Luoghi oscurati

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i LUOGHI OSCURATI AFGHANISTAN ALGERIA BIRMANIA ERITREA IRAN IRAQ LIBIA SIRIA SUDAN YEMEN


Si ringrazia per la collaborazione Il Tucano Viaggi-Ricerca e per il patrocinio l’Ordine Nazionale dei Giornalisti


Si ringrazia Porsche Italia che ha permesso a NEOS di realizzare questo volume.


NEOS Giornalisti di viaggio associati Society of Travel Journalists Via Giuditta Sidoli, 7 20129 Milano Tel. +39.0270100506 Fax +39.0270124361 www.neosnews.it neos.segreteria@gmail.com Art Director Anna Nadalig A cura di Luisa Espanet, Valerio Griffa, Laura Mulassano, Francesca Piana, Giovanni Tagini Foto Giulio Andreini, Irene Cabiati, Giulia Castelli Gattinara, Gabriele Crozzoli, Giovanna Dal Magro, Alessandro Gandolfi, Olivier Goujon, Valerio Griffa, Enrico Martino, Michele Molinari, Pierluigi Orler, Daniele Pellegrini, Angela Prati, Alessandro Rocca, Marco Santini, Giovanni Tagini, Angelo Tondini, Nico Tondini, Graziella Vigo Testi Luca Bergamin, Irene Cabiati, Giulia Castelli Gattinara, Viviano Domenici, Luisa Espanet, Alessandro Gandolfi, Olivier Goujon, Valerio Griffa, Enrico Martino, Ettore Mo, Michele Molinari, Laura Mulassano, Giosi Sacchini, Pietro Tarallo, Angelo Tondini, Nico Tondini Elaborazione grafica Gianfranco Provenzi Stampa Grafiche Speed 2000


LUOGHI OSCURATI... Il mondo ci regala luoghi unici da conoscere e amare. Purtroppo oggi moltissimi Paesi di grande interesse naturale, culturale, storico e sociale sono diventati difficili, a volte impossibili, da visitare ed esplorare. Un gruppo di fotogiornalisti e di giornalisti scrittori hanno voluto inquadrare e raccontare - con foto e scritti – dieci di questi Paesi “oscurati”, luoghi almeno momentaneamente inaccessibili. I giornalisti di viaggio della NEOS – acronimo di Nord, Est, Ovest e Sud – hanno voluto celebrare “I luoghi oscurati” con una grande mostra fotografica itinerante, accompagnata da testi da ascoltare o da leggere su pannelli, nonché con un libro, che riprende i temi e i testi della mostra, arricchendoli. In queste pagine ritroverete gente e luoghi speciali, panorami e volti unici, tesori archeologici e naturali, scene di vita e angoli mirabili ripresi in Afghanistan, Algeria, Birmania, Eritrea, Iran, Iraq, Libia, Siria, Sudan, Yemen. Chi ha avuto la fortuna di visitare questi Paesi li rivedrà con commozione, chi non li ha mai visti potrà ancora sperare di esplorarli presto. Quando usciranno – lo speriamo con tutto il cuore - dall’oscurità di oggi. Laura Mulassano


Foto O. Goujon


...NON PERDUTI I Paesi sono come le persone singole: hanno vite, in cui fortuna e sfortuna si intrecciano e si confondono. La fortuna, nel caso di questa parte di Asia e di Africa, è la benedizione di una civiltà monumentale antica, la ricchezza di una trasformazione climatica della Terra che ne ha ridipinto la superficie. È la saggezza antica, le tradizioni conservate, i modi di fare e di dire lontani dalla modernità. Questi sono Paesi-archivio del cammino umano. La sfortuna è un oggi incerto, intrappolato nell’odore della guerra. Una eclisse più o meno lunga. Un velo, una patina, un filtro, che ne oscura la luce intensa. NEOS ha scelto dieci di questi Paesi, e li ha raccontati con una mostra multimediale e con un libro. Lo ha fatto perché la memoria di tutti noi è passata di là, incidendosi di immagini e sensazioni e perché chi non ci è stato nel passato non leghi il nome Siria alle stragi di civili, o il nome Libia a una guerra. Sono nomi di luoghi dove è passata l’infanzia dell’umanità. E meritano rispetto. Il libro lo state sfogliando: vi porta per mano a vedere, le immagini e le parole che rendono in poche righe un’istantanea, una scena, uno scatto della memoria. La mostra, itinerante in diverse città italiane, vi invitiamo ad assaggiarla, a gustarla: voi guardate le foto mentre una voce narrante instilla altre suggestioni nei vostri occhi. Valerio Griffa


Flash back

di Ettore Mo

Atmosfere, ricordi, fatti, personaggi. L'Afghanistan, filtrato dalla memoria di un grande inviato, rivive come in un affresco.



A Bam entrai nella Fortezza Bastiani Arrivai davanti alle mura di Bam, nell’Iran orientale, un paio di anni prima che un terremoto devastante la riducesse a un ammasso di rovine. La città-fortezza aveva una storia di quindici secoli costruita spalmando fango su mattoni di fango per far da sentinella sui margini del deserto di Dasht-è-Lut, disteso fino alle frontiere del Pakistan e dell’Afghanistan. Da tempo era una città abitata solo dalle antiche storie che viaggiavano lungo la carovaniera che legava l’Est e l’Ovest; storie di mercanti e predoni, di genti e lingue diverse, di splendori e abbandoni. Nessun abitante, solo fantasmi che raccontavano favole profumate d’Oriente. Qui, nel 1976, il regista Valerio Zurlini girò parte del film “Il deserto dei Tartari”, tratto dal capolavoro di Dino Buzzati. Per questo raggiunsi Bam con la speranza di entrare nella Fortezza Bastiani, e sentire l’eco delle pagine di Buzzati. M’arrampicai fino in cima alle mura per guardare dall’alto il labirinto di camminamenti, stanze, archi, cunicoli; tutti corrosi dai secoli, ma ancora stretti attorno alla fortezza che sfidava orgogliosa il grande “deserto di polvere”. Da lassù vidi il tenente Giovanni Drogo passare a cavallo sotto l’arco d’ingresso, lo seguii nel cortile dell’adunata, attraversai corridoi vuoti dove gli echi rimandavano ordini secchi, voci lontane, scalpitii di cavalli; fino agli alloggiamenti degli ufficiali e poi alla residenza di Sua Eccellenza il Colonnello conte di Filimore, nella torre più alta. Lassù mi affacciai a una finestrella e, oltre le mura, in fondo al deserto giallo, vidi confusi mulinelli di polvere, come di carriaggi in movimento, di colonne di cavalieri pronti all’assedio. Li vidi davvero, ne sono sicuro; ma non potei aspettare l’attacco tanto atteso: il viaggio era finito e dovevo tornare in redazione, in Via Solferino. Viviano Domenici



