NEO
NEOS
PASS CINA - ITALIA CAPODANNO CINESE I FIORI DELLA BUONA SORTE CIBO ALTA CUCINA: UNA CENA DA GOURMET LUSSO RICCHI, ANZI NO, RICCHISSIMI
© GIOVANNI TAGINI
ARTE CONTEMPORANEA GALLERIE IN FABBRICA
PASS Direttore: Giosi Sacchini Hanno collaborato: Gulio Andreini, Luisa Espanet, Silvia Frau, Gianna Melis, Francesca Piana, Maddalena Stendardi, Giovanni Tagini, Pietro Tarallo, Mimmo Torrese, Graziella Vigo Da un’idea di: Francesca Piana, Silvia Frau, Maddalena Stendardi, Gianna Melis Progetto grafico e realizzazione: Anna Eggertz
Qualora si riscontrasse una violazione dei diritti d’autore, preghiamo di contattare la Redazione (neos.redazione@gmail.com) / If you find any violation of copyright, please contact the editorial staff (neos.redazione@gmail.com)
EDITORIALE Il mio primo viaggio in Cina è stato nel 1983. Mao Tse Tung era ormai solo un ritratto che campeggiava sulla porta della Città Proibita di Pechino e il Paese si apriva al turismo. Tutto era sorprendentemente diverso e un po’ triste. Gli sciami di bici, i palazzoni popolari, i tazebao, i vecchietti che facevano tai chi e gli antichi monumenti dipinti con colori sgargianti per far colpo sul turista. Mentre la gente vestiva tutta uguale: pantaloni neri e camicia bianca. E lo shopping si faceva ai Grandi Magazzini di Mao. Alla fine degli Anni Novanta ci sono tornata, in navigazione sullo Jangtsekiang, il Fiume Azzurro che azzurro non è, per godere l’ultimo spettacolo delle Tre Gole prima che la gigantesca diga di Yichang seppellisse sott’acqua villaggi, templi e un po’ di storia. Erano i primi passi verso la modernizzazione del Paese che, da allora, ha galoppato senza sosta verso il futuro. La Cina corre veloce. La gioia di vivere va oltre i colori del Capodanno cinese. Lo si capisce dall’arte contemporanea, che supera ogni aspettativa, dalle scommesse alle corse dei cavalli. E il lusso, poi, si prende gioco del libretto rosso di Mao: ristoranti a 5 stelle e negozi dei grandi brand internazionali brillano nel centro di Shanghai. E che dire dell’entusiasmo degli italiani che hanno scelto di andare a vivere e lavorare là? La nuova Cina è già qui. Basta vedere quante limousine bianche si fermano davanti a panorami e monumenti del nostro Paese per la foto ricordo di sposi con gli occhi a mandorla… L’Italia piace tanto ai cinesi che da noi trovano spazio per la loro nuova creatività, a cominciare dalla moda: elegante, fantasiosa, colorata. Tanto che le top model del talent show di Guanxgi Television hanno vinto la possibilità di sfilare sulle nostre passerelle. Per non parlare degli chef che sfidano con piccole opere d’arte culinaria i cuochi made in Italy. E sono sempre di più gli italiani che vanno a scuola di cinese e i cinesi che lavorano qui ad alti livelli. Che fare? Tornare in Cina o viverla qui, in Italia? Tutto questo e tanto altro su PASS, il magazine dei soci NEOS, scritto da viaggiatori per viaggiatori.
Buon viaggio a tutti! Giosi Sacchini
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Australia, Cook Islands, Fiji Islands, Hawaii, Kiribati, Marshall Islands, Micronesia, Niue, Norfolk Island, Nuova Caledonia, Nuova Zelanda, Palau, Papua Nuova Guinea, Pitcairn Island, Polinesia Francese, Samoa Americane, Solomon Islands, Tokelau, Tonga, Tuvalu, Vanuatu, Wallis & Futuna, Western Samoa, Giri del Mondo
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Abu Dhabi, Armenia, Azerbaijan, Bangladesh, Bhutan, Brunei, Cambogia, Cina, Corea del Nord, Corea del Sud, Dubai, Filippine, Georgia, Giappone, Giordania, India, Indonesia, Iran, Israele, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Laos, Libano, Maldive, Malesia, Mongolia, Myanmar, Nepal, Oman, Pakistan, Qatar, Siria, Sri Lanka, Taiwan, Tajikistan, Thailandia, Tibet, Timor Est, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam, Yemen
SOMMARIO PASS N. 2 - MARZO 2015
20
Cina Italia
CAPODANNO CINESE
I FIORI DELLA BUONA SORTE DI FRANCESCA PIANA
30
ARTE CONTEMPORANEA 50 MOGANSHAN ROAD DI MIMMO TORRESE
44
SCOMMESSE
QUANDO IL GIOCO SI FA DURO
MODA
94
DI NATURA ELEGANTE DI LUISA ESPANET
TALENT SHOW
FOTO DI GRUPPO CON MODELLE DI GIANNA MELIS
CIBO
110
METTI UNA SERA A CENA... DA GOURMET
DI LUISA ESPANET
DI FRANCESCA PIANA
54 LUSSO
MATRIMONI
RICCHI, ANZI NO, RICCHISSIMI DI MADDALENA STENDARDI
64 RICORDI
LA MIA PECHINO, VENTʼANNI FA FOTO DI GRAZIELLA VIGO
72 CIBO
IL BELLO, IL BUONO E... DI PIETRO TARALLO
80 RITRATTI
I MARCO POLO 3.0 DI GIANNA MELIS
102
124
SAPESSI COME (NON) È STRANO SPOSARSI A MILANO DI LUISA ESPANET
LINGUA
130
CHE CARATTERE! DI SILVIA FRAU
RITRATTI
138
CINESE A CHI?
DI GIANNA MELIS
SHANGHAI la torre
“perla dʼoriente”
e il fiume hangpu, bund
6 PASS BRASILE
7
PASS © - BRASILE Mimmo Torrese
SHANGHAI
il giardino del mandarino yu, città vecchia
8 PASS© Giovanni BRASILE Tagini
PASS - BRASILE
9
HONG KONG
al trucco per l始opera cinese, ko shan theatre, kowloon
漏 Giulio Andreini 10 PASS BRASILE
PASS - BRASILE
11
12 PASS Tagini BRASILE © Giovanni
SHANGHAI
i grattacieli di pudong
13
visti dal bund
PASS - BRASILE
© Mimmo Torrese 14 PASS BRASILE
SHANGHAI
shopping di lusso sulla west
nanjing PASS road , jing始an - BRASILE
15
16 PASS BRASILE
HONG KONG
cibo di strada al mercato
in wing kut street, central
17
Giulio Andreini PASS - Š BRASILE
IN CINA 2 PASS: IN CINA
A
CIBO SCOMMESSE
RITRATTI SCOMMESSE
CIBO RICORDI
LUSSO
RITRATTI
CAPODANNO CINESE
LUSSO
RICORDI
CAPODANNO CINESE
CAPODANNO CINESE PASS: IN CINA
3
20 PASS: IN CINA
春节 CAPODANNO CINESE PASS: IN CINA
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22 PASS: IN CINA
I FIORI DELLA BUONA SORTE I mercati floreali, gli addobbi rossi, la parata, il cenone, i fuochi d’artificio, le corse dei cavalli, la notte delle lanterne: quindici giorni a Hong Kong per celebrare la Festa della Primavera (春节, “Chunjié”), ossia il Capodanno cinese. DI FRANCESCA PIANA FOTO DI GIULIO ANDREINI
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“ARRIVA LA PRIMAVERA, ARRIVA IL COLORE, i fiori sbocciano
in tutto il loro splendore”, recita una poesiola per la festa che celebra l’inizio della primavera e del nuovo anno ed è nota in Occidente come Capodanno cinese, che nel 2015 è caduto il 19 febbraio. Già prima dell’inizio del nuovo anno lunare, a Hong Kong vengono allestiti grandi mercati dei fiori in una quindicina fra parchi e spazi pubblici, essendo particolarmente sentita la tradizione di abbellire con fiori e piante la propria casa dopo averla pulita di fino, eliminando le vecchie cose e acquistandone di nuove per favorire la buona sorte. Il più bello è quello di Victoria Park, a Causeway Bay, nell’isola di Hong Kong, di solito teatro di lezioni di tai chi chuan e di dibattiti, assemblee ed eventi. Merita anche il Fa Hui Park a Mong Kok, nella penisola di Kowloon, dove si trovano anche diversi mercati di strada, fra i quali quelli degli Uccelli e dei Pesci Rossi, molto amati dai cinesi. Fiori di pesco per il risbocciare dell’a-
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more, fiori di mandarino per assicurare amicizie durature e matrimoni felici, fortunelle o mandarini cinesi (kumquat) e peonie per la prosperità, narcisi per la fortuna, ma anche giacinti e orchidee: i fiori sono di augurio tanto quanto le decorazioni di colore rosso, le buste di carta rossa con omaggi pecuniari, che vengono donate in particolare ai bambini, le poesie scritte su fogli rossi appesi la sera della vigilia alla porta di casa. Bello girare in città nella settimana che precede la festa, quando l’atmosfera è gioiosa, l’affollamento grande e tutti i prodotti tipici sono in vendita. Sulle bancarelle si trova una grande varietà di oggetti, anche legati all’animale che, fra i dodici dello zodiaco cinese, governerà il nuovo anno: il 2015 tocca alla Capra, segno sotto il quale si dice che pochi si vogliano sposare perché si crede che il futuro marito rischi la morte prematura. Gran parte delle attività commerciali sono invece chiuse almeno nei primi tre giorni di festa: allora si
apprezza la possibilità di girare a piedi nell’unico periodo dell’anno senza traffico. La nascita del nuovo anno è un momento sacro, nel quale i visitatori toccano con mano l’importanza delle tradizioni e la partecipazione emotiva della popolazione alla celebrazione più importante del calendario per tutti i cinesi del mondo. I festeggiamenti devono protrarsi per quindici giorni, durante i quali si passa il tempo in famiglia, con visite a parenti e amici, si onorano i defunti, si ringraziano le divinità per i dodici mesi trascorsi e si prega (per i dodici a venire) nelle case e nei luoghi di culto, come presso il celebre tempio taoista Sik Sik Yuen Wong Tai Sin, nella parte nord di Kowloon. E si va ai wishing trees di Lam Tsuen nella zona di Tai Po, nei Nuovi Territori. Si tratta di due frondosi baniani pieni di foglietti di carta di colore oro o rosso. Secondo la tradizione bisogna scrivere il proprio desiderio su un biglietto, con nome e data di nascita, legarlo a una arancia con un lungo filo
rosso e lanciarlo fra i rami dell’albero: se vi rimane impigliato il desiderio si realizzerà. I giorni festivi a Hong Kong sono in realtà solo tre, ma molti prendono anche due settimane di ferie, le più lunghe dell’anno (alcune imprese private concedono fino a quindici giorni, quelle governative non oltre otto). Per il suo clima favorevole all’inizio della primavera, la città attrae per l’occasione migliaia di ricchi cinesi che ne approfittano per fare shopping di lusso. Le celebrazioni si concludono il quindicesimo giorno (cioè il primo giorno di luna piena dopo il Capodanno, che nel 2015 è caduto il 5 marzo) con la spettacolare festa delle Lanterne, quando migliaia di grandi lanterne rosse vengono accese e appese nei templi e piccoli lumi vengono portati per strada dai bambini. È tradizione che dopo cena si faccia una passeggiata, con qualsiasi condizione climatica. Recita un detto cinese: “Dopo che hai camminato cento passi, puoi vivere fino a 99 anni”. PASS: IN CINA
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IL CENONE CON I TUOI… La data della Festa di Primavera può variare, in base al calendario tradizionale lunisolare (nel quale il mese inizia il giorno del novilunio), di circa 29 giorni e cade quindi fra il 21 gennaio e il 19 febbraio del calendario gregoriano, venendo a coincidere con la seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno. A Hong Kong, come in tutta la Cina, le festività iniziano la sera della vigilia, che si celebra in famiglia. Secondo una leggenda, un mostro si aggirerebbe fra le case per divorarne gli abitanti: l’usanza vuole quindi che si radunino i parenti in un’unica abitazione per unire le forze e mettere in fuga il mostro, anche grazie ai poteri del rosso dei decori e al grande chiasso. La città allora è quasi vuota, pochissimi i ristoranti aperti. I cenoni domestici prevedono almeno dieci o dodici piatti, che comprendono come must pesce e pollo, insalata mista con fat choy (muschio nero), jau gok (ravioli a forma di piccoli lingotti), jiaozi e nian gao (dolce di riso). L’abbondanza è importantissima per garantirsi prosperità nell’anno che inizia. Si mangia solitamente dalle cinque alle otto di sera, quando inizia la popolarissima trasmissione televisiva Spring Festival Gala, che non è solo il più importante programma d’intrattenimento in Cina, ma l’evento televisivo più seguito al mondo, con un’audience stimata di 700 milioni di telespettatori. Un gigantesco varietà che, fra balletti e canzoni tradizionali, musica popolare e sketch comici, numeri acrobatici e di magia, si protrae per oltre quattro ore, dalle otto fino a oltre mezzanotte, coinvolgendo trasversalmente più generazioni e mettendo in scena abitudini e passioni dei cinesi in un tripudio di colori rosso e oro. A mezzanotte si fanno scoppiare migliaia di petardi e si assiste ai fuochi d’artificio.
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…E I FUOCHI CON CHI VUOI La Festa della Primavera a Hong Kong è, secondo la rivista americana Forbes, una fra le dieci festività più spettacolari al mondo. A renderla speciale sono, oltre alle corse di cavalli, la parata internazionale per le strade della frequentatissima area di Tsim Sha Tsui a Kowloon e gli straordinari fuochi d’artificio sul Victoria Harbour, dove ogni sera alle 20 si può anche assistere allo show multimediale “Symphony of Lights”, con fasci luminosi multicolore puntati sui grattacieli, che si domina dall’Avenue of Stars. Il giorno del Capodanno cinese, dalle 20 alle 21.45, sfilano i carri allegorici e si esibiscono decine di gruppi e di band con ballerini provenienti da tutto il mondo. Per godere lo spettacolo ci sono appositi padiglioni a pagamento all’inizio del tracciato, presso l’Hong Kong Cultural Centre, oppure ci si può posizionare, come la maggior parte della popolazione, lungo il percorso della parata (vie Canton, Haiphong, Nathan e Salisbury), dove si trovano fra l’altro aperti grandi centri commerciali quali l’Harbour City (7-27 Canton Road), il maggiore di Hong Kong, e iSquare (63 Nathan Road), che occupa un intero grattacielo. Il giorno dopo la scena si sposta a Victoria Harbour, dove ventitré minuti di fuochi d’artificio (costati nel 2014 un milione di dollari) tengono inchiodata una folla immensa su entrambi i lati del braccio di mare che separa l’isola di Hong Kong da Kowloon.
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Si fa festa per le strade, si mangia, ma si prega anche per il nuovo anno (nella foto qui accanto, al monastero di Po Lin; nell’altra pagina, a destra, al tempio di Man Mo). Pagg. 24-25 e 20: gli alberi dei desideri. Pagg. 22-23: la grande parata a Kowloon. Pagg. 18-19: i fuochi d’artificio sul Victoria Harbour.
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DOVE • COME • QUANDO
Hong Kong INFO Hong Kong Tourism Board www.discoverhongkong.com/ eng/see-do/events-festivals/ highlight-events/chinesenew-year-celebrations.jsp
MERCATI DEI FIORI Victoria Park
1 Hing Fat Street, Causeway, Hong Kong (uscita E della Causeway Bay Station).
Fa Hui Park
Mong Kok, Kowloon (uscita C della Mong Kok East Station). Orari: la settimana prima del giorno di Capodanno da mezzogiorno a mezzanotte; il giorno di Capodanno dalla mezzanotte alle 6 del mattino.
TEMPLI Sik Sik Yuen Wong Tai Sin
2 Chuk Yuen Village, Wong Tai Sin, Kowloon (uscita B2 della Wong Tai Sin) tel. 00852-23278141 www.siksikyuen.org.hk
CENTRI CULTURALI Hong Kong Cultural Centre
10 Salisbury Road, Tsim Sha Tsui, Kowloon tel. 00852-27342009 www.lcsd.gov.hk/en/hkcc/index.html Ogni anno ha in programma musica e danze tradizionali, performance e musica etnica ed esposizioni di artigianato, in particolare di produzione delle lanterne.
