1980 L'uso del terremoto in Irpinia

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Franco Angeli Edizioni, anteprima libro di prossima pubblicazione.

Abstract del volume

REBUS TERRAE MOTUS L’uso dei terremoti in Italia dall’Unità ad oggi di Nello Conte 1980 Irpinia Il terremoto del 23 novembre 1980 in Campania e Basilicata ebbe come epicentro un’area compresa tra le province di Avellino, Salerno e Potenza. Un territorio prevalentemente agricolo, morfologicamente disomogeneo e scarsamente connesso, sia sotto il profilo delle infrastrutture (viarie e agricolo-industriali), la cui assenza determinava l’isolamento geografico ed economico delle comunità rurali, sia sotto il profilo della coesione delle comunità che, disgregate per effetto delle tante emigrazioni e, altresì, per effetto di una politica agraria che aveva favorito l’enorme diffusione del latifondo contadino1, scontavano un’arretratezza socio-culturale che il sociologo americano Edward C. Banfield aveva definito con l’espressione “familismo amorale” 2. 1.

Tra le varie trasformazioni economiche ed istituzionali legate alle politiche di riforma agraria in Italia, particolarmente significativa fu quella della ridistribuzione della terra attuata dal mercato, col trasferimento in mano ai contadini di notevoli quantità di terreno, acquistate per tramite di compravendite, rese possibili dalle rimesse degli emigrati e dall’inflazione. In particolare nel Mezzogiorno, i contadini avevano acquistato terra per un ammontare superiore alla quantità ridistribuita nel secondo dopoguerra con la riforma agraria (cfr. G. Lorenzoni, Inchiesta sulla piccola proprietà formatasi nel dopoguerra, Relazione finale: l’ascesa del contadino italiano nel dopoguerra, Roma, 1948). 2. L'espressione “familismo amorale” fu coniata da Banfield, dopo una ricerca effettuata nella metà degli anni ’50, per spiegare l'arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all'arretratezza, degli abitanti di Chiaromonte, un piccolo paese della Basilicata. L’indagine del sociologo americano documentava un’avversione allo spirito di comunità e la tendenza degli individui a cooperare solo per massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri agissero allo stesso modo. Questa chiave interpretativa fu assai discussa e contrastata da molti meridionalisti, tra cui Manlio Rossi Doria, il cui lavoro presso il “Centro di specializzazione e ricerche economiche-agrarie di Portici” fu rivolto, tra l’altro, ad illustrare le caratteristiche produttive del territorio preesistenti al terremoto, per testimoniare la capacità organizzativa delle popolazioni rurali nel quadro delle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno.

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Le caratteristiche strutturali del territorio influenzarono in modo ambivalente l’azione dello Stato quando questi, chiamato a gestire l’evento catastrofico più grave del secondo dopoguerra, esportò lo schema d’azione introdotto con il terremoto nella valle del Belìce e perfezionato nel Friuli quattro anni prima3. La carenza di infrastrutture nell’area del cratere, infatti, comportò ritardi nei soccorsi, resi ancora più incerti dall’assenza di informazioni in grado di orientare le autorità centrali4. Allo stesso tempo, non rese possibile, nei primi giorni dell’emergenza, il controllo “sistemico” del territorio, sul “modello Friuli”, dimostrando i limiti della strategia d’intervento adottata dallo Stato e concepita secondo un modello astratto che con3. In Friuli, la gestione dell’emergenza era stata affrontata con la nomina di un commissario straordinario, preposto al coordinamento dei cosiddetti centri operativi, delle forze armate, dei vigili del fuoco e del volontariato, organizzati in modo gerarchico e secondo il principio dell’interdipendenza, secondo il quale, l’assetto funzionalmente necessario imponeva al comportamento degli attori delle condizioni, la mancata osservanza delle quali era causa del malfunzionamento del dispositivo di gestione. L’approccio alla pianificazione di tipo deterministico adottato dallo Stato, rappresenta, perciò, il primo elemento per contestualizzare correttamente la nozione di “modello Friuli”. Di fronte ad un contesto morfologicamente omogeneo, caratterizzato da un sistema di interdipendenze associate all’articolazione della società sul territorio, fu possibile individuare i punti di connessione su cui intervenire per garantire l’assetto del “sistema Friuli”, sia dal punto di vista infrastrutturale («ricostruire prima le fabbriche»), sia dal punto di vista sociale, agendo sulle istituzioni peculiari al tessuto sociale preesistente (le antiche “vicinie” e le borgate). Le azioni, in questo senso, furono quelle di dispiegare uomini e mezzi (presenti in modo massiccio sul territorio in virtù delle pesanti servitù militari), per garantire l’operatività del sistema e di far leva (in virtù delle deleghe conferite agli enti locali) sulle posizioni localiste ed autonomiste della popolazione. Questo secondo aspetto è particolarmente rilevante ai fini della comprensione dell’efficacia del “modello Friuli”, che fu, di fatto, il frutto di un complesso rapporto dialettico tra potere centrale e locale, tra istituzioni e popolazioni. 4. La reale proporzione delle conseguenze del sisma fu chiara ai generali dell’esercito solo quando la mattina del 24 novembre fu sorvolata in elicottero l’area colpita e si mostrarono ai loro occhi interi paesi completamente rasi al suolo. La mancanza d’informazioni fece sì che, in molti casi, i militari, in gran parte soldati di leva, arrivassero nei paesi terremotati senza i mezzi per scavare ed estrarre i corpi dalle macerie. In altri casi, prima dei mezzi di soccorso dello Stato, arrivarono gli emigranti e i volontari, il cui ausilio, non di rado, fu ostacolato per mancanza di coordinamento. Alcuni giorni dopo il terremoto, le polemiche sui ritardi nei soccorsi crearono una crisi istituzionale, che investì, in particolare, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che la sera del 23 novembre non aveva convocato d’urgenza le strutture del ministero. Il 26 novembre, in seguito all’intervento televisivo del presidente della Repubblica Sandro Pertini, che faceva una dura requisitoria sulle gravi responsabilità delle istituzioni di fronte all’emergenza, il prefetto di Avellino venne rimosso ed il ministro Rognoni presentò le dimissioni, che, tuttavia, vennero rifiutate dal presidente del Consiglio Arnaldo Forlani.