L’Usignolo Arabo C’e?chi si lamenta dei massacri, chi informa dei movimenti delle truppe, chi piange e chi filosofeggia, chi odia e chi e?vinto dall’orrore. La tecnologia e?solo un libro bianco, sopra, ognuno ci scrive quel che vuole e che puo? . Centoquaranta battute, un click e via, se le linee ti supportano. Sono un’altra guerra, un altro scontro, quelli armati di telefono, un telefono che scatta immagini di folla, riprende i movimenti dei soldati, registra i suoni delle bombe e dei pianti e, soprattutto, invia messaggi che saltellano nella rete. Il tweet, il cinguettio dell’usignolo, e?diventato il paradigma di un mondo connesso e sconnesso, che tratta allo stesso modo il commento di una ragazza davanti a una vetrina di Londra e la disperazione di una madre a Damasco. Eccolo, allora, l’Usignolo Arabo, quello che ha permesso di scomporre la Primavera nordafricana e mediorientale in tante voci minime, e proprio per questo piu?possenti, meno epiche e piu?quotidiane, e dunque piu?vere, piu?vicine. Ma, alla fine, un Usignolo fa o non fa Primavera? di Valerio Griffa e Michele Molinari


TWEET dalla Siria (gennaio-febbraio 2012) Rami Nakhla @MalathAumran Risposta Retweet Preferiti Apri 37 martyrs were killed today. 7 children, 2 women, 4 defected soldiers by lccsyria.org/3712 #Syria 37 martiri sono stati uccisi oggi, 7 bambini, 2 donne, 4 soldati disertori Maisa Akbik @M_akbik Risposta Retweet Preferiti Apri Dear World: We have beautiful children too, just like all of you, come on &protect them from the brutality. by #Syria pic.twitter.com/yeArc8xD Caro Mondo: anche i nostri bimbi sono belli come lo sono i vostri, proteggeteli dalla brutalità. Syrian Revolution @RevolutionSyria Risposta Retweet Preferiti Apri Every dictator is an enemy of freedom, an opponent of law. Demosthenes By #Syria fb.me/1NNVp94H6 Ogni dittatore è nemico della libertà, un avversario della legge. Demostene Syrian Revolution @RevolutionSyria Risposta Retweet Preferiti Apri "Killing is an addiction like any other drug. But we're parents now. We have to set an example. " by Chucky #Syria fb.me/18XwLjFMK Uccidere è una dipendenza come ogni altra droga. Ma ora siamo dei padri, dobbiamo dare l’esempio. Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri Saida: A number of wounded are reported as a result of the regime's

random shelling in the village using tanks and artillery. Numerosi feriti come risultato del bombardamento del regime a caso nel villaggio usando carri armati e artiglieria.

Bread and flour ran out in Baba Amr 8 days ago. Think about that when you enjoy a meal. Pane e farina esauriti a Baba Amr 8 giorni fa. Pensateci mentre consumate il pasto.

Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri: #Lattakia: Activists hoist the Independence Flag over the Rahman Mosque after evening prayers Attivisti hanno issato la bandiera dell’Indipendenza sulla moschea Rahmam dopo la preghiera della sera.

Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri When the death toll went above 150, there was an intl. condemnation and embassies were stormed worldwide. Below that no. and no one cares. Quando il numero di vittime è stato superiore a 150 c’è stata una condanna internazionale e le ambasciate di tutto il mondo si sono agitate. Sotto quel numero nessuno si muove.

Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri #Damascus : Qatana: A young man was shot in the leg by the regime's sec forces while he was at his house which overlooks Ein Sultan I servizi segreti hanno sparato a un giovane alla gamba che stava in casa sua che guarda su Ein Sultan. Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri Activists in Andan are reporting that Assad forces are putting independence flags on their vehicles to trick people. Attivisti di Andan sostengono che le truppe di Assad mettono bandiere dei ribelli sui loro mezzi per ingannare la gente. Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri @isabelledaniel @edwardedark Yes, no one trusts the Red Crescent, including the journalists. Sì, nessuno ha fiducia nella Mezzaluna Rossa, nemmeno i giornalisti. Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri

Omar shakir @OmarShakir91 Risposta Retweet Preferiti Apri Homs#Bba Amr AT LEAST 62 men were killed and their wives and children taken while trying to flee the besieged... fb.me/1wi4Sg4fU Ritwittato da Arab Spring Almeno 62 uomini sono stati uccisi e le loro mogli e figli presi mentre tentavano di fuggire dall’assedio. Arab Spring @ArabSpringFF Risposta Retweet Preferiti Apri Defection of 30 soldiers and 20 security forces after they were sent to Azaz in Aleppo. Diserzione di 30 soldati e 20 agenti di sicurezza dopo che erano stati inviati a Azaz in Aleppo. Blake Hounshell @blakehounshell Reply Retweet Favorite · Open Shoot the journalists: Syria's lesson from the Arabspring guardian. co.uk/world/2012/feb… by @petersbeaumont

Spara ai giornalisti: la lezione siriana dalla Primavera Araba. Iyad El-Baghdadi @iyad_elbaghdadi Reply Retweet Favorite · Open Skepticism/not trusting the official story doesn't mean putting a "not" ahead of each fact. It means digging to find the facts yourself. Retweeted by Arab Spring Scetticismo/non credere alla storia ufficiale non significa mettere un "no" davanti ad ogni fatto. Vuole dire cercare i fatti da solo. Arab Spring @ArabSpringFF Reply Retweet Favorite · Open @iyad_elbaghdadi @Raddmom Much easier just to keep watching Fox news instead. Ignorance is bliss. E' più facile mettersi a guardare le notizie sulla Fox. Beata ignoranza. Arab Spring @ArabSpringFF Reply Retweet Favorite · Open Suggestion for Libyans: Ship your weapons to Syria to support the FSA. This way you solve two problems at once. #Libya #Syria Suggerimento per i libici: spedite le vostre armi in Siria per appoggiare il FSA. Due piccioni con una fava. Arab Spring @ArabSpringFF Reply Retweet Favorite · Open Activists in Andan are reporting that Assad forces are putting independence flags on their vehicles to trick people. Notizia da Andan: gli attivisti dicono che le truppe di Assad ingannano la gente mettendo bandiere indipendentiste sulle loro camionette.


