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n°4 Apr/Mag 2012

il bufalO

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Episodico dell’Associazione Culturale Il Tassello Mancante

Rivista Culturale

La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere


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le a i r o t di

] Paralleli In memoria di nitide voci

Lo scorso numero si apriva con il ricordo della scomparsa di Pier Vittorio Tondelli, e ora nuovi, dolorosi, recenti lutti costringono questa redazione a dedicare nuovamente questo spazio, che si vorrebbe programmatico, propositivo e rivolto al futuro, allo sguardo verso il recente passato. È una questione di radici: ci sentiamo foglie che si seccano alla notizia della scomparsa delle due voci poetiche più significative per la Romagna, e certo tra le più riconosciute d’Italia. Parlo, ovviamente, di Elio Pagliarani e Tonino Guerra, scomparsi a pochi giorni l’uno dall’altro. Certo, parlare di loro come di due poeti potrebbe suonare limitante, in questi “tempi grami per la lirica”, ma intendiamo “poeta” etimologicamente, come colui che crea e proviamo a farci stare dentro il Pagliarani critico e autore teatrale, il Guerra sceneggiatore, disegnatore, prosatore. Vale la pena di ripercorrere brevemente la carriera dei Nostri, per ricordare cosa dobbiamo rimpiangere, per rinvenire le tracce da seguire di un percorso che a noi spetta continuare. Antonio Guerra, detto Tonino, nasce a Santarcangelo di Romagna nel 1920. Prigioniero nel 1943 in Germania, racconta di essersi ritrovato con altri prigionieri romagnoli a recitare poesie nel nativo dialetto. Liberato, si laurea in Pedagogia a Urbino, dove ottiene buoni giudizi da Carlo Bo per le sue poesie. Nascono da qui le prime due raccolte, I scarabocc e La s-ciuptéda. Esordisce come poeta dialettale, ma negli anni cinquanta si conferma nelle sue qualità di scrittore in lingua e a tutto campo: romanziere, narratore per ragazzi (con Luigi Malerba) e, soprattutto, sceneggiatore cinematografico. Alcuni tra i maggiori film della storia del cinema italiano portano la sua firma; il suo nome si affianca a quelli di De Sica, Lattuada, Monicelli e altri, ma qui ricordiamo su tutti il Fellini di Amarcord e l’Antonioni di Blow-up, per il quale giunse alla nomination all’Oscar. Una vita durata novantadue anni, una carriera di artista ininterrotta fino all’ultimo respiro, pronto a sperimentare anche in campi che non erano propriamente suoi, con la voglia di creare, anche sbagliando. Elio Pagliarani invece è meno noto, suppongo, ai giovani lettori del Bufalo. Spero che le mie poche parole servano, perché si tratta di uno dei maggiori poeti italiani di sempre. Nato a Viserba nel 1927, si laurea a

Padova in Scienze Politiche, poi si traferisce a Milano, dove insegna fino agli anni sessanta, quando si stabilisce definitavamente a Roma. Il suo esordio è milanese, Cronache e altre poesie, poi Inventario privato e soprattutto il rivoluzionario “romanzo in versi” La ragazza Carla, storia della giovane stenodattilografa Carla Dondi, alle prese col “cielo d’acciaio” della grande città che ingoia tutto ciò che sarebbe o potrebbe essere azzurro, umano. Dopo Lezione di fisica e Fecaloro, primo mostro tipografico dove esplode la rivoluzione della Neoavanguardia, si apre l’infinito cantiere della sua opera maggiore: La ballata di Rudi. Iniziato negli anni sessanta, verrà pubblicato solo nel 1995. Si tratta di un secondo romanzo in versi che attraversa la vita dei suoi personaggi, seguendone le disperazioni e i mezzi per sopravvivere, nel caotico nulla in cui l’evoluzione mondiale ha trasformato l’Italia prebellica, mondo di cui è eroe e relitto il personaggio di Nandi, pescatore viserbese. Due intellettuali sotto molti aspetti antitetici, che ora nel mio pensiero stanno a ricordare, sintetizzare, simboleggiare le due nature, marittima e campagnola, del territorio riminese. Viserbese Pagliarani, santarcangiolese Guerra, hanno dato voce nelle loro poesie a due mondi così vicini, eppure conflittuali, paralleli. Rileggere i capitoli marittimi del “romanzo in versi” La ballata di Rudi ci trasporta in quel mondo di droga, balere, milionari che è la riviera, e per converso, sfogliare i versi dialettali di I bu o La s-ciuptéda ci restituisce il mondo di un borgo antico, uscito dalla guerra traghettando usi e parole di un tempo morente. Avanguardia e tradizione, teatro e cinema, lingua e dialetto, città e campagna: coppie che potrebbero continuare, quasi a segnalare davvero un divario secco tra i due. Viene da chiedersi se non c’è qualcosa che li unisca oltre la mesta circostanza, se per noi una qualche sottile linea si possa tracciare. Potrebbe essere il racconto del lavoro, i contadini di Guerra, le impiegate di Pagliarani, ma a me piace pensare che la linea sia proprio una linea, cioè sia proprio quel mare che nelle poesie di Guerra si vede come lontana striscia sottile. Ho detto che i Nostri sono cantori di mondi paralleli, ma, se non ricordo male, anche due rette parallele all’infinito potrebbero incontrarsi, e se ci fosse dato di vederle toccarsi, forse quell’infinito sarebbe il mare, quello dell’ultimo, eterno, meraviglioso verso della Ballata di Rudi: “Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare”. Jacopo Galavotti


Alla memoria di Giuseppe Savoretti, che ha saputo unire la sua grande umanità alla pratica dell’azione politica, l’associazione Il Tassello Mancante dedica questo numero de “Il Bufalo”


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ATTUALITÀ

Fabbrica Arte Rimini intervista a Massimo Pulini L’assessore alla cultura del comune di Rimini, Massimo Pulini

L’inchiesta della nostra rivista sulla vita culturale in provincia continua e ancora una volta torniamo a Rimini. Ne approfittiamo per ripercorrere in breve il percorso che è stato intrapreso: nel primo numero ci siamo interrogati in merito al progetto di ricostruzione del Teatro Galli passando in rassegna molte delle vicende che attorno ad esso hanno ruotato (e ancora ruotano). Nel secondo abbiamo cercato di tracciare il segno attorno alle necessità artistico culturali e di sviluppo che interessano la riviera (dal Museo Fellini, allo sport passando per i trasporti) mentre nella precedente uscita ci siamo occupati delle sorti della Fondazione Fellini e conversando con il direttore Paolo Fabbri è stata più volte ribadita l’esigenza di disporre di nuovi spazi all’altezza del territorio e del nome del regista. Ne concludiamo che il minimo comune denominatore più nitido delle nostre tappe d’inchiesta è stato il tema delle infrastrutture. E proprio in riferimento a queste ultime segnaliamo che nel cuore di Rimini, in

Piazza Cavour, è stata inaugurata di recente una galleria d’arte moderna e contemporanea presso i palazzi dell’Arengo e del Podestà. L’area, che occupa il pianterreno delle due strutture, è la sede di FAR-Fabbrica Arte Rimini, lo stesso ente che gestisce lo spazio. Nata dall’impegno del Comune in sinergia con l’assessorato alla cultura la nuova associazione si prefigge di promuovere l’esposizione e la produzione artistica, tramite mostre, conferenze, installazioni e workshop. Abbiamo intervistato l’assessore alla cultura di Rimini Massimo Pulini, ideatore di FAR. Massimo Pulini, come è nata Fabbrica Arte Rimini? FAR nasce da una constatazione: il comune di Rimini ha un alto potenziale di spazi adibiti e messi a disposizione dell’organizzazione di esposizioni, mostre ed altri eventi come incontri pubblici e conferenze. La cura di questi spazi, situati nel fulcro del centro cittadino, all’interno del Palazzo dell’Arengo e del Pa-

lazzo del Podestà, fino a pochi mesi fa non era posta a carico di un’unica associazione. Io ho cercato in particolare di “unire” e rinnovare gli spazi del pian terreno, lavorando direttamente sulla morfologia del luogo. È stata fondamentale la riapertura del vecchio varco che già un tempo univa le sale inferiori dei due edifici, dopodiché lavorando su un un’unica area molto ampia abbiamo apportato una maggiore luminosità, rendendo l’ambiente meno “claustrofobico” rispetto al passato, e sento di poter dire che il risultato ottenuto è stato ottimo. E dopo aver risolto la questione “infrastrutturale”? Per questo spazio rinnovato abbiamo creato un marchio e un logo ed impostato un calendario di scelte artistiche: un modo per accreditare la necessità di una autentica credibilità in campo culturale. Non dico che questi spazi non fossero precedentemente sfruttati dignitosamente: semplicemente ci si è resi conto di una necessità, quella di prendere in contropiede il tempo attuale, un tempo che mette in condizione il settore culturale di subire numerose perdite. Se le circostanze non sono favorevoli è inevitabile ricercare la qualità. Cercheremo di portare a Rimini gli artisti migliori, anche mettendo a disposizione le necessarie risorse finanziarie ed è partendo dal fatto che una brutta mostra a volte costa quanto una bella mostra che punteremo su una politica di accurata selezione.

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Il Logo di FAR- Fabbrica Arte Rimini-.

Avete già tratto i primi bilanci? Non possiamo che essere soddisfatti: il giorno di Natale la sede di FAR è stata aperta e ha accolto ben 1500 visitatori. La notte di capodanno l’apertura è stata prorogata fino alle 4 del mattino e l’affluenza è stata di ben 4000 persone: questo significa che chi passava dal centro visitava anche la galleria, una cosa non da poco.

diventare tale entro l’anno ma sfortunatamente qualcosa è andato storto. A che punto è il processo di trasformazione, ora? Per quanto riguarda il Fulgor, ci sono le premesse per far partire i cantieri anche se dobbiamo considerare la morfologia di un territorio “archeologico”, che obbliga a procedere con estrema cautela. Tuttavia ci sono le risorse per fare avviare i lavori con la speranza di concluderli di qui a tre anni. In merito alla fondazione, è stata stesa la bozza di uno statuto, ma appunto, stiamo parlando di una bozza. La presenteremo anche agli “eredi”, fra cui Francesca Fabbri Fellini, con loro sarà necessario un tavolo di lavoro e di confronto. Bisogna fare chiarezza, la fondazione deve rinascere e procedere.

presentazione teatrale e musicale intitolata “De bello Gallico - Enklave Rimini” curata da Roberto Paci Dalò con la compagnia Giardini Pensili, ci saranno iniziative simili in futuro? Presto potrebbero essere organizzati eventi simili in altri luoghi: l’area Ex-Macello o lo stesso Fulgor quando sarà cantiere, così come l’ex-ospedale, attualmente in ricostruzione per ospitare l’area moderna del museo cittadino. Sono tutti luoghi destinati ad arricchire la città: per organizzare eventi come quelli che hanno rianimato il Teatro Galli sarà necessario sospendere i cantieri e, certamente, non per lunghi lassi di tempo, ma il significato sarà quello di far vivere luoghi solo apparentemente nascosti.