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siderava il territorio come un insieme omogeneo5. D’altra parte, la scarsa coesione sociale, accrescendo la vulnerabilità delle comunità, aveva impedito che si sviluppassero quelle pratiche collettive concepite a difesa dei beni comuni, che in Friuli avevano portato le “borgate” ad organizzare i primi soccorsi6. Il risultato fu un ingente numero di vittime (circa tremila) e la pressoché totale incapacità di reagire autonomamente al trauma conseguente il terremoto. Questa condizione di “passività”, fu l’ideale per consolidare il modello dello stato-provvidenza e per conferire legittimità ai soggetti istituzionali che avocarono a sé il terremoto fino a portarlo a livelli parossistici entro i quali il suo uso divenne un modello di sviluppo economico nazionale, improntato sulla straordinarietà e sull’assistenzialismo, che Ada Becchi Collidà definirà con il termine «economia della catastrofe»7. Il “dispositivo del terremoto” di cui il potere si serve per acquisire comportamenti tali da contribuire alla riproduzione della formazione sociale in regime controllato, con il terremoto dell’Irpinia funzionò senza alcuna perturbazione, tanto nella fase dell’emergenza, quanto in quella della ricostruzione e, per la prima volta, fece coincidere il contesto d’azione con la Nazione8, producendo un costrutto cognitivo 5. L’area interessata dal sisma era molto più vasta di quella del Friuli e del Belìce. I comuni colpiti in modo significativo erano circa 130, con una popolazione coinvolta di circa 6 milioni di abitanti (considerando anche i danni che riguardarono la città di Napoli ed il suo patrimonio abitativo storicamente fatiscente). 6. È emblematico il caso del sindaco di Lioni alla disperata ricerca di aiuto per trarre in salvo dalle macerie la propria famiglia. L’episodio è documentato da Lina Wertmuller nel filmato “E' una domenica sera di novembre”, Rai, 1980. 7. A. Becchi Collidà, "Arriva una catastrofe, che fortuna", Politica ed economia [1970], n.6, 1988, pp.60. 8. Ciò avvenne attraverso il meccanismo dei gemellaggi, cioè attraverso l’affidamento alle regioni italiane, chiamate alla solidarietà nazionale, di un’area ben definita in cui operare. In quest’ottica, dopo i primi giorni di caos, gli interventi di soccorso e, in particolare, i numerosi gruppi di volontari provenienti da tutta Italia, furono indirizzati in base alle aree di competenza delle regioni di provenienza, in una prospettiva, di medio e lungo periodo, che non fosse la semplice gestione dell’immediata emergenza ma, anche, la realizzazione di progetti per la ricostruzione e un supporto tecnico di uomini ed esperienze alle comunità colpite. La pratica dei gemellaggi fu positiva nella fase della “prima emergenza” (cioè il periodo che va dalla scossa all’installazione dei prefabbricati), ma si rivelò ambigua nella media e lunga durata, poiché comportò la deresponsabilizzazione della società terremotata. Inoltre, le collaborazioni e i progetti che continuarono per diversi anni, assumendo forme organizzate quali, ad esempio, le cooperative, sino allora estranee all’area terremotata, costi-