Afghanistan

Nel mercato di Herat pare di entrare nel mondo incantato delle fiabe narrate da Sherazade. Gli uomini sono avvolti in mantelli di lana grezza e con grandi turbanti colorati. Folte barbe e grandi baffi neri incorniciano i loro volti dalla virile e orgogliosa bellezza, illuminati da occhi di giaietto, bistrati con un tocco di vanità con il kajal. Le donne, fantasmi invisibili, sono avvolte nei pesanti veli neri o azzurri del burqa. Cavalli, cammelli e asini aspettano conpazienza i loro padroni all’ombra di palme e acacie. Tutti vendono di tutto: pellicce di lupo e di volpe, stivali di morbido cuoio, colbacchi di astrakan, giacconi con il vello di pecora, gioielli tribali in argento tempestati di turchesi. E soprattutto, lo scuro e pastoso hascisc, fumato insieme al tabacco. Pietro Tarallo

Kabul . Cavalieri nel gioco del Buzkashi. Foto D. Pellegrini



Kabul. Tappeti iperrealisti. Foto A. Tondini

Catena dell’Indu Kush. I laghi di Bandiamir. Foto di D. Pellegrini




Kabul. Donne al mercato. Foto A. Tondini

Kabul. Bottega di granaglie. Foto D. Pellegrini


Kabul. Una piazza del centro. Foto A. Tondini

Kabuk . Profugo afghano. Foto D. Pellegrini



Valle di Bamiyan. Quel che resta di due giganteschi Buddha distrutti dai Talebani. Foto D. Pellegrini



Herat . Spulatura dei campi. Foto D. Pellegrini


Nebbia e ricordi

Una nebbia leggera, quasi impalpabile, avvolge la valle sacra di Bamiyan, 250 km a nord-ovest di Kabul, nel cuore di pietra del paese, a 1200 metri di altezza. A poco a poco, i raggi del sole filtrano dalle cime delle montagne e riscaldano i campi di patate e i boschetti di flessuose betulle. Un mare di verde che si infrange contro l’alta parete di roccia dove, tra il III e IV secolo, le mani dei devoti avevano scolpito gigantesche statue di Buddha nella posizione del fiore di loto e altre, in piedi, benedicenti, alte 53 e 37 metri. Ma anche cappelle e celle per monaci oranti. Al loro posto ora ci sono occhiaie vuote che guardano, spettrali, la valle. Le bombe e la dinamite dei talebani, nel marzo 2001, le hanno distrutte completamente, nonostante gli appelli dell'Unesco e della comunità internazionale, in nome di un Islam vendicativo. Contadini e pastori ne conservano la preziosa memoria, fuggendo dagli orrori della guerra sempre più in alto nel mistico splendore della natura. Prima il richiamo delle aquile e dei falchi. Poi il silenzio più assoluto, fra montagne calcinate dal sole. A 4000 metri ecco Bandiamir. Sei laghi turchesi racchiusi dentro bacini di formazione calcarea, bianchissimi, abbacinanti. Negli anfratti più reconditi lo smeraldo di una vegetazione lussureggiante. Pietro Tarallo


Eppure una volta qui c’era l’acqua . Ora è solo sabbia dorata che circonda la cresta di roccia scura di Tegharghart. Sembra proprio dire questo lo sguardo triste de La vache qui pleure. Pochi tratti minimalisti, da far invidia a un artista contemporaneo, narrano efficacemente le lacrime di quelle mucche che, tornate dal pascolo, non hanno più trovato la fonte dove erano solite abbeverarsi. Con questa antica leggenda, i Tuareg provano a dare una spiegazione a uno dei più spettacolari esempi di arte rupestre sahariana. Un graffito che, da oltre cinquemila anni, lascia incisa nel cuore di chi lo guarda la stessa forte e intensa emozione. Giosi Sacchini

Deserto del Sahara. Tea time a Timimoum (Gourara). Foto D. Pellegrini



Deserto dell’Acacus. Un touareg disegna sulla sabbia. Foto M. Molinari

Tesnou. Massi giganteschi. Foto G. Castelli Gattinara




Tassili. Skyline con rocce. Foto di G. Castelli Gattinara

Tassili. Una grotta naturale. Foto G. Castelli Gattinara


Algeri. Messaggi sui muri della casbah. Foto G. Vigo

Oasi di Djanet. Mamma e bambino. Foto G. Tagini




Dintorni di Algeri. Due bambini berberi. Foto G. Tagini

Algeri.Vista del porto dal punto pi첫 alto della casbah. Foto G. Vigo


Deserto del Sahara. Scuola coranica nell’oasi di Tala. Foto D. Pellegrini


I regali della pioggia

Il paesaggio verso l’oasi di Djanet si sgrana tra villaggi di case bianche un po’ sbreccate, dune e qualche oasi, sorprendenti macchie di verde. Lo sguardo sfiora le morbide onde di sabbia per infrangersi ogni tanto contro creste, guglie e i profili di roccia scura dalle forme più strane. Il giorno si anima d’incontri con carovane, greggi e pastori. Tutto si muove come al rallentatore, sotto il sole cocente. Unico vero sollievo alla canicola è l’acqua fresca nell’otre di pelle di capra che gli autisti tuareg tengono appesa sui fianchi della jeep. La notte, nel letto di qualche oued, tra i rari oleandri, si montano le tende. Ma è solo una precauzione. È più bello dormire avviluppati nel sacco a pelo sotto un cielo nero pece e carico di stelle, per giocare a riconoscere le costellazioni. Una sera comincia a piovere. La mattina successiva gli oued non sono più letti accoglienti, ma veri e propri fiumi, da attraversare di slancio con i fuoristrada. Raggiunta Djanet, il cielo è plumbeo e ancora carico d’acqua. All’alba, però, il sole splende di nuovo e l’aria è tersa. Prima che sia troppo caldo, è meglio salire sul Tassili n’Ajjer, l’Altopiano dei Tuareg kel Ajjer per i berberi. A piedi, lungo il canalone di rocce, ci si arrampica tra sassi scombinati. Impresa difficile? Ma no! Una sfida che affascina: una volta lassù ci aspettano spettacolari graffiti e pitture rupestri. Arrivati sul pianoro la fatica è ripagata da un inaspettato colpo di scena: l’arida distesa ha preso vita e davanti agli occhi ci appare una distesa picchiettata di piccoli fiori colorati. È il regalo della pioggia che, in una notte, ha fatto miracolosamente fiorire il deserto. Giosi Sacchini


b

irmania

Viste da un fiume, le cose sono diverse. Dall’Irrawaddy, la diversità è forse più forte, totale. È un altro mondo. L’arancione degli abiti dei monaci, stesi ad asciugare, forma con il verde delle sponde uno strano paesaggio, fatto di geometrie insolite, irripetibili. Quadri informali dove il colore è il fulcro intorno a cui ruota tutto. La presenza umana non si avverte, si immagina, lontana, inafferrabile. Gli unici movimenti percepiti sono quelli delle foglie degli alberi mosse da rare brezze o la corrente che crea nell’acqua disegni sempre inediti. Il mondo con la sua gente è distante anni luce. Solo qualche cenno nei tetti ondulati delle pagode, messi lì a comporre uno sfondo, una cornice. Surreali. Luisa Espanet Yangon. Monaco davanti alla Shwedagon Pagoda. Foto M. Santini