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当代艺术 ARTE CONTEMPORANEA 30 PASS: IN CINA
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50 MOGANSHAN ROAD È l’indirizzo imprescindibile di Shanghai per gli appassionati di arte contemporanea. Uno dei distretti creativi nati dalla riqualificazione di vecchie fabbriche dismesse, affascinante regno di importanti gallerie e studi di artisti quotati. Ma per chi cerca solo un souvenir di pop art cinese, decorativo ed economico, c’è lo storico mercatino delle pulci… TESTO E FOTO DI MIMMO TORRESE
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È LA CAPITALE ECONOMICA della Repubblica Popolare Ci-
nese, ma è anche un polo artistico di prim’ordine. Shanghai, ventiquattro milioni di abitanti sulle rive del fiume Hangpu, un nastro limaccioso che la penetra facilitandone i traffici, ha un ambiente cosmopolita che ne ha sempre fatto una città di avanguardia. Quando, intorno ai primi anni del nuovo millennio, le vecchie realtà industriali furono fagocitate dall’espansione dell’edilizia residenziale e nuovi centri si affacciarono alla produzione spostando ingenti flussi di manodopera, la municipalità pensò a un riutilizzo delle fabbriche dismesse. Una ex manifattura tessile fu parcellizzata e offerta a bassissimi canoni di locazione. Xue Song, celebre per i collage realizzati inserendo pezzi di carta dai bordi bruciati, fu il primo ad approfittare di questa grande occasione. Arrivato lui, si aggiunsero altri artisti, seguiti dalle più importanti e rispettate gallerie. Era nato 50 Moganshan Lu (cioè Road), più sbrigativamente chiamato M50.
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Oggi più di 120 contenitori espositivi (qualcuno dedicato esclusivamente anche all’arte della tradizione o alla fotografia) e atelier (fra cui quelli dei quotati Zhou Tiehai e Ding Yi) popolano il distretto, che ogni anno attira migliaia di visitatori, divisi fra amanti dell’arte e turisti incuriositi dalla struttura stessa e dall’ambiente, pieno di negozi di arti grafiche, bar e librerie, oltre che di graffiti di grandi dimensioni. Ogni giorno vengono inaugurate nuove mostre, pubblicizzate su variopinti manifestini affissi su immensi cartelloni in prossimità della piazza interna. Qualche galleria ha dimensioni considerevoli, sia in termini di spazio sia in termini di fatturato e di rilevanza mondiale. Una di queste è ShanghART, la prima galleria cinese invitata ad Art Basel, nel 2000: aperta e diretta dallo svizzero Lorenz Helbling nel 1996, quando in Cina quasi nessuno si occupava di arte contemporanea, e trasferitasi nel 2004 da Fuxing Park a Mogashan Lu, dove occupa due grandi e affasci-
nanti spazi, organizza allestimenti ed eventi culturali che richiamano appassionati da tutta la Cina e anche dall’estero. A M50 c’è anche una galleria che parla italiano: è la Aike-Dellarco, diretta da Roberto Ceresia, volato via da Palermo e approdato a Shanghai. Da qualche mese ha persino raddoppiato, aprendo una seconda sede vicina alla prima e anch’essa focalizzata sui giovani. «Cerchiamo di dare una mano ai talenti che, pur avendo molto da dire, hanno difficoltà a esporre», spiega Roberto. Che non si fa mancare, comunque, nomi collaudati, soprattutto nell’arte multimediale. Ma i distretti creativi di Shanghai sono tanti e in continua evoluzione, come la Red Town. Spesso nascono e muoiono nel giro di qualche anno. È sempre una certezza, invece, il MoCA, il museo di arte contemporanea che si trova nei pressi di piazza del Popolo, quasi nascosto all’interno di un parco pubblico. Sede istituzionale caratterizzata dall’elegante design della struttura, ospita mostre
di rilevanza internazionale, mentre nelle sale superiori spesso si svolgono eventi legati al design o alla moda. Piccole gallerie si possono trovare nell’enclave creativa di Tianzifang a Taikang Lu (French Concession) e nella zona di Antique Market in Dongtai Lu, il tradizionale mercatino quotidiano di cianfrusaglie che pare sia destinato a scomparire per lasciare il posto a nuove costruzioni. Qui si possono anche trovare i tipici quadri su tela “seriali” dipinti da studenti delle belle arti o da pittori a “cottimo”. Soggetti di pop art cinese o legati alla tradizione, decorativi e molto economici, specie se non ci si sottrae alla contrattazione (altrimenti si rischia comunque di pagare il triplo del prezzo di mercato). Chiaramente si tratta di pezzi paragonabili ai souvenir. Chi volesse portare a casa un’opera artistica di livello deve rivolgersi alle gallerie di Moganshan Lu, dove è possibile comprare a prezzi notevolmente più bassi di quelli praticati in Europa. PASS: IN CINA
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Xue Song (Anhui, 1965).
Chi è chi a Shanghai
Realizza collage di pezzi di carta, alcuni con i bordi bruciati, altri no. Nei primi anni Novanta il suo studio andò a fuoco e tutte le opere andarono distrutte. L’artista prese le ceneri dei suoi vecchi lavori e le utilizzò per crearne di nuovi. Da allora questa è la sua cifra, letta come una rinascita non solo personale, ma della cultura cinese dopo Mao.
Xu Zhen (Shanghai, 1977).
Incorpora pittura, installazione meccanica, video, fotografia e performance anche in un’unica opera. Capace di disarmare la retorica politica con l’ironia, genera importanti discussioni sulle aspettative del marchio e le convenzioni sulla produzione creativa e autoriale (dal 2009 firma le sue opere come MadeIn Company, “società di creazione di arte contemporanea”, Zhou Tiehai (Shanghai, 1966). all’interno della quale nel 2013 ha Pensa le sue opere, le crea al comcreato il brand “Xue Zhen”). Ha puter e poi si rivolge agli assistenti esposto alla Biennale di Venezia, affinché le realizzino fisicamente. al Museum of Modern Art di Si appropria delle immagini “classi- New York e alla Tate Liverpool. che” (da Leonardo da Vinci, Goya Info • MadeIn Company: e Ingres a Jeff Koons, Richard Bldg 12, Sheshan Club, 5555 Prince e Maurizio Cattelan), sosti- Shenzhuan Lu, tel. 0086-21tuisce le pennellate con l’aerografia 62504569; www.madeincompany. e inserisce elementi assurdi (per com/en/produce.asp esempio la testa di cammello su corpi umani). Ha esposto al WhiLiu Dao (Shanghai, 2006). tney Museum di New York alla Fondato nella galleria Island6, è un Biennale di Venezia. È stato diret- collettivo composto da performer, tore del Minsheng Art Museum. artisti multimediali, curatori, scrittori, critici d’arte e ingegneri che Ding Yi (Shanghai, 1962). realizzano opere che firmano tutti: È considerato uno dei più imuna pratica che si contrappone a portanti pittori astratti in Cina. I quella di autori con tanti dipendensuoi grandi quadri sono composti ti che non vengono mai citati. La di “x” e “+”, marchio distintivo del produzione si concentra su instalsuo lavoro. Una reazione al tralazioni interattive (soprattutto con dizionale literati painting cinese. Led) in cui elementi cinesi (gru, Se inizialmente costruiva reticoli carta tagliata, carta di riso e tutto monocromatici con nastro adesivo l’immaginario comunista) vengono e righello, cominciò poi a lavorare rielaborati in una sorta di “elettria mano libera. Pur continuando ficazione” della vita tradizionale. a usare una griglia come base, sperimentò nuovi materiali, colori Zhu Jia (Beijing, 1963). e tecniche, utilizzando supporti Dal 1980 lavora esclusivamente meno formali come la carta ondu- con la fotografia e i video. La sua lata, i paraventi e i tessuti tartan. opera, stilisticamente minimalista,
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interroga gli aspetti della quotidianità e il difficile rapporto fra l’arte contemporanea e lo Stato. In Forever e Continous Landscape, Zhu usa la sua macchina fotografica in un percorso attraverso le città cinesi, offrendo nuovi mezzi per dare un senso a un ambiente urbano in rapida evoluzione.
Yang Fudong (Pechino, 1971).
È considerato il più grande direttore della fotografia e fotografo cinese, autore di videoinstallazioni. La sua opera approfondisce il tema della formazione della personalità degli individui attraverso il mito, i ricordi e il vissuto, raccontando come la rapida modernizzazione della Cina abbia sovvertito i valori e la cultura tradizionali. Il popolo cinese è rappresentato come alternativa al potere della politica.
Liu Jianhua (Ji’an, 1962).
Comincia lavorando nella fabbriche di porcellana della sua provincia natale, prima di avviare gli studi di scultura. Celebri le sue piccole figure in porcellana poco vestite, le donne senza testa e il modello dello skyline di Shanghai costruito con fiches e dadi. Info • Liu Jianhua Studio: Room A, Building 5, No.18 Wuwei Road, Putuo. www.liujianhua.net
Birdhead (Shanghai, 2004).
Collettivo fotografico composto da Ji Weiyu (1980) e Song Tao (1979). Il soggetto del loro lavoro è Shanghai, in tutti i suoi aspetti. Hanno esposto al Moma di New York.
Qui, un’opera a Red Town. Pagg. 32-33: “In Here, Out There” di Pedro Cabrita Reis, al Rockbund Art Museum. Pag. 30: un esempio del recupero degli spazi industriali a beneficio della creatività a M50. Pagg. 28-29: a ShanghArt, “100 Years in 1 Minute” di Hu Jieming (1957), pioniere dell’arte digitale e della video installazione in Cina. Pagg. 36-37: Museum of Contemporary Art (nella foto a sinistra, appeso al muro, unIN ritratto PASS: CINAdi Ai Weiwei).
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I BIG (E I BRAND) DELL’ARTE CINESE Tranne qualche rara eccezione, vivono e lavorano a Pechino.
Ai Weiwei (Pechino, 1957).
Fotografo, architetto e scultore, è un celebre attivista per i diritti umani (le sue opere hanno quasi sempre un significato politico). Lavora nel suo studio alla periferia di Pechino; ha il permesso di viaggiare in Cina, ma gli è stato ritirato il passaporto. Info • http://aiweiwei.com
Cai Guoqiang (Quanzhou,
1957). Dal 1995 risiede a New York. È noto per le sue performance con micce ed esplosivi, eventi pirotecnici registrati in fotografie o video. Nelle installazioni nelle quali usa
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rocce, terra, erbe medicinali della sua terra d’origine, la storia e la cultura orientale si confrontano con aspetti della moderna tecnologia. Nel 1999 ha vinto il premio internazionale della Biennale di Venezia; nel 2008 il Guggenheim di New York gli ha dedicato una retrospettiva. Info • www.caiguoqiang.com Wang Guangyi (Harbin, 1957). Fra i protagonisti del nuovo corso dell’arte cinese, è conosciuto soprattutto per il suo ciclo di dipinti Great Criticism. Indaga su cosa si nasconde dietro i fenomeni di persuasione occulta in Cina come in Occidente e sui meccanismi che creano un idolo, affrontando il rapporto che
l’uomo ha con il trascendente. Fra i suoi estimatori il collezionista londinese di brand Charles Saatchi. Liu Bolin (Shandong, 1973). È noto per i suoi autoritratti fotografici caratterizzati dalla fusione del corpo con l’area circostante. Una mimetizzazione con le architetture (da New York a Milano) che gli ha guadagnato l’appellativo di “camaleonte” o “uomo invisibile”. Info • www.liubolinart.com Yue Minjun (Heilongjiang, 1962). Protagonista del cosiddetto Realismo cinico (è specializzato nel ritrarre se stesso mentre ride), esprime ironicamente il
dramma del nichilismo contemporaneo, ridicolizzando i mostri sacri dell’arte occidentale. Saatchi è fra i suoi grandi sostenitori. Liu Wei (Beijing, 1972). Utilizza una vasta gamma di supporti e tecniche, tra cui la fotografia, la pittura e la scultura e l’installazione. Ri-lavora materiali di scarto (ceramiche, libri, televisori, frigoriferi) trasformandoli in complesse installazioni scultoree. Interessato ai temi architettonici e urbani, utilizza schemi geometrici su cui innesta i suoi processi creativi, forgiando un personale senso di ordine in una realtà dove le strutture sociali e politiche controllate rigidamente e il paesaggio urbano conosce un disordine turbolento. Rappresentato a Londra dalla galleria di brand White Cube.
Zeng Fanzhi (Wuhan, 1964). Nelle sue opere “emozionali”, immediatamente riconoscibili per la personalissima tecnica espressionista, c’è sempre un’aura di alienazione che rivela la violenza sottostante e la tensione psicologica. Autore sia di ritratti sia di paesaggi (che dipinge usando due pennelli come se fossero le bacchette per il cibo), è rappresentato dalla galleria londinese di brand Gagosian. Zhang Xiaogang (Kunming, 1958). Simbolista e surrealista, si ispira alle foto di famiglia del periodo della rivoluzione culturale raffigurando una genealogia infinita di antenati e progenitori immaginari, senza nome e senza tempo. Spesso realizzate in una scala di grigi, con macchie di colore acceso, traducono il linguaggio della fotografia in pittura.
Info • http://zhangxiaogang.org/ EnIndex.aspx Zhang Peng (Shan Dong, 1981). Le sue fotografie sembrano i fotogrammi di un film di animazione, anche se in realtà sono scatti di elaborati set in cui sono protagoniste le bambine. Colori intensi, oggetti teatrali e zone buie creano un senso di artificio e di illusione, con una forte carica drammatica. Anche alla Saatchi. FRA GLI ALTRI Gu Dexin (Beijing, 1961): installazioni, fotografia e computer design (ha esposto alla Tate Liverpool). Huang Yan ( Jilin, 1966): artista multimediale. Residente a Pechino. He Yunchang (Lianghe, 1967): realizza performance segnate dal dolore, da cui ricava foto, video e dipinti.
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DOVE • COME • QUANDO
ShanghART: Bldg 16, tel. 0086-21-63593923. ShanghART & H Space: Bldg 18, tel. 0086-21-62762818. www.shanghartgallery.com Artisti: Xue Song, Zhou Tiehai, Ding Yi, Xu Zhen/MadeIn, Zhu Jia, Yang Fudong, Birdhead.
comunista), la Oriental Vista Gallery – diretta da Rebecca Catching – è fortemente concentrata sugli artisti emergenti cinesi, esponendoli in mostre collettive eclettiche ma centrate su temi precisi. Artisti: Liu Jianhua. Eastlink: Bldg 18; tel. 0086-21-62769932. La galleria – una delle pioniere di M50 – ora si occupa soprattutto della gestione della sua vasta collezione di arte contemporanea cinese (visitabile su appuntamento) acquisita attraverso importanti mostre (cui hanno partecipato anche big come Ai Weiwei, Huang Yan e He Yunchang). Grazie
Aike-Dellarco: Bldg 1 (secondo piano) e Bldg 0 (stanza 102), tel. 0086-21-52527164. www.dearco.it OV Gallery: Bldg 4A, stanza 207; tel. 0086-21-62173881. www.ovgallery.com Enfant terrible della scena artistica di Shanghai (specialmente per le sue sfide al punto di vista ufficiale del partito
alla partnership con la stageBACK Gallery dell’artista tedesca Susanne Junker (tel. 0086-21-62769932, www. stage-back.org), continua a proporre arte sperimentale e d’avanguardia. Island6: Bldg 6, secondo piano; tel. 0086-21-62277856. www.island6.org Specializzata in neon, led, video, laser e interactive art creata dal collettivo
DISTRETTI ARTISTICI M50
50 Moganshan Lu (metro: Zhongtan Rd), Putuo; tel. 62776123.
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Liu Dao (Island 6 in cinese). Ospita anche mostre di altri artisti. Ha una seconda sede nel Bldg 7 e una sul Bund (17 Fuzhou Lu), oltre che a Hong Kong (1 New Street, Sheung Wan).
Red Town
A 103 – 570 Huaihai Xi Lu (metro: Hongqiao Rd), Xuhui; tel. 0086-2162807844. www.redtown570.com Ex complesso per la produzione dell’acciaio, avviato ai primi del Novecento. Shanghai Sculpture Space: 570-588 Huaihai Xi Lu, tel. 0086-21-62805629. www.sss570.com Aperta nel 2005, è una galleria pubblica con un parco in cui sono disseminate sculture di grandi dimensioni. Minsheng Art Museum: Bldg F; tel. 0086-21-62828729. www.minshengart.com Allestisce mostre di qualità, soprattutto di arte sperimentale, cui partecipano i maggiori artisti residenti in città (Zhou Tiehai è stato anche direttore del museo). Importanti anche le sue retrospettive, come quella sulla video arte “Moving Image in China: 1988-2011”. Lei Art Studio: Bldg 123; tel. 0086-21-62801737. L’artista Zhang Lei organizza nei weekend, per piccoli gruppi di bambini, corsi di pittura, disegno e jianzhi, la tradizionale arte cinese della carta ritagliata.
GALLERIE ShanghART Taopu
Bldg 6, 18 Wuwei Lu (metro: Qilianshan Rd), Putuo; tel. 0086-21-36322097. www.shanghartgallery.com
Shanghai Inaugurato nel 2010, ospita gli studi di alcuni artisti (fra cui quello di Zhang Ding: Shanghai, 1980) e il magazzino che conserva una delle più importanti collezioni di arte contemporanea cinese a Shanghai, con opere di Zhou Tiehai, Xu Zhen/MadeIn, Yang Fudong, Wang Guangyi e Zhu Jia. In occasione delle mostre vengono allestiti un caffè e un “supermarket” di opere a prezzi contenuti.
