Northanger Abbey’s Secret Tribute to Jane Austen’s Northanger Abbey (1818) A novel by Monica Serra
Š2013 by Monica Serra
Northanger Abbey’s Secret
Mi chiamo Catherine Morland e sono una ragazza semplice. Non amo la confusione, mi piace leggere e un giorno vorrei vivere un’avventura come quelle narrate dalla mia scrittrice preferita, Ann Radcliffe. In questo periodo sono ospite dei miei amici, i signori Tilney, nella loro imponente residenza, l’Abbazia di Northanger. Si trova a circa trenta miglia da Bath e vi sono giunta a bordo dell’elegante calesse di Henry Tilney. Il signor Tilney è un giovanotto affascinante anche se sospetto che si sia divertito un mondo a prendersi gioco di me durante il viaggio. Mi aveva descritto l’Abbazia come un luogo inquietante, pieno di misteri, fatto di stanze senza finestre né porte né mobili, una serie di tetri passaggi e appartamenti disabitati. In effetti, a dar retta ai suoi racconti, sarei finita direttamente dentro uno dei miei amati libri. Niente di più falso. L’Abbazia si erge tra bei prati; è un edificio grandioso e racchiude un grande cortile, circondato di ricchi ornamenti gotici che si alternano ad architetture moderne. Quando ho posato gli occhi su questa casa, dopo tutti gli orrori che Henry aveva risvegliato nella mia immaginazione, avrei voluto strozzarlo! Questa notte, però, c’è stata una tempesta. Il vento soffiava forte e la pioggia cadeva a dirotto. Confesso di aver trascorso gran parte del tempo rannicchiata nel letto, a fissare la finestra in stile gotico che mi stava di fronte, oltre la quale infuriavano gli elementi. Ogni oggetto nella stanza pareva gridare d’orrore e per un istante ho temuto che le spaventose storie di Mr. Tilney potessero avverarsi. Il vento fischiava nel camino dove il fuoco si era ormai spento e faceva sbattere una porta in lontananza. Mi sembrava che le tende si muovessero e torrenti di pioggia si abbattevano contro le finestre. A un certo punto, la luce della candela si era fatta fioca e tremolava per gli spifferi che penetravano attraverso le fessure delle imposte. Quando si è spenta, mi sono terrorizzata sul serio. Ogni raffica di vento mi pareva densa di oscuri significati, la chiave della porta oscillava di tanto in tanto come se qualcuno tentasse di aprirla. E poi avevo un pensiero fisso in testa. Il generale Tilney mi fa davvero paura. Non riesco a cancellare dalla mente i suoi occhi inquisitori, i suoi modi sfuggenti. E non posso fare a meno di paragonarlo al Montoni1. Questa notte, mentre infuriava la tempesta, immaginavo di vederlo aggirarsi per i corridoi con una lampada che rifletteva sul suo volto ombre inquietanti. Non ho chiuso occhio finché il temporale si è placato e le prime luci hanno rischiarato la campagna. Ho voglia di uscire, dopo una nottata così tremenda. Il piacere di camminare e respirare l’aria pura del mattino sono le cose che amo di più. Indosso un mantello abbastanza caldo e sguscio fuori dalla mia stanza. Non ci sono rumori, segno che la servitù non è ancora in piedi. Quando esco nel cortile, l’aria è frizzante e tutto è avvolto da una nebbia leggera che si dirada a poco a poco. Passo attraverso lo spiazzo silenzioso e imbocco il sentiero che ieri la signorina Tilney mi ha indicato come il suo preferito. Avrei voluto chiedere a Eleanor perché ama tanto questa stradina acciottolata che si snoda attraverso un fitto boschetto di abeti scozzesi, ma non ne ho ancora avuto occasione. Cammino spedita, mentre il sole si fa strada nella foschia mattutina, e dopo un po’ mi giro a guardare Northanger. Socchiudo gli occhi, sperando che in questo modo l’edificio assuma un aspetto meno minaccioso.