Mandalay. Ponte di U Bain al tramonto. Foto O. Goujon

Pagan. Mongolfiera sui templi. Foto O. Goujon




Mandalay.Attraversamento del ponte U Bain. Foto M. Santini

Bago, dintorni. Kyaik Pun Paya, i 4 Buddha seduti, V secolo. Foto M. Santini


Balancing Rock su una montagna a 3 ore da Yangon. Foto M. Santini

Pagan. Aspiranti monache. Foto M. Santini




Pagan. Donna al mercato con sigaro birmano. Foto O. Goujon

Pesca tra i campi lungo l’Irrawaddy. Foto G. Dal Magro


Pagan. Buddha all’interno di un tempio. Foto G.Dal Magro


Ori e Colori

Gli hanno cambiato il nome, ma non sono riusciti a togliere alla Birmania neanche un millesimo della sua attrattiva. Basta pensare alla Shwedagan Pagoda di Yangon, la capitale, in genere la prima tappa per chi arriva. Situata su una collinetta e non visibile dal basso, si raggiunge con un tortuoso passaggio di quattro scale e ascensori in un fatiscente edificio. Così malandato, che la prima reazione sarebbe di tornarsene indietro. Non fatelo, perché la pagoda, da sola, vale il lungo volo. Le ore migliori per andarci sono l’alba e il tramonto. Non tanto per la luce, quanto per la singolare frequentazione. C’è un’animazione concitata che ha poco del luogo di culto. Certo ci sono le cerimonie con i monaci ricoperti di fiori o le donne che pregano e accendono candele sotto gli innumerevoli Buddha. Ma la folla è fatta di famigliole che fanno picnic come su un prato, di gente vociante come nel più caotico mercato. In mezzo scintilla la pagoda. Costruita tra l’XI e il XIV secolo, è alta un centinaio di metri e ricoperta da 700 chili d’oro con campanelle, girandole e un globo sulla cima, con incastonate 4 mila gemme, fra zaffiri e rubini. Dentro, nella stupa, c’è il reliquario con gli otto capelli di Buddha, che ciclicamente vengono esposti al pubblico. Tutt’intorno, tempietti, pagode, oratori per le famiglie più danarose, piccoli santuari circondati da candele, enormi Buddha distesi. Luisa Espanet


Asmara è piena di giovani. Passeggiano per i due viali principali, i libri sottobraccio, i sogni nelle scarpe appoggiate ai muri delle villette. Il sole punge e l’aria odora di jacaranda. In certi giorni il cielo è così terso e frizzante che sembra possibile veder decollare l’aeroplano Tagliero, la stazione di servizio in stile futurista. Vola sull’altipiano dal dorso corrugato d’euforbie e fichi d’india da cui si sporgono all’improvviso terrazze coltivate a cereali. Isole, Dahlak, che non cercano clienti con ammalianti visioni tropicali. Il verde è quello ceruleo dei cespugli di mimosa spinosa che hanno spaccato la madrepora per respirare, mentre sulle case di corallo l’ombra gira su se stessa tutto il giorno, affacciata su spiagge bianche e ocra e onde capricciose come donne inquiete in attesa dell’amore. Irene Cabiati

Eritrea

Mar Rosso, Isole Dahlak. Bambina sulla spiaggia. Foto D. Pellegrini



Asmara, Meskel Festival. Donne pregano davanti alla Nda Mariam Coptic Cathedral. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero

Massawa. Entrata del vecchio bazar. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero




Mar Rosso, Isole Dahlak. Sub tra i coralli. Foto D. Pellegrini

Mamma e bambino profughi del Tigray. Foto A. Prati


Asmara. Il vecchio Cinema Impero. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero

Asmara. Bowling. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero




Massawa. Pescatore con tonno. Foto D. Pellegrini

Massawa. Interno di un bar. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero


Asmara. Donne al mercato. Foto I. Cabiati

Ragazza del Tigray a scuola. Foto A. Prati



Decadente languore “Eritrea” se la sono inventata gli italiani un giorno di fineOttocento. Il presidente del consiglio Francesco Crispi, dovendobattezzare la prima colonia tricolore, scelse la parolagreca erythros, cioè rosso. Gli antichi, infatti, indicavano così quelmare che in certi periodi dell’anno una strana alga colora di vermiglio. Anche Asmara se la sono inventata gli italiani. Era un villaggio di pastori a duemila metri, è diventata – ed è ancora – una delle più seducenti capitali africane. “Piccola Roma” la chiamavano, con il cinema Odeon, i tavolini all’aperto, le fumose sale da biliardo. Certo non si va mai fieri della stupidità umana: quando Harnet Avenue era ancora Viale Mussolini le leggi razziali ne impedivano l’accesso agli eritrei. Oggi Asmara è un salto nel tempo di sessant’anni, un viaggio nell’Italia di De Sica e del Neorealismo, nella quale si usciva di casa eleganti, pur non avendo i soldi per un caffè. Dall’alto la vista corre fino al Mar Rosso, duemila metri più inbasso, un altro mondo davvero. Ci si arriva seguendo una strada magica che scende per cento chilometri fra ponti e vidotti costruiti ai tempi dell’Africa Orientale Italiana. Piantagioni di fichi, monasteri copti, pastori Sahò e l’umidità che avanza sempre più. Fino a Massawa. La calda, languida, decadente, islamica Massawa. Un tempo era la “perla del Mar Rosso”, il più grande porto lungo la costa orientale africana, la Saint-Tropez eritrea frequentata dai ricchi asmarini annoiati. La Massawa di oggi ne è solo una copia malmessa e trasandata, orfana del turismo e segnata dai bombardamenti di una guerra troppo lunga con l’Etiopia. Eppure offre esperienze rare: il tè sotto i suoi archi ottomani, l’atmosfera indolente, le chiacchiere con un vecchio pescatore che non ha mai dimenticato la lingua italiana. Alessandro Gandolfi


Sorridente stupore Occhi d'amarena fissano la montagna e, quando il mostro compare, esplode la gioia: ecco il treno a vapore. Cigolando frena per scaricare turisti, lo sguardo smagliante. I bambini li osservano ben piantati sui sandali di gomma, qualcuno scalzo . Viaggerò anch'io sui vagoni della ferrovia rimessa in sesto dopo la guerra per l'Indipendenza eritrea. Ecco il fischio, i ragazzini si fanno sotto per assistere all'unico spettacolo delle loro giornate, soggiogati dalla bocca di fuoco che divora carbone, rapiti dalla danza perfetta delle bielle, eccitati dal fischio. Dai finestrini scivola aria sempre più fresca, mentre si sale fino ai 2342 metri di Asmara, da Massawa, in 118 chilometri. Sto viaggiando sulla ferrovia a scartamento ridotto, costruita dai nostri militari e dagli eritrei. A centinaia hanno tracciato il passaggio fra rocce e dirupi, scavando 30 gallerie e innalzando 26 ponti. "Stupefacente prodezza!", la definirono gli occupanti inglesi. Per anni le locomotive hanno svolto il loro umile servizio in fiera concorrenza con camion e auto sulla strada attorcigliata all'altopiano. Poi gli aerei. La guerra per l'Indipendenza bloccò il traffico dal 1975. Dal 1995, però, la ferrovia è stata ricostruita, riesumando locomotive e littorine che portano anche i marchi di Breda e Ansaldo e richiamando al lavoro antichi ferrovieri, quelli che ci erano saliti per la prima volta quando ancora avevano tutti i denti per sorridere alla ragazze. Ci fermiamo in stazioni deserte per rifornire la caldaia e riprendere fiato. All'improvviso, compaiono donne dal passo stanco che portano catini. Sorridono mentre l'acqua calda sgorga dalla pancia della locomotiva. Guai a disperderla. Anche questo è un miracolo che il treno semina nel suo passaggio. Irene Cabiati