Qualche mese fa la nostra inchiesta toccò la fondazione Fellini e il cinema Fulgor. La fondazione doveva

Non molto tempo fa il cantiere del teatro Galli è stato animato da una singolare iniziativa, la rap-

E il nostro augurio è che questi luoghi rinascano davvero al più presto. Enea Conti

Il Palazzo dell’Arengo e del Podestà, che ai piani inferiori ospitano la sede di FAR

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] ARTE E LETTERATURA

È in libreria Il senso dell’elefante Recensione/intervista con Marco Missiroli

Dopo Senza coda (Premio Campiello Opera Prima 2006), Il buio addosso e Bianco, Marco Missiroli ha recentemente pubblicato il suo quarto romanzo, Il senso dell’elefante. Il protagonista, Pietro, è un prete riminese che gli eventi della vita hanno portato a rinunciare alla sua attività religiosa. Ora fa il portinaio in un palazzo di Milano: una galleria di personaggi stravaganti e idiosincratici. Con la propria copia delle chiavi dell’appartamento dei Martini, Pietro vi si introduce, ruba piccoli oggetti, ne annusa l’odore. Il romanzo nasconde, lascia intuire e poi svela, pian piano, quale segreto lega il portiere e Luca Martini, le sottili trame familiari che le vite intessono, fatte come sono di ricordi lasciati tra Rimini e Milano. In questo svelamento grande importanza assumono gli oggetti a cui tali ricordi si

legano. Scopriamo insieme a Pietro che il dottor Martini per la sua professione di medico è costretto a vivere dolorosamente il confine tra vita e morte, e somministra iniezioni letali ai malati terminali che glielo chiedono. Missiroli costruisce attorno all’insondabile mistero della condizione umana una trama coinvolgente, che costringe il lettore fino all’ultima pagina, e però non giudica: semplicemente racconta e, quel che più conta, non scrive un romanzo sull’eutanasia ma, attraversandola, intesse una trama che ruota attorno al centro vuoto della morte, la fissa negli occhi senza smettere di correre. Come ogni buon romanzo, è una sfida a ciò che è oltre, non certo una risposta, ma un modo nuovo di porre una domanda. E non si intenda banalmente che il romanzo sfida la morte perché parla di eutanasia: a scanso di equivoci, devo sottolineare che il merito dell’autore è appunto quello di non far crollare il racconto sotto il peso di una forzata morale. Caratteristica dominante, come sempre in Missiroli, è un approccio visivo alla narrazione che pone in risalto la successione delle azioni, più che una posizione autoriale di giudizio rispetto ai personaggi o un resoconto delle loro riflessioni. La sfida alla morte è rappresentata dalla presenza di un messaggio comune, messaggio che si intreccia con tutto ciò

che questo libro racconta, cioè la stretta comunione tra tutti i padri, incarnati nelle figure di Pietro e Luca, ma anche in quella sofferente di un benzinaio, il cui figlio è malato terminale. Attraverso la singolarità di ciascuna di queste esperienze, Missiroli definisce i tratti di un umanissimo archetipo paterno, che vive un amore sofferto verso tutto ciò che è filiale, e questo è, a mio avviso, il grande obiettivo di quest’opera. È infatti questo il “senso dell’elefante”, una paternità che disconosce il legame del sangue e sente forte il legame di specie: ogni padre difende ogni figlio, difende l’uomo quando è debole. Mai troviamo, quindi, intellettualistiche prese di posizione perché ogni azione, conclusione, battuta dei personaggi si giustifica da sé nella dinamica di una scrittura che ricorda molto da vicino (a tratti forse troppo – e questo è forse il limite di questo stile) una sceneggiatura cinematografica, disegnata con tocco rapido e preciso. Abbiamo avuto il piacere di fare a Marco Missiroli qualche domanda sulla sua ultima opera. Marco, quando si parla del “tema” di un’opera si rischia di ridursi a riassumere aspetti accidentali della trama, ma qui se un tema c’è e ci trovassimo costretti in poche righe diremmo che è un

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romanzo sulla paternità - non volendo con questo trascurare altre componenti, come quella, pur centrale, dell’eutanasia. Quello che voglio chiederti è cosa significa per uno scrittore confrontarsi con aspetti così profondamente condivisi da ogni uomo, cioè pensare l’Uomo narrando una storia. Io la considero la grande scommessa della letteratura, anche tu la consideri una scommessa? L’importante è mettere ciò che vuoi trattare dentro una storia. Deve esserci una storia, non è sufficiente trattare temi profondi o semplicemente l’umano senza mitizzarli in una narrazione. Non perché il lettore debba essere portato dentro con trucchi narrativi, ma perché l’esistenza stessa ha un inizio e una fine, degli avvenimenti e un cerchio che prova a chiudersi. Scrivere romanzi per me è tentare di riprendere questo cerchio. La paternità è il motore di questo libro, l’eutanasia rimane sullo sfondo anche se è, in un certo senso, il carburante di questo motore. L’unico modo che avevo di parlare di questi massimi sistemi era una storia vera, autentica, composta da personaggi autentici che esistono veramente e che danno verità a qualcosa che altrimenti sarebbe stato troppo pour parler. Nel romanzo, quella di Dio è una presenza fissa, o - se così si può dire un’assenza fissa. Intendo dire che il confronto con il divino a cui obbliga la ricerca di senso dei tuoi personaggi si scontra quasi sempre con lo scacco della sua ineffabilità, della sua distanza. Non a caso, il protagonista è

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un prete spretato che ha perso la fede in quel Dio che per lui è anche padre, dal momento che è orfano. C’è qualcosa di divino in quell’afflato paterno che tu chiami il “senso dell’elefante”? Dio è lo spartiacque di tutti i miei libri, nei precedenti era lo specchio in cui guardarsi per commettere immoralità “legittimate”. In questo caso no, è un vero e proprio interlocutore, un padre che sta a guardare i suoi uomini rincorrersi per sfuggire alla solitudine, ai doni terreni, ai vuoti umani. È un Dio osservatore che, siccome guarda, condiziona. Pietro è il rappresentante umano di una persona che non ci sta più a farsi giudicare da un Dio che “è rimasto vigliacco per tutta una vita”. La sfida comincia qui, è una sfida piena di pietas, non di presunzione. In una recente intervista rilasciata a Rolling Stone, rispondevi a Franco Capacchione che la tua è una scrittura visiva, nata da una formazione più cinematografica che letteraria. Ti avrei rivolto la sua medesima domanda, ma, per non annoiarti, vado oltre. Mi pare che Bianco corresse sull’orlo di un burrone, da cui anche Il senso dell’elefante non è del tutto al sicuro, cioè di ritrovarsi, non vicino, ma in concorrenza con il cinema. Cosa ne pensi? Il mio modo di scrivere è visuale, ma non scimmiotta il cinema. È un modo reinventato di vedere le dinamiche umane attraverso i gesti. Tu lettore vedi il gesto, e capisci il sentimento. Nel cinema vedi il sentimento. È diverso, vengo dalla tradizione

strettamente hemingwyana, dove il fatto conta più del detto. Il cinema è ancora l’arte che mi influenza di più, non dal punto di vista estetico ma da quello della narrazione: anche io penso ai miei libri per scene. Milano e Rimini. Le tue due città sono anche le città della vita di Pietro, ma è soprattutto il suggestivo mare d’inverno, ad essere luogo di illuminazione per ognuno dei personaggi di quella strana combriccola che viene a crearsi nel finale. Perché a questo punto della tua carriera hai deciso di parlare di Rimini, addirittura affidando ai personaggi qualche battuta in dialetto? Perché ogni scrittore deve fare i conti con le proprie radici o almeno con le proiezioni delle proprie origini. Ho avuto un rapporto conflittuale con Rimini e lo si vede nel mio secondo libro, Il buio addosso, dove R. è la città delle crudeltà. Ma ora sono completamente riappacificato con la mia terra, forse ci sono riuscito stando fuori, vivendo a Milano o scrivendo di altri territori. Sta di fatto che le pagine di Rimini mi hanno riportato a casa, sia come scrittore, sia come persona. E credo siano le migliori che io abbia mai scritto. Jacopo Galavotti

Marco Missiroli, Il senso dell’elefante, Guanda, 23 febbraio 2012, 237 pagg., 16,50 €; intervista realizzata il 7 marzo 2012; l’intervista di Franco Capacchione è su www.rollingstonemagazine.it