M97 Gallery
97 Moganshan Lu, secondo piano (Zhongtan Rd), Putuo; tel. 0086-21-62661597. www.m97gallery.com Aperta nel 2006, è una delle prime gallerie in Cina interamente dedicate alla fotografia, nonché una delle più ricche. Esplora tutte le tendenze dell’ottava arte, prodotta soprattutto da artisti cinesi (emergenti e affermati) e da chi lavora in Cina (come Michael Wolf, che risiede a Hong Kong).
Shanghai Gallery of Art (SGA)
Three on the Bung (terzo piano), 3 Zhongshan Dong Yi Lu-Bund (metro: East Nanjing Rd), Huangpu; tel. 0086-21-63215757. www.shanghaigalleryofart.com Progettato dall’architetto Michael Graves, che ha creato un ambiente industriale con soffitti alti e muri di cemento, si concentra sugli artisti cinesi e asiatici più acclamati, allestendo mostre di artisti celebri come Zhang Xiaogang e Gu Dexin.
Leo Xu Projects
Lane 49, Bldg 3, Fuxing Xi Lu (metro: Changshu Rd e Shanghai
Library), Xuhui; tel. 0086-2134611245. http://leoxuprojects.com Fondata nel 2011 da curatore, fotografo e scrittore da cui prende il nome, la galleria – che ha partecipato ad Art Basel, a Frieze e Perfoma a New York e alla Biennale di Venezia – rappresenta giovani cinesi ed expat, oltre che artisti internazionali, con un particolare interesse nelle esperienze della diaspora cinese nel mondo.
MUSEI Museum of Contemporary Art (MoCA)
People’s Park, 231 Nanjing Xi Lu (metro: People’s Square), Huangpu; tel. 0086-21-63279900. www.mocashanghai.org
dal 2010, ha ospitato i big della scena artistica cinese (come Zheng Fanzi e Cai Guoqiang) e ambisce a diventare un punto fermo nella discussione sui temi topici dell’arte contemporanea.
OCT Contemporary Art Terminal (OCAT)
1016 Bei Suzhou Lu (metro: Kofu Rd), Zha Bei; tel. 0086-21-66085180. www.ocatshanghai.com/?lang=en Divisione dello He Xiangning Art Museum di Shenzhen (vicino a Hong Kong), opera dal 2005 sotto la direzione del critico e storico dell’arte Huang Zhuan. Sono coinvolti attivamente nel progetto Wu Hung, docente di storia dell’arte all’università di Chicago, il curatore della tate Modern Marko Daniel e gli artisti Sui Jianguo, Wang Guangy, Wang Jianwei e Zhu Jia.
Power Station of Art
200 Huayuangang Lu (metro: South Xizang Rd), Huangpu; tel. 0086-21-31108550. Aperto nel 2012 in una centrale elettrica di fine Ottocento, è il primo museo statale di arte contemporanea in Cina (in occasione di Expo 2010 la struttura fu utilizzata come Padiglione del Futuro). È la sede della Biennale di Shanghai.
EVENTI 10th Shanghai Biennale Power Station of Art, fino al 31 marzo 2015. www.shanghaibiennale.org/en
Rockbund Art Museum (RAM)
20 Huqiu Road (metro: East Nanjing Rd), Huangpu; tel. 0086-21-33109985. www.rockbundartmuseum.org/en Un edifico art déco, che fu sede della Royal Asiatic Society e dello Shanghai Museum, è stato rinnovato dall’architetto britannico David Chipperfield nell’ambito del progetto di riqualificazione dell’area nord del Bund. Attivo
ShanghArt. A sinistra, Aike-Dellarco. PASS: IN CINA
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DOVE • COME • QUANDO
DISTRETTI ARTISTICI 798 Art District
Jiu Xian Qiao Lu (metro: Sanyuanqiao + bus 401), Dashanzi. www.798art.org e www.798district.com Situato nella zona di Dashanzi, a nord-est del centro di Pechino, era un vasto complesso di fabbriche statali militari (tra cui Factory 798, che in origine produceva elettronica), costruito in stile Bauhaus dai tedeschi dell’Est negli anni Cinquanta. Al principio del Duemila, artisti e organizzazioni culturali hanno cominciato a dividere, affittare e ri-fare gli spazi: oggi ci sono circa 400 fra gallerie, atelier, società di animazione, televisioni, case editrici e studi di design cinesi e non. Sono rimasti gli slogan maoisti scritti in rosso sulle pareti e le corpulente statue dei lavoratori, che celebravano gli eroi proletari nel periodo d’oro comunista. C’è anche un boutique hotel, il Grace (www. gracehotels.com/beijing). Da vedere: Pace Gallery (www.pacegallery.com/beijing), Chinese Contemporary (www.chinesecontemporary.com), 798 Photo Gallery (www.798photogallery.cn/en), UCCA-Ullen Center for Contemporary Art (http://ucca.org.cn/en), Beijing Commune (www.beijingcommune.com), Galleria Continua (www.galleriacontinua.com).
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Caochangdi Artist Village
Caochangdi, Chaoyang (lungo la S12 Airport Expressway, oltre la quinta circonvallazione; bus 402, 418, 688, 909, 955, 973). www.caochangdi.com (solo in cinese) A una decina di minuti di auto dal 798 Art District, è il nuovo paradiso di un nutrito gruppo di artisti, designer e architetti (fra cui Naihan Li, Li Songsong e Sun Liangang), che si sono insediati nel villaggio scelto dal guru Ai Weiwei che ha progettato un complesso in cui ha aperto anche il proprio studio (Fake Design Studios, Caochangdi 258, tel. 0086-1084564194). Negli ultimi anni, molti dei più importanti spazi d’arte della città si sono trasferiti qui, lontano dalle folle del 798 Art District, rendendo il paese una meta obbligatoria per i collezionisti e gli appassionati di arte contemporanea. Le gallerie sono aperte tutti i giorni al pubblico, ma potrebbe essere necessario conoscere gli artisti personalmente per visitare le loro case-studio (per questo ci sono agenzie che organizzano giri guidati in inglese con appuntamenti, come www.ccctravel.net). Da vedere: Three Shadows Photography Art Centre (http://en.threeshadows.cn), Galerie Urs Meile (www.galerieursmeile.com), Boers-Li Gallery (http://boersligallery.com), Chinese Art and
Archives Warehouse (www.archivesandwarehouse.com), ShanghART (www.shanghartgallery.com), Chambers Fine Art (www.chambersfineart.com/ about/index.shtml), Pekin Fine Arts (www.pekinfinearts.com), Platform China Art Insitute (www.platformchina.org/en/ index.asp), Beijing Art Now Gallery (www.beijingartnow.com).
Songzhuang Art Colony
Songzhuang, Tongzhou (bus 808, 809, 813). Nel 1994, quando la comunità di artisti del Palazzo d’Estate fu smantellata, un manipolo di creativi (fra cui Yue Minjun e Fang Lijun) si trasferì nel distretto di Tongzhou, una ventina di chilometri a est del centro di Pechino. Oggi Songzhuang, culla dell’avanguardia cinese, ospita la più la più grande comunità di artisti in Cina, migliaia fra pittori, scultori, artisti concettuali e multimediali, poeti, scrittori, critici d’arte e fotografi, sparsi in diversi villaggi (specialmente a Xiaopu). Sono relativamente giovani e famosi per le loro opere radicali (per tour guidati, http://bit.ly/1vmL6zU). Da vedere: Songzhuang Art Museum (progettato dalla DnA Design and Architecture fondata dalla giovane Xu Tiantian, che ha anche realizzato un complesso residenziale per gli artisti), Tree Art Museum (progettato da Daipu Architects).
Beijing Shangyuan Art Scene
Shangyuan, Changping (35 chilometri a nord-nordest del centro di Pechino). Comunità di una sessantina di artisti affermati più accademici, fotografi, poeti, scrittori e architetti. Non è aperta al pubblico, ma bisogna prendere appuntamento con gli artisti (per visite guidate con incontri: http://bit. ly/124s8aj e http://bit.ly/1ztoBxa).
Qiaozi Artists Commune
Qiaozi, Huairou (una cinquantina di chilometri a nord del centro di Pechino) In un ambiente rurale, i creativi hanno costruito architetture contemporanee su misura, con ampi e attrezzati studi, fra cui Zeng Li Teatro Studio, Shen Shaomin e Qu Yan Art Studios (per visite guidate con incontri: http://bit.ly/1I8mZ1K).
Feijiacun Artist Community
Feijiacun, Laiguangying Donglu, Chaoyang (a nord-est del centro di Pechino; metro 15 finoalla fermata di Cuigezhuang e poi bus 415 per Mananli o 988 oer Maquanying). L’arrivo di un’ottantina artisti di prestigio (fra cui pittori, scultori, fotografi e performancers; fra gli altri Deng Xinli, Li Changlong, Chang Xiugong) ha fatto di questa tranquilla area verde uno dei più interessanti centri creativi di Pechino (per visite guidate con incontri: http://bit.ly/1q0WrJX e http://bit.ly/15SkBO1). Qui la Red Gate Gallery ha sei studi-loft per artisti residenti (www.redgategallery.com). PASS: IN CINA
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博彩 SCOMMESSE
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Se Macao, zeppa di slot machine e roulette, può considerarsi la Las Vegas d’Oriente, Hong Kong con i suoi due ippodromi ha nel settore un primato e un’esclusiva. DI LUISA ESPANET FOTO DI GIOVANNI TAGINI
QUANDO SCOMMETTONO SU TUTTO, I CINESI. Per loro il gioco è davve-
ro una febbre. Spesso e volentieri da cavallo. Quello delle competizioni negli ippodromi di Hong Kong è uno dei business più importanti non solo della città, ma del Paese: sette milioni di transazioni in una tipica giornata di corse, con puntate che arrivano a superare i 100 milioni di euro in un solo giorno; un fat-
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IL GIOCO SI FA DURO turato medio ‒ il più alto al mondo ‒ di 14 milioni a gara (ce ne sono 771 a stagione, distribuite in un’ottantina di meeting) per un giro d’affari complessivo che nell’esercizio 2013-2014 ha battuto ogni record, sfondando il tetto dei 10 miliardi di euro. Tutto iniziò con gli inglesi, che nel 1845 costruirono il primo ippodromo nella zona bonificata di
Happy Valley, ora a 15 minuti dalla fermata della metropolitana di Causeway Bay. Qui è nato l’Hong Kong Jockey Club, il club dei fantini che ancora adesso gestisce il business in completo monopolio. Vera potenza economica (è il secondo operatore del settore sul pianeta e si occupa anche delle lotterie e delle scommesse sul calcio), segue gli obblighi goPASS: IN CINA
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Ai meeting più importanti assistono circa 70.000 spettatori, con punte di 100.000 per il Chinese New Year Raceday all’ippodromo di Sha Tin.
vernativi di informare con cartelli dei danni portati dal gioco. Primo contribuente di Hong Kong con 1,25 miliardi di euro versati in tasse ogni anno, si ripulisce l’immagine elargendo notevoli fondi in beneficenza e sponsorizzando ricerca universitaria e programmi sanitari. Sotto il suo braccio “protettivo” è anche il più recente ippodromo di Sha Tin, realizzato nel 1978 nei Nuovi Territori. Costruzione avveniristica in perfetta linea con lo skyline della città, ha un incredibile schermo Diamond Vision, lungo ben 70 metri e alto 8. Con luci che diventano più intense all’aumentare delle puntate ed effetti speciali da colossal per le gare serali. Dagli altoparlanti, gli speaker dispensano senza sosta consigli informazioni e battute. In cantonese, la lingua ufficiale di Hong Kong. È variegata, come intuibile, la folla dei giocatori in un Paese che detiene il più alto tasso di scommesse pro capite del mondo. Con una netta prevalenza di uomini, più dell’80 per cento, di ogni età, classe sociale e professione. Si incontra dal signore in doppiopetto, di cui si intuiscono le poste da capogiro, al ragazzo in jeans, magari agli inizi di una passione-vizio. Al di là dei frequentatori più o meno abituali delle piste, la massa di scommettitori sta altrove, in ombra. Affolla le sale gioco della metropoli, tutte agenzie dell’Hong Kong Jockey Club, numerose soprattutto nell’area più povera di Kowloon. Lì segue sui video le corse, anche per giornate intere, quasi sempre facendo puntate minime, sufficienti ad assicurarsi il piatto di riso o, nei casi fortunati, una scodella di changshou mian, la pasta di lunga vita delle occasioni importanti.
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PECHINO E LA MOSSA DEL CAVALLO Quel che è accaduto ai primi di novembre del 2014 – ironia della sorte, l’“anno del cavallo” – è destinato ad avere un forte impatto sull’economia cinese e non solo: il divieto di scommettere sulle corse, introdotto da Mao nel 1949 perché bollato come “condotta capitalistica amorale”, non esiste più. Certo, per ora è previsto che i giocatori ricevano le vincite sotto forma di regali, ma il tempo dei premi in denaro potrebbe non essere lontano. Con buona pace di chi ha beneficiato finora dell’illegalità del gioco d’azzardo (due lotterie nazionali a parte) nella Cina continentale: le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao per esempio, ma anche i casinò di Birmania, Vietnam e Laos, orientati ai cinesi così come la Casino City sorta alla periferia della città kazaka di Almaty, nei pressi della frontiera con il Xinjiang. Recentemente persino la Mongolia aveva dichiarato di voler legalizzare le puntate ippiche per intercettare i vicini più agiati. Per non parlare di Internet. La quantità di denaro che sfugge all’erario della Repubblica popolare è da capogiro: si valuta che la legalizzazione delle sole
scommesse ippiche porterebbe immediatamente nelle casse statali quasi 5 miliardi di euro, che potrebbero aumentare vertiginosamente se, come è presumibile, i cinesi continentali rivelassero un accanimento simile a quello degli “hongkongers”: applicando la medesima proporzione si arriverebbe a un giro d’affari addirittura superiore ai 1.300 miliardi di euro. Con una rapida diffusione della malattia del gioco: un’epidemia, come evidenzia qualcuno. Con un abbattimento del mercato clandestino (e di tutti i reati connessi) e la creazione di milioni di posti di lavoro, sottolineano altri. Riaprire i botteghini moltiplicherebbe ippodromi, animali e competizioni, quindi la manodopera necessaria a gestire l’intera macchina. Secondo i dati della China Horse Industry Association (www.chinahorse. org), già oggi nel settore legato all’allevamento e all’ippica sono impegnate circa mezzo milione di persone, si contano più di 300 club, 25 ippodromi e oltre una decina di club dei fantini. A settembre di quest’anno è stato fondato anche il China Jockey Club (www.thechinajockeyclub. com), con il patrocinio di
alcune organizzazioni statali. Era il segnale che appassionati e investitori attendevano, il preludio alla decisione di novembre, l’unica in grado di rendere davvero vantaggioso il business. Qualcuno aveva già scommesso su questo futuro, contando sull’amore dei cinesi per il cavallo (che sta soppiantando il golf nelle preferenze dei nuovi ricchi): a Wuhan, storica capitale delle corse nella Cina continentale, è sorta a partire dal 2003 l’Orient Lucky City (www. olhgroup.com/en/Orient.asp). A Tianjin, a sud di Beijing, è in costruzione l’Equine Culture City, che comprenderà – fra l’altro – due ippodromi (il primo è stato inaugurato nel 2013), 4mila box per gli animali, un centro di formazione equestre, una casa d’aste e una clinica veterinaria. Darà lavoro a circa 10mila persone e avrà un calendario di almeno 40 meeting all’anno. I cavalli avranno sangue irlandese: fattrici e stalloni arriveranno infatti dagli allevamenti di Coolmore. Padrone di casa il club di polo Nine Dragons Hill (www.ndhpolo.com), che conta una trentina di membri che pagano 50mila euro per giocare nei fine settimana.
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Hong Kong IPPODROMI Happy Valley
Happy Valley Sports Road, isola di Hong Kong (metro: linea blu, fermata Causeway Bay), http://bit.ly/1uRDbRm Ingresso nelle giornate di gare: 10 HKD (1 euro) per l’accesso ai Public Stand; 130 o 190 HKD (13,50-19,60 euro) per il Tourist Badge che consente l’accesso ai Members’ Stand. Puntata minima: 10 HKD (1 euro). Da visitare l’Hong Kong Racing Museum, aperto nel 1996 (tel. 00852-29668065; orari: dal lunedì al sabato 12-19; in occasione delle competizioni serali dalle 12 alle 21).
DOVE • COME • QUANDO
Qui ha sede il quartier generale dell’Hong Kong Jockey Club (www. hkjc.com/home/english/index.asp).