IR A N

Una giovane donna fa shopping nel bazar di Isfahan: ribes secco, zafferano e pistacchi. Ayin ha 24 anni. Studia architettura all'Università. Nei corridoi affollati del bazar, nessuno la nota, malgrado la bellezza del suo viso. Nessuno la sta guardando, malgrado una piccola benda bianca sul suo nuovo naso alla francese. Ayin ha cambiato il suo naso due settimane fa, come molte sue amiche. La legge islamica non vieta interventi di chirurgia estetica. Sarà perché il profilo persiano è rigido, e così spesso parodiato dai vignettisti. Sarà a causa della noia. Alla fine, però, la ragione è più semplice: il volto è tutto quello che Ayin ha. È quello che può mostrare. Quindi se ne prende cura nei minimi dettagli. Come il velo che sistema sul suo capo attaccandolo ai capelli con un grande fermaglio colorato e frusciante. Comei suoi occhi, delicatamente sottolineati. Olivier Goujon

Naqhsh-è-rostan. Tombe di Dario. Foto G. Dal Magro



Isfahan. Vista dal minareto della Royal Square e della Moschea del VenerdĂŹ. Foto O. Goujon

Bidokht. Processione della flagellazione. Foto D. Pellegrini




Isfahan. Moschea del VenerdĂŹ. Foto D. Pellegrini

Bambina in abito da festa. Foto G. Vigo


Torbat-e-Jam. Scuola coranica. Foto D. Pellegrini

Persepoli. Reperti archeologici. Foto D. Pellegrini




Contadine dell’altipiano. Foto G. Vigo

Isfahan. Moschea del VenerdĂŹ, epoca Seldjoukine 1100 d.c.. Foto O. Goujon


Isfahan. Ragazza dopo rinoplastica al bazaar. Foto O. Goujon


Un grande passato La vitalità di questo paese “ragazzino” in cui più di metà della popolazione ha meno di 25 anni, radicato alle sue millenarie tradizioni ma così desideroso di fare un balzo nel futuro, emerge in tutta la sua forza ammaliante in un viaggio. Dentro moschee centenarie, imam barbuti “salmodiano” ad alta voce, appena fuori risponde la musica rock a tutto volume che esce dagli iPod nel crocchio dei giovani. Viaggiando lungo le sue strade asfaltate e polverose, visitando le città e i siti storici, perdendosi nei bazar, così come sostando nei sonnacchiosi villaggi, si incontrano sguardi radiosi e una generosità che cancella ogni stereotipo su questo paese dell’ “Asse del Male”. La città più sorprendentee è Isfahan, culla dell'arte islamica, affacciata sul fiume Zayandeh. Sapeste quante cose possono accadere bevendo una tazza di “chai” sul Ponte Si-o-Seh, seduti nella sua più antica sala da tè, come assistere a una tenzone improvvisata di poesia tra fan di Hakim Firdusi e lettori appassionati di Hafez, quasi fossero star dell’idolatrata nazionale di calcio anziché i massimi poeti nazionali. E soprattutto vedere centinaia di giovani sfrecciare sopra motorette colorate. Le ragazze siedono dietro, i capelli nascosti sotto il chador, ma i jeans sono attillati, il rossetto carminio esalta le labbra piccole e carnose. Tutte tengono stretto il telefonino nella mano. Gli occhi lanciano sguardi persiani intensi e misteriosi come certi venti i qui. “Ta’arof, ta’arof”. A un crocicchio in mezzo al nulla, dal furgoncino davanti a me un giorno sono scesi due ragazzi che mi hanno allungato un’anguria. Non c’è stato nulla da fare, non hanno voluto soldi: “Ta’arof, ta’arof”, mi hanno detto, pronunciando la formula magica della cortesia iraniana. Luca Bergamin


Iraq

In cielo solo la luce delle stelle di notti senza luna, eravamo d’inverno e faceva freddo, e buio presto. Trovare l’albergo fu un’impresa, perso com’era nella campagna di Mosul in fondo a strade sterrate senza illuminazione e senza cartelli. Ma il concitato dialogo tra l’autista e la guida alla fine ebbe ragione anche delle mappe stradali assenti. Eccolo lì, l’hotel El Hadr, un’ombra nera appoggiata nella pianura che domani ci avrebbe portato ad Hatra. Hatra, una delle dieci città perdute di Tayyab, la città che seppe resistere a Traiano e a Settimio Severo, la Splendida dove i templi erano fusione di stile greco, sumero, siriano, arabo. La città della scena iniziale de L’Esorcista e tra le cui nobili rovine hanno fatto jogging gli ufficiali della 101st ABN durante la Prima Guerra del Golfo. Michele Molinari