A Grotta Rossa la memoria di Gerda Taro (e dei rullini) Abbiamo tutti, sin da piccoli, preso in mano una macchina fotografica, magari di quelle con il rullino, dove bisognava stare attenti a scattare perché la luce doveva essere quella giusta, i soggetti in posa con un bel sorriso richiamato dalla parola (per dirla all’italiana) “formaggio”, e perché no, con un bel paesaggio sullo sfondo. Non si poteva controllare subito il risultato, dovevi aspettare altre ventitrè fotografie e poi portare il rullino dal fotografo sperando di non avere troppe fotografie non riuscite. Ora i tempi sono cambiati, siamo nell’era del volere ed avere tutto e subito e con essa è cambiato anche il modo di fotografare, i rullini sono stati sostituiti da schedine da infilare dentro le macchine fotografiche digitali, si può fotografare qualsiasi cosa, per provare, per verificare la messa a fuoco o la luce, puoi portarti il risultato a casa, selezionare le fotografie che ritieni migliori e poi magari modificarle con qualche programma di ritocco ed infine “svilupparle” con la stampante. Questo a grandi linee è il cambiamento mostratosi più o meno a tutti davanti agli occhi, può essere interpretato sia in maniera positiva che negativa, in quanto possiamo sbizzarrirci senza troppe remore in fotografie che ognuno a suo modo può trovare artistiche, fare trecento prove con l’obiettivo puntato davanti ad un bicchiere di birra o alla pianta grassa sul mobile della cucina, ma che, dall’altro lato, porta anche

ad una perdita di valore della fotografia stessa, non più pensata e quasi intangibile. La mia esperienza come fotografa è iniziata proprio con queste piccole cose, nella consapevolezza di non essere l’unica a volere esprimere qualcosa attraverso le immagini, partendo dalla sperimentazione fino a diventare una forma di rappresentazione della realtà che abbiamo attorno, però con gli occhi filtrati dalle lenti dell’obiettivo, per dare risalto a particolari e a situazioni che ci circondano nella quotidianità e ai quali magari non diamo più attenzione. La fotografia quindi si evolve, si sono creati e sviluppati nuovi modi di concepirla e di crearla, alcune tecniche esistenti da tempo si sono affinate, altre si sono perse. Quando si parla con un altro appassionato di fotografia una domanda che viene subito spontanea è “ma a te, cosa piace fotografare?”; pensando a questa risposta, si ricade in delle macroaree ormai comuni nel gergo fotografico, si arriva così a parlare di macro, paesaggio, ritratto, still life, arrivando ad una classificazione dove, come ad esempio per i generi musicali, non tutti sono disposti a classificarvisi. Se ci guardiamo intorno vediamo sempre più persone con al collo una reflex, e forse in pochi sanno che il nome e la differenza con le altre “compattine” deriva dal tipo di mira (l’inquadratura si ha direttamente dall’obiettivo). Le più gettonate sono le Nikon e

le Canon, per le quali marche è nata una sorta di guerra Canonisti VS Nikonisti. A Rimini è nata un’ iniziativa che ci riporta artisticamente a qualche anno addietro, e cioè, come dicevo prima, al tempo dei rullini. È stata allestita presso il centro sociale “Grotta Rossa” la camera oscura “Gerda Taro” (nome di una grandissima fotoreporter antifascista, la prima giornalista a cadere durante l’espletamento della sua professione) dove è possibile sviluppare i propri rullini in bianco e nero, e dove periodicamente sono stati organizzati dei corsi da Serena Borghini per imparare quest’arte, che richiede tempo e pazienza, ma dà anche tante soddisfazioni. Per sviluppare un rullino ci sono due passaggi fondamentali, il primo è lo sviluppo della pellicola, il secondo è la stampa delle fotografie. Questi passaggi richiedono diversi tipi di acido per lo sviluppo, il fissaggio e l’arresto, da compiersi quasi completamente al buio o solo con l’illuminazione di una lampada a luce rossa. Dopo aver sviluppato il rullino si passa a fare delle “prove a contatto” all’ingranditore per verificare il contrasto delle diverse fotografie e stabilire i tempi giusti per la stampa ed infine si procede con una fotografia alla volta per la stampa finale. Se siete interessati potete trovare il gruppo facebook “camera oscura gerda taro” oppure andare al centro “Grotta Rossa” e usufruire di questa interessante iniziativa. Francesca Eusebi

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Puttane Le parole vanno con tutti TECNICISMI L’attuale situazione governativa del nostro paese presenta aspetti affascinanti. Parlando da cittadino votante devo dire che sono colpito da questo bizzarro antidemocratico strumento che è il governo tecnico, il quale nasce come garanzia della stabilità istituzionale, e che certo meriterebbe una riflessione più accurata della mia. Infatti io di politica non me ne intendo e invece mi picco di capirci qualcosa di lingua italiana, quindi penso e rifletto su quel che un “governo tecnico” significa. “Governo tecnico” sta per “governo non politico”, cioè in cui nessuno dei ministri è rappresentante di un partito politico, e pertanto non eletto e non eleggibile. Questo, in un momento di crisi del paese e globale, dovrebbe garantirci dall’essere sacrificati per qualsivoglia interesse di parte. (Ora, si spererebbe che a scamparci fosse il buon senso di coloro che, eleggibili, sono stati eletti a loro tempo, ma è storia già sentita e non voglio fare della demagogia). “Tecnico”, convenzionalmente, in questi casi, viene usato per indicare un ministro “non politico” ma, ovviamente, non significa “non politico”, significa piuttosto “persona in possesso di una tecnica” ovvero di un insieme di conoscenze professionali, strumentali e pratiche, adatte a risolvere problemi relativi a una determinata materia (economia, medicina, idraulica, chimica, ...). Questa accezione del termine complica la questione perché pone due problemi: il primo è

che si rischia di autorizzare una indebita (e qualunquista) equazione “politico” = “non tecnico”; il secondo è che si presume che nella gestione della cosa pubblica sia qualità necessaria e sufficiente il possedere una tecnica. Il primo problema è complesso e me la cavo dicendo che un partito che si presenta alle elezioni, a mio avviso, deve avere l’ambizione di poterle vincere, il che vale a dire avere un’idea, un progetto economico e sociale ampio. Deve pertanto essere dotato di professionisti competenti in grado di mettere in pratica un disegno completo e coerente in vista di un ideale modello di stato (dai tombini alla scuola dell’obbligo). Una lista che si presenta alle elezioni solo per difendere i lupi dall’estinzione è un movimento morale e non un partito. Questo vale e a maggior ragione anche per tutti quelli che sono in tutto e per tutto partiti, ma non hanno se non pochissima o alcuna credibilità tecnica, professionale, intellettuale. (Questa è una lettura generica e di superficie, senza grandi pretese). Il secondo problema mi interessa di più perché vorrei riflettere su quello che distanzia oggi ciò che noi definiamo “tecnico” dalla categoria professionale che in altri tempi si sarebbe definita “intellettuale”. In breve: intellettuale, sarebbe colui che, in virtù dei suoi studi e della sua intelligenza, mette in pratica un “sapere” (e non una “tecnica” che vorrebbe essere una sorta di “sapere pratico”) in modo critico e consapevole, specialmente in ambito umanistico; il tecnico è,

invece, colui che applica una serie di regole in modo strumentale, in ambito principalmente scientifico. Oggi stiamo supponendo possibile l’esistenza di una guida tecnica di cose comuni e morali come l’istruzione, la sanità o la giustizia, ignorando la necessità di un obiettivo chiaro e sociale, vincolato a una critica che non può essere solo sapere applicato – un sapere che in certi campi non esiste poiché non esiste certezza. Forse, come si è provato a fare degli umanisti dei tecnici e scienziati, senza peraltro riuscirci, si potrebbe tentare di formare una classe tecnica e professionale più critica (o più colta?). Ricordo a chi l’ha dimenticato che Gadda fu ingegnere, Primo Levi chimico. Ritornando al nostro discorso, dico solo che nascondere gli attuali ministri da una responsabilità anche morale, anche ideale, anche progettuale, dietro il paravento della “tecnica” è un errore di prospettiva. Il nodo è storico: ci siamo forse fatti un’idea sbagliata dell’intellettuale, immaginando un idiosincratico perdigiorno, un attardato umanista, e invece ci siamo dimenticati che intellettuale dovrebbe essere chiunque lavori con l’intelletto, cioè tutti noi, dal manovale al notaio, poiché non esiste prassi senza teoria, azione senza direzione. E nemmeno tecnica senza politica. Se vogliono farci credere che sia possibile un governo senza una prospettiva valoriale, certo dovremmo essere preparati a capire che non è vero. Jacopo Galavotti


NonSensoUnico

- Time-traveler’s choice since 07/08/2073±11,3 Introduzione! Commenti di introduzione generici. Complimenti ai lettori velati di bonario sarcasmo. Frasi di lode sommesse introducenti una catena di brainstorming che neanche l’Ulysses di Joyce che forse è meglio che poi queste cose si calmino se no il lettore ha paura che poi ci sta anche con il numero, ma che ci azzecca un Bufalo con una zecca? Bé, lampante. Folgorante. Direi che può andare, disse il pittore neotrasformista, dopo aver ribaltato metà armadietto dei colori sulla tela nuova che aveva posto sul tavolo per mangiarvicisivi sopra una natura morta e cotta. In pratica una roba così. Commiato dall’introduzione con una citazione generica: “Cit. chiunque, cit.” LA SFERA DI SCAMBIO CULTURALE Bolagsverkets registreringar. Handelsregistret. Nyregistreringar Kungörelsen avser: 198806154616, AJ.s Montageservice Registreringsdatum: 2011-10-13 Län: Hallands län Publiceringsdatum: 2011-10-17 Kungörelse-id: K414248/11 Uppgiftslämnare: Bolagsverket Kungörelsetext: Org nr: 9 880615-4616 Firma: AJ.s Montageservice Kommun: Varberg Postadress: Liabovägen 9, 432 95 VARBERG, Verksamhet: Företaget ska arbeta med solfilm och reklammontage, applicering av bildekor och fordonsreflexer. Innehavare: 19880615-4616 Johansson, Andreas Lennart, Liabovägen 9, 432 95 VARBERG IL MOMENTO DI SILENZIO IMBARAZZANTE …