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e formativo del terremoto, quale sinonimo di emergenza, opportunità e cambiamento che, dietro la solidarietà nazionale, nascose, infine, un intreccio tra spesa pubblica, corruzione politica, criminalità e sviluppo economico . In termini di policy, la gestione del terremoto configurò lo schema 9

tuirono il prologo delle attività che molte aziende e imprese edili provenienti da tutta Italia, e in particolare dal Nord, intrapresero nel corso della ricca ricostruzione. Non è improprio, dunque, estendere il contesto d’azione alla Nazione, tanto più che anche politicamente ciò ebbe i suoi risvolti, dal momento che l’Irpinia, di lì a poco, espresse un presidente del consiglio (Ciriaco De Mita), un segretario del partito di maggioranza (Giuseppe Gargani), un’intera classe di ministri, onorevoli e senatori, uno dei massimi responsabili dei servizi segreti (Angelo Sanza), un presidente del consiglio regionale della Lombardia (Enrico De Mita), un direttore generale della Rai (Biagio Agnes), più svariati giornalisti di influenti testate nazionali (il direttore de “l’Osservatore Romano”, Mario Agnes), oltre a vari banchieri della Banca di Napoli, del Banco di Roma e della Banca Popolare dell’Irpinia nata come porto di transito dei fondi della ricostruzione (sono queste le conclusioni del tribunale romano che nel 1988, nell’ambito dell’inchiesta denominata“Irpiniagate”, indagò sulla banca della Dc demitiana). Infine, va considerata l’influenza di questa classe dirigente sull’intera stagione politica nazionale che si concluse con “Tangentopoli” e produsse, per reazione, il rafforzamento di alcuni movimenti politici settentrionali, che riuniti nella Lega Nord guidata da Umberto Bossi, strumentalizzarono il terremoto per raccontare il “saccheggio delle ricchezze dal Nord produttivo al Sud assistito”. Ciò con gli effetti che ancora oggi influiscono sulla politica nazionale. 9. Questa è la tagliente visione di Manlio Rossi-Doria, con la quale vengono descritti i caratteri del sistema politico ed economico meridionale e italiano negli anni Ottanta: «un massiccio intervento dello Stato associato alla crescita delle sue funzioni, politiche incoerenti e frammentarie, una sproporzionata proliferazione di enti di ogni tipo e grandezza, pratiche lottizzatrici attuate dai socialisti con pari spregiudicatezza dei democristiani. Come un cancro questo tipo di sviluppo è penetrato in misura maggiore o minore nei vasti settori dello stesso apparato produttivo. Ha invaso un vastissimo campo della pubblica amministrazione, ha infine travolto intere categorie di proprietari e funzionari. Le istituzioni che avrebbero dovuto assicurare l'ordine sono dominate da interessi clientelari, esposte alla corruzione e ai favoritismi, al predominio dei politicanti e dei cosiddetti tecnocrati improvvisati e irresponsabili, quando addirittura non siano divenute sede delle gesta di bande delinquenziali» (M. Rossi-Doria, “Guardare trent'anni così come sono stati”, in V. Foa e A. Giolitti (a cura di), La questione socialista, Torino, 1987). Nel 1989 fu istituita, con la legge n. 128 del 7 aprile, una “Commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti dai terremoti del novembre 1980 e del febbraio 1981 della Campania e della Basilicata”, alla cui presidenza venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, incaricata di accertare quanto realmente lo Stato avesse speso, sino a quel momento, per la ricostruzione delle aree terremotate. Successivamente, l’inchiesta del filone “Mani Pulite” denominata “Mani sul terremoto” indagherà su 87 rappresentanti del sistema politico tra cui Ciriaco De Mita, Paolo Cirino Pomicino, Salverino De Vito, Vincesco Scotti, Antonio Gava, Antonio Fantini, Francesco De Lorenzo, Giulio di Donato e lo stesso commissario straordinario Giuseppe Zamberletti. Tuttavia, a parte qualche arresto, le inchieste giudiziarie si conclusero senza colpire i responsabili degli sprechi e del malaffare avviati con la ricostruzione del dopo terremoto.

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del tipo command & control impostato sul centralismo e sullo stato d’eccezione, con la nomina di un commissario straordinario ("l’eroico" padre della protezione civile onorevole Zamberletti), preposto al coordinamento dei cosiddetti centri operativi10, delle forze armate, dei vigili del fuoco e del volontariato, organizzati in modo gerarchico e secondo il principio dell’interdipendenza, ma con una variante significativa in termini di controllo: ad ogni sindaco, inteso quale figura incaricata di guidare e coordinare nel suo territorio le operazioni di soccorso, fu affiancato un ufficiale dell’esercito (quale deterrente di qualsiasi istanza di autodeterminazione della popolazione). Lo stesso fu fatto per istituzionalizzare il volontariato, mediante i gemellaggi tra gli ambiti in cui era stata suddivisa l’area del cratere e le neonate regioni italiane chiamate al soccorso. In questo modo, si pose la solidarietà individuale e dei gruppi di attivisti entro gli schemi istituzionali delle regioni di provenienza, inibendo la volition della gente comune ed escludendo il volontariato “effimero”11. Come per il Belìce, anche in Irpinia, la delocalizzazione fu usata come strumento della pianificazione in emergenza e successivamente, estendendo questa alla fase della ricostruzione12, essa fu usata co10.

Furono istituiti i centri operativi come in Friuli, ma con un’impostazione che ricorda quella del generale Mazza a Messina nel 1908, quando questi stabilì il proprio quartiere generale su una nave a debita distanza dalla città: il Centro operativo commissariale (Coc), che doveva ospitare i rappresentanti delle amministrazioni locali e delle forze armate, fu posto a Napoli, a circa 150 chilometri di distanza dall’epicentro. Alle dipendenze del Coc operavano i Centri provinciali ed i Centri operativi di soccorso (Cos), presenti con maggiore diffusione in un congruo numero di paesi e che avevano il compito di coordinare sia i soccorsi statali e militari che il volontariato. 11. Un esempio, in tal senso, è contenuto in Giovan Francesco Lanzara, Capacità Negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 151-158. 12. Il problema sociale prodotto dalla sovrapposizione della fase dell’emergenza con la fase della ricostruzione, è consistito nella polverizzazione del tessuto sociale preesistente al terremoto, avvenuta sia realizzando blocchi edilizi (provvisori sulla carta e definitivi nella pratica), in cui ghettizzare la popolazione (in particolare i ceti meno abbienti); sia consentendo l’edificazione di case unifamiliari con il criterio dei “fuori sito” a scapito del territorio e del paesaggio; sia mediante la realizzazione di anonime new towns che, in taluni casi, hanno disincentivato il ritorno degli abitanti nei centri storici ricostruiti (in un tempo molto lungo, consistente in un ciclo di vita), che ha fatto si che essi, svuotati della popolazione, finissero per garantire la sola rendita patrimoniale, peraltro contenuta entro bassi indici del mercato immobiliare (in casi ancora più rari essi sono stati issati a vessillo delle “vittorie di Pirro” riscosse dalle soprintendenze nelle battaglie contro la demolizione e per la tutela e il restauro dei centri storici). Si noti che, a parte questo ultimo aspetto, lo scenario descritto è identico a quello prodotto a L’Aquila dopo il terremoto del 2009.

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me strumento per ridefinire la domanda politica, in modo che potesse essere operativa nelle politiche di welfare13. L’assistenzialismo, inoltre, fu usato per perseguire una strategia pubblica d’industrializzazione14 che, dietro lo slogan del “modello Friuli” «prima le fabbriche», nascondeva un industrialismo dogmatico ed autoritario, la cui idea di sviluppo era erroneamente impostata sui settori di base (manifatturiero, metalmeccanico e siderurgico) e scollegata dai caratteri del sistema territoriale e del mercato, dalle imprese e dai saperi locali, dall’economia agricola integrata ad attività industriali di tipo tradizionale. La fase della ricostruzione, quindi, vide l’allargamento dell’arena degli attori di policy ben oltre i confini del contesto geografico dell’area del cratere, resa possibile dall’assoluto controllo delle leve che regolano le istanze che governano i processi d’interazione sociale. In questo senso, il terremoto divenne il paradigma dello Stato e il “familismo amorale” di un piccolo paese basilisco, da dubbio antropologico divenne il carattere certo di una Nazione.

13.

In quegli anni si era esaurita l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno e in Parlamento si discuteva su come far tornare alle competenze ordinarie delle istituzioni (in particolare le Regioni), i compiti e i ruoli che erano stati della Cassa. Il terremoto offrì la possibilità di rilanciare e riformare l’intervento pubblico nel Mezzogiorno perpetuando l’intervento straordinario, nonostante fosse da più parti evidenziata la necessità di responsabilizzare le istituzioni locali per le differenti esigenze delle diverse economie. 14. La legge per “la ricostruzione e lo sviluppo” del 1981, con un sostanziale accordo tra diversi schieramenti politici, unì alla ricostruzione dei paesi distrutti un progetto d’industrializzazione delle aree interne di Campania e Basilicata con l’obiettivo di creare posti di lavoro e competenze imprenditoriali in grado di garantire lo sviluppo autopropulsivo di quelle aree. Tuttavia, la filosofia di fondo che ispirò la classe politica di governo e cioè che lo sviluppo delle aree arretrate sarebbe stato possibile attraverso un incremento esponenziale della spesa pubblica, finì alla lunga per aumentare gli sprechi e rafforzare i canali clientelari e assistenziali già esistenti.

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