Sha Tin
Penfold Park, Nuovi Territori (metro: linea azzurra, fermata Racecourse, aperta solo in occasione di eventi all’ippodromo), http://bit.ly/140vz2Y Ingresso nelle giornate di gare: 10 HKD (1 euro) per l’accesso alla Public Enclosure; 130 o 190 HKD (13,50-19,60 euro), a seconda che sia una giornata normale di gare o uno dei principali meeting (Longines Hong Kong International Races, Bmw Hong Kong Derby Day e Audemars Piguet Queen Elizabeth II Cup) per il Tourist Badge che consente l’ac-
cesso alla Members’ Enclosure. Puntata minima: 10 HKD (1 euro). Si svolgono qui i meeting più prestigiosi: Season Opening (settembre), National Day Race Meeting (1° ottobre), Sa Sa Ladies’ Purse Day (novembre), Longines Hong Kong International Races (dicembre), New Year’s Day Meeting-Chinese Club Challenge Cup (1° gennaio), Chinese New Year Raceday (gennaio/febbraio), Bmw Hong Kong Derby Day (marzo), Audemars Piguet Queen Elizabeth II Cup (aprile), Champions Mile (maggio), Season Finale (luglio). Di rilievo anche: Stewards’ Cup (gennaio), Kent & Curwen Centenary Sprint Cup (gennaio), Citibank Hong Kong Gold Cup (marzo), Standard Chartered Champions & Chater Cup (maggio).
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奢侈品 LUSSO
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PASS: IN CINA Didascalia ..... Huaihai Road, una delle vie dello shopping di lusso.
RICCHI, ANZI NO, RICCHISSIMI Si comprano jet privati e supercar, spendono più dei newyrkesi nei marchi internazionali della moda e fanno scorrere lo champagne a fiumi. Cronache di vita mondana nella città più prospera della Cina, Shanghai, che ha scalzato persino Hong Kong… DI MADDALENA STENDARDI FOTO DI MIMMO TORRESE
QUAL È LA CITTÀ CINESE DOVE SCELGONO DI VIVERE i Paperon de’
Paperoni cinesi come Jack Ma, fondatore e presidente di Alibaba, incoronato uomo più ricco del Paese nel 2014? Pechino, dicono i numeri. Ma gli imprenditori di maggior successo all’estero, i nuovi nababbi, le donne e i giovani facoltosi (o aspiranti tali), che non fanno più i soldi grazie ai legami con il partito, preferiscono l’esuberante e meno ingessata e burocratica Shanghai, perché il futuro è lì, ancor prima che a Hong Kong. Lo dicono anche i dati: il prodotto interno lordo della metropoli continentale ha superato quello dell’ex colonia britannica già nel 2009. Con un gettito fiscale locale di quasi 68 miliardi di dollari nel 2013, Shanghai è il centro più prospero della Cina, nonché la capitale finanziaria. Secondo il Report 2014 dell’Hurun Research Insti-
tute (www.hurun.net/en), vi risiedono 93 dei 354 miliardari cinesi (10 anni fa erano solo 3!), 9.100 super-danarosi (cioè con un patrimonio personale di almeno 16 milioni di dollari) e 159mila con una liquidità superiore a 1,6 milioni di dollari. Pudong è il più ricco codice postale di Shanghai, seguito dal distretto di Changning a Puxi, centro storico della città. L’abitante più abbiente? Liu Yongxing, operaio del Sichuan divenuto magnate dell’acciaio, della chimica e degli alimentari, e oggi testa di serie numero 20 nella graduatoria nazionale. Ma Shanghai piace moltissimo anche ai Gatsby del resto del pianeta: sesta al mondo fra le città che considerano desiderabili a tal punto da trasferircisi, per la rivista americana Forbes conquisterà il quarto posto nel giro di 10 anni, scavalcando addirittura Parigi. PASS:IN CINA
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LA MODA CHE VA DI MODA Dici lusso e gli shanghainesi rispondono Louis Vuitton, Chanel e Gucci. Nella loro top ten ci sono Armani, Ferragamo, Bottega Veneta, Yves Saint Laurent e Miu Miu. Per acquistare beni di altissima gamma spendono molto di più dei consumatori occidentali, compresi gli europei, e battono persino i newyorkesi: secondo lo studio del 2014 “China Reality Check”, realizzato da Exane BNP Paribas in collaborazione con ContactLab, hanno sborsato una volta e mezzo in più per l’abbigliamento e per le scarpe, oltre il doppio per le borse firmate. Un quinto de-
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gli shopping addicted acquista online tramite gli store monomarca o multibrand specializzati; se comprano nei negozi preferiscono farlo all’estero, dove i prezzi sono inferiori (nella Cina continentale viene applicato un mark up del 30 per cento circa). A Shanghai, però, sono sbarcati tutti e venirci per un weekend di compere è considerato trendy. Yves Carcelle, per vent’anni presidente del gruppo Lvmh e morto nel 2014, aprì timidamente nel 1991 al primo piano dell’Hotel Palace, il solo luogo della città in cui allora s’intravvedeva un’idea di lusso. Fu grazie alla lettura dei romanzi polizieschi cinesi pubblicati nei primi anni Novanta che il manager capì che quel sogno si stava facendo strada nel Paese asiatico. Aveva ragione: il negozietto Louis
Un salone di bellezza nell’ex Concessione francese. Vuitton è diventato un megastore nel centro commerciale più ricco della città, il Plaza 66, trasformato nel 2012 in maison (così vengono chiamati i punti vendita più grandi, che offrono tutti i servizi, dal made-to-order alla sale vip). Fra i prodotti italiani ci sono anche le calzature fatte a mano del marchigiano Silvano Lattanzi, che qui ha due boutique: una nel Golden Eagle International Shopping Center e l’altra al Peninsula Arcade, al 32 del Bund, il viale lungo la riva sinistra del fiume Huangpu, dove nel tardo pomeriggio è abituale incontrare personaggi famosi che fanno spese o partecipano alle feste-evento organizzate negli store. Pure il made in China di altissima gamma ha preso casa a Shanghai: prêt-à-porter, mobili e arts de la table
della Maison Shang Xia (della designer Jiang Qiong Er, in collaborazione con Hermès, che possiede la maggioranza del marchio) si trovano dall’ottobre del 2014 nel flagship store di tre piani al 233 di Middle Huai Hai Road, un edificio di mattoni rossi in stile francese del 1912, nel quartiere pedonale di Xintiandi (la Soho di Shanghai), ristrutturato dall’architetto giapponese Kengo Kuma (www.shang-xia.com/ boutique/shanghai). Fra i centri commerciali più “in” si segnalano anche il Citic Square, l’Hong Kong Plaza, il Park Place e l’Iapm. Ultima novità: nello Shanghai Disney Resort, che dovrebbe essere terminato alla fine del 2015 a Pudong, ci sarà un villaggio del lusso (www.shanghaidisneyresort.com.cn/en). PASS:IN CINA
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Una concessionaria nel distretto di Yubei.
IL ROMBO DELLE SUPERCAR Non è un caso che la Volvo (venduta dalla Ford nel 2010 alla cinese Geely Automobile) abbia scelto proprio il Salone dell’auto di Shanghai (in programma dal 22 al 29 aprile 2015) per presentare in anteprima mondiale la variante extra lusso della XC90, destinata a mercati selezionati, fra cui – appunto – quello cinese. Le previsioni dicono infatti che nel giro di 5-6 anni il Paese asiatico supererà gli Usa e diventerà il primo mercato mondiale per le premium car, passate da 24mila unità vendute nel 2000 a oltre un milione nel 2012. Eppure, a conquistare gli occhi e il cuore dei cinesi sono ancora le tedesche BMW, Mercedes e Audi (Volkswagen), che da sole continuano a occupare il 70 per cento circa del segmento. Ma oggi anche qui i clienti sono matu-
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rati e nell’auto non cercano solo un modo per apparire, ma chiedono funzioni innovative, design e servizi post vendita al top. Il che apre la strada ai concorrenti, che stanno affilando le armi. La Shanghai General Motors, una joint venture a metà fra l’americana GM e la cinese Shanghai Automotive (la più grande del Paese per fatturato), avvierà entro il 2015 uno stabilimento a Shanghai capace di assemblare 160mila Cadillac l’anno. Lo scorso novembre la Ford ha aperto i primi tre punti vendita in Cina (a Beijing, Shanghai e Hangzhou) per spingere il suo unico brand di lusso, lanciando una sofisticata campagna pubblicitaria per trasmettere la “Lincoln experience”. Nel novembre 2014 la Aston Martin ha inaugurato un nuovo showroom al 9 di Jinan Road, a Huangpu, che è andato ad affiancarsi a quello di Pudong, il più grande centro in Asia della casa britannica. Per la Jaguar della Land Rover la Cina è già il princi-
pale mercato al mondo e lo stesso dicasi per le Rolls-Royce inglesi. Ma qual è l’identikit del compratore? Intanto è 10 anni più giovane della media mondiale (33 anni e mezzo) ed è uomo nel 76 per cento dei casi. Secondo la ricerca 2014 di Hurun, la BMW ha la più alta percentuale di proprietarie donne, mentre la Cadillac di uomini; chi possiede una Volvo è più istruito; le Audi piacciono di più a politici e burocrati, le Land Rover agli imprenditori. Per tutti, però, a rappresentare al meglio le qualità indispensabili per una supercar (reputazione, stile, notorietà, tecnologia e brand culture) sono BMW, Lamborghini (Volkswagen) e Ferrari Maserati. La prima vettura del gruppo italiano venduta in Cina è stata una 348TS, nel 1992: da maggio 2012 è uno dei pezzi forti del Museo Ferrari allestito, per i 20 anni di presenza in Cina, nello Shanghai Italian Center (ex padiglione italiano dell’Expo 2010, a Pudong).
Nel 2004 la casa di Maranello ha aperto il primo showroom in Tomorrow Square, grattacielo shanghainese in Nanjing West Road. Nel giugno 2014, nella stessa città, ha avviato un Tailor-Made Centre in West Beijing Road, il primo nella regione Asia-Pacifico. Proprio lì sono state create due edizioni speciali, la F12 berlinetta Polo e la FF Dressage. La Grande Cina (Cina continentale, Hong Kong, Macao e Taiwan) è il secondo mercato mondiale per la Ferrari (nel 2011 ha venduto 777 vetture) e si merita quindi un’attenzione esclusiva e personalizzata. Ma cosa si fa con simili auto da corsa in una città congestionata come Shanghai? «Se è stata una brutta giornata di lavoro, o mi sento agitato la sera, faccio un giro in macchina e mi sento subito meglio», dice Andy Wong, presidente dello Shanghai Super Car Club. Sulla strada per l’aeroporto, l’unica che di notte permette di pigiare un po’ sul pedale… PASS:IN CINA
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DI NOTTE, SEMPRE PIÙ AL TOP È impressionante il modello di Shanghai di 500 metri quadrati custodito all’Urban Planning Exhibition Center, in piazza del Popolo. Testimonia la crescita in verticale della metropoli, che in una ventina d’anni ha visto innalzarsi più di 1.500 grattacieli. Ma la città è cresciuta anche in larghezza, pianificando a tavolino la realizzazione da zero di aree urbane satellite, ispirate ciascuna a un Paese europeo, che aiutassero a decongestionare il centro e ad accogliere i conta-
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dini attratti dallo sviluppo impetuoso di Shanhai. Il progetto per i 100mila abitanti dell’“italiana” Pujiang, in fase di completamento, è stato vinto da Vittorio Gregotti, che si è aggiudicato anche la riqualificazione di Wai Tan Yuan, lo storico “quartiere inglese” che a cavallo fra XIX e XX secolo ha visto la nascita del monumentale Bund. Se la zona più a sud di Pujion, abitata dalle famiglie allontanate dalla zona in cui è stato costruito il complesso dell’Expo, è in piena attività, quella più a nord è invece quasi vuota, perché ad acquistare (come seconda casa e per investimento) è stata la nuova classe media. Sono giovani, come i super
La torre Perla d’Oriente da una terrazza nel Bund. ricchi che collezionano opere d’arte, vanno in vacanza in Europa, per hobby giocano a golf o vanno a cavallo, comprano supercar, ma anche jet, elicotteri e yacht. A loro piace animare le esagerate notti di Shanghai, dove per mettere in mostra la propria ricchezza ordinano “treni di champagne” come al Linx, almeno sei bottiglie che costano da 600 a 1.600 dollari l’una. E se non si bevono tutte, pazienza: la bella figura è assicurata. Ian Louisell, night life editor di smartshanghai.com, la principale pubblicazione in lingua inglese della città, ha fatto un paragone con la New York fra gli anni 70 e 80. Ma ai Paperon de’ Paperoni non piace mischiarsi
agli altri: per questo ci sono le sale vip, aperte fino alle 7-8 del mattino, anche se i comuni mortali devono andarsene entro le 5. Per la verità la stragrande maggioranza della gente non ama più molto questi posti e anche i ricchi preferiscono organizzare party in casa. Fra i locali alla moda si contano il Myst, l’M1NT, il Muse, il Bar Rouge, il Richbaby, il Cirque le Soir e il Flair, sul tetto del Ritz-Carlton a Pudong. I giovanissimi vanno ai concerti rock alla Mao Livehouse o al Yuyintang; chi preferisce musica underground frequenta l’Arkham e lo Shelter; chi balla con i dj il Dadalo; per il karaoke c’è il Cashbox Partyworld. PASS:IN CINA
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回忆 RICORDI
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LA MIA PECHINO, VENT’ANNI FA Settembre 1995: la capitale al tempo della IV Conferenza mondiale sulle donne, che Graziella Vigo ha documentato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri Commissione Pari Opportunità. FOTO DI GRAZIELLA VIGO
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Nella foto sopra, un’edicola “volante”: non ci sono giornali stranieri. A sinistra, in alto, pesca domenicale nei giardini della Città Proibita. A lato, una seduta di shiatsu in un ospedale di medicina tradizionale. A pagina 66, un’agente della Jingcha (come si legge sulla cravatta, sotto lo stemma del Ministero della Pubblica Sicurezza, da cui dipende); è la Polizia del popolo della Repubblica Popolare Cinese (sulla spalla: 中华人民共和国, Zhōnghuá rénmín gònghéguó, Repubblica popolare cinese; 公安, Gōngān, Sicurezza pubblica). Pagine 64-65: turisti (solo cinesi) al Tempio della preghiera per il buon raccolto, nel complesso taoista del Tempio del Cielo.
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“La bicicletta, il vostro mezzo di trasporto ideale a Beijing”, recita l’insegna di un parcheggio per le (poche) auto allora in circolazione. Se all’inizio degli anni Novanta il 60 per cento dei residenti (guardie comprese) utilizzava regolarmente le due ruote per muoversi in città, oggi lo fa meno del 20 per cento. Il motto è ormai “Meglio piangere in una BMW che ridere su una bicicletta”. Conseguenza: traffico congestionato e inquinamento alle stelle. Per questo, da qualche anno, le autorità cittadine sono impegnate a incentivare il ritorno al “mezzo ideale”, mettendo a disposizione migliaia di biciclette pubbliche, sviluppando una rete di noleggio e costruendo piste ciclabili. Nella foto in alto a destra, il ponte in marmo bianco che da piazza Tienanmen consente l’accesso alla Città Proibita. Il ritratto di Mao è sempre lì.
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中餐 CIBO
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Hong Kong Qui, lo chef Alvin Leung del Bo Innovation. Pagg. 62-63: ristorante Aqua. Pag. 66: Felix Peninsula. Pag. 67: Mandarin Oriental. Pag. 69: Yun Fu. Shanghai Pag. 68: Din Tai Fung.