Khorsabad. Uomo nel sito archeologico. Foto N. Tondini



Baghdad. Venditori di dolciumi vicino al Museo Archeologico. Foto M. Molinari

Turisti in barca sullo Shatt al-Arab. Foto O. Goujon




Garbala. Iracheni nella moschea di Hussain. Foto N. Tondini

Nimrud. Bassorilievo con la borsa del re. Foto M. Molinari


Nassiriya. Le ultime cartoline. Foto O. Goujon

Agargouf. La Ziggurat. Foto N. Tondini




Baghdad. Il bazar. Foto M. Molinari

Baghdad: soap seller. Foto M. Molinari


Uruk, binari di missione archeologica. Foto N. Tondini

Bagdad. Bush... all’entrata dell’hotel Al Racheed. Foto N. Tondini



C’era una volta Bagdad Nel 2002 Bagdad era una città dove la pace era solo fittizia. Era piegata e sofferente. Ma non arresa. Monumenti orgogliosamente in piedi. Auto vetuste, ma in funzione. Rive del leggendario Tigri come sempre coperte di vecchi tappeti ad asciugare. Ragazze in jeans maglietta. Ragazzi su scassate biciclette e motorini. Davanti all’università, studenti con i libri in mano. Niente cellulari, niente pc. Nei mercati, donne in coda con sporte di paglia da riempire di zucchine e melanzane, formaggi di pecora, pesce di fiume. Il cibo di tutti, locali e visitatori. Persino nel famigerato hotel Al Rasheed, lussuoso set dello spettacolo “pirotecnico” inscenato da Peter Arnett durante la Guerra del Golfo nel 1991. Nel 2002 l’hotel Al Rasheed aveva messo qualche pezza ai buchi dei bombardamenti e funzionava a metà. Ascensori fermi a ripetizione, hall e sala da pranzo segnati dalla guerra, camerieri con divise scombinate. In terra, sulla porta di entrata, la testa di Bush padre: un tondo in mosaico con scritto “Bush is criminal”. Chi entrava lo doveva calpestare per forza. La gente di Bagdad - guide, autisti, camerieri, custodi dello splendido Museo - parlava poco. Ma dopo giorni di convivenza in bus, di scarpinate a Ninive, a Ur e Uruk, a Nimrud e Babilonia, le guide aprivano cuore e bocca. E nel loro inglese incerto, erano gentili ma categorici. “Non dire che ti ho detto questo…” diceva la guida Khalif, ingegnere prestato al turismo.”Mi gioco la vita”. E supplicava: “non fotografate i cartelloni, no quell’edificio, è una casa di Saddam, è un presidio militare, è la sede della polizia….” I grotteschi, giganteschi, manifesti del Rais, travestito in mille modi - in gessato borghese, in spezzato estivo, paludato da Nabuccodonosor, impettito in divisa - saltavano fuori ad ogni angolo. Laura Mulassano


Un deserto color carroarmato Fumava, tanto, e quando non fumava, ma anche quando fumava, ci guardava uno per uno con occhi neri, liquidi e profondi ma senza espressione che si riflettevano nello specchietto retrovisore a lato dell’autista. Quando s’andava a visitare rovine archeologiche, o l’unica rovina rimasta della guerra di cinque anni prima, un rifugio lasciato a pezzi come memento alla ferocia yankee, gli sfilavamo a fronte e con un annuire del capo ci salutava, uno per uno, come contandoci. Nei rari momenti in cui perdeva la battaglia con la memoria sfissava in un punto all’orizzonte oltre il parabrezza sporco e per qualche minuto si dimenticava di fumare. Intervalli brevi, sofferenze dalle quali riusciva a sfuggire con uno scrollare di spalle e un borbottio accompagnato da uno sputo pesante fuori dal finestrino, e poi di nuovo la mano a un pacchetto dal quale le sigarette uscivano una per una con uno scatto misurato ed esperto del polso. “Ma non ti farà male fumare?”, gli ho chiesto evitando le banalità un giorno che quasi mi centra un piede con lo sputo liberatorio La risposta s’è fatta attendere il tempo d’un lungo sguardo fisso nei miei pensieri. Ero sicuro avesse la mia età, ma molto più pelo sullo stomaco, dovevo mostrare rispetto. “Dopo due guerre sai cosa me ne frega di morire”. Così, senza punti esclamativi, come unaboccata di fumo che esce per inerzia Trincea e maschere a gas. Poi bombe dal cielo come se piovesse e carroarmati con l’aria condizionata quasi invisibili nel deserto color del carroarmato. Gli piaceva molto raccontare di quel mondo così privato, condiviso con migliaia d’altri soldati ma reietto sul pulman-navicella-nello-spazio di 40 “cani al servizio degli Ameriki”. Mica m’ero offeso di fronte a tanto candore, e della verità poi? Michele Molinari


LIBIA

Lo vedevo armeggiare alle prime luci del mattino, con quel lungo velo di cotone. Sembrava impossibile che quella fascia bianca potesse farsi turbante, anzi tagelmust, come precisava. Pochi gesti eleganti e opplà, il cotone si increspava come il deserto e disegnava un morbido tendaggio sul capo, lasciando a un’estremità il compito di velare il collo e la bocca. Mi veniva in mente il nodo della cravatta, e quei gesti meccanici che si imparano da ragazzi. Si copriva, infine, come se dovesse partire con la carovana di dromedari. Invece, inforcava occhiali a specchio, e saliva sulla Toyota 3000. L’uomo blu, senza l’indaco che aveva indossato a 25 anni, si era trasformato in un desert taxi driver. Valerio Griffa

Acacus. Accampamento tra le dune. Foto V. Griffa



Tripoli. Uomo con narghilĂŠ. Foto G.Castelli Gattinara

Deserto del Fezzan. Donne tuareg a una cerimonia. Foto G.Castelli Gattinara




Al Aweynat. Tuareg sui cammelli. Foto G.Castelli Gattinara

Cirene. Statua di Afrodite. Foto G.Crozzoli


Tadrart, Acacus. Pitture rupestri XI secolo A.C. Foto V. Griffa

Cirene. Tempio di Apollo. Foto G. Castelli Gattinara




Deserto. Pneumatico che funge da segnale. Foto G. Andreini

Deserto del Fezzan. Tuareg. Foto A. Gandolfi, Parallelo Zero


Germa. I laghi Ubari. Foto G.Castelli Gattinara

Kabaw. Uomo nell’antico granaio. Foto G.Castelli Gattinara



Arenaria color arancia A Sèrdeles i fuoristrada si fermano per l'ultimo rifornimento di carburante. Taniche che scendono dai portapacchi, stracci e imbuti improvvisati, in pochi attimi la pompa di benzina si anima di gente. “Mori, Mori è tornato”, subito un capannello di uomini col turbante circonda la macchina del paletnologo Fabrizio Mori che negli anni ‘50 attraversò l'Acacus a dorso di dromedario, scoprendo le pitture rupestri che hanno reso questo luogo famoso in tutto il mondo. Ad attenderlo, come sempre, c'è Sheik Omar, la guida tuareg conosciuta nel 1958 a un incontro di carovane nel deserto. Gli occhi scuri, quasi neri, del nomade risaltano sotto lo shesh bianco che ne incornicia il volto. Un abbraccio commovente accompagnato da risa, strette di mano e pacche sulle spalle mentre la lingua schiocca veloce tra le labbra dei due amici che parlano tra loro in tamashaq. Poi, il convoglio riparte lasciandosi alle spalle l'oasi, la polvere, le acacie spinose con le buste di plastica impigliate. L'ambiente torna pulito. A est si profilano le linee dorate dell'erg Uan Kasa, un filo giallo di dune appena percepito; a ovest i piccoli rilievi diventano montagne sempre più importanti e vicine. L'arenaria si colora di arancio e lingue di sabbia avviluppano le prime torri isolate. Uno dopo l'altro si susseguono gli ingressi dei canyon che incidono il massiccio da est. Poi, con una decisa sterzata, Sheik Omar punta dritto verso la falesia, aggira uno sperone e, con un'abile manovra, conduce il fuoristrada sulla cima di una duna. Il professore scende, è emozionato. Ci mostra in lontananza il punto dove monteremo le tende al centro di un anfiteatro circondato da guglie, archi e meravigliose formazioni rocciose scolpite dall'erosione. Il deserto è la sua seconda casa e per un mese sarà anche la nostra. Giulia Castelli Gattinara


...e dune policromatiche La giraffa si muove tra le acacie. Il leone assalta le gazzelle. L’elefante barrisce minaccioso davanti al predatore. C’è un mondo pastorale, antico, disegnato con stupore e ingenuità, tra le rocce dell’Acacus, Libia del sudovest. Uno storyboard che incanta, come quando si vanno a vedere i vecchi album di fotografie, e ci si sofferma increduli a paragonarle con l’oggi. I cacciatori del paleolitico avevano foreste e savane a disposizione, e la necessità di descrivere la meraviglia che vedevano, vissuta anche solo come abbondanza di cibo. Oggi è rimasta la sabbia. Bianca, gialla, ocra, rossa, nera. Un universo semovente, che si compatta in dune e avvallamenti, con l’unico appiglio di piante e cespugli. Ma non pensate ad un terreno fatto di dune e basta. C’è la varietà, nel deserto. E “il deserto non si racconta, si vive”, come diceva lo scrittore nigeriano Mano Dayak, portavoce dei tuareg e aiutante di Bertolucci per Il tè nel deserto. Il parco nazionale del Tadrart Acacus, è protetto dall’Unesco per la sua geologia e la sua storia, per i fiumi fossili, le rocce erose dalla fantasia del caso, le dune policromatiche e sinuose, le pitture preistoriche negli anfratti. Un altopiano di arenaria, scurita da ossidazioni di manganese, attraversato da fiumi fossili che hanno scavato canyon profondi, per poi scomparire. Acqua e aria hanno disegnato colonne, archi, gallerie, balconi. Sembrano segnali, messi sulla strada del viandante. Surrreali sono le piccole zucche tonde, che sembrano spuntare dal nulla, e rotolare nel nulla: citrullus colocinthis, all’anagrafe vegetale, i cui frutti sferici vagano per il deserto cercando un luogo favorevole per far attecchire i semi. È la metafora dell’uomo nel deserto - o nella vita – che, come un citrullo, cerca di lasciare un piccolo segno di sé. Valerio Griffa


Siria All’inizio è una presenza solitaria. Uno scorpione nero si affaccia sospettoso all’imboccatura del suo canyon privato, la fessura di un bassorilievo spezzato che rappresenta un’immagine femminile. Una divinità o forse Zenobia in persona, lo sguardo altero non stonerebbe affatto con il leggendario caratteraccio di una regina che sosteneva di discendere da Cleopatra e, dopo avere sfidato Roma, era finita carica di catene d’oro dietro il cocchio dell’imperatore Aureliano in trionfo. Da allora vento e sabbia hanno trasformato Palmyra in una gigantesca scultura di pietra e a ripopolarla ci hanno pensato le tribù di scorpioni che si affannano lungo la spina dorsale di colonne della Grande Strada Colonnata. Mentre l’azzurro della notte spegne gli ocra, e ti assale l’irreprimibile certezza che la loro microscopica quotidianità seppellisca senza pietà millenni di diatribe umane. Enrico Martino

Maalula. Monaco nella cripta di S.Tecla. Foto E. Martino



Aleppo. La cittadella vista dal basso. Foto E. Martino

Damasco. Moschea Umayyad. Foto E. Martino




Aleppo. Venditore nel suq. Foto E. Martino

Palmyra. Tempio di Baal. Foto M. Santini


Damasco. Interno di Palazzo Azem. Foto G. Dal Magro

Damasco. Il cortile della moschea Saida Ruqquaya. Foto M. Santini




Strada per Damasco. Uno dei tanti taxi Mercedes. Foto M. Santini

Hama. La grande ruota o “noria�. Foto E. Martino


Palmyra,dintorni. Una ragazzina in un accampamento beduino. Foto E. Martino


Fra credenze e tradizioni Un pugno di case azzurre nelle viscere di un canyon, una notte illuminata da centinaia di falò che punteggiano una sequenza di aridi tavolati. Migliaia di pellegrini ballano e cantano fra le case illuminate a giorno di Maâlula, andranno avanti tutta la notte fino all’alba quando le prime luci illumineranno il guscio di pietra della chiesa ortodossa di San Giorgio. Festeggiano il ritrovamento della Santa Croce da parte di Sant’Elena, madre di Costantino, ma celebrano anche qualcosa di più profondo, l’orgogliosa rivendicazione di una delle tante anime della Siria, quella cristiana. Un’identità che a Maâlula parla ininterrottamente da oltre due millenni in aramaico, la lingua franca dell’Anno Zero dei mercanti della Palestina romana e degli amministratori dell’impero persiano degli Achemenidi, per finire con Gesù Cristo che in aramaico disse, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Duemila anni dopo i pellegrini salgono quassù in cerca di una risposta, magari all’incubo di un futuro in cui il cristianesimo si estingua proprio dove era nato, e dove ancora oggi si ritrovano le radici dell’Occidente. I cristiani d’Oriente, le “Pietre Viventi, sono un’incredibile capsula di storia intatta nel tempo che ha attraversato millenni di scontri di civiltà e fumose disquisizioni teologiche. Qui, i racconti dei Vangeli si trasformano in un rimando continuo fra tradizione e realtà che può anche creare un vago senso di vertigine temporale. Riti immutati dai primi secoli dell'era cristiana, permeati da un senso del sacro perduto in Occidente, rivivono davanti a icone dorate di santi barbuti mentre le sagome scure dei monaci sfilano silenziose in un labirinto di lampade a olio, neon evanescenti e foreste di candele. Enrico Martino


SUDAN

Ho ringraziato il dio Amon-Ra, il dio del sole, di essere stato in Sudan. Ho sfiorato con la mano le colonne della dea Hator e ho sacrilegamente cavalcato uno dei quattro arieti di pietra che fanno una muta guardia alla piana di Karima. Ho ascoltato le voci delle Huri, le meravigliose creature del paradiso musulmano, che muovono le loro ombre diafane tra le piramidi dimenticate dei faraoni neri a Nuri, Meroe, El Kurru. Ho seguito il corso del Nilo su a nord, oltre Khartoum e come Chatwin mi sono chiesto: “ Che ci faccio io qui ? “ Sono arrivato in Sudan per leggere un libro di storia coperto dalla polvere del deserto, per vedere quello che pochi hanno visto. Ho percorso le piste sabbiose in cerca del mitico regno di Kush, figlio partenogenetico del faraone nubiano Piankhi che nel 725 a.C. conquistò tutto l’Egitto, dando vita ad una breve, raffinatissima civiltà di cui si sta perdendo anche l’esile ricordo. Perché queste piramidi sono lasciate andare alla deriva in un mare di sabbia, abbandonate in un silenzio di una prigione senza confini, come un nomade assetato, disperso nel grande erg? Nico Tondini Deserto. Giovani guerrieri. Foto A. Rocca