Non è tremendo come Henry Tilney mi aveva fatto credere, però dopo la notte appena trascorsa un po’ di paura me la mette. Sospiro e riprendo a muovermi lungo il sentiero. Il silenzio del bosco è rotto all’improvviso da un rumore sinistro, secco, come di un ramo che si spezza. «C’è qualcuno?». Benché la mia intenzione sia di parlare forte, la voce mi esce soffocata. Nessuno risponde. Faccio un passo incerto, poi un altro, finché un fruscio alle mie spalle mi fa pietrificare. «C’è qualcuno?» ripeto, con voce più flebile. Ancora una volta, il mio richiamo resta sospeso nel nulla. Riprendo a camminare finché un muro di pietra grigia, ricoperto di foglie dal colore rosso sangue, mi blocca la strada. Decido di tornare indietro, quando mi accorgo di una breccia nel muro, nascosta sotto l’edera. La curiosità è uno dei miei peggiori difetti e anche questa volta, nonostante i brividi che mi mette questo posto, non riesco a resistere alla tentazione di scoprire cosa ci sia dall’altra parte. Scosto le foglie e mi affaccio. Ci passo per un pelo. Mi introduco nel cunicolo e, muovendomi a fatica, giungo dall’altra parte. Scivolo fuori e mi guardo intorno. All’improvviso, non sono più sicura di dove mi trovo. È una giornata bellissima e l’aria profuma di fiori e di erba appena tagliata. Sembra che tutti i colori della natura si siano riuniti in questo spazio minuscolo. Trattengo il fiato, quando mi rendo conto che sono in piena fioritura anche specie che in questo periodo sarebbero assolutamente fuori stagione. Il giardino é avvolto da un’aura misteriosa, come se fosse fuori dallo spazio e dal tempo. Al centro c’é una meridiana in pietra, circondata da campanule, anemoni, mughetti, fresie e altri fiori che non riesco a riconoscere. Un profumo fragrante aleggia nell’aria e le rose rivestono tutte le mura interne. D’un tratto mi accorgo di non essere sola. Seduta su una pietra, nel mezzo del giardino, c’è una donna. Indossa abiti dal tagli antiquato e il suo viso, che mi sembra familiare, ha un pallore che lo rende quasi trasparente. Mi fissa con un’espressione interrogativa. «Salve» saluto, imbarazzata per essermi fatta sorprendere in un posto dove non dovrei essere. «Chi siete?» chiede lei, con voce pacata. «Non viene mai nessuno qui». Vincendo il disagio, avanzo di qualche passo. «Buongiorno. Mi chiamo Catherine Morland.» Siedo sulla panca di pietra che lei mi indica e aggiungo: «Sono ospite dei Tilney. La signorina Eleanor è una mia cara amica.» La donna annuisce, guardandomi con simpatia. «Io sono Grace» si presenta. «Conosco bene Eleanor Tilney.» Iniziamo a parlare di quanto Eleanor sia gentile e ben educata, poi il discorso si sposta sull’abbazia. Grace sembra conoscerne ogni segreto e mi racconta delle gallerie ai piani superiori che ospitano i ritratti della famiglia Tilney, delle spaziose cucine che al mattino presto si riempiono di un fragrante profumo di pane, delle tende di velluto viola che schermano le finestre della camera padronale. È piacevole chiacchierare con lei, anche se sembra essere rimasta un po’ indietro nel tempo sugli argomenti che non riguardano la residenza. «Sono molti anni che non esco da qui» mi dice, quando glielo faccio notare. Il primo pensiero che mi viene in mente è che sia malata e provo compassione per lei. Di sicuro è una parente stretta di Eleanor. Una zia, una cugina, forse. C’è una vaga somiglianza tra loro, anche nelle movenze. Senza renderci conto del tempo che passa, mentre l’ombra della meridiana si sposta sul quadrante
di pietra, continuiamo a parlare finché il sole scompare dietro le alte mura che circondano il giardino. «Catherine!» La voce di Eleanor risuona acuta dall’altro lato. «Catherine, dove siete finita?» Mi stringo nelle spalle e sorrido a Grace. «È meglio che vada. Sarà già abbastanza in pensiero perché sono sparita per tutto il giorno.» Anche lei sorride. «Non bisogna far stare in pensiero le persone care.» «Voi non venite?» le chiedo. Grace fa cenno di no col capo. «Allora spero di rivedervi presto» dico, facendo un leggero inchino per salutarla. «Non credo che sarà possibile» risponde lei con voce triste. Non ho il tempo di replicare. La voce di Eleanor risuona più forte. «Catherine!» Faccio un altro rapido cenno di saluto e m’infilo di nuovo nel cunicolo. Quando sono dall’altra parte, raggiungo la signorina Tilney sul sentiero tra gli abeti. Lei mi afferra le mani, sollevata. «Oh, Catherine!» esclama stringendole forte. «Mi avete fatto spaventare! Dove siete finita per tutto il giorno? Vi abbiamo cercata ovunque!» «Scusatemi, Eleanor.» Mi prende sotto braccio e ci avviamo fianco a fianco lungo la stradina, senza parlare. A metà strada, sono io a rompere il silenzio. «Ditemi una cosa, Eleanor. Chi è Grace?» Lei trasale, poi si ferma, turbata. Mi rivolge uno sguardo triste, quasi spaventato. «Era mia madre. Questa era la sua passeggiata preferita.» Per alcuni istanti penso di non aver capito bene. Poi un brivido mi fa drizzare i peli sulla nuca. Ora so perché la mia amica ama tanto quel sentiero. E comprendo perché il volto di Grace mi era parso così familiare. Eleanor riprende a muoversi. «Sono nove anni che è morta» sussurra, stringendosi al mio braccio. «Ho passeggiato qui così spesso con lei! Allora non mi piaceva come mi piace adesso. Ora è il suo ricordo a rendermi caro questo sentiero.» La mia amica fa una breve pausa, poi il suo passo si fa più deciso e la sua voce più ferma. «Non voglio parlare di lei. È una storia troppo triste. Andiamo a casa.» Mi volto indietro e vedo il muro di pietra grigia ergersi scuro nella luce del crepuscolo, in fondo al sentiero. Stranamente, non ho paura: la mia avventura sembra proprio quella di un libro. E Northanger Abbey non mi sembra più inquietante, ma solo triste. Lo sguardo mi cade sulla crepa che qualche ora prima ho attraversato e scorgo una figura pallida fare capolino. La donna alza la mano in cenno di saluto e io, senza farmi notare da Eleanor, le rispondo. Forse sono le ombre della sera, ma ho l’impressione che il fantasma di Grace Tilney mi sorrida.
1) Il “cattivo” del romanzo The Mysteries of Udolpho ↵