IL BELLO, IL BUONO E… …l’armonioso. A Hong Kong, Shanghai e Beijing si sperimenta la più alta cucina cinese in ristoranti in vetta alle classifiche delle guide internazionali più prestigiose. Dove mangiare bene significa anche farlo in ambienti che rispondono alla millenaria tradizione del “feng shui”. DI PIETRO TARALLO FOTO DI GIOVANNI TAGINI
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L’INGRESSO NELL’OLIMPO MICHELIN di un ristorante di cu-
cina cinese innovativa è stato una novità mondiale assoluta. A conquistarsi per primo le tre stelle nel 2014, confermate con convinzione quest’anno, è stato il Bo Innovation di Alvin “Demon Chef ” Leung, fondatore della cosiddetta “x-treme chinese cuisine”. Fra i grattacieli di Wanchai a Hong Kong, al secondo piano di un palazzo in acciaio e cristalli, con una grande terrazza panoramica, è divenuto subito un cult per gastronomi spericolati. Ex ingegnere informatico, chef per passione e per business, simile a un personaggio dei manga, bicipiti tatuati con i caratteri “diavolo” e “cucina”, croce di diamanti che gli pende fra i pettorali, Alvin crea piatti fusion con un mix di sapori che arrivano dalla tradizione imperiale cinese e dalle sperimentazioni di Ferran Adrià. «Nulla è casuale in questa location», afferma scrollando la lunga chioma nera tagliata a caschetto che gli nasconde quasi tutto il volto, paffuto come quello di un adolescente bene in carne. «Insieme con il mio master di feng shui, ho progettato nei minimi particolari la disposizione della cucina e della sala. Così il set di acciaio e cristallo in cui servo le mie creazioni. È lui che mi ha guidato nell’armonizzare colori e forme dell’arredamento, nella scelta del menù e di come presentarlo. Si mangia anche con gli occhi. I miei piatti sono quadri sottolineati dalla cromia e dai sapori di quello che è contenuto nei
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little glasses. Energie positive che riesco così a trasmettere ai miei ospiti». Tutto quello che Leung tocca sembra trasformarsi in oro. Così anche il MIC Kitchen, guidato dal suo allievo Lo Ka Ki e incentrato su proposte che miscelano sapori e tecniche francesi, cinesi, giapponesi e italiane, si è conquistato, sempre l’anno scorso, una stella Michelin. Hong Kong è una mappatissima e premiatissima città gourmand. Nel 2015, 66 ristoranti si dividono 92 stelle, fra cui quelle dell’unico altro cinese – tradizionale, però – in vetta alla classifica cittadina, cioè il Lung King Heen (nel Four Seasons Hotel): il suo chef Chan Yan-tak è stato il primo cinese in assoluto ad aggiudicarsi, nel 2009, le tre stelle grazie ai suoi autentici piatti cantonesi di pesce e ai dim sum. Anche Macao ha il suo tre stelle cinese (il primo e unico), cioè il The Eight nel Grand Lisboa Hotel. La Cina continentale resta invece un territorio inesplorato dagli esperti della più prestigiosa guida gastronomica. Shanghai si è però già fatta notare per il FU1015 e il Family Li Imperial Cuisine, rispettivamente al 26esimo e al 46esimo posto tra gli “Asia’s 50 Best Restaurants”, la lista pubblicata ogni anno dalla William Reed Business Media (www.theworlds50best. com/asia/en/asias-50-best-restaurants. html). Che fra l’altro, nel 2015, ha incoronato Vicky Lau del Tate Dinig Room di Hong Kong (1 stella Michelin) quale migliore chef donna in Asia. Nemmeno una segnalazione, invece, per Beijing. E pensare che nel 2002 il Time aveva indicato Zhang Jinjie, in arte JinR, come la più trendy fra i giovani chef in Cina, colei che stava rivoluzionando la scena della ristorazione nella capitale. La Green T House Living della fascinosa signora di Pechino – musicista, artista e calligrafa – resta certo un regno del glamour, innovativo sia nella forma degli spazi sia nella presentazione dei piatti di cucina cinese contemporanea,
accompagnati da lunghissime, eleganti bacchette. Tutto è rigorosamente yin e yang nella sua Spa and Bath House a Chaoyang, votata come “Best Spa Design” nei Wallpaper* 2010 Design Awards. Nel 2012 ha chiuso il ristorante total black di Gongti e lo ha trasferito qui, “vestendolo” in total white, in armonia con i toni della villa. Gli alimenti si fondono con gli elementi naturali con cui sono presentati, quasi mimetizzandosi e annullandosi sui lunghi piatti-taglieri di rovere fra tralci di rami e foglie di tè tostate. Il pranzo e la cena sono cerimonie iniziatiche officiate da camerieri-sacerdoti secondo un rituale codificato dalla tradizione millenaria del feng shui, nell’eleganza e nella perfezione dei gesti ritmati dalla sonorità musicale delle loro descrizioni. Qualche critico dice che se lo stesso perfezionismo che rende davvero unica la presentazione fosse riservato anche alla creazione di sapori perfetti, questo sarebbe di gran lunga il miglior ristorante della capitale.
A CASA DELLO CHEF Il fenomeno delle private kitchens (o sue fon tsoi in cantonese) è iniziato negli anni 90 e ora è una tradizione. Si va a “casa” dello chef e si mangia mentre lui cucina e chiacchiera con i suoi ospiti, che arrivano fino a 50 posti. In alcune si partecipa anche alla preparazione dei piatti. Qui sotto alcuni degli indirizzi migliori. Per chi vuole l’App giusta per magiare a Hong Kong: OpenRise (www.openrice.com), Daydaycook (www.daydaycook. om/home/en/index.html?), Dishi, PopUp Table.
Fa Zu Jie
1° piano, 20A D’Aguilar Street, Central, Hong Kong tel. 00852-34871715 Chef: Paul Hui e i partner Chris Leung e Joseph Wong Cucina: raffinata cucina shanghainese con influenze francesi, italiane e giapponesi.
TA Pantry
1C Moonstar Court, 2D Star Street, Wan Chai, Hong Kong tel. 00852-94036430 http://ta-pantry.com Chef: Esther Sham Cucina: cucina creativa francese ispirata da ingredienti di altre culture.
Dai Ping Huo
Piano LG, 49 Hollywood Road, SoHo, Central, Hong Kong tel. 00852-25591317 Cucina: Sichuan.
Chef Studio by Eddy Leung
Unit 5B, Kwai Bo Industrial Building, 40 Wong Chuk Hang
Road, Aberdeen tel. 00852-31044664 Chef: Eddy Leung Cucina: creativa.
Gong Guan
12° piano del Fung Woo Building, 279 Des Voeux Road Central, Sheung Wan, Hong Kong tel. 00852-25779789 www.gong-guan.com Chef: Waylon Tam Cucina: shanghainese contemporanea.
Yin Yang
Casa 117, Ting Kau, Tsuen Wan, Nuovi Territori tel. 00852-28660868 www.yinyang.hk Chef: Margaret Xu Cucina: tradizione culinaria di Hong Kong (pesce compreso).
Gitone
GB27-28, Lei King Wan, 45 Tai Hong Street, Sai Wan Ho, Hong Kong tel. 00852-25273448 www.gitone.hk Cucina: cinese classica. Fa anche “lezione” di cucina.
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DOVE • COME • QUANDO
HONG KONG Bo Innovation
Shop 13, 2° piano della J Residence, 60 Johnston Road, Wan Chai, Hong Kong; tel. 00852-28508371 www.boinnovation.com
MIC Kitchen
AIA Kowloon Tower, Landmark East, 100 How Ming Street, Kwun Tong, Kowloon;
Tate Dinig Room
59 Elgin Street, Central, Hong Kong; tel. 00852-25552172
Fook Lam Moon
43-45 Johnston Road, Wanchai, Hong Kong; tel. 00852-28660663 Cucina: cantonese, dim sum
Yan Toh Heen
InterContinental Hotel, 18 Salisbury Road, Kowloon; tel. 00852-23132323
Ristoranti Per un elenco completo dei ristoranti stellati: www.discoverhongkong.com/eng/dine-drink/diningevents-awards/michelin-guide.jsp
SHANGHAI FU1015
1015 Yuyuan Road, Changning; tel. 0086-21-52379778 Cucina: shanghainese.
Family Li Imperial Cuisine 1° piano, 487 Zhongshan Dong Yi Road; Huangpu Park; tel. 0086-21-53088071 www.familylishanghai.com
Molokai
Xintiandi South Plaza, Bldg 6, 123 Xingye Road, vicino Huangpi Nan Road, Huangpu; tel. 0086-21-53210881 Cucina: cantonese
Shudi Sichaun Hotpot
Second Floor, 1 Shuangfeng Bei Road, vicino Xietu Road, Xuhui; tel. 0086-21-54245485 Cucina: Sichuan.
Shanghai Chic
tel. 00852-37582239 http://mickitchen.com.hk
Cucina: cantonese (promosso quest’anno a 2 stelle).
Fifth Floor, Xiang Gang Mingdu, 489 Henan Nan Road, vicino Fuxing Dong Road, Huangpu; tel. 0086-21-63357779 Cucina: shanghainese.
Lung King Heen
Above & Beyond
Xindalu China Kitchen
4° piano del Four Seansons Hotel, 8 Finance Street, Central, Hong Kong; tel. 00852-31968880 www.fourseasons.com/hongkong/ dining/restaurants/lung_king_heen
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28° piano dell’Hotel Icon, 17 Science Museum Road, Tsim Sha Tsui East, Kowloon; tel. 00852-34001318 Cucina: cantonese.
East Tower, Hyatt on the Bund, 199 Huangpu Road, vicino Wuchang Road, Hongkou; tel. 0086-21-63931234 Cucina: anatra alla pechinese.
Din Tai Fung
Building 6, 2째 piano, Shop 11a, Xintiandi South Block; tel. 0086-21-63858378 http://www.dintaifung.com.cn Cucina: xiaolongbao di Taiwan.
BEIJING Green T House Living Bath House Residence, 318 Cuige Zhung Xiang, Heg zhaung Cun, Chaoyang; tel. 0086-10-64342519 www.green-t-house.com
King's Joy
2 Wudaoying Hutong, Yonghegong, Dongcheng; tel. 0086-10-84049191 Cucina: cinese vegetariana.
Transit
4-36, 3째 piano, Taikoo Li North, Sanlitun Road, Chaoyang; tel. 0086-10-64179090 Cucina: Sichuan.
Najia Xiaoguan
10 Yonganli, Jianguomenwai Dajie, Chaoyang; tel. 0086-10-65673663 Cucina: manchu.
Made in China
Grand Hyatt Hotel, 1 East Chang an Avenue Dongcheng; tel. 0086-10-65109024 http://beijing.grand.hyatt.com/en/ hotel/dining/MadeinChina.html
Da Dong Roast Duc
22 Dongsishitiao, Dongcheng;
tel. 0086-10-51690328 www.dadongdadong.com Cucina: pechinese (anatra).
Duck de Chine
1949 The Hidden City, Courtyard 4, Gongti Bei Road, vicino a Nansanlitun Road; tel. 0086-10-6501 8881 Cucina: pechinese (anatra).
Tiandi Yijia
140 Nanchizi Dajie; tel 0086-10-8511 5556 Cucina: cinese contemporanea.
Chuan Ban
5 Gongyuan Toutiao, Jianguomennei Dajie; tel. 0086-10-6512 2277 Cucina: Sichuan. PASS: IN CINA
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描述 RITRATTI PASS: IN CINA
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I MARCO POLO 3.0
Negli ultimi otto anni gli italiani residenti in Cina sono cresciuti del 239 per cento. Sono laureati, con spirito d’iniziativa e di avventura. Ecco le storie di alcuni di loro, tra successi e difficoltà . DI GIANNA MELIS
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PER SFUGGIRE ALLA CRISI ITALIANA ED EUROPEA. Per cavalca-
re la (ex?) Tigre asiatica, che avrà pure rallentato il passo, ma segna comunque un tasso di crescita del Pil del 7,5 per cento. Per queste ragioni negli ultimi anni molti nostri connazionali si sono trasferiti in Cina: oltre 2.500 nella sola Hong Kong, altri 2.300 a Shanghai, più di un migliaio a Beijing e una cifra analoga a Guangzhou, l’antica Canton, capoluogo della provincia del Guangdong, che per
l’altissimo numero di imprese è detta “la fabbrica del mondo”. Partono dalle regioni del Nord Italia, Lombardia e Veneto in testa, e sono soprattutto trenta-quarantenni, per due terzi uomini, single, laureati, creativi. Secondo i dati dell’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), a gennaio 2013 vivevano stabilmente in Cina circa 7mila italiani, ma siccome non tutti spostano la propria residenza registrandosi presso le autorità consolari, probabil-
mente sono il doppio, sicuramente più di 10mila. L’indagine “Sulle orme di Marco Polo”, elaborata per la Fondazione Migrantes dai ricercatori Giovanna Di Vincenzo, Fabio Marcelli e Maria Francesca Staiano, ha evidenziato due tipi di migrazione: una di professionisti altamente qualificati, con mansioni manageriali, inviati in Cina da società straniere e con retribuzioni superiori ai 3mila euro; l’altra costituita da lavoratori alla prima esperienza o in fase di specializzazione. Quasi l’80 per cento degli inter-
vistati dichiara di conoscere il mandarino a un livello sufficiente per comunicare, più del 20 per cento lo parla fluentemente. La maggioranza possiede una laurea specialistica, se non un master, e un’altra esperienza lavorativa all’estero. Un mercato effervescente come quello cinese ha bisogno anche della creatività e della competenza italiane, per acquisirle e applicarle in settori in forte sviluppo, come moda, design e architettura, ma anche per la conservazione del patrimonio artistico e la sicurezza alimentare.