Karima. Le piramidi viste da Jebel Balkal. Foto O.Goujon

Musawwarat El Sufra. Tempio degli elefanti. Foto A.Prati




Old Dongola. Rovine di chiesa copta. Foto N. Tondini

Deserto di Bayuda. Trasporto pubblico. Foto O. Goujon


Pressi Yirol West County. Accampamento dei Dinka, popolazione seminomade. Foto A. Rocca

Pressi Yirol. Donna Dinka con nipotino. Foto A. Rocca




Donna di un villaggio. Foto A. Prati

Deserto di Meroe. Raccolta d’acqua da un pozzo. Foto D. Pellegrini


El Kurru. Tombe di Tantamani. Foto N. Tondini


Sabbie dimenticate Amare questo vuoto smisurato fatto di deserti, sabbia, piramidi meroitiche, sacri templi di Hator e stente acacie. Sajal è una scelta da anime solitarie, da viaggiatori d’antan, da avventurieri affezionati al ricordo di un’Africa perduta, ovunque, ma non in Sudan. All’ombra virtuale delle melanconiche melodie religiose dei muezzin che si perdono sopra Al Jazira, la confluenza tra Nilo Azzurro e Nilo Bianco, ho ritrovato con gioia i bar trasandati dove l’odore acre delle sigarette locali Tusker si mischia al profumo di tè e caffé forte e l’aria è satura delle volute di fumo che ribollono nell’acqua dei narghilè. Totale l’assenza di venditori molesti e niente battaglie fino all’ultima sterlina sudanese per bassorilievi in miniatura di Ramses il Grande o statuette del dio Anubi accucciato. Niente in Sudan è europeizzato, questa terra dalle geometrie piramidali grandiose è stata dimenticata in questo angolo sabbioso di continente. Per le strade polverose e sconnesse, i cesti di karkadè dalle foglie amaranto, i pani arabi incartati nelle pagine lise di Al-Rayaam, i chioschi di konafa, esalano vapori di Sudan e sono una damnatio memoriae per quelli che, come me, amano voltarsi indietro spesso, alla ricerca di un passato remoto sconnesso e popolano, dove le sure di Muhammad e la mano protettrice di Fatma sono gli unici amuleti, armi spirituali contro il vuoto del vivere. Camion sgangherati, carichi di contadini fellahin, attraversano il deserto passando per questa via della sete abitata dal malvagio dio Seth. Fanno la spola verso gli argini del Nilo trasportando queste anime prave avvolte nelle loro jellabiye immacolate, con i riccioli neri racchiusi nell’Imma, il turbante di cotone che svolazza sotto le folate del vento harmattan che soffia da nordest, dove l’orizzonte ha un’esile linea di confine sfumata nelle dune barcane. Nico Tondini


yemen

Su e giù sulle dune, accompagnati da un valzer di Strauss. Inusuale in un deserto di sabbia in fondo all’Arabia. Eppure le note fuori posto del Bel Danubio Blu e gli sbandamenti da ubriaco della Toyota danno una sensazione straniante di euforia. Il beduino-autista ogni tanto si ferma per una sigaretta. Ammicca ironico e spara una raffica nel nulla con il suo kalasnikov. Esibizione gratuita. Si riparte. Su e giù ancora, sempre Strauss. D’improvviso Shibam, la Manhattan del deserto, spunta dal nulla, fiorisce dalla sabbia. Torreggiante con i suoi grattacieli di fango, miracoloso antico villaggio, piantato nel letto di un fiume asciutto. Il verde pallido, senz’acqua, stentato, di qualche cespuglio e qualche palma. Umani pochi. Solo donne che guidano capre striminzite. Impenetrabili sagome nere, sinistre, con cappelli a punta, come le streghe delle favole. Con guanti neri reggono alti bastoni. Passano senza voltarsi mai. Shibam va vista al tramonto, dalla sponda opposta. Va goduta in silenzio. E qui è assoluto. In gruppo, pochi uomini, stesi su tappetini logori, pregano rivolti alla Mecca. L’ultima preghiera della sera. Sotto le mura di Shibam, città miraggio. Laura Mulassano Marib. Tempio sabeo della luna. Foto D. Pellegrini



Wadi Hadramawt. Donna nomade. Foto E. Martino

Mar Rosso, sud. Rientro dalla pesca. Foto P. Orler




Socotra. Alberi in fiore. Foto A. Gandolfi. Parallelo Zero

Wadi Hadramawt, fra Tarim e Shibam. Donne con i tipici copricapo. Foto A. Prati


Mercato sulla strada per Sana’a . Foto O. Goujon

Shibam. I grattacieli di fango. Foto G. Dal Magro




Shibam. Bambine vestite a festa. Foto A. Prati

Shibam. Donne guardano la corsa di cammelli. Foto E. Martino


Hababa. Prelievo d’acqua da una cisterna. Foto D. Pellegrini


Per sentieri a strapiombo

S’inerpica alta e stretta, con tornanti a rischio, la strada che sale agli oltre 2500 metri di Shahara (o Shihara), il Nido delle Aquile. Alla guida del pick-up un ragazzino che mastica qat e che ha sulle ginocchia un kalashnikov. D’accordo, il qat è una droga leggera e l’arma è arrugginita, ma l’autista non sembra avere più di 14 anni. Le ruote del 4x4 sono lisce, come le pietre del pavé, e la strada, o meglio il sentiero è a strapiombo. Tuttavia, l’emozione più forte non è il percorso, è il villaggio fortificato che, d’un tratto appare, arroccato in vetta. Le case sono alte anche cinque piani, le soglie di porte e finestre in pietra chiara e le strade sono lunghe e strette scalinate. Come resort, un tipico funduq dove si mangia tutti insieme seduti sui materassini a fiori che diventeranno poi giaciglio per la notte. Se il tramonto a Shahara incanta non è niente confronto all’alba che illumina pian piano le cime più alte per arrivare a scaldare le case e a scendere verso la valle fino a illuminare il mitico ‘ponte dei sospiri’, ardita costruzione in pietra che scavalca un canyon profondo circa 100 metri. Qui lo chiamano Al hamdu lilah: Lode a Dio! E, infatti, questa opera d’ingegneria del XVII secolo ha del miracoloso. Collega due picchi e si attraversa solo a piedi: un’ideale posizione strategica per controllare chi cercava di raggiungere il villaggio. Intorno gli antichi terrazzamenti di caffè moka ora hanno lasciato il posto a coltivazioni di qat: meno buono degli ottimi chicchi, ma di certo più redditizio. Giosi Sacchinii


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