LA NOSTRA PISTA Gentili lettori lettoni (e non. E nonne. E non nonne. E nonni. E noni nati. E tutti i nati. E sette nani) codesta volta la posta verterà (ebbene esiste questo vocabolo) su di un versante meno versatile. Risponderemo a domande rivolte alle sezioni della posta presenti su svariati siti online. Risposte che a noi non vanno a genio. “Perché?” chiederete voi. E noi non ve lo diciamo. Va bene, avete vinto, ve lo diciamo. E’ una cosa che ha a che fare con un paio di sci, un montagna candida, quattro tulipani, due tucani, la fame nel mondo e svariate reti di significato non troppo raccomandabili, ma di buona famiglia. Essendo una storia lunga verrà trattata tutto ad un tratto qualche tratto di rubrica apposito apposto più in là (La#). Risponde Valerio Biagini, detto “Con L’Apparato Fonatorio”. Risposte non necessariamente correlate alla domanda. ciao spero in una risposta e da un annetto allincirca ke trovo attrazione x un raga ma la cosa e reciproca ma :io ho amicizia con la moglie e lui con mio marito la cosa diventa sempre piu forte ci piaciamo entrambe e c’è lo siamo detti ma io gli ho detto che dopo se l’avremo fatto ionn avevo il coraggio piu di guardare sua moglie in faccia e lui miha dato il tempo di pesarci vi prego aiutatemi..... - Kosadevofare, Internet A parte condividere assieme l’emozionante avventura che è ripercorrere la terza elementare è fondamentale mescolare attentamente due gocce di distillato di rabarbaro ad acqua pura di fonte. Questo preparato andrà iniettato in una pecora, con la cui lana si tesserà una bustina da té da utilizzare nei

giorni dispari. Alcune persone e/o religioni e/o aziende e/o governi fantoccio ritengono questa pratica immorale, per cui è molto importante che tu ragioni bene sulla forza della Sacra Scuola di Hokuto. “I think Bagazzano is a very lovely place. I wanna live in Teacher’s Road where you can find crop fields and open spaces. The radio is playing “Monna Lisa” which is the song I used to listen when I was crossing this land few years ago.” - Lorenz, Bagazzano Citando il saggio: “Poche Ragazze Da Quelle Parti”. Grazie, ho visto che avete aggiornato l’angolo della posta a tempo record; vi affido quindi i miei auguri speciali ad un mio amico che domenica 19 febbraio con la sua simpatica moglie festeggerà 25 anni di matrimonio. - Paola, Internet Che dire, se non esaltare la qualità della vernice sul corrimano della vita, quando ogni luce sembra il riflesso dell’ammazzazanzare sul cucchiaino del caffé corretto saNbuca. LA SPIEGAZIONE (vedi “L’angolo della posta”. Se non lo vedi cerca meglio) Perché sì.... Va bene, avete vinto anche questa volta. Le risposte si trovano su: http://it.wikipedia.org/wiki/ Speciale:PaginaCasuale

Continua nella pagina successiva per chi possiede la Masonic Lodge Deluxe Time Travel & Disco Card.


CINEMA E TEATRO

[ Asa Nisi M asa ]

Morte delle videoteche Anno 1963: Giulio Natta, grazie alle scoperte fatte nel campo dei materiali plastici, vince il Premio Nobel per la chimica. Egli inventa un materiale dalle proprietà sorprendenti (polipropilene), capace di essere lavorato in molteplici modi: serigrafato, arrotolato, modellato, colorato. A tutt’oggi viene usato per le più svariate tipologie di oggetti: dalla componentistica per le auto agli arredi, dai materiali per l’ufficio agli elettrodomestici. Anno 1967: “Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica”. Queste parole vengono pronunciate da un personaggio secondario del film “Il laureato” durante la festa di laurea del protagonista. La frase menzionata con il passare degli anni è diventata una vera e propria citazione cinematografica per qualsiasi esperto o appassionato del settore, insieme a “Francamente me ne infischio”, “Il migliore amico è la propria madre” e “Mi chiamo Wolf, risolvo problemi”. “Il futuro è nella plastica” è dun-

que reputata geniale nella sua semplicità e chiaroveggenza. Il film, ad ogni modo, è una ventata d’aria fresca per il cinema americano di quel periodo: è il nuovo che avanza, che si lascia alle spalle i classici di Hitchcock e Wilder per europeizzarsi. Ben Braddock (il protagonista, interpretato da un giovane Dustin Hoffman) rispecchia alcune caratteristiche dei personaggi dei film europei: pensiamo per esempio al disagio dell’adolescente de “I 400 colpi” (1959) di François Truffaut o a quello dei tre ragazzi de “I figli della violenza” (1950) di Luis Buñuel. “Il laureato” mostra le paure e le debolezze della gioventù, il rifiuto per il sistema sociale e il tanto agognato traguardo della liberalizzazione sessuale. Ben, infatti, sfoga la propria rabbia giovanile attraverso il sesso, e la vittima (o carnefice?) di questo impeto è una cinquantenne amica di famiglia: Mrs Robinson, per la quale il famoso duo

Simon and Garfunkel ha scritto l’omonima canzone colonna sonora del film. And here’s to you, Mrs. Robinson Jesus loves you more than you will know wo wo wo Ma ritornando alla nostra frase, che estrapola il proprio significato elevandolo in un contesto universale, e accostandola con l’invenzione di Natta, ci può sorgere il dubbio che non sia poi così geniale come ci hanno voluto far credere. Il personaggio invitato alla festa aveva tutte le informazioni necessarie per poter pronunciare quelle semplici parole. Un po’ come se oggi dicessimo che da qui a tre anni il Barcellona conquisterà almeno una Champion’s League, o che il prossimo vincitore del talent (?) show di Maria De Filippi parteciperà al Festival di San Remo, o ancora, che le videoteche, ahimè, avranno vita breve. Eh sì, le videoteche: se non ci saranno interventi tempestivi e mirati rischiano di scomparire definitivamente. Ultimamente a farne le spese è stato il colosso americano Blockbuster, nato nel lontano 1985 grazie a un’intuizione del texano David Cook ed esportato anche all’estero sino ad arrivare in Italia nel 1994. Nel nostro paese tutti i suoi punti vendita chiuderanno i battenti entro la fine del 2012 per lasciare spazio ad una catena di parafarmacie: Essere Benessere. Non che la cosa possa provocare dispiacere: il Blockbuster è stato la causa della chiusura di parecchie delle piccole videote-

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che di quartiere, costringendo tantissimi appassionati lavoratori a cambiare mestiere. Era diventato il regno dei pop corn e della coca cola, il profitto a discapito della passione, con commessi vestiti come addetti di un McDonald’s. Non voglio iniziare una crociata contro il Dio Denaro né tanto meno criticare chi del Blockbuster era un cliente affezionato (ci sono stato tante volte pure io, avevano un’ottima scelta di titoli usati), piuttosto sottolineare come uno squalo del commercio abbia “sbranato” lavoratori che oltre ad offrire un servizio offrivano anche tanta competenza. Perché per quanto se ne dica il cinema prima di essere un prodotto di intrattenimento è cultura, e la cultura va preservata e coccolata per non rischiare di diventare un popolo non pensante. Tra l’altro, in un periodo di crisi come questo, non dobbiamo nemmeno disperarci per i poveri ex-dipendenti che si troveranno senza lavoro: buona parte di essi verrà assunta da Essere Benessere con contratti a tempo indeterminato. In pratica se non capivano nulla di cinema prima non capiranno nulla di prodotti farmaceutici ora. Senza indagare sulle cause della crisi del videonoleggio, alimentata negli anni da pirateria, pay-tv e web-tv, e senza richiamare leggi più severe per gli “scaricatori” illegali, si potrebbe pensare a delle soluzioni che riportino il mercato del settore ai fasti di un tempo, sperando che qualcuno prima o poi si interessi seriamente del problema. Sarebbe utile, per esempio, cercare di ridurre il periodo di tempo che intercorre fra l’arrivo dei film nelle sale cinematografiche e quello nelle videoteche (la cosiddetta window). Bisogna infatti sfatare la convinzione per cui il pubblico non va al cinema per aspettare il film in videoteca:

internet ha fatto il proprio corso ed ha completamente assorbito questa tipologia di cliente. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di accompagnare insieme all’uscita a noleggio anche quella sulle pay tv, web tv e vendita, in modo da diminuire il mercato illegale e rendere gli introiti maggiori. Contrastando l’illegalità ne gioverebbe anche il noleggio in quanto diventerebbe pensiero comune quello di guardare legalmente un film. Inoltre il costo dei dvd rental (cioè il dvd che viene venduto dalle case di produzione alle videoteche per il noleggio) ha raggiunto vette altissime, sino a toccare in alcuni casi gli 80 euro a copia (al tempo della vecchia moneta non si superavano le 60 mila lire). Il videonoleggio in tre anni ha perso più del 60% del fatturato ed è diventato il terzo canale di distribuzione dopo cinema e pirateria. Il dvd rental quindi ha perso molto del suo valore commerciale e non può più comportare costi così onerosi a fronte di guadagni così ridotti (il costo del noleggio per il cliente si è a sua volta dimezzato a causa della crisi del settore). L’ultimo punto, e forse il più importante, è la necessità di una maggiore educazione civica rispetto al diritto d’autore. In Italia non sempre quando sca-

richi un film da internet compi un atto illegale. Il diritto d’autore infatti si divide in due parti: la prima è il diritto morale, e cioè il diritto ad essere riconosciuto come l’autore originario dell’opera, mentre la seconda è il diritto di sfruttamento economico, il diritto di accaparrarsi i profitti originati dallo sfruttamento dell’opera dell’ingegno. Per il cinema i titolari del diritto d’autore sono molteplici: dall’autore delle musiche allo sceneggiatore passando per lo scrittore del soggetto. Il regista, incredibilmente, non gode di questo beneficio. I diritti di sfruttamento economico durano fino a 70 anni dalla morte dell’ultimo dei titolari del diritto d’autore. I produttori quindi sono portati ad acquistare da tutti i coautori del film i diritti di sfruttamento economico per la loro intera durata, godendo così di tutti i privilegi sino a 70 anni dalla morte dell’ultimo dei coautori. Ad oggi è quindi praticamente impossibile trovare un film distribuito in Italia libero dal diritto d’autore. Al contrario sono liberi dal diritto d’autore tutti quei film mai distribuiti in Italia: è quindi legale scaricare film stranieri che non sono mai “sbarcati”

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nel Bel Paese (e per fortuna, o purtroppo, sono tantissimi). Per questo mi permetto di concludere consigliandovi due film che vale la pena reperire legalmente da internet, rimanendo ironicamente sul tema del titolo di questo articolo (scusatemi per la tragicità), e magari invogliarvi a visioni meno impegnative che potreste trovare a noleggio in una delle ultime videoteche rimaste ancora aperte. I film in questione sono “Synecdoche, New York” (2008) e “The Sunset Limited” (2011). “Synecdoche, New York” è l’opera prima da regista dello sceneggiatore Charlie Kaufman, autore dello script di “Se mi lasci ti cancello” (obbrobrioso titolo italiano di “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”), “Il ladro di orchidee” ed “Essere John Malkovich”. Esso parla della vita di Caden Cotard (uno straordinario Philip Seymour Hoffman), regista di teatro, che ha l’opportunità di costruire un immenso set teatrale all’interno di un enorme capannone nel centro di Manhattan. Caden lo utilizzerà per realizzare la sua New York e vi metterà in scena la propria vita, in un film escatologico recitato da attori che interpretano attori, e attori che interpretano attori che interpretano

attori, e via dicendo... L’opera di Kaufman è un autentico capolavoro che parla della paura ossessiva della morte e della malattia, della perdita dell’identità pirandelliana che prende forma nello sdoppiamento, nel travestimento, nella sostituzione. Tema centrale è dunque la morte ma anche l’uomo, la malattia e lo sgretolamento di qualsiasi relazione, la vecchiaia e la perdita delle persone care, la colpa e la solitudine. È un film che gode di una spinta drammatica (e drammaturgica) avvolgente senza però mai rinunciare all’umorismo, dove la morte diventa l’unica risposta plausibile alla continua ricerca del senso dell’esistenza. Il secondo film è “The Sunset Limited”, diretto da TommyLee Jones e tratto da un testo teatrale di Cormac McCarthy (vincitore del Premio Pulitzer 2007 per “La Strada” nonché scrittore di “Non è un paese per

vecchi”). Tutto il film è ambientato in uno squallido appartamento di Harlem ed è interpretato dallo stesso Tommy-Lee Jones e da Samuel L. Jackson. Al suo interno un uomo di colore, ex galeotto redento, ospita un bianco, professore di letteratura, dopo averlo salvato dal suicidio. Ne scaturisce una vera e propria lotta verbale in puro stile McCarthy, dove le parole si caricano di un significato che va oltre al senso letterale e danno corpo al soggetto che le enuncia. Anche qui la morte è il tema centrale insieme alla fede, ultimo baluardo per la vita eterna. Il nero, folgorato sulla via di Damasco, cercherà in tutti i modi di convincere il bianco, ateo rassegnato a farla finita, nel trovare in Dio un appiglio su cui aggrapparsi. Nichilismo e speranza a confronto, dove a fine visione rimarrà scolpita nella memoria una frase pronunciata dal personaggio di Tommy-Lee Jones: “So cosa mi aspetta e chi mi aspetta. Non vedo l’ora di strofinare il naso contro la sua guancia ossuta. Sicuramente sarà sorpresa di vedersi trattata con tanto affetto. E mentre l’abbraccio forte le sussurrerò all’orecchio secco e antico: «Eccomi qui»”. Insomma, speriamo proprio che le videoteche non facciano la stessa fine. Gianluca Pari

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sc e i r t S [

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Cervelli nel basso ventre della balena Ed è decisamente materia da incubo. Un po’ quelle sensazioni oniriche che vi portano ad alzare gli occhi dalla pagina che state leggendo. Lentamente, ma non subito. Proprio questa pagina, di questa rivista. Quei pensieri oniroidi del dormiveglia, amici di Pandora, che vi tornano in mente ogni volta in cui vi accorgete di non avere il controllo che vi aspettate sull’ambiente attorno a voi. Quando, di nuovo, alzate lo sguardo dalla pagina sentendo un qualche oscuro presagio e la vostra immaginazione vi ha già creato un bel mostro davanti. Un mostro fatto di voi stessi e della vostra paurosa, tremula materia. Invece vi sbagliate. Vi trovate davanti un muro, un tavolo, una sedia, un gatto o qualsivoglia innocua parte del vostro quotidiano stia lì in quel momento. Qui, in questo momento, notate tutto il percorso che avete fatto rimestando in voi. Tutto partendo dalla pagine, grazie a quel che avete appena letto. Sono sensazioni che quest’opera

collettiva può scatenare/coltivare/suggerire/far crescere/proiettare. Un bel tuffo nel torbido mitico inconscio collettivo, fino agli oscuri fondali. INCUBO ALLA BALENA è una autoproduzione fumettistica di un gruppo di giovani autori e disegnatori del Corso Superiore Biennale di Perfezionamento dell’Istituto Statale d’Arte “Scuola del Libro” di Urbino. Questa raccolta di racconti grafici gravita attorno al tema dell’incubo, utilizzato come connessione tra le tematiche della vita umana. Vita che potrebbe appartenere tanto alla realtà, quanto alla fantasia degli autori che sceglieranno a quale domanda rispondere. Per prima cosa salterò le presentazioni e tenterò di deviscerarvi brutalmente giusto un poco con qualche domandina riguardante la prima cosa che impressiona i lettori: la copertina. Immagino che considerare il bianco e nero sia stato

abbastanza naturale, anche se non scontato, nel trattare un tema così cupo. Nonostante ciò, come siete arrivati a questa scelta e quanto hanno influito le necessità dell’autoproduzione? Flavia Barbera, Niccolò Tonelli, Gianluca Valletta: Ma, nemmeno le presentazioni? Sei teribbile. Vabbé. Solitamente il bianco e nero è la prassi delle autoproduzioni e, come hai detto tu, si adattava benissimo a ciò che dovevamo fare: astrae, rende il segno grafico pulito e brillante e rende bene la sensazione di incubo. Inoltre gestire il colore non è mai facile, soprattutto in un fumetto. Per noi neofiti è stato già abbastanza arduo avere a che fare con inquadrature, personaggi, dialoghi; ne avevamo di carne al fuoco. far stampare in bianco e nero costa la metà dello stampare a colori. Ecco, l’abbiam detto. In questo modo siamo riusciti a vendere IAB ad un prezzo popolare. Ci sono fanzine che offrono di meno costando di più. (Modalità imbonimento: ON).

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e se fosse stato un incubo, alla balena? Oltre al gioco di parole, questo titolo un po’ stravagante, ci avrebbe permesso di introdurre la figura della balena, che connetteva le storie tra loro. FB: Fra tutti, abbiamo un sofisticato senso del trash. E poi le balene sono tanto belle e pacifiche, immaginarne una gigantesca che sorvola i nostri inconsci e riflette le zone morte dei nostri cuori è leggermente sconvolgente. Continuiamo ad estrarre casualmente intestini con gusto come dei bravi piccoli personaggi da incubo (questa intervista è un po’ splatter, a dir la verità). Quanto è stato determinante per la tematica dell’opera l’aver pensato al gioco di parole del titolo? È spuntato per caso in una conversazione, ha ispirato la raccolta, è giunto in qualche delirio onirico o siete tra quelle leggendarie persone che sanno quando fare le cose giuste al momento giusto? NT: Delirio onirico naturalmente! Il gioco di parole del titolo è saltato fuori a caso scherzando, poi abbiamo cominciato a costruirci sopra. Pensa che all’inizio doveva essere una raccolta di storie in cui raccontavamo i nostri incubi ad una balena spiaggiata o roba del genere. Chi lo sa se è stata la cosa giusta al momento giusto, questo lo devono giudicare i nostri lettori! GV: Non abbiamo aspettato di avere un titolo per iniziare a lavorare. È stato un episodio bizzarro: un pomeriggio, salutandoci, ci siamo detti “In culo alla balena”. Non molto signorile, ma ci ha immediatamente acceso una lampadina:

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Perseveriamo in discutibili simbolismi macabri e rovistiamo un po’ più in alto, verso il cervello. Presentate al lettore una serie di racconti la cui trama può sfaldarsi, come può avvenire durante i nostri sonni. Avete però posto un legante a connetterli, ovvero la serie di intermezzi in cui compare la BALENA. Da cosa deriva questa scelta? FB: Dal nostro elegante e raffinato senso dell’assurdo unito a un convinto culto del trash. Ma poi la balena è bella. Ti immagini “Incubo al capriolo”?... NT: La scelta del collegamento è arrivata ad un punto inoltrato della realizzazione, ci piaceva l’idea che tutto si amalgamasse insieme grazie ad un filo conduttore ed il buon Baronciani è riuscito ad aiutarci. GV: Rendere le storie un grande incubo collettivo rafforzava ancora di più il lavoro. Come in una notte di sonno è possibile passare da un sogno ad un’altro, nella nostra fanzine il lettore passa da una storia autobiografica ad una onirica e così via. Inoltre è una cosa che è stata poco sfruttata nelle altre autoproduzioni, quella di connettere le storie con un denominatore comune. Ora si squarta un po’ qua ed un po’ là, saltando ad una

domanda classica. Vi son state influenze od ispirazioni particolari, individuali o collettive, che vi hanno portato a questa opera? Dal disegno, alla produzione, alle scelte professionali. GV: Personalmente non saprei, in questi anni abbiamo visto tante di quelle cose che magari alcune scelte sono state fatte senza pensarci. Resta comunque il fatto che ognuno di noi si ispira a personaggi diversi, da cui inevitabilmente prende spunto anche in maniera inconsapevole. Alessandro Baronciani non ci ha influenzato ma piuttosto suggerito le giuste direzioni da prendere, come l’organizzazione delle storie e l’arte dell’impaginazione. NT: Nella narrazione forse mi sono ispirato a David B. che ne il cavallo bianco (Cocconino) ed in altri suoi fumetti è riuscito tanto bene a rendere i suoi incubi. Nel segno posso dire di essere abbastanza slegato da influenze anche se quel dannato talento di Davide Reviati mi spinge a darmi da fare (mammaquantèbbravo). FB: Nel mio caso, ho realizzato il sogno di fumettare un racconto, in questa occasione scritto da un mio buon amico romanziere, Antonio Coletta (www. ritrattidignoti.wordpress.it). In genere, quando disegno, cerco il confronto con la realtà tramite l’osservazione diretta o usando fotografie ma per “Ignoto n°86” ho disegnato a mano libera sfogando tutto il mio perverso senso estetico: ogni tavola è una gettata di figure che vivono nella mia immaginazione, contorte, strane, grottesche. Ho scelto di lavorare sul nero, con un segno graffiato che ricorda l’incisione per evitare morbidezze. Non avevo mai provato un’esperienza simile e ne sono entusiasta


Passiamo a muscoli ed ossa, senza neanche troppa grazia. Alcuni di voi hanno già avuto esperienze simli nell’autoproduzione e nel lavoro di gruppo. Cosa ha portato (o sta portando) questa collaborazione alla vostra vita artistica e professionale? Pensate di riproporre una vostra collaborazione in futuro? GV: Indubbiamente l’esperienza passata ci è servita per capire come muoverci. Ma “Incubo alla Balena” è un lavoro completamente differente, sia per quel che riguarda il genere che il gruppo di persone che ci lavorano. Oltre a voler raccontare, alla voglia di aprirsi al pubblico, c’è da considerare il fattore della visibilità: con questo lavoro non solo ci auguriamo di far trascorrere momenti piacevoli al nostro pubblico, ma anche di farci conoscere e perché no, ottenere qualche risultato importante. Stiamo pensando ad un altro progetto, ma per il momento è tutto top secret. FB: Sicuramente, almeno a me, ha infuso coraggio. Un seguito? Chi lo sa... NT: Penso che mi abbia portato in gran parte stanchezza, ma anche

un occasione per migliorarmi. Non avevo mai disegnato così tante pagine per un lavoro. Per la precedente autoproduzione (BABELE) erano bastate sei pagine (anche se a colori) mentre questa volta ne abbiamo dovute sfornare una ventina a testa, è stato spossante. Una nostra nuova collaborazione è già in cantiere nei nostri cervelli e chissà che non superi IAB come qualità e soddisfazione personale (io sono fermo nella mia proposta di creare “Incubo alla balera” ed ho già in mente una collaborazione con Casadei). Adesso aprite la bocca e dite “Aaaaah!!!” che vi devo tagliare la lingua. Che ne pensate del vostro lavoro, ora che è completo? Per cosa vi piace maggiormente? GV: Non avevamo immaginato una cosa così. Quando l’abbiamo ritirato in tipografia, vederlo per la prima volta completo, con i testi, in ordine, è stata una grande soddisfazione: quindi nonostante il lavoro personale ci abbia ‘sfiancato’ nel corso dei mesi, vederlo vivere assieme alle altre storie gli ha dato una bella carica. Per il momento siamo soddisfatti, ma tutto questo non deve illuderci e farci sedere sugli allori, dobbiamo assolutamente continuare! NT: Ne sono contentissimo! È venuto un lavoro per

bene che mi dà davvero soddisfazione. Unica (MIA) pecca una delle tavole che penso potessi fare meglio e di cui mi porto dietro il rimorso. La cosa che mi piace di più è il fatto che seppur con stili diversi siamo riusciti a creare un atmosfera nostra in cui nessuna delle storie sembra fuori posto. Ne sono rimasto molto contento. FB: Il bello del nostro lavoro è che contiene una grossa varietà di stili grafici e di tematiche affrontate. Ognuno ha rappresentato la propria idea di incubo e le intercalazioni di Alessandro Baronciani riescono a fondere il tutto con una naturalezza estrema. La cosa che preferisco? I responsi dei lettori quando dicono di essersi spaventati! Ultima domanda (quella in cui vi mangio il cuore). Un vostro incubo reale legato al mondo del fumetto e dell’arte. Qualcosa che vi impaurisce ma che riteniate giusto conoscere e superare. NT: AAAAARGHNOILCUORENOTIPREGONO! (Modalità autore serio: ON) Avere uno stile stazionario, senza volere migliorarmi più. Ci sono persone che ci sono morte di questa patologia e continuano a morirci. Aiutamo tutti la ricerca per la cura. FB: La paura di prendere pomodori marci in faccia, sicuramente. Il confronto col pubblico mette sempre ansia però è una prova che bisogna affrontare con umiltà e allo stesso tempo orgoglio e fiducia nella forza del proprio lavoro. Purtroppo per voi lettori questa intervista non è ben ispirata all’incubo come il fumetto di cui parla, ma, per fortuna, potete rifarvi con INCUBO ALA BALENA. Per le informazioni (autori, blog, punti vendita, etc.) rimando i contatti nel terribile ed inquietante riquadro laterale). Naturalmente, sono sensazioni cupe, incubate nella vostra mente che potrebbero riuscire in un qualsiasi momento di dubbio, nella notte, in solitudine. O forse no...


Fangoterapìe È da una porta laterale che si ha accesso al Tempio. Attraversato da una striscia di mattonelle a scacchi bianchi e neri che conduce al palco sovrastato dalla scritta AGDGADU (Alla Gloria Del Grande Architetto Dell’Universo) e, al centro, un occhio inscritto in un triangolo giallo. Ai lati dodici colonne ioniche e sotto ogni capitello un segno zodiacale, tutto attorno alle pareti è proiettata la volta celeste. Sopra il palco monaci sufi cantano, in un’estasi mistica, le loro lodi ad Allah al ritmo incessante di un tamburo che anima, a sua volta, le danze rituali che altri adepti fanno nel centro della sala. Fin da piccolo ho sempre subito il fascino della massoneria. Gente che ha il proprio simbolo sul dollaro americano, sposta equilibri importanti, riuscendo però a mantenere un’aura misteriosa intorno a sé, un’istituzione immortale che trascende società ed epoche. È con questa fascinazione fanciullesca, accompagnata da un certo timore, che mi sono recato al palacongressi di Rimini dove si è tenuto il congresso annuale del Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani per l’allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi dal titolo “Oltre la crisi, la bussola dei valori per ritrovare l’Uomo”. Il GOI è la faccia pulita della massoneria, costituito regolarmente nel 1805 e riconosciuto dallo Stato italiano, gode della legislazione riservata alle associazioni non riconosciute seppur con la particolarità di non essere obbligati a rivelare i nomi dei propri iscritti e si divide in Grande Oriente Democratico e, più importante numericamente, Grande Oriente Palazzo Giustiniani. Torniamo quindi tra le sacre mura del Tempio. I monaci stanno ancora celebrando il loro rito, intorno

un mare di telefonini e macchine fotografiche a immortalare questo momento. È a quel punto che mi guardo intorno. I bianchi volti dall’aria austera da cui ero circondato non sono trascesi in una profonda meditazione, ma, più semplicemente, se la stanno dormendo alla grande. E poi ragazzini che se la ghignano tra di loro, donne che cercano in ogni modo di sfruttare l’ultimo alito di gioventù esibendolo più del dovuto. Intanto i Maestri Sufi hanno finito le proprie preghiere e giravolte e, uscendo, uno di loro impugna il microfono e, come ultima benedizione, informa i fedeli che sono in vendita i dischi, chi fosse interessato li troverà nel banchetto all’uscita. Arriva però ora il momento più sacro: il discorso del Gran Maestro che saprà sicuramente riscattare l’atmosfera tragicomica che si era creata fino a quel momento. Il “Bravissimo” (come introdotto dal moderatore della serata) entra accompagnato da delegazioni provenienti da tutto il globo. “Autorità presenti, Signore e Signori,Carissimi Fratelli, viviamo un tempo di grande incertezza e spaesamento, nel quale la luce di chi conosce percorsi di umanità e ricerca deve uscire dal silenzio e farsi compagna di strada per i cercatori di senso.” Un buon inizio, mi sento pronto a venire illuminato nel buio di questa crisi dalla luce dei valori di cui il Gran Maestro è custode. Sciaguratamente il resto del discorso tradisce l’ottimo incipit. Di colpo vengo trascinato alla festa dell’Unità di Bertinoro e si sentono frasi del genere: ”Per uscire dai vicoli ciechi, occorre valorizzare giovani e scuola pubblica, lottare per il diritto al lavoro e la dignità della persona, dare respiro alle energie sane della società e alle sue attese di rinnovamento…” o anche questa, che mi sento di definire

La rubrica che scava nella melma una perla: “Cetto la Qualunque può far sorridere al cinema, ma non è la soluzione. Servono giganti, non nani e ballerine, per dare risposte ai problemi che viviamo.” E poi altre banalità sul valore della cultura, tirate contro le agenzie di rating, la necessità della riscoperta del valore dell’integrità. Certo non sono mancate le citazioni latine, anche belle lunghe, o i rimandi all’antica cultura medievale (mirabile la frase: ”riscoprire i motivi che ci portano a stare insieme, dando un nome e un volto alle cose perché spesso il cavaliere dell’angoscia è anche il cavaliere dell’indifferenza.”) o ai padri fondatori della massoneria, ma, alla fine, i valori sviscerati sono stati ben pochi, l’uscita del tunnel è sempre alla stessa distanza. Esco, deluso. Poi però mi dico che forse sono io che sono cieco, che dietro ai nani e alle ballerine si nasconde un significato chiaro solo ai Liberi Muratori, che magari è tutto fumo negli occhi che serve a mascherare sordide trame antidemocratiche sussurrate, forse proprio tra i due signori che mi erano seduti a fianco in qualche linguaggio in codice, oppure il gesticolare del Maestro rappresentava un qualche segnale rivolto a qualche capo dei servizi segreti di un qualche emiro mediorientale. Deve essere così. Mi tranquillizzo, torno nel mondo reale. Compro il disco dei monaci sufisti. Andrea Maioli Trovate il testo integrale dell’allocuzione del Grande Maestro su: www.grandeoriente.it/pdf/Allocuzione-2012.pdf Contenuti speciali direttamente dal Tempio su: www.fangoterapie.blogspot.com


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tà i l a n nto

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MUSICA

In uscita per “La tempesta” Conquiste dei Cosmetic Una fresca sera di metà marzo sono invitato a partecipare alle prove dei Cosmetic, rock band riminese che ha sede operativa a Riccione. Non potevo non cogliere l’occasione per una breve ma succulenta intervista. Nati ormai 11 anni fa, dopo un po’ di cambi di formazione la band si è stabilizzata a quattro componenti: Bart, cantante e chitarrista; Simo, chitarrista rumoroso e strimpellatore di oggettistica varia; Emily al basso e Mone alla batteria e cori. Partendo con la locale Tafuzzy Record, fondata dallo stesso Bart insieme ad amici, il gruppo ha iniziato a guadagnare notorietà grazie ai suoi energici live, a dei buoni dischi e all’accordo fatto successivamente con l’etichetta indipendente La Tempesta, fondata dai più noti Tre Allegri Ragazzi Morti, che ha permesso ai nostri eroi romagnoli di suonare in tutta Italia e anche all’estero. Il loro sound è un frullato di carica emozionale, sperimentazione rumorosa e psichedelia, che ripesca suggerimenti dal grunge e dal noise rock americano degli anni ‘80 in band come Sonic Youth, Fugazi e Dinosaur Jr. In vista dell’uscita (13 aprile) del nuovo lavoro discografico, “Conquiste”, si stanno esercitando sovente per il live che lo presenterà al Sidro Club di Savignano sul Rubicone sabato 14 aprile (uscita di questo nuovo numero del Bufalo, sigh!). Ecco quindi l’intervista dopo le prove: Io mi sono divertito stasera con voi, è stata una bella suonata, poi immagi-

no che ne avrete di prove prima di fare il concerto. Emily: Si, ancora un mese. Presentatemi questo disco: che cos’ha di diverso rispetto ai precedenti? Bart: Secondo la “nota stampa”, ci siamo accorti che il disco, mentre lo registravamo è un pochettino più simile alla botta che abbiamo dal vivo perché negli altri non abbiamo mai avuto il tempo o la cura di stare molto in studio a curare i suoni. Mentre stavolta abbiamo i suoni un po’ più cazzuti del solito. Ma sono cazzuti “prodotti” (artificiali) o sono cazzuti genuini? Perché ho visto che avete ventiquattro pedali per la distorsione in tre. Non è la cosa più diretta del mondo... Bart: Siamo stati più tempo a prendere il suono degli ampli, a fare il missaggio meglio, così... beh bella domanda! Comunque non costruiti, non costruiti. Abbiamo registrato tutto quello che hai potuto sentire qui in sala prove, tranne qualche chitarra che è “doppiata”, sovraincisa. Dove l’avete registrato, questo album? Bart: A Pésaro! (intona l’accento locale, n.d.r) Simo: Giù da Paolo Rossi. Emily: Allo Studio Wave. Ormai vanno tutti lì comunque. Ho sentito che tutti i gruppi, anche della scena metal, tipo i Chartise, sono andati lì. Bart: Ah, è bravo. Sul disco nuovo siete solo voi a suonare o c’è anche

qualche collaborazione? Emily: C’è Costanza – cantante e bassista – dei Be forest. Bart: I Be forest di Pesaro. Sono un gruppo che ci piace molto, eravamo lì a Pesaro... poi il tipo di pezzo che gli abbiamo fatto cantare stava da dio col tipo di voce che ha la Costanza. C’è dispiaciuto che in realtà nel disco loro tante voci le fa anche l’Erika (la batterista) però non so... per il nostro pezzo quello che volevamo era più la voce di Costanza, quindi Erika è stata penalizzata. Quanti pezzi ci sono nel disco nuovo? Bart: Come al solito undici. (ride) È uno standard? Bart: Sì sì. Una volta nel metal c’era la trilogia del sei sei sei, voi avete quella dell’undici undici undici... Bart: Si beh, dal prossimo cambiamo, però per adesso la trilogia... Simo: Dal prossimo trenta trenta trenta! Bart: Sono undici pezzi, però tre o quattro sono rimaste fuori perché alla fine eravamo indecisi, allora quando mancava un mese alla registrazione abbiamo iniziato a mettere su pezzi su pezzi per sicurezza... e infatti alla fine abbiamo messo su un pezzo, che non vi dico qual’è, che non piace né all’Emily ne a Simo. Piace solo a me e a Mone. Chi è che ha composto per lo più i pezzi? Bart: Tutti io... poi diciamo che in sala prove si finiscono e gli altri inseriscono gli arrangiamenti. Io

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me li studio e arrivo in sala prove con un’idea di pezzo, però certe volte il pezzo, provandolo si rivela meno fattibile, o non è fattibile in quel modo. Simo: O magari anche un pezzo che non ti aspetti viene fuori più bello. Bart: Poi ci sono due casi in cui il pezzo è nato proprio così, è rimasto così in tutto, dall’attacco all’assolo finale, però è un caso (ride). Simo: È bello quando c’è una sola persona che scrive, perché anche il disco così ha un’identità più personale rispetto a magari ad un accrocchio di idee. Però c’è una cosa che in realtà mi chiedo anche io: come componi i pezzi? Bart: Sul divano?! Simo: No, aspetta, con la chitarra acustica, con la chitarra elettrica staccata? È una cosa che io mi chiedo veramente. Bart: Ok, allora, io faccio un riff sul divano e lo faccio tante di quelle volte fino a quando io me lo ricordo e fino a quando qualcuno non mi dice “per favore smettila!”, a quel punto vuol dire che me lo ricordo. Poi, magari il giorno dopo, ricomincio a farlo appena sveglio per vedere se me lo ricordo, poi magari quella è la parte A del pezzo. Dopo con la parte B c’è lo stesso procedimento, quindi inizio a fare per qualche altro giorno di fila di continuo la parte A alternata alla parte B, A-B-A-B-A-B finché non me la ricordo. Simo: Questo in realtà è interessante perché se pensi ad una struttura di pezzo media nostra è molto rumorosa su disco e su live... pensavo che attaccassi l’ampli e sparassi un po’ di volume... Bart: Ahaaa! Infatti quella è una cosa che cambia dalla chitarra spenta alla chitarra accesa, un po’ di roba cambia, però più che altro cambia il tocco. Quello che magari sul divano suoni con quattro o cinque pennate, con un ampli acceso basta una pennata e va, anche se dopo cambia un pochettino. Oppure in certi altri pezzi... Simo: Hai già in mente come... per dire in “Scisma” (traccia del

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disco nuovo n.d.r), che ha un riff molto pieno, costante, quasi granitico, comunque pieno, quando l’hai fatta pensavi già “qui ci metto il distorto, qui ci metto...? Bart: Ma non lo so... non mi ricordo. Però “Scisma” è venuto fuori mentre facevo un altro pezzo che facevamo già. Simo: Ah! Ok. Bart: Dicevo: perché questo pezzo l’abbiamo fatto così? Se tenevo le dita qui e con l’altra, cioè con la corda grossa, andavamo giù veniva meglio, poi ho sentito e detto “aspetta!” e quindi... Quindi ti autocopi! Fai del plagio su te stesso! Bart: Esatto! (ridiamo) Mi diceva Simo che nel disco avete usato anche degli strumenti non convenzionali, tipo il sintetizzatore Korg, che mi sembra non abbiate mai messo in altri dischi... Simo:...e il famoso tuonificatore! Bart: Ah, “el tuono” però è in un pezzo che non c’è nel disco. Simo: Vabbè ma se proprio vogliamo citare, abbiamo usato una cassa artigianale, una testata ricavata da un cassetto... Bart: Alla fine anche negli altri due dischi c’erano strumenti non classici perché nel primo c’era un synth, un Crumar analogico vecchissimo e l’arpa. E anche nel secondo, in “Leandro”, c’è un’arpa che nessuno riconosce che è quella che fa lui (Simo) dal vivo. Poi due o tre micro Korg ci sono sempre stati. Anche nel disco vecchio, in “Ehi sintonia” c’era il synth. Simo: Dal vivo viene usato poco perché quello vecchio era abbastanza pesante. Bart: Dal vivo sì, però adesso abbiamo anche riarrangiato dei pezzi col synth, tipo “Ragazzo crudele”. Poi abbiamo scoperto che Simo lo sa suonare...

fine anche per la visibilità che hanno... Al di là della visibilità poi è anche bello poter collaborare con della gente che magari stimate, ascoltate... Mone: Anche coi Uochi Toki... quando facciamo i “festivaloni” suoniamo con vari gruppi. Simo: Il bello è anche che non è un’etichetta discografica convenzionale: è un collettivo di artisti. Se pensi all’etichetta classica che ti paga tutto, dallo studio... lì non è così. È tutto molto autoprodotto. Io dubito che la Tempesta cacci fuori i soldi per tutti i gruppi che ha perché se no non sarebbe quello che è, non potrebbe far uscire magari certe cose. Questo potrebbe essere sulla carta uno svantaggio perché magari dici “vorrei fare un video figo così, c’ho l’etichetta di visibilità nazionale”, in realtà il vantaggio è che tu puoi fare effettivamente quello che ti pare, tanto sia a livello di tempistiche mi sembra, sia a livello di sonorità, tematiche etc etc. Quindi vi danno il massimo della libertà di espressione. Bart: I Tre Allegri Ragazzi Morti sono degli artisti che si sono costruiti con la tenacia, si sono costruiti una fortuna, cioè una loro credibilità e poi hanno fatto un’etichetta e l’hanno condivisa con gli altri, che è una cosa encomiabile, cioè non tutti fanno una cosa del genere. Mi sembra una cosa molto simile a quella che fece Ian McKaye con la Dischord in America. Bart: O anche Celentano con la Clan Celentano. (ride) Simo: Celentano il disco lo fa più figo però. Bart: (sfoglia il Bufalo) Qui intervistate il tipo che ci ha registrato il nostro primo demo, Marco Pivato (ride)... Attenzione! È la prima volta che vedo Truce Baldazzi, l’ho sempre sentito dire...

Come vi trovate con La tempesta? Mone: Bene bene, sono le persone più “free” del mondo. Cioè, è bello esserci dentro alla

Io ho finito, vi ringrazio per tutto. Bart: Grazie mille a te dell’opportunità, a presto. GrunoBallis


La musica secondo Santermete Streaming Il Festival di Sanremo, la Champion’s League e la Farfallina Mercoledì 15 febbraio 2012: a casa mia si è già cenato in anticipo rispetto al solito e la tavola è imbandita di popcorn, salatini e bibite: tutto è pronto per il duello alla conquista dell’ambito telecomando, i due sfidanti sono: il sottoscritto, che lotta per guardare la partita della sua squadra del cuore in Champion’s League, e mia madre, che come da tradizione ultradecennale non vede l’ora cominci la seconda serata del suo programma preferito, l’incubo (assieme al Grande Fratello) di ogni telespettatore possessore di buon gusto: Il Festival di Sanremo! Chi ha vinto, e chi vince la sfida da ormai una ventina d’anni non sto nemmeno a raccontarvelo (si sa chi comanda in cucina), ma ciò che vorrei raccontarvi invece (e so che ne morite dalla voglia) è il mio rapporto di odio e... Odio con il già citato Festival. Giusto per farvi capire: piuttosto che guardare ciò che è chiamato inopportunamente il Festival della Canzone Italiana starei ore e ore a fissare la lavatrice che gira. Il buon Rino Gaetano, esattamente trentacinque anni fa diceva: “Sanremo è sempre uguale, perché non c’è la buona intenzione di cambiarlo davvero. Sanremo non significa niente e non a caso ho partecipato con Gianna che non significa niente.” Pensate che direbbe ora... Si troverebbe ad assistere ad uno spettacolo che spettacolo non è, dove ciò che dovrebbe

essere al centro (la musica), è relegata in secondo o molto più spesso terzo piano. Hanno la precedenza polemiche, scandali veri e presunti, futili discussioni e dibattiti su qualsiasi cosa che non sia la qualità delle canzoni in gara. Come non ricordare (metti caso sia passato inosservato per qualcuno), l’infinito, e a mio modo di vedere banale monologo su religione e politica di Adriano Celentano, è stato questo il momento clou della prima serata e l’argomento principale di giornali e televisioni del giorno dopo, pochissime parole invece, riservate alle esibizioni dei cantanti in gara (costretti a causa del Celentano’s Show, a presentare i loro pezzi a notte inoltrata). Come non ricordare ancora (e chi se lo scorda), il vestito, con farfallina tatuata in bella vista e conseguenti molto intellettuali dibattiti sulla presenza della biancheria intima della showgirl Belen Rodriguez (sono intervenuti pure Pier Luigi Bersani e il ministro Fornero!), e poi tante altre piccole polemiche ancora: lo sketch con bacio saffico de I Soliti Idioti, le parolacce di Luca e Paolo, la direttrice generale della Rai che manda i suoi commissari a vigilare, i controlli della finanza... Ci sono state poi anche alcuno ottime cose, tipo Rocco Papaleo, che ha dato “quel tocco in più” ad una conduzione altrimenti stantia e paleolitica, e Geppi Cucciari, che ha fatto

ridere senza volgarità gratuite, a differenza ad esempio dei già citati Soliti Idioti. Ah già, ha vinto Emma Marrone, o meglio, Maria De Filippi, o meglio ancora, i bimbiminkia e le bimbeminkia amanti della musica da centro commerciale che l’han votata. La canzone è una delle più brutte di questo Festival (ebbene si, il livello era discretamente alto), il testo, che voleva essere di denuncia, è un concentrato di demagogia sulla crisi economica, infondo è stato scritto da Kekko dei Modà, non certo da Mogol (ah già che c’è ci spieghi come riesce il protagonista della storia di cui parla la canzone, ad aver fatto due guerre ed avere un figlio di trent’anni, proprio non ce lo spieghiamo). Ancor più preoccupante la vittoria nelle nuove proposte di Alessandro Casillo, il nostro Justin Bieber (ogni nazione ne ha uno ahinoi). Passare da Raphael Gualazzi ad un bambino... Dove andremo a finire. E come già detto, e nonostante i non degni vincitori, la qualità delle canzoni in gara, ci stupisce ogni volta ammetterlo, era alta. Ovviamente siamo lontani anni luce dal raggiungere i gusti musicali di quei poveri cristi rimasti che acquistano dischi, ma i segnali sono incoraggianti. Noemi, che è a nostro modo di vedere il prodotto più riuscito dai Talent Show, una sorprendente Arisa che non canta più brani da scuola

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elementare, i sempre perfetti Marlene Kuntz, Carone e Lucio Dalla (pace all’anima tua, ciao Lucio). Confermo e ribadisco che ogni volta che ne sento nominare il nome corro a fissare la lavatrice, ma poi se ci pensate come faremmo senza Sanremo, è uno dei pochi momenti che unisce il paese, anzi, spesso e volentieri è il ritratto del paese stesso, paese che ora come ora ha un bisogno vitale di questi svaghi temporanei, e allora perchè fare gli snob, perchè vergognarci di guardarlo? Che male c’è ad essere pop, leggeri? Non è un male, anzi. E siccome non tutto ciò che la storia di Sanremo ha sfornato è da buttare (per quest’anno mettiamo sul podio dei migliori Samuele Bersani, Eugenio Finardi e i Marlene Kuntz) e la nostra vena radiofonica ogni tanto rispunta fuori, ecco la playlist dei nostri brani Sanremesi preferiti, quelli con cui siam cresciuti: Elio e le Storie Tese La terra dei Cachi La partecipazione è del 1996, il brano non è famoso, di più! Sono loro i vincitori morali di quell’edizione, anzi, ci sono tesi che dicono che loro vinsero sul serio, ma che il vincitore venne cambiato da Pippo Baudo. Però questo non contò, dato che le loro esibizioni non passarono inosservate, e il brano rimase nella memoria collettiva. Pitura Freska Papa Nero Anno 1997, lo Ska-Reggae a Sanremo. Ritmo orecchiabile e ritornello che ha fatto storia: “Sarà vero? Dopo Miss Italia aver un papa nero, no me par vero,

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un papa nero che ‘scolta ‘e ‘me canson in venessian perché el xé nero african”. Peccato poi la loro carriera andò verso il declino. Subsonica Tutti i miei sbagli I Subsonica parteciparono al Festival di Sanremo nel 2000. Il loro genere, non adatto al pubblico sanremese, com’era prevedibile non fu capito, tant’è che il brano si classificò undicesimo. Ma anche questa volta la classifica non significò nulla, dato che il brano sarà il singolo italiano più venduto. Afterhours Il paese è reale Sotto esplicita richiesta del conduttore Paolo Bonolis gli Afterhours hanno partecipato alla cinquantanovesima edizione del Festival, anno 2009. Con “Il paese è reale” si aggiudicano l’ambito Premio della Critica, mentre la vittoria va a Marco Carta (che è tutto un dire). “Adesso fai qualcosa che serva, tu devi far qualcosa che serva”.

P.S. Abbiamo dovuto escludere purtroppo, Tricarico e la sua “Vita tranquilla”, Daniele Silvestri con “L’uomo col megafono”, “Dietro la porta” di Cristiano De Andrè e Davide Van de Sfroos con la sua “Yanez” (e tante altre che ora non ci vengono in mente). Alla prossima, ci andiamo a tatuare la farfallina intanto.

Santermete Streaming, una radio libera.


Parte dei soldi li spesi in assoluta allegria

(tendenzialmente cose di cui è bene parlare)

EVENTI DELLA “CASA DELLA CULTURA”

viale Sicilia, 59, Riccione

Sabato 21 Aprile Burdèl Day – Giornata di arti dedicata ai giovani In collaborazione con Comune di Riccione e Formula Servizi Workshop pomeridiani 15:30 – 17:30 Laboratorio di writing con Enco (per info: Fabio 3283317359) 18:00 – 20:00 Laboratorio di percussioni africane con Alessandro Bertoli dei Sofalì (per info: Andrea 3343397794) Aperitivo e musica dalle 20 Buffet realizzato dall’Istituto Alberghiero Savioli di Riccione Punk rock live con Ace 23 e Fullout DJ-set 15:30-24 DJ Torso Giovedì 26 Aprile Cineforum “Cinecannes” L’odio di Mathieu Kassovitz ore 21 Ingresso gratuito con tessera associativa Venerdì 27 Aprile Salotto letterario Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez Introduzione all’opera e commento collettivo (consigliato, ma non necessario, aver letto il libro prima di partecipare) ore 21 Ingresso libero Giovedì 10 Maggio Cineforum “Cinecannes” Non è un paese per vecchi di Ethan e Joel Coen ore 21 Ingresso gratuito con tessera associativa Venerdì 18 Maggio Incontro con Marco Pivato (giornalista, scrittore, poeta) Letture e divagazioni con l’autore di Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni Sessanta. Ore 21 Ingresso libero


CONCERTI Cosmetic + Be forest Mercoledì 18 aprile @ Dalla Cira, Pesaro (nuovi talenti nostrani e marchigiani: roba buona)

Zen Circus in “nati per subire basking tour” Martedì 24 aprile @ Retropo – Barrumba, Cesena (eroi folk punk da Livorno)

Gorilla Biscuits Venerdì 27 aprile @ Rockplanet, Pinarella di Cervia - ore 22,30 biglietto alla cassa del locale (leggende dell’hardcore punk)

Pornoriviste + Avenue x Lunedì 30 aprile @ Vidia Club, Cesena - biglietto alla cassa del locale (il ritorno del punk rock adolescenziale italiano)

Antares + Golden shower Venerdì 4 maggio @ De ja vù, Cattolicaore 22:30, ingresso libero (punk rock a velocità smodata)

99 POSSE Sabato 5 Maggio @ Velvet Rock Club, Rimini – ore 22:30 (storica band hip hop libertaria)

I Camillas Martedì 15 maggio @ Cafè Rubik, Bologna – inizio ore 22.00 (idioti di talento da Pesaro)

Mudhoney Mercoledì 23 maggio @ Bronson, Ravenna (biglietto in prevendita) (leggende del grunge, che ve lo dico a fare?)


il bufalO

Episodico del “Tassello Mancante” Tendenzialmente bimestrale In perenne ricerca di collaboratori

Testi e Contenuti di: Valerio Biagini Enea Conti Francesca Eusebi Jacopo Galavotti GrunoBallis Andrea Maioli Gianluca Pari Santermete Streaming

valeriobiagini@libero.it conti.enea@gmail.com neris666@yahoo.it jacopo@iltassellomancante.org brunogalli1985@gmail.com andrea@iltassellomancante.org loritre@libero.it www.ustream.tv/channel/s-ermete-show

Grafica: Michela Russo

nebel.mk@gmail.com

Sito web: Paolo Sanchi

Associazione Il Tassello Mancante via Sicilia, 59, 47838 Riccione (RN)

Per informazioni e contatti: www.ilbufalo.it www.facebook.com/ilbufalorivistaculturale www.iltassellomancante.org info@iltassellomancante.org jacopo@iltassellomancante.org

La foto di copertina è di Enrico Chiaretti La citazione in copertina è tratta da Bufalo Bill di Francesco De Gregori

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