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Giovanni Gallina general manager
Un ricercatore a Dongguan. Per caso… «Perché sei andato a lavorare in Cina? Me lo chiedono spesso gli amici quando torno in Italia e ogni tanto me lo domando ancora anch’io. La risposta vera è: per caso. Come spesso accade nella vita, sono le circostanze, le persone, i contesti e alcune esperienze già vissute che determinano il nostro futuro. Durante una cena, l’imprenditore del brand italiano Tucano, che produce borse, valigie e accessori per computer e smartphone, mi ha proposto di andare a seguire il controllo qualità dei loro prodotti in Cina. All’inizio l’ho considerata una “fantasiosa” variabile della mia attività di ricercatore e insegnante al Cnr e al Politecnico di Milano. Ma in pochi mesi la fantasia si è trasformata in un progetto molto concreto e da gennaio 2008 mi sono trasferito a Dongguan. Avevo già visitato la Cina: il primo viaggio lo feci circa 25 anni fa, quando volai a Beijing, allora invasa dalle biciclette e senza grattacieli, per una conferenza e allungai il soggiorno con una vacanza di due settimane. Capii subito che quel Paese o lo si ama o lo si detesta. Per me è stato un colpo di fulmine. Nel maggio 2007, prima del mio trasferimento, sono stato visiting professor alla Hefei University of Technology per sei mesi. Da allora l’economia, lo stile di vita, le città e il traffico sono molto mutati. Eppure, nonostante i ritmi frenetici e la competizione sempre più aggressiva in tutti i settori, i cinesi non hanno perso l’innata timidezza, la modestia, la calma e la pacatezza con le quali affrontano anche le situazioni conflittuali. Mi piacciono anche l’energia delle giovani generazioni, la velocità dei cambiamenti, l’entusiasmo e la voglia di costruire un futuro migliore, l’orgoglio, l’identità nazionale e lo spirito di gruppo. Apprezzo la loro diplomazia e la capacità di trovare sempre un accordo e mi piace la riservatezza e la gentilezza che esprimono a volte anche solo con uno sguardo. Raramente usano parole eccessive o peggio offensive, delle quali noi occidentali a volte abusiamo. Ho imparato molto in Cina e ho insegnato poco: per superare la barriera linguistica e culturale ho adoperato, spesso, termini inutili e confusi e dopo anni non ho ancora acquisito la milionesima parte della loro pazienza. Sono in debito: ho 61 anni e non credo di avere tempo sufficiente per onorarlo. Ci sono però anche alcuni aspetti che non mi piacciono, per esempio l’ossessione per il cibo (mangiano a tutte le ore e i bambini cominciano ad avere problemi di obesità) e l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne. Se in occidente le donne hanno una marcia in più, in Oriente, e specialmente in Cina, ne hanno quattro in più, con tanto di differenziale e servo-assistito. Ma difficilmente riescono a vederle valutate in modo equo. Non mi piace neppure l’imbarbarimento sociale prodotto dalla corsa all’arricchimento veloce, che nelle aziende si traduce nello sfruttamento degli operai al limite dello schiavismo. Per fortuna queste situazioni sono in diminuzione. Ma il problema più grande per me resta la lingua: il mandarino è difficilissimo da imparare e questo rende complicata la comunica-
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zione, perché basta sbagliare il tono di una parola per creare “un incidente diplomatico”. Sono più facili le relazioni con i coreani che vivono qua, oltre che con italiani, brasiliani, inglesi e tedeschi. Con alcuni sono nati rapporti di amicizia che rinforziamo con cene o serate insieme. A Dongguan l’offerta di locali è abbondante e varia e la cucina, di alto livello, è ottima e diversa a seconda della regione di provenienza dello chef. Per assaggiare quella pechinese consiglio la Bei Hui Bin Dumpling House (20-22 New World Garden, Dongcheng Avenue, Dongcheng), mentre un buon cantonese è l’East Ocean Victoria City Restaurant (6/F First International Shopping Center, 200 Hongfu Road, Nancheng). Da provare anche i piatti coreani del Hangawi (107 J District, Global Avenue, Global Plaza, Dongcheng) o quelli giapponesi del Sekisai (Sheraton Dongguan Hotel, S256 Provincial Highway, Houjie). E per i momenti di nostalgia ci sono il Buongiorno (168 Dongcheng South Road-Bar Street, Dongcheng) e il Luna Italian Restaurant (66 Global Avenue, Global Plaza, Dongcheng)». Info • http://heredg.com e www.facebook.com/HEREDongguan PASS: IN CINA
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Alan Grillo Spina fotografo
Ci vediamo al Senator di Shanghai «Sono venuto in Cina la prima volta nel 2007 per uno stage in uno studio di architettura. Nel 2012 ho cominciato a lavorare come fotografo e, sapendo che questo Paese è più dinamico e aperto dell’Italia nei confronti dei giovani in cerca di occupazione, ho deciso di trasferirmi a Shanghai. Qui chi ha voglia di impegnarsi seriamente e di mettersi alla prova, anche in più campi contemporaneamente, non rimane senza far niente per molto tempo. Le possibilità sono tante. Non che manchino le difficoltà: per evitare grane con la noiosissima burocrazia locale è indispensabile arrivare con visti e contratti di lavoro in regola. Meglio se uno da expat che copra le spese per la casa e per i viaggi, avendo ben chiaro che lo sforzo richiesto sarà grande. Da non sottovalutare che si vivrà con un inquinamento ambientale e acustico alto e che comunicare con i cinesi, non solo per problemi linguistici, non sarà facile e immediato. Relazionarsi con loro, a livello personale e professionale, può essere molto faticoso. Nel giro di pochi anni i miei coetanei cinesi (ho 31 anni) hanno fatto un cambiamento notevole nelle aspirazioni e nello stile di vita: nel 2007 erano pieni di sogni, voglia di migliorare e imparare cose nuove, ora l’unico obiettivo che li fa muovere è il denaro. Vogliono arricchirsi velocemente e s’impegnano veramente solo per avere il conto in banca più sostanzioso dell’amico. A parte questi aspetti, Shanghai è una bella metropoli, anche se molto cara (in generale i prezzi sono più alti che a Milano), ma per fortuna l’offerta è ampia e con un po’ di accortezza si può vivere anche spendendo poco. Il modo migliore per scoprire la città è affittare una bici o andare in giro a piedi, fra i viali alberati interrotti ogni tanto dalle imponenti sopraelevate. Meritano una visita la Old French Concession nella zona di Donghu Lu (lu significa strada) e le vie Anfu e Dongping, con un’impronta internazionale e un’infinità di locali per tutte le tasche e per tutti i gusti. L’aperitivo con vista si beve all’Unico (2/f, 3 Zhongshan Dong Yi Lu); per una serata easy è meglio il LOgO (13 Xingfu Lu), con musica e giovani del luogo. I migliori cocktail (anche con il Fernet-Branca…) sono quelli del Senator (98 Wuyuan Lu, Xuhui); nei Mokkos (103 Lane 1245 Wuding Xi Lu, Changning; 348 Yanping Lu, Jingan) servono solo drink a base di shochu, una specie di grappa giapponese distillata da riso, orzo o patate dolci. Il cibo cinese, dalla bettola al ristorante a 4 stelle, è mediamente buono: sono da provare i ristoranti di cucina del Dongbei (cioè il Nord-est, che comprende la Manciuria e la parte orientale della Mongolia Interna; http:// bit.ly/1zAtsA7) e il cibo piccante del Sichuan Citizen, simile alle nostre trattorie (30 Donghu Lu, Xuhui). Molto trendy i locali healthy come Sproutworks (con piatti internazionali: www.sproutworks.com.cn), che nella versione cinese diventa Mia’s Yunnan Kitchen (45 Anfu Lu, Xuhui). Per combattere la
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nostalgia di casa ci sono l’Uva Wine Bar (819 Shanxi Bei Lu) e il Salute (59 Fuxing Xi Lu, Xuhui)». E per respirare il fermento artistico? «Consiglio un giro nelle gallerie d’arte e nei luoghi come il Minsheng Art Museum a Red Town e l’Ocat Museum, dove non è raro trovare esposte anche opere di artisti italiani (vedere il servizio ARTE CONTEMPORANEA). A chi non resiste allo shopping, invece, consiglio Iapm (www.shanghaiicc.com.cn), ultimo arrivato fra i mall, innovativo e con ottimi ristoranti. Attic è un mini concept store gestito da giovani, con un terrazzo che ha una splendida vista sulla Old French Concession (6° piano, 218 Xinle Lu, Xuhui). Al DongLiang, al 184 di Fumin Lu ( Jing’an), si trovano le creazioni dei fashion designer cinesi. Il vintage autentico è in vendita all’Anxi Market (1335 Anshun Lu, Changning). Il Triple Major, infine, è un concept store di moda e riviste d’arte indipendenti (1, 25 Shaoxing Lu, Huangpu)». Info • www.meet-in-shanghai.net PASS: IN CINA
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Alice Rossetto imprenditrice
“In Cina tutto è possibile, ma niente è facile” Ha 32 anni, un sorriso contagioso, energia da vendere e dietro l’aria giovane e allegra nasconde una forza e una tenacia d’acciaio. La passione per il mondo e i suoi abitanti l’ha portata negli Stati Uniti, in Canada (dove ha incontrato Paul, ora suo marito), negli Emirati, nelle due Coree e poi in Malesia, passando per le Filippine, Hong Kong e Taiwan, senza trascurare il Centro America. Ovviamente ha girato in lungo e largo l’Europa, da Inghilterra e Irlanda a Germania e Malta. Ma da molti anni è quasi stabile in Cina: «Ci sono andata per la prima volta fra il 2003 e il 2004 per uno scambio organizzato dalla facoltà di Lingue e Istituzioni giuridiche ed economiche dell’Asia Orientale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che frequentavo. Ho scelto Dalian, nel Nord-est del Paese, una città con “soli” 7 milioni di abitanti, con la convinzione che lontana dalle metropoli sarebbe stato più facile conoscere i cinesi e più difficile incontrare persone con le quali parlare in inglese. Fu un’intuizione giusta, anche se l’inserimento non fu facilissimo. Restai a Dalian per 4 mesi, tornai a Venezia per la laurea, feci poi un Master in gestione del turismo alla Trentino School of Management e nel 2007 mi stabilii definitivamente a Shanghai. Il primo anno, per approfondire ogni aspetto della lingua e della cultura cinesi, ho abitato a casa di una famiglia proveniente dalla Mongolia interna. L’esperienza durò 9 mesi e mi fece capire che Shanghai mi avrebbe ospitata ancora per tanto tempo. Fu come cominciare a scalare un’alta montagna, la cui vetta non ho ancora raggiunto, perché la Cina, i cinesi e il mandarino sono talmente complessi e ricchi che non basta una vita per scoprirli e capirli. Dopo aver ricoperto diversi ruoli di responsabilità per aziende italiane con sede a Shanghai e come respon-
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sabile dello stand della città di Venezia durante lo Shanghai World Expo 2010, ho costituito una società di consulenza, la Rossetto Solutions Co. Ltd, che offre assistenza nel settore aziendale-turistico». Cosa le piace e cosa invece rende faticosa la vita di tutti i giorni in Cina? «M’incanta la voglia di vivere, il senso del dovere e il lavorare sodo senza lamentarsi. Ammiro anche la capacità dei cinesi di instaurare rapporti duraturi e sinceri, sia professionali sia d’amicizia. E ho la certezza che gli amici cinesi di oggi saranno gli amici del futuro. Ma pur amando molto la Cina e i suoi abitanti, qualche volta è difficile accettare con spirito zen gli imprevisti quotidiani, che non mancano davvero mai. È vero che “l’imprevisto costante” permette di sviluppare una spiccata capacità di problem solving, ma a volte sfinisce… Il motto, che gira fra gli amici occidentali, è: “In Cina tutto è possibile, ma niente è facile”. Per esempio, per un cinese è molto importante finire velocemente un lavoro e lo esegue rapidamente, anche se non ha chiara la finalità, con il risultato che spesso bisogna rifare tutto. Prima di iniziare un progetto con loro è meglio affrontare la questione nei minimi dettagli, senza avere paura di ripetere i concetti più volte. Non dare nulla per scontato aiuta a ottenere risultati migliori in tempi rapidi. A parte questo, mi sento molto vicina a loro su molti aspetti, come l’attaccamento alla famiglia, l’importanza data alle relazioni con continuo scambio di gentilezze e non ultimo il piacere di stare a tavola. La Cina è sorprendente, ma va scoperta con occhi curiosi e mente aperta, lasciando da parte i pregiudizi e i luoghi comuni. Per approfondire il rapporto fra cinesi e occidentali può essere utile leggere qualche libro, come 101 Stories For Foreigners To Understand Chinese People di Yi S. Ellis e Bryan D. Elli; per comprendere meglio la realtà e la storia (non ufficiali), China Candid di Sang Ye (Einaudi) e ancora Cigni selvatici di Jung Chang (TEA), una vicenda autobiografica che racconta la Cina dal 1920 al 1980 attraverso tre generazioni (l’autrice, sua madre e sua nonna). Stili di vita e abitudini si scoprono anche passeggiando in uno dei tanti parchi di Shanghai: a me piace seguire l’alternarsi delle stagioni al Fuxing oppure fare un tuffo nella Cina degli anni Trenta camminando lungo le sponde del Suzhou Creek, alle spalle di piazza del Popolo, fra gallerie d’arte e fabbriche dismesse riconvertite. Per un’immersione negli sport tradizionali consiglio la passeggiata ai campus della Jiao Tong University, con piste di atletica molto affollate fin dalle prime ore del mattino. Ma sono i sapori e i profumi del cibo che riempiono il mio cuore d’amore per questo Paese. I ristoranti che frequento sono molto diversi fra loro e li scelgo a seconda della giornata: al Nepali Kitchen, con piatti autentici nepalesi, ci vado anche per l’accoglienza calorosa (819 Julu Lu, vicino a Fumin Lu), mentre se voglio fare un pasto veloce, sano e biologico vado allo Sproutworks (www.sproutworks.com.cn) o allo Sprout Lifestyle (www.sproutlifestyle.com); per una gita fuori porta mi piace molto la fattoria biologica The Mahota, a Qingpu e Chongming (www.themahota.com/en); per l’alta cucina della provincia dello Yunnan e mostre fotografiche temporanee l’indirizzo giusto è Lost Heaven (38 Gaoyou Lu, vicino Fuxing Xi Lu; www.lostheaven.com.cn/main.html). La cucina piccante e autentica della provincia dello Sichuan si gusta allo Spicy Joint (K. Wah Center, 3° piano, 1028 Huaihai Zhong Lu), mentre per i dim sum vado al Din Tai Fung (South Block Plaza, 2° piano, lane 123 Xingye Lu, Xintiandi). Ma non si può tornare a casa senza aver fatto un giro nelle vie dello shopping: per il vero made in China di qualità consiglio Urban Tribe (www.urbantribe.cn), una catena di negozi con collezioni creative e originale di abbigliamento e accessori, e Pureland (http://www.pureland.cn/ index_en.htm), per la casa. Info • http://rossettosolutions.com PASS: IN CINA
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Matteo Migliavacca dottorando
Che fatica vivere a Beijing! Anche se ha solo 24 anni è già un job-trotter: dopo un anno in quarta liceo trascorso a Shiliazhuang, ha conseguito il bachelor’s degree in economia alla University of Nottingham Ningbo e poi un master in International Business nella sede di Beijing (37 Xueyuan Road, Haidian) della Grenoble Graduate School of Business, che ha concluso con uno stage presso la BNP Paribas di Hong Kong. «Parlo cinese e non ho difficoltà a comunicare, ma vivere nella capitale è davvero molto difficile. Prima di arrivare qua sono stato due anni a Ningbo, una città vicino a Shanghai che con i suoi 7,5 milioni di abitanti sembra un centro rurale, se paragonata a Pechino. Quella “piccola” dimensione mi piaceva, perché era tutto più tranquillo ed era facile entrare in contatto con i ragazzi del luogo. Trovo faticoso vivere in una metropoli con più di 21 milioni di persone — quasi un terzo della popolazione italiana! — sia per l’altissimo livello di inquinamento sia per la burocrazia snervante. Per capirlo, basta entrare in una banca per cambiare qualche soldo: si esce con ricevute e carte di tutti i tipi. Lo stesso se si ha bisogno di un permesso o di un documento: anche parlando fluentemente il mandarino, prima di riuscire a ottenerlo si fa un tour (anche di un giorno intero) fra un numero infinito di uffici. Ma quello che mi pesa di più è il clima, con inverni gelidi ed estati soffocanti, che – sommato all’inquinamento – non mi permettono di trascorrere il tempo libero in un parco, a giocare a basket o a parlare con gli amici nel verde. Mi sono dovuto abituare anche al fatto che i cinesi urlano quando parlano al telefono e che Beijing, come gli altri centri urbani, è piuttosto sporca. Per fortuna, la parte antica è bellissima e compensa i lati negativi: basta una passeggiata in piazza Tienanmen, con il mausoleo di Mao Zedong, un giro nella Città Proibita, una visita al Palazzo d’Estate dell’imperatore o al Tempio del Cielo e tutto diventa piacevole. Fra le mie mete preferite ci sono i famosi Hutong, i vecchi quartieri – non ancora rasi al suolo per fare spazio ai grattacieli – con case basse che possono sembrare baracche, negozietti che vendono dalla frutta alle scarpe e tanti ristoranti tipici che malgrado l’aspetto offrono cibo ottimo a prezzi davvero convenienti. Ci vado spesso con gli amici a bere una birra sulla terrazza di un locale per vedere il tramonto sulla Città Proibita. Normalmente mangio nei ristoranti sotto casa (cioè il campus), come il Xiaochi Beijing o il Sichuan Cai Fandian, che fanno pagare
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un piatto dai 10 ai 12 yuan (1 euro circa) e servono cibo molto buono, specialmente quello piccante del Sichuan. Un altro luogo vicino all’università dove vado spesso è il Just Kids (56 Zhi Chun Lu), che ha la pizzeria. Con i miei amici cinesi frequento i locali e le discoteche per studenti a Wudaokou: l’ingresso costa 50-60 yuan (8 euro) e all’open bar si può bere quello che si vuole, ma nel weekend preferisco posti con dj famosi e buona musica, anche se devo pagare di più. Vivere a Pechino mi ha fatto crescere: ho conosciuto persone colte, con loro ho conversato di economia e dei problemi sociali in tutto il mondo, e ho studiato molto, acquisendo importanti conoscenze sul business. Non ho fatto ulteriori progressi con il cinese – qui con gran parte della gente parlo in inglese – ma il mio soggiorno in Cina andrà avanti ancora un po’ e ho tempo per migliorare». Info • http://english.visitbeijing.com.cn PASS: IN CINA
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LA CINA
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MODA 时尚
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DI NATURA ELEGANTE Per anni gli stilisti occidentali hanno guardato ai preziosi “qipao” e alle minimali giacche stile Mao come fonte d’ispirazione. Ora i cinesi irrompono sulla scena europea da protagonisti, acquisendo case di moda e fondendo lo stile orientale con il manifatturiero italiano. DI LUISA ESPANET
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Qui accanto, Uma Wang con un abito della scorsa collezione estiva. Alle pagine 94-95, alcune immagini della sua sfilata autunno-inverno 2015, durante la Fashion Week di Milano a febbraio. A pagina 96, Zhu Chongyun nella Sala degli Specchi di Palazzo Litta, a Milano, accanto all’installazione “Nido dell’Araba Fenice” dell’artista inglese Faye Toogood.
IL LUSSO C’È, MA NON SI VEDE ALLA “FASHION WEEK” MILANESE, ormai da quattro stagioni, la
sua sfilata è un appuntamento da non mancare. Uma Wang, studi alla Donghua University di Shanghai e al Central Saint Martins College di Londra, è la prima stilista cinese riconosciuta a livello internazionale. Il suo debutto italiano risale al 2011, sulla passerella di On Stage, evento per designer emergenti organizzato ai Navigli da Milano Unica-Salone del tessile. Uno dei suoi pregi è l’abilità e l’inventiva con cui usa e accosta i materiali. In una collezione si era fatta notare per uno straordinario abito realizzato in carta cinese. In un’altra ha stupito ed entusiasmato con un capo in seta nero con interno in alluminio. «Il tessuto per me è molto importante, deve emozionarmi». In inverno sceglie la lana, per l’estate prevalentemente la seta, entrambe di produzione italiana. Le linee sono morbide, ampie, eppure riescono a essere donanti e femminili, e non solo per le modelle filiformi come lei, alta e sottile: «Gli abiti devono starmi bene addosso», risponde quando le si chiede a chi si rivolge la
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sua collezione. Rifugge le decorazioni e i dettagli preziosi, ma è lontana anni luce dal minimalismo mortificante. C’è un lusso pensato, discreto, mai urlato. Guarda, ma è uno sguardo distratto, ai costumi della tradizione cinese. «Preferisco parlare di riferimenti e ispirazione al Medioevo, dove Oriente e Occidente sono simili. Per me futuro e passato si confondono». È affascinata dal manierismo di Pontormo, da cui prende le combinazioni di colori. Usa raramente tessuti stampati, privilegiando le tinte unite. Nell’ultima collezione per l’inverno, presentata a febbraio a Milano, nella Sala delle Cariatidi, ha fatto un’eccezione. Si è ispirata alla carta da parati della Francia del 1800 e ai tappeti del Medio Oriente, nei toni del beige, del marrone e del nero. Molti i giochi di pieghettature presi dagli origami giapponesi. In Italia per ora i capi di Wang (www.umawang.com) sono venduti in poche boutique di tendenza. Ma è nei progetti ampliare la distribuzione e completare il marchio con una linea di accessori e una home collection.
Riso lontano
È un’italiana, ma i suoi gioielli saranno presto in Cina, nei due negozi 10 Corso Como di Shanghai e Beijing, di recentissima apertura, oltre che (naturalmente) nello store di Milano. La scelta di questa distribuzione per Bea Bongiasca, ventitreenne milanese, non è casuale. Nelle sue creazioni ‒ che utilizzano argento, oro, perle e pietre dure ‒ l’ispirazione è la Cina, presente con decorazioni a forma di chicco di riso, elemento essenziale per la vita, contrapposto alle perle, simbolo del lusso occidentale. Bea Bongiasca • www.beatricebongiasca.com 10 Corso Como • corso Como 10, Milano, tel. 0229002674, www.10corsocomo.com • 1717 West Nanjing Road, Shanghai, tel. 0086-21-62861072, www.10corsocomo.cn • Shin Kong Place, 87 Jianguo Road, Chaoyang District
Heritage con filtro
Gli abiti di Huishan Zhang, originario di Qingdao, in Italia non si trovano ancora, ma gli addetti del settore e le fashion victim li conoscono già e ne apprezzano il designer, sia per la sua partecipazione a diverse edizioni di On Stage a Milano sia per il suo curriculum fitto di premi speciali, collaborazione in famosi atélier come Dior a Parigi e per una sua opera al Victoria and Albert Museum di Londra, dove vive attualmente. Molto attento all’heritage, nei suoi capi si fondono elementi della cultura occidentale e della tradizione orientale. Non ha colori preferiti, anche se il bianco è uno dei più usati. Punta soprattutto su decorazioni e ricami e utilizza spesso cristalli Swarovski. Il suo target è una donna decisamente sofisticata, ma di tutte le età. Fra le sue clienti affezionate c’è l’attrice britannica Helen Mirren, che ha indossato un suo abito sul red carpet dei Grammy Awards 2014. Huishan Zhang • http://huishanzhang.com
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IL TALENTO DI MRS ZHU Per il mondo del fashion è stato uno degli eventi del 2014: l’acquisto di Krizia da parte dei cinesi per 35 milioni di dollari. E così una delle più famose griffe del prêt-à-porter italiano è passata dalle mani di Mariuccia Mandelli a quelle di un’altra signora, Zhu Chongyun. Presidente di un gruppo che gestisce cinque marchi di moda, oltre 400 negozi e 5mila dipendenti, con un fatturato di 300 milioni di euro (dati 2013), è lei stessa la direttrice creativa. Cinquant’anni, un viso da trentenne senza uso di bisturi e una laurea in ingegneria meccanica, Chongyun è pienamente soddisfatta dell’acquisizione e contenta di poter passare molto tempo in Italia, dove è rimasta la produzione. Il suo obiettivo: riportare Krizia all’autosufficienza. E tutti sono convinti che ci riuscirà, dal momento che di recente ha comprato un marchio cinese in perdita da tre anni e nel giro di tre mesi lo ha riportato in attivo. La sua prima apparizione ufficiale a Milano è stata durante la settimana della moda dello scorso settembre, nella mostra-party organizzata a Palazzo Litta in omaggio alla casa di moda. Nei saloni settecenteschi erano esposte, una per ambiente, le creazioni-testimonianze ideate dalle riviste Amica, Elle, D la Repubblica e Flair. Mentre nella Sala degli Specchi, al centro del percorso, dominava un’installazione in legno, mattoni e metallo dell’artista inglese Faye Toogood: il Nido dell’Araba Fenice, che risorge dalle sue ceneri. Con un riferimento preciso a Chongyun e alla nuova Krizia (www.krizia. it). La metafora è continuata alla presentazione della prima collezione autunno-inverno 2015, a febbraio, dove le modelle uscivano da uova di plexiglass. Per loro abiti dai tagli geometrici e decisi, in tessuti Jacquard con subliminali riferimenti alle tigri e alle pantere della tradizione Krizia.
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DOVE • COME • QUANDO
Uma Wang MILANO Daad-Dantone
Via Spirito Santo 24/a, tel. 0276016045. www.daad-dantone.com
FIRENZE -PN\P
(A piedi nudi nel parco) Via del Proconsolo 1/N, tel. 055218099. http://pnp-firenze.com
VENEZIA
ROMA Zita Fabiani
Via Ugo Ojietti 205, tel. 0686802227. www.zitafabiani.it
Lou Lou
Via dei Banchi Vecchi 116, tel. 0664760204. www.loulouroma.it
VERONA Macondo
Vicolo Scudo di Francia 7, tel. 045597194.
Lori
Galleria Teatro Vecchio 6 (Mestre), tel. 041950076. www.lorifashion.com
PADOVA XY Store
Galleria dei Borromeo 2/4, tel. 049664199. www.xy-store.it
PESCHIERA DEL GARDA A sinistra, un momento della sfilata di Krizia autunno-inverno 2015, la prima dell’era “cinese”, a Milano lo scorso febbraio: le modelle uscono da uova di plexiglass, metafora della rinascita della casa di moda.
Jazz Band
Via Rocca 14, tel. 0457551825.
PIETRASANTA MAC
Via Mazzini 86, tel. 05840652. www.macpietrasanta.com PASS: LA CINA IN ITALIA
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TALENT SHOW 达人秀
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FOTO DI GRUPPO CON MODELLE “Top model on the road by Loren Models” è la versione cinese del programma televisivo statunitense “America’s Next Top Model”: dodici bellissime cinesi si sfidano fino all’ultimo vestito (italiano) per conquistare la corona. DI GIANNA MELIS
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Le modelle a Venezia per il festival del cinema. A sinistra negli studi di Guangxi TV. Pagg. 90-91, a Madonna di Campiglio.
MODA, ARTE, DESIGN E CIBO ITALIANI vanno in onda su Guang-
xi Television, emittente della regione omonima con sede nel capoluogo Nanning. Il Top model on the road by Loren Models è un talent show ideato da Steven Luo, poco più di 30 anni, organizzatore di Miss China in Italy e titolare della Loren Models (così chiamata in omaggio a Sophia), agenzia di modelle cinesi, ma non solo (http://en.lorenmodels.com/dasai.html). Arrivato in Italia da ragazzino con la sua famiglia, Luo vive fra Milano e Beijing ed è promotore di iniziative che hanno l’obiettivo di migliorare gli scambi commerciali e culturali fra l’Italia e la Cina. Tra cui (appunto) il reality, perché – come sostiene Luo – i prodotti italiani hanno conquistato la classe media cinese e l’intento è di mostrarli nell’ambiente in cui vengono creati. Il successo del programma – trasmesso anche a Hong Kong e Macao, in Vietnam, Laos, Thailandia, Corea e Cambogia – è strepitoso: un auditel di quasi 80 milioni di spettatori. La formula del talent show è semplice: dopo le sele-
zioni in patria, le dodici finaliste arrivano in Italia un mese prima della Fashion Week meneghina (la vincitrice prende parte alle sfilate di settembre), visitando le città che appoggiano l’iniziativa e scoprendo paesaggi e cultura delle regioni che le ospitano. Devono superare prove di fotogenicità, disinvoltura durante le sfilate, ma anche naturalezza, senso dell’umorismo, cucina e tecniche di produzione. Eccole allora impegnate a impastare uova e farina o a vendemmiare… Le giornate italiane delle modelle, con sfide e sfilate, sono poi trasmesse in dieci puntate. Alessandra Carta, stilista del brand italiano Carta&Costura, stylist e consulente fashion di molti marchi, è stata una delle giurate dell’edizione del 2014, registrata – oltre che in Cina – fra Venezia, Padova, Verona, Milano, Sirmione, Madonna di Campiglio, il dannunziano Vittoriale di Gardone e il Casinò di Campione d’Italia, dove si svolge sempre la finale. L’abbiamo intervistata, per “sbirciare” dietro le quinte del programma. PASS: LA CINA IN ITALIA
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Chi ha partecipato all’organizzazione?
«Le persone coinvolte nel progetto erano una cinquantina per la Guangxi Television, più una decina di italiani, fra cui il regista Andrea Marchi, del programma Scherzi a parte, l’autore Nicola Lorenzi, di Masterchef, il direttore della fotografia e qualche tecnico. Con me nella giuria c’erano Alessandra Guffanti, dell’omonimo showroom di Milano che esporta la moda italiana in tutto il mondo, Michael Dolci, vice presidente della Major Models, e il fashion blogger Peter Xu (http://instagram.com/ digitalpimpp)».
Quali brand hanno vestito le modelle?
«Le ragazze hanno indossato creazioni di Gattinoni, Byblos, Jenny, Chiara Boni, Philipp Plein con le scarpe di Casadei. Al termine della trasmissione, alcune delle modelle arrivate in finale sono state invitate a una cena di gala all’Ambasciata italiana a Pechino, dove hanno sfilato con i vestiti dei marchi italiani. Ma durante le serate qui da noi si sono divertite molto a indossare gli abiti lunghi e colorati delle tirolesi o i costumi della principessa Sissi, usati a Madonna di Campiglio per il Carnevale asburgico. In quelle occasioni, con gli abitanti del luogo, con gli alpini e con la banda, le modelle non hanno disdegnato i brindisi con qualche bicchiere di vino o di grappa locali, che hanno aumentato l’euforia e facilitato i rapporti d’amicizia».
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La stilista Alessandra Carta con il “fashion blogger” Peter Xu
Le reazioni degli italiani?
«È stata molto divertente la tappa a Venezia, durante il festival del cinema. Le modelle erano vestite da “red carpet”, con abiti eleganti e molto ricercati, e nelle sale del Grand Hotel del Lido hanno dovuto rifiutare proposte di matrimonio, scansare uomini che si offrivano come agenti, fotografi che proponevano servizi su giornali nazionali e altri che, secondo la tradizione maschile italiana, tentavano di “cuccare” le belle ragazze cinesi».
stare il titolo. Ma questa non incideva sulle relazioni. Fra loro si chiamavano “sister”, si abbracciavano spesso e in alcuni alberghi hanno dormito in due o tre nella stessa camera, passando la notte fra chiacchiere e risate».
Qual è il premio per la vincitrice e chi ha conquistato la corona?
«L’edizione 2014 è stata vinta da Fonda Guo, un metro e ottanta d’altezza, misure perfette, un viso di porcellana e tanta voglia di conquistare le copertine patinate dei magazine di moda. Il premio per lei è un contratto con l’agenzia milanese Major Models, che prevede la partecipazione alle sfilate delle manifestazioni fashion più importanti di Parigi, Milano e di quelle cinesi».
(a sinistra) e la taiwanese Wu I Hua (a destra), “top” nel 2013.
I cinesi hanno gradito il cibo italiano?
«Tutti i partecipanti al talent, ragazze comprese, hanno apprezzato e mangiato con piacere gli spaghetti, la pizza, i salumi e i formaggi. Le modelle infilavano nei loro zaini dolci e frutta avanzati dalla colazione o dai pasti, per mangiarli a merenda».
Com’erano i rapporti fra le partecipanti?
«Essendo una competizione, fra le ragazze c’era una sana rivalità, perché tutte speravano di conqui-
Pensi che dopo questo “reality” l’Italia sarà più amata dai cinesi?
«Il lifestyle e il made in Italy sono amati in tutto il mondo, Cina compresa. Se vengono in Europa, i cinesi fanno sempre tappa nelle città italiane più importanti per l’arte e la cultura. Li attraggono moltissimo anche lo shopping e la cucina. Sicuramente il programma ha dato il massimo risalto alle nostre bellezze naturali e architettoniche, ma anche alla moda e al food. Il reality è stato seguito da milioni di cinesi che hanno scoperto luoghi, persone e simboli italiani e sicuramente questo ha stimolato la loro curiosità e aumentato la voglia di venire a scoprirli dal vivo».
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CIBO 中餐
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METTI UNA SERA A CENA…
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DA GOURMET Addio allo stereotipo del mangiare tanto, non troppo bene, ma spendendo poco. Da qualche anno una manciata di ristoranti (di design) ha fatto di Milano la capitale italiana dell’alta cucina cinese. Un patrimonio culinario sterminato e millenario, rivisitato e alleggerito, con un occhio di riguardo al nostro palato. Materie prime selezionatissime, cotture impeccabili e presentazioni raffinate alla ricerca dell’equilibrio perfetto in ogni pasto. DI FRANCESCA PIANA FOTO DI GIOVANNI TAGINI
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PIÙ VIAGGI, PIÙ ASSAGGI. Se viaggi, cogli le nuove ten-
denze e con maggiore audacia (rispetto a chi non si muove) esplori le diverse culture gastronomiche senza esclusione di sapori. Conoscere il mondo agevola, e di molto, la prova del gusto e ora che il mondo è sulla porta di casa e (quasi) tutti si spostano continuamente, il gioco è fatto. Ecco allora che è sbarcata a Milano, città degli affari e del commercio, una nuova (per noi) idea di cucina cinese, proprio grazie ai nostri connazionali che sempre più si muovono e ai cinesi facoltosi che, nel capoluogo lombardo per business o per piacere, dopo un paio di cene italiane (che apprezzano) cercano rifugio nei sapori di casa, ma li pretendono al top. Certo, Milano non è Londra, che non ha eguali nella proposta culinaria etnica, ma la situazione meneghina, seppure un po’ provinciale, sta migliorando. Non più involtini primavera e pollo alle mandorle consumati in locali di quart’ordine, ma piatti di alto livello in ristoranti di design, che danno spazio tanto al contenitore quanto ai sapori raffinati, alla presentazione (che in Cina conta moltissimo) e al servizio, che accompagna i turisti del gusto in un curioso e intrigante percorso di scoperta. Gli uomini di mondo hanno colto la novità, anche se molti sono coloro che ancora faticano a spendere in un ristorante cinese quanto in uno italiano. Per il momento i locali da gourmet, con pietanze tradizionali rivisitate e alleggerite, qualche concessione al gusto italiano o “invenzione” fusion, non superano la decina e stiamo parlando della città più all’avanguardia d’Italia in questa tendenza. Pochi, ma buoni, anzi ottimi. In menù hanno piatti diversi, accomunati dai tempi lunghi dedicati alla preparazione e quelli brevissimi della cottura (al vapore, al salto nel wok o fritto), dalle porzioni ridotte, dalla presenza importante degli ortaggi, delle spezie e delle erbe aromatiche, dall’assenza dei latticini (unico “formaggio” il tofu, fatto con latte di soia) e dalle scarse proposte di dolci, poco dolci, delicati e brodosi come piacciono ai cinesi, molto meno agli italiani. Le peculiarità della buona cucina cinese, antichissime, sono in linea con le più attuali tendenze gastronomiche improntate alla leggerezza e alla salubrità. L’attribuzione della famosa stella Michelin a un ristorante cinese non è più fantascienza, soprattutto ora che un giapponese, Haruo Ichikawa, l’ha conquistata (da poco e proprio
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a Milano), primo orientale in Italia a fregiarsi del riconoscimento, conquistato anche grazie alla sapiente guida del patron italo-cinese Claudio Liu. La cucina è cultura, non è una novità. Il difficile è rapportarsi a concetti di cibo che non si conoscono. Il bello, come sempre, è capire, prima di assaggiare o, meglio ancora, farsi guidare da chef e proprietari (cinesi di seconda generazione che si esprimono senza accento nella nostra lingua) nei piacevoli meandri di una tradizione millenaria che chi non conosce la Cina disconosce completamente.
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IL RITO COLLETTIVO DEI “DIM SUM” Non è (solo) un raviolo, anche se può esserlo. Piccole porzioni, bocconi gourmet, cotti al vapore, stufati o fritti: ecco i dim sum, un rito che richiede condivisione. Al ristorante o in famiglia, l’importante è la compagnia, l’unico modo per assaggiare un po’ di tutto, solitamente almeno una decina di portate diverse che sfilano simultaneamente. In Italia la parola dim sum è entrata nel vocabolario da poco grazie ad alcuni ristoranti, che li hanno introdotti servendoli come antipasti piuttosto che come pasto completo. Aperto a fine 2013, Dim Sum è il primo locale a Milano specializzato – appunto – nei dim sum: contemporaneo ed elegante, con quella tonalità che dal grigio sfuma nel blu elettrico strizzando l’occhio alle notti di Shanghai, è firmato dal designer Carlo Samarati. Lo guidano Yike Weng, la moglie Chiara Wang Pei (vedere il servizio RITRATTI) e lo chef Guoqing Zhang, proprietari di successo anche del Bon Wei (ora diretto dal figlio di Guoqing, Le), pioniere a Milano dell’alta cucina cinese, un centinaio di piatti di tradizione classica priva di note fusion, attenta tanto alla scelta delle
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materie prime quanto alla presentazione. «I dim sum sono nati nelle campagne della regione di Canton, nel Sud, dove i contadini avevano necessità di uno spuntino rinforzato a colazione o a metà mattina; poi l’uso si è esteso, entrando senza un orario fisso (dal risveglio al tardo pomeriggio) nella tradizione familiare, con assaggi basati sugli avanzi di cucina», spiega Yike. «Nei ristoranti, che in Cina sono molto grandi, è abituale il servizio al carrello, per passare fra i tavoli agevolando la scelta». Oggi il rito dei dim sum è diventato una moda e la sua mecca è Hong Kong, ma il trend si è affermato anche a Shanghai, in Australia, a Londra, New York e Parigi, dove i dim sum sono una realtà consolidata e una maniera di pranzare contemporanea. Anche se gli italiani non pasteggiano solitamente a dim sum e li ordinano piuttosto come antipasti, dai coniugi Weng si può scegliere fra oltre trenta combinazioni in una carta sempre più specializzata. Dalla spettacolare cucina a vista, dove vengono preparati a mano da una brigata di cuochi e serviti negli appositi cestini di bambù se cotti al vapore o in piattini di ceramica se saltati in
padella, escono jiaozi (ravioli chiusi a lunetta), shao mai (aperti), xiao long bao (tondeggianti e chiusi a saccottino), che assumono nomi ancora diversi in base alla cottura: shuijiao se bolliti, zhengjiao se al vapore, guotie o jianjiao se saltati in padella. Ecco allora ravioli ripieni di cernia e zenzero, di granchio, di calamaro e sedano con nero di seppia nell’impasto, di granchio e astice, ravioli di gamberi e pesce persico con lime grattugiato, ravioli ripieni di carne di maiale, verdure e uova e, rara concessione agli
ingredienti nostrani, ravioli farciti di chianina ed erba cipollina. «Il segreto del buon raviolo è la pasta – fatta in casa con farina di grano, preferibilmente “00”, o farina di riso – che deve essere sottile per lasciare prevalere il ripieno», spiega il signor Weng, che specifica: «Nei nostri ravioli di pesce o crostacei non c’è traccia di carne, come invece spesso avviene». Li propone non con la tradizionale tazza di tè, ma con un’inusuale coppa di champagne: la seconda (e ultima) piccola concessione al gusto occidentale. PASS: LA CINA IN ITALIA
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PENSARE ITALIANO, CUCINARE CINESE «Il servizio e l’atmosfera contano molto, ma poi bisogna mettersi nell’ottica di un italiano che va al ristorante cinese: la vera difficoltà sta nell’ordinare, quindi saper comunicare per noi è fondamentale. Chiediamo al cliente cosa sia disposto ad assaggiare e in base ai suoi gusti suggeriamo i piatti, che nel menù non sono suddivisi fra antipasto, primo e secondo, che non esistono in Cina, ma fra pesce, carne, riso, pasta e verdure», spiega Marco Liu, titolare del BA-Asian Mood, locale elegante dall’ambiente di design, a rigorosa conduzione familiare. «Puntiamo sulla qualità. Lo stereotipo, imperante fino a pochi anni fa, era che mangiare cinese significasse mangiare tanto, a basso costo e con scarsa qualità. Ma quella non è la cucina cinese», chiarisce. «A Londra non si fanno problemi ad assaggiare, per esempio, la medusa, che io vorrei introdurre nel mio menù insieme con la lingua d’anatra, le interiora di maiale, le zampe di gallina lessate. Perché Milano comincia a cambiare. Qui si trova di tutto e i ristoratori cinesi più validi “osano”, puntando sulla scelta di ingredienti freschi e di prima qualità». I genitori di Marco, nato e cresciuto in Italia, sono arrivati negli anni Ottanta. Il padre ha compiuto il viaggio a piedi e in treno lungo la Transiberiana munito solo di un paio di scarpe, 60 dollari e una valigia di cuoio, ha fatto la gavetta in Francia nel ristorante di un connazionale prima come lavapiatti e poi come spalla dello chef. Approdato a Reggio Emilia, ha aperto una trattoria di cucina romagnola, fino a coronare, a Milano, il sogno di dare avvio a un ristorante cinese di livello. «La nostra ambizione è quella di collocare la nostra cucina sul podio più altro, fra le migliori del mondo, che è il posto che le spetta. Se una persona volesse provare tutti i piatti cinesi, dovrebbe vivere cent’anni assaggiandone più o meno uno diverso al giorno». Marco ha studiato in scuole italiane, ha amici italiani, parla un italiano impeccabile e conosce il gusto italiano, ma in Cina va ogni anno ed è al passo con le nuove tendenze. Scampi al vapore, granchio morbido al pepe nero del Sichuan, spinaci d’acqua con aglio tritato, ravioli al nero di seppia con ripieno di branzino, ravioli brasati con ripieno di carne, zuppa di granchio e aspa-
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ragi, zuppa di mais e pollo, costolette di maiale al forno marinate in salsa vegetale a base di prugne rosse, anatra alla pechinese, puntine di suino in agrodolce, verdure miste al salto: i piatti sono quelli tradizionali, alleggeriti e con qualche concessione al gusto italiano dove risulta necessario. Fra le proposte a cavallo delle due culture ci sono gli spaghetti di grano aromatizzato al tè verde con salmone e bottarga di muggine a scaglie e le trofie di riso con tartare di gamberi spadellata, cipolle rosse di Tropea e lardo.
BA - Qui a lato: costolette di maiale marinate in salsa agrodolce e cotte al forno. Sopra, da sinistra: capasanta alla salsa Xo (ai frutti di mare, piccante); un angolo del ristorante. DIM SUM - Pag. 104: la cucina a vista. Pag. 105: ravioli al vapore con cernia e zenzero (in alto), con calamaro e sedano nero e con frutti di mare e “lime” (in basso). Pagg. 102-103: in alto, scampi al vapore al BA e taglio dell’anatra laccata alla pecchinese al Jade Café; sotto, polpette di tofu con ripieno di verdure al Dim Sum e riso soffiato con verdure, carne, gamberi e funghi (“Guo Ba”) al BA. Pagg. 100-101: il momento del tè al BA. Pagg. 98-99, i cestini dei ravioli al Dim Sum.
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LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO IN OGNI PASTO «Non c’è traccia di antipasto, primo e secondo in un menù cinese», chiarisce subito Carmen Sun, proprietaria del Giardino di Giada, che ha aperto – a pochi passi dal Duomo – 34 anni fa (un anno dopo il suo arrivo in Italia, dove i genitori gestivano uno storico ristorante cinese). «Non esiste una sequenza di portate, ma una costante ricerca di equilibrio fra piatti che vengono serviti insieme». Già, in Cina si ordinano magari dieci pietanze, che vengono portate in tavola allo stesso tempo e condivise dai commensali. Se il Giardino di Giada è dedicato ai soli piatti cinesi, prevalentemente cantonesi, con spazio alle specialità del Sichuan (in cucina, da quasi 25 anni, c’è lo chef Dong Guikai), al Jade Café, locale adiacente dall’ambiente giovanile e raffinato, si trovano anche fusioni con i prodotti italiani, per
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esempio i dim sum con i porcini o con l’olio di tartufo o con l’aceto balsamico, oltre a proposte thailandesi, giapponesi, vietnamite, indonesiane, coreane e filippine. «Il modo di cucinare dei Paesi orientali è simile. A cambiare sono soprattutto le spezie usate», spiega Carmen. I piatti proposti, poi, sono delle regioni cinesi più disparate. Ecco allora ravioli di spinaci e funghi, di gambero e uova di pesce, di pollo brasati con profumo di tartufo, di gambero con pasta di riso, zuppa di tofu con verdure, zuppa agropiccante, riso saltato con maiale al forno, uova e verdure, filetto di manzo scottato sulla piastra con verdure cinesi, anatra con ananas fresco, maiale alla Sichuan, tofu stufato, cavolo bianco saltato con aceto e peperoncino. Si rispetta la tradizione e sulla tavola si materializzano simultaneamente una zuppa di uova con pomodoro e alghe, melanzane cinesi stufate con salsa di ostriche, branzino al vapore in salsa di soia, zenzero e cipollotti, verdure saltate in padella, poco cotte per conservare le sostanze nutritive e la brillantezza in una cucina dove l’aspetto e il colore delle pietanze sono assai rilevanti. «In Italia ci si disseta con acqua fresca, durante il pasto, in Cina no. In famiglia non si consuma nemmeno il tè: si assaggia tutto, un boccone qua e là dai vari piatti, e si “bevono” cucchiaiate di zuppa».
Spezie e piatti a misura di italiani Zenzero, soia, aglio, pepe selvatico, peperoncini piccanti, cipollotti, vino di riso, salsa di ostriche e di prugne sono usatissimi nella cucina cinese, come anche il. In Italia c’è chi utilizza anche l’anice stellato, il sale rosa dell’Himalaya, le foglie di lime e il curry. Qualcuno ha ridotto molto l’impiego dell’aglio per adattare le pietanze al gusto italiano, mentre il coriandolo, comune in Cina, è stato rimosso quasi completamente perché sgradito. Si limita anche il piccante, non si propongono troppe zuppe e tofu, non tanto riso glutinoso, non piatti che risultino “strani” come le zampe di gallina e le cosce di rana. La contaminazione prevale da MI-Cucina di confine, che fa incursioni nella tradizione italiana e spazia in tutto l’Asia, e non solo. Accanto alle proposte cantonesi, la nuova cucina fusion dello chef trentenne Ou Yong Hok Bun, giunto in Italia nel 2011 da Hong Kong in Italia, è creativa e propone ogni mese nuovi piatti, che miscelano Oriente e Occidente, con particolare enfasi sui crostacei e il pesce, protagonisti di
abbinamenti insoliti. Ecco allora la sogliola stufata con bambù e funghi, la tartare di tonno e avocado, l’astice in salsa chili, il cubo di tonno ai semi di papavero, il carpaccio di branzino con erba cipollina e tobiko (le uova di pesce volante), la tartare di gamberi rossi con mango e sesamo, gli involtini di branzino con gamberi e asparagi, gli asparagi in salsa di ostriche e verdure fritte in agrodolce, i ravioli di gamberi in salsa malese, il vitello saltato in salsa di fagioli neri, il filetto di manzo in salsa di soia caramellata, il temaki con pasta sfoglia fritta, salmone, salsa wasabi, mango e alga, rivisitazione della versione giapponese. All’insegna delle tradizioni (migliori), invece, il Mandarin 2. «Se trovo i carciofi, in stagione, non posso non acquistarli: sono cresciuto in Italia», dice Kam Chunyi, giovane proprietario del ristorante aperto dal padre nel 1979 (nel 1974 il nonno, giunto in Italia nel 1958, aveva avviato il Mandarin, ora in altre mani). Una famiglia, cinque fratelli, tre dei quali attivi nel locale. Radicato in Italia, di larghe vedute
(come i suoi genitori), oggi Chunyi – che ha incorporato anche l’arte dalla mamma siciliana, che collabora con lui in cucina – ha le mani in pasta tutti i giorni dalle 9 alle 16. È lui che si occupa delle farine. «Gli italiani non mi considerano italiano, i cinesi non mi considerano cinese. Solo quando mi vedono impastare, tagliare, preparare la base dei ravioli e chiuderli, allora i cinesi mi rispettano». In menù ci sono crostini di gamberi, ravioli nelle due varietà di gamberi e di carne, zuppa agropiccante (una curiosità gastronomica, spessa e leggermente gelatinosa), riso Shanghai (croccante, con bocconcini di pollo, vitello, verdure e gamberi), vitello, bambù e funghi con salsa di ostriche, salmone con frutta fresca, polpo con salsa di prugne, rombo con i carciofi. «Gli italiani da noi non leggono la carta, chiedono consigli. Cerchiamo di incoraggiarli a fidarsi e osare. Certe abitudini alimentari, però, non riusciamo a scalfirle: dobbiamo portare le portate in sequenza, altrimenti pensano che li si voglia mandare via in fretta».
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A destra, due particolari dell’arredo del MI. Sotto, il Dim Sum. JADE CAFÉ - Pag. 108: a sinistra, dall’alto, elemento decorativo del piatto, ricavato da una carota, e funghi neri cinesi (muer) con bacche di goji; a destra, la preparazione dei tavoli. MI - Pag. 109: carpaccio di branzino con erba cipollina, uova di tobiko e salsa a base di pompelmo.
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DOVE • COME • QUANDO
Milano ALTA CUCINA CINESE Dim Sum
Via Nino Bixio 29, tel. 022952282. www.dim-sum.it Orari: 12-14.30 3 19-23.30; chiuso lunedì.
Bon Wei
Viale Castelvetro 16-18, tel. 02341308. www.bon-wei.it Orari: 12-14.30 3 19-23.30; chiuso lunedì a pranzo. Ha preso avvio a dicembre 2014 un progetto di esplorazione culinaria delle otto regioni gastronomiche cinesi: Guangdong-Canton (dicembre), Sichuan (febbraio), Fujian (16 marzo), Shandong, Jiangsu, Zhejiang (da dove viene lo chef ), Hunan e Anhui. La cena inaugurale è accompagnata dalla narrazione di storie e leggende, legate ai piatti più celebri, raccontate da docenti di lingua e cultura cinese e vergate da un maestro calligrafo; nei giorni seguenti, in qualsiasi serata, si possono ordinare, fuori menù, 3/4 piatti della cena a tema del mese (telefonica o via mail a prenotazione@bon-wei.it).
BA-Asian Mood
Via C. Ravizza 10, tel. 024693206. www.ba-restaurant.com Orari: 12.30-15 e 19.30-24; chiuso lunedì.
Jade Café
Via Palazzo Reale 5, tel. 0272095535.
www.jadecafe.it Orari: 12-15 e 18.30-24; chiuso domenica.
Giardino di Giada
Via Palazzo Reale 5, tel. 028053891. www.giardinodigiada.it Orari: 12-14.45 e 19-23.45; chiuso lunedì.
FUSION MI-Cucina di confine Viale Cassiodoro 5, tel. 0248513745. www.mi-cucinadiconfine.it Orari: 12-14.30 e 19-23.30; chiuso lunedì.
LA MIGLIORE TRADIZIONE Mandarin 2
Via Garofalo 22a, tel. 022664147. www.mandarin2.it Orari: 12-15 e 19-23.30; chiuso lunedì.
Lon Fon
Via Lazzaretto 10, tel. 0229405153. Orari: 12-14.30 e 19.23.30; chiuso mercoledì.
Hong Kong
Via G. Schiaparelli 5, tel. 0267071790. www.ristorantehongkong.it Orari: 11.30-15 e 18.30-23.30; chiuso lunedì a pranzo. PASS: LA CINA IN ITALIA
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MATRIMONI 婚姻
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SAPESSI COME (NON) È STRANO SPOSARSI A MILANO Sono rimasti solo i cinesi a farsi fotografare davanti al Duomo, fra voli di piccioni… DI LUISA ESPANET
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© Giovanni Tagini
PIAZZA DEL DUOMO È LA PRIMA TAPPA del “percorso nuziale”
per i neosposi cinesi. Questo prosegue al Castello e al parco Sempione, ovviamente sulla sponda del laghetto, per terminare in uno dei ristoranti della Chinatown meneghina. Scorrazzati da una lunghissima limousine bianca. I novelli marito e moglie emergono dalla folla non tanto per l’abito candido di lei, quanto per il bianco ottico del vestito di lui. Composto dai consueti tre pezzi, è in tessuto lucido, completato da camicia, scarpe, papillon o cravatta. Bianchi. Niente uso di cilindri o affini, ma una pesante applicazione di brillantina sui capelli. Per lei, un capo lungo, meglio se con strascico, di rigore il festival del volant o della balza (o anche tutti e due insieme) e il luccichio. Dato dal tessuto, ma anche dalle decorazioni. Preferite le perle, seguite da strass e Swarovski, possibilmente grandi. Di solito niente velo, ma una pettinatura-parrucca all’insegna della lacca, che ricorda le cotonature anni Sessanta. Dove il vaporoso è l’obiettivo unico. Orecchini pendenti e collana di dimensioni cospi-
cue sono obbligatori. Ma non rientrano nel “qualcosa di vecchio” che la sposa deve indossare, perché difficilmente sono identificabili come gioielli di famiglia. E neanche nel “qualcosa di prestato”, dato che il materiale con cui sono realizzati garantisce a stento una durata superiore alle 24 ore. Il “something etc.” – è evidente – non fa parte delle tradizioni cinesi. Lo è invece la scelta del giorno delle nozze fra i “rossi” del calendario, individuati secondo le fasi lunari, al cui numero va aggiunto, con uno strano calcolo, quello della data e dell’ora di nascita dell’uomo e della donna. Il ricevimento avviene in un ristorante e dura dalle quattro alle cinque ore. Gli invitati arrivano anche da ogni angolo d’Italia (e non solo) per portare il proprio dono: niente regali, ma solo ed esclusivamente soldi, in quantità congrua al grado di parentela o amicizia con i padroni di casa. Pena la perdita della faccia. Si salda così la rete familiare e di relazