America, l’astrazione determinata 1960-76”; due anni dopo è invitato nuovamente alla Biennale di Venezia e presenta alla Tartaruga di Roma “Il capolavoro sconosciuto”, rielaborazione del noto omonimo racconto di Balzac. Diverse sue opere sono in mostra nel 1979 al Palazzo dei Diamanti di Ferrara mentre l’anno successivo viene invitato da Maurizio Calvesi alla mostra “Arte e critica 1980”, allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Nel 1981 Germano Celant seleziona alcune opere di Schifano per l’esposizione “Identitè italienne” organizzata al Centre George Pompidou di Parigi mentre dello stesso anno sono il gruppo di dipinti raccolti sotto il titolo Cosmesi, cui seguono i cicli Architettura, Biplano, Orto botanico. Sempre nel corso degli anni ‘80 le opere dell’artista vengono esposte in varie edizioni della Biennale di Venezia e Schifano è presente alla rassegna Arte italiana nel XX secolo organizzata dalla Royal Academy di Londra. In questo periodo tiene inoltre personali al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles e al Padiglione d’arte Contemporanea di Ferrara, dove, sotto il titolo Inventano con anima e senz’anima, raccoglie una serie di tele che rappresentano la summa della sua ricerca in ambito naturalistico. Quest’ultima mostra diverrà poi itinerante, toccando diverse città italiane, per giungere infine in Francia, al Centre d’Art Contemporain di Saint Priest (1992). Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, in occasione della sua riapertura (1990), gli allestisce una rassegna, intitolata Divulgare, con un consistente numero di opere di grande formato realizzate per l’occasione. Tre anni dopo presenta in diverse gallerie italiane il ciclo Reperti, dedicato agli animali del mondo preistorico, tema i cui primi esemplari erano già comparsi nella personale da Maeght. Nel 1996 Schifano rende omaggio alla sua Musa Ausiliaria, ovvero alla televisione, intesa quale flusso continuo di immagini in grado di strutturarsi come vera e unica realtà totalizzate della nostra epoca. Muore a Roma il 26 gennaio 1998.



MIMMO ROTELLA Nasce a Catanzaro il 7 ottobre 1918. Studia arte a Napoli e successivamente si trasferisce a Roma. Qui conduce ricerche ed esperimenti in varie direzioni: fotografie, foto-montaggi, decollages, assemblages di oggetti eterogenei, poesia fonetica, musiche primitive. Nel 1951-52 é negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio della “ Fullbright Foundation “ di Kansas City ricevuta dapprima come studente e poi come artista. Nel 1954 Emilio Villa lo invita ad esporre in una mostra collettiva i suoi manifesti lacerati. Le opere di Rotella si imposero subito all’attenzione della critica e del collezionismo d’avanguardia ed a questa prima mostra ne seguirono molte altre. Nel 1961 partecipa su invito del critico francese Pierre Reastany al gruppo Noveaux Rèealistes ( Arman, Cesar, Deschamps, Dufrène, Hains, Yves Klein, Martial Raysse, Niki de Saint-Phalle , Spoerri, Tinguely, Villeglè). Nel 1963 realizza le prime opere di arte meccanica ( Mec_Art ) stampando immagini fotografiche su tela emulsionata. Alla fine degli anni ‘60 realizza gli artypoplastiques, prove di stampa, colori, percezioni, riportate su rigidi supporti di plastica. Rotella si é imposto per avere fatto dell’arte un comportamento: “Giocando con l’erotismo e la speculazione intellettuale Rotella é un agitato che passa attraverso vari stili con un distacco da dandy “ scrisse Otto Hahn. E questa sua “ vitale agitazione “ lo porta nel 1990 ad una riapproprazione della pittura dipingendo su decollages i ritratti dei Maestri dell’arte del ‘900. Strappare manifesti dai muri è la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni favolose. Questa protesta è essenziale nelle scelte di Rotella, questo personaggio fuoriserie della vita artistica romana, autore di decollages e laceratore di manifesti. Ma questo gesto fondamentale della lacerazione non è esasperato. Comporta un’apertura positiva: è necessario evitare la strada senza uscita delle abitudini percettive per capirne la realtà di fondo. Rotella, storico della strada e della vita quotidiana, è il testimone superlucido di una civiltà complessa di cui recupera gli scarti più segreti così come gli ultimi pezzi di bravura. Nei loro stridori di colore come nelle inquietanti spiagge dai toni morti, i decollages di Rotella costituiscono l’edizione italiana di un’opera collettiva, “il solo vero giornale del mondo”. Questa “lettura del mondo” alla quale l’artista romano ci conduce è sconvolgente. Nel 1992 riceve da parte del Ministro della Cultura francese, Jack Lang, il titolo diOfficiel des arts et des Lettres. E’ invitato al Gugenheim Museum di New York nel 1994 in “Italian Metamorphosis”, ancora al Centre Pompidou nel 1996 in “Face à l’Histoire“, e nel 1996 al Museum of Contemporary ART DI Los Angeles. Rotella muore in Gennaio 2006.



FRANCO ANGELI

Franco Angeli nasce a Roma nel 1935 da famiglia di umili origini. A causa della morte del padre, nel 1941, è costretto a provvedere alla madre malata, inventando i lavori più disparati: porta carretti al mercato, diviene ragazzo-spazzola presso un barbiere, lavora in una lavanderia, infine in un’ autotappezzeria. Dì lì, secondo Gino De Dominicis, nasce l’uso delle velatine. Nel 1957 nascono i primi lavori: l’esigenza di dipingere esplode come affermazione di libertà. Nel 1950 ha la prima collettiva, alla Galleria La Salita, di Roma, con Festa e Uncini. Nel 1960 è la sua prima personale, alla Galleria La Salita. Diviene amico di Schifano, conosciuto nella sezione del partito: li accomuna l’estrazione popolare. Si tratta di una generazione di artisti unita da uno stretto legame esistenziale segnato dalla guerra: vengono definiti maestri del dolore, una qualifica che li distanzia dall’Arte Pop. Negli anni successivi diviene poi amico di Renato Guttuso e poi di Arnaldo Pomodoro e del poeta Francesco Serrao. Nel 1964, alla Galleria L’Arco di Alibert, di Roma, presenta Frammenti capitolini: si tratta di lupe, aquile, frammenti di simbologia collettiva. Partecipa alla Biennale di Venezia, presentato da Calvesi: è la storica Biennale della Pop Art in Italia. L’artista presenta La lupa e Quarter Dollar. Nel 1965 è invitato alla nona Quadriennale romana: di questo periodo sono i Cimiteri partigiani, corredati di stelle e falci e martello. Nel 1967 è presente alla Biennale di San Paolo del Brasile con Half Dollar: il famoso mezzo dollaro, zoomato nei particolari. Conosce Marina Ripa Di Meana, in occasione del Festival di Spoleto. Con la donna intreccia una tumultuosa relazione poi sfociata in fedele amicizia. Nel 1978 partecipa alla Biennale di Venezia, curata da Bonito Oliva nella sezione L’iconosfera urbana. Nel 1984 comincia l’epoca delle Marionette, sorta di autoritratto ironico dell’artista, poi esposte al Belvedere di San Lucio. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale romana. Nel 1988 gli viene dedicata una retrospettiva alla Casa del Machiavelli (1958-72) nei pressi di Firenze. Presentato da Marisa Vescovo, espone alla Galleria Rinaldo Rotta di Genova. Viene invitato al Circolo Culturale Giovanni XXIII per la Biennale di Arte Sacra: con lui, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino e Mario Schifano. Nello stesso anno, Franco Angeli muore di Aids all’età di 53 anni.



TANO FESTA

Tano Festa è nato a Roma nel 1938, e qui è morto, per aver consumato l’esistere, nel gennaio del 1988. Fratello di Francesco Lo Savio, ha frequentato l’Istituto d’arte di Roma e diplomatosi in fotografia nel 1957, si formò sull’esempio di C. Twombly e della pittura gestuale e informale. La sua prima partecipazione pubblica avviene nel 1959 insieme a F. Angeli e G. Uncini, ad una mostra collettiva presso la galleria La Salita di Roma, dove, soltanto nel 1961, terrà la sua prima esposizione personale. Protagonista della scuola pop romana, accolse con rigore formale le soluzioni new dada, proponendo isolati oggetti monocromi di uso quotidiano. Famose sono le persiane, gli specchi e le finestre, che diventano supporto della sua attività da pittore. Dal 1963 Festa si sofferma anche sui maestri della tradizione italiana e del Rinascimento, in particolare il Michelangelo della Sistina e delle Cappelle medicee, interpretati come immagini pubblicitarie. Viene invitato a partecipare alla Quadriennale di Roma del 1965. Dopo un difficile periodo di scarsa creatività e di deludente riconoscimento da parte della critica, è invitato alla Biennale di Venezia del 1980. Un pittore, Tano Festa, che agisce in base a un proprio pensiero e non solo in forza delle proprie urgenze espressive. Che traduce in pittura finestre chiuse, armadi ottusi, specchi opachi, per additarci non un mistero al di là di essi, ma semplicemente la sua presenza di pittore al di qua di essi: colui che affronta tutti i possibili mondi della pittura. Vedremo che tutti i soggetti scelti nei cicli successivi si rifanno esplicitamente a elementi iconografici e a trattamenti pittorici codificati dalla storia dell’arte. Il filo è dunque dipanato, dopo aver visto che il tema del ciclo iniziale di Festa è la sua stessa condizione di pittore, possiamo seguirlo nell’affrontare il contraltare di quella condizione: se una finestra è chiusa perché è un quadro davanti a cui sta un pittore, quando per avventura si apra, si constata che dietro ci sono soltanto altri quadri, perché dietro alla pittura c’è soltanto altra pittura.



BRUNO CECCOBELLI

Nasce nel 1952 a Todi dove vive e lavora. Compie gli studi a Roma frequentando l’Accademia di Belle Arti con Scialoja. La sua prima collettiva risale al 1971 in Austria. Nel 1976 tiene la prima mostra personale alla galleria Spazio Alternativo, dove parte da una ricerca Concettuale (Body Art). Nel 1977 espone due volte alla sala La Stanza, di Roma, uno spazio autogestito dagli artisti, importante perchè molti personaggi che diverranno poi operanti negli anni ‘80 vi hanno presentato la loro prima opera. La sua ricerca si concentra sulla via di un’astrazione pittorica che attraverso il recupero del ready made e una manipolazione dei mezzi tradizionali dell’arte, approda ad un certo simbolismo spirituale. Nel 1980 è presente alla Biennale des Jeunes di Parigi. Questi sono gli anni in cui espone alla galleria Ugo Ferranti e successivamente da Yvon Lambert a Parigi e da Salvatore Ala a New York. Dal 1984 espone alla galleria di Gian Enzo Sperone a Roma. Sempre nel 1984 è presente nella sezione “Aperto” della Biennale di Venezia. Mentre nel 1986, sempre nell’ambito della Biennale di Venezia, partecipa ad “Arte e Alchimia”. Nel 1988 presenta una triplice esposizione a New York, presso la Jack Shainman Gallery, a Roma presso il Centro di Cultura Ausoni e a Madrid, presso la galleria Mar Estrada. Il progetto porta il titolo “Le figure le case i pozzi” e attraverso questi tre temi poeticamente indagati nelle opere, Ceccobelli si presenta con il suo primo catalogo ragionato (De luca editore). Nel 1989 espone nelle grandi capitali europee dell’arte, da Parigi a Londra a Barcellona. Nel ‘90 approda al grande mercato tedesco con una mostra a Francoforte e Vienna, a Basilea, e a Colonia. Nel 1991 la Fabbri pubblica un libro-catalogo sulla sua opera, curato da Alberto Boatto e Giovanni lovane, dal titolo “Sciami”. Nel 1992 espone ad Amsterdam, nel ‘93 a Montreal, al Museum Centre Saydie Bronfman, e a Rimini, alla Galleria d’Arte Moderna. Nel 1994 espone fra l’altro presso l’Istituto Italiano di Cultura di Malta e presso la Galleria BMB di Amsterdam; nel ‘95 presenta una personale presso a New York, mentre nel ‘96 espone a Dresda e alla XII Quadriennale di Roma. Dal 1995 lavora con la fonderia Venturi realizzando una ventina di soggetti scultorei che sono stati esposti in varie fiere internazionali. Contemporaneamente lavora a soggetti marmorei policromi a Pietrasanta nel laboratorio di Giannoni Marco. Nel 1997 espone a Palazzo Rasponi-Murat a Ravenna un ciclo di opere su carta di grande formato dal titolo “Tavole Minime”; il catalogo contiene un lungo testo teorico dell’artista. Dal 1998 è rappresentato in Canada presso due gallerie a Montreal e a Toronto. Nel ‘99 espone a Livorno e viene intervistato nel catalogo collegato alla mostra dallo studioso dell’alchimia e critico d’arte Arturo Schwarz. Nello stesso anno espone a Bilbao, in Spagna. Nel marzo del 2000, infine, il Museo Arte Contemporanea di Riccione gli dedica una grande mostra rappresentativa di vent’anni del suo lavoro.



MIMMO GERMANÁ

Il nome di Mimmo Germanà (Catania 1944 – Milano 1992) emerge all’inizio degli anni Ottanta con la Transavanguardia, termine col quale il critico Achille Bonito Oliva designa un gruppetto di artisti italiani che rilanciano una pittura di figurazione “calda”, visionaria, dai colori fauve, che recupera spunti e citazioni senza progetto anche dall’arte del passato, dopo i “freddi” anni Settanta dell’arte concettuale. A questo recupero della pittura, con Cucchi, Chia, Clemente, Paladino, De Maria, l’artista siciliano (autodidatta di formazione) partecipa con una personale carica di immaginazione di stampo popolaresco, “ingenuo”, con forti cadenze simboliche. “Una fantasia abbagliante, colorata, rapida, di gialli, rossi, blu” scrive Francesco Gallo, siciliano anche lui, commemorando l’amico morto per Aids a soli 48 anni. Una sorta di espressionismo mediterraneo, che coniugava il primitivismo delle forme con la carica dionisiaca dei colori intensi e delle materie forti per comporre scene di sentore mitico. Questa energia fantastica (qualcuno lo ha definito “lo Chagall italiano”) gli valse - già nel 1980 - la partecipazione alla Biennale di Venezia. Nel 1987 viene assegnato il Premio Gallarate a quest’artista dalla personalità complessa, anticonformista e tenace, i cui temi fondamentali sono figure di donne dai caratteristici volti ovali ed incantevoli paesaggi mediterranei, propri del suo vocabolario iconografico. Secondo S. Grasso, è il “ James Dean dell’arte perché ha sempre optato per una pittura forte...” , mentre per Del Vecchio è “ un centauro della pennellata, di un segno avventuroso... “ ed A .Bonito Oliva scrive : “ un ritmo scorrevole regge la sua pittura , fatto di spessore e pennellate dense, di colori cupi e di materie forti”. Quella di Germanà è, nonostante tutto, nonostante le apparenze, una sintassi rigorosa della sua scelta espressionistica, della scelta per la pittura d’impatto, che è la più adatta al suo stile onirico e trasognato, di una pittura che venendo da Monet ha trattenuto la vena rapida e immediata del rapporto con la luce, vissuta nella sua fase di maggiore vivacità, nel momento dello zenit, momento in cui le tonalità sono bandite e sembra debbano uscire le sagome di Matisse e di Feininger, le pose femminili di Max Pechstein, con il loro carico alcolico e sessuale, in alcuni momenti anche la cromatica di Jawlensky, più che quella dei suoi compagni di viaggio degli anni ottanta, Chia, Cucchi, Paladino, Clemente, De Maria. Germanà mette insieme l’ispirazione del momento, quella che gli è dettata dalla particolare emozione, la sollecitazione del fare, con la mediazione della memoria, con il ricordo dell’immaginario storico complessivo, del transito delle avanguardie, perché in lui convivono diversi aspetti di personalità che, di volta in volta, prevalgono le une sulle altre, ma sempre nel corpus di un modo di vedere le cose, in un suo modo fantastico, poetico.



OMAR GALLIANI

Omar Galliani nasce a Montecchio Emilia (RE) il 30 ottobre 1954. Ha frequentato l’Accademia di belle arti di Bologna, le sue costanti pittoriche si riferiscono spesso ad immagini tratte dalla storia dell’arte, a simboli, a rituali primordiali e la composizione delle sue opere è spesso costituita da una struttura piramidale di stampo tardo rinascimentale. Nel 1977 espone a Bologna per la prima volta in una personale. Già negli anni fra il ’77 e l’80 Galliani lavora partendo dalla storia dell’arte e dalle sue metamorfosi e tenta di collegare l’antico al contemporaneo. Inizialmente questo lavoro porta con sé una forte componente concettuale (la rappresentazione di un opera celebre accostata alla messa a fuoco di un particolare). Nel 1980 espone a Roma e a Ferrara nella mostra curata da Flavio Caroli “Magico Primario”. In questo periodo Galliani si esprime splendidamente con il disegno, che era già un’invocazione alla pittura e che poco tempo dopo gli permetterà di recuperare quelle immagini “colte” e mitologiche che sono alla base del suo lavoro. I colori delle sue opere sono caldi e sanguigni. Attraverso le immagini esprime l’atmosfera mitologica, allude ad avvenimenti passati filtrandoli nel presente, ma la vera meta della sua pittura è l’essenza alchemica posseduta dalle forme e dai simboli. Dopo il 1980 ha esposto in numerosissime personali e ha partecipato alla XVI Biennale di San Paolo del Brasile ed alle Biennali d’Arte da Venezia dell’82 e dell’86. Nei recenti lavori compaiono gli oggetti simbolo e scompaiono le figure umane. Non si tratta di oggetti estrapolati dalla realtà e neppure surreali, ma come scrive Marisa Vescovo “oggetto simbolo, che si pone come fenomeno; come facoltà rilevante in quanto accadimento che avviene in uno spazio cosmico e si concreta e si invera nell’apparizione, all’interno dell’universale, di un particolare”. Omar Galliani vive a Montecchio ed a Urbino, dove insegna. Dipinge come i pittori del passato: ricerca nella storia della pittura dei secoli trascorsi un repertorio ampio, che rivisita e reinventa, attuando la convergenza tra memoria e coscienza. Eppure, - a ben vedere - vi è molto poco di conservatore nella sua ricerca. Egli non dà vita a lavori ”chiusi”, rifiniti in ogni parte. Mira a far emergere una sorta di non-finito, di disequilibrio. Le imperfezioni e le venature del legno che costituiscono la base dell’opera non sono affatto eliminati. Al contrario, hanno un ruolo centrale nella tessitura del quadro: le rughe del legno si confondono con il volto della donna rappresentata




9cento


INDICE DELLE OPERE Michele Cascella, “Portofino”, olio su tela, cm 50x70, anni ‘80 Umberto Lilloni, “Autunno in Brianza”, olio su tela, cm50x70, 1960 Giuseppe Migneco, “Contadino con limoni”, olio su tela, cm 60x90, anni ‘70 Remo Brindisi, “Pastorale”, olio su tela, cm 60x50, anni ‘80 Renato Guttuso, “Colombe”, gouache, cm 40x50, 1971 Aligi Sassu, “Il giudizio di Paride”, acrilico su tavola, cm 37x54, 1983 Orfeo Tamburi, “Parigi”, olio su tela, cm 65x50, 1969 Antonio Bueno, “Vaso di fiori”, olio su tavola, cm 60x40, anni ‘70 Xavier Bueno, “Volto di bambini”, olio su tela, cm 20x24, anni ‘80 Giovanni Cappelli, “Figura di notte”, olio su tela, cm 80x100, 1993 Antonio Pedretti, “Paesaggio lacustre”,olio su tela, cm 70x80, anni ‘90 Ernesto Treccani, “Figura”, olio su tela, cm 70x50, anni ‘70 Gianni Dova, “Uccello”, olio su tela, cm 25x35, 1969 Achille Perilli, “Grande spazio n.1”, t.m. e olio su carta, cm 70x100, 1951 Emilio Scanavino, “Tramatura con cerchio”, olio su tela, cm 60x60, anni ‘70 Piero Dorazio, “Reticolo”, pastello su carta, cm 20x30, 1964 Giulio Turcato, “Arcipelago”, olio e sabbia su tela, cm 70x100, anni ‘70 Mario Schifano, “Monocromo”, smalto su carta, cm 100x70, 1970 Mario Schifano, “Futurismo”, acrilico su tela, cm 70x100, anni ‘70 Mimmo Rotella, “Caffè”, decollage, cm 37x52, 1960 Franco Angeli, “Turbolenza”, smalto su tela, cm 130x150, anni ‘80 Tano Festa, “Dama sul divano”, acrilico su tela, cm 130x140, 1984 Bruno Ceccobelli, “Voluttà tra due tempi”, t.m. su tavola, cm 100x160, 1989 Mimmo Germanà, “Tramonto sull’acqua”, olio su tela, cm 60x160, 1990 Omar Galliani, “Oltremare”, grafite su tavola, cm 60x60, 1998




9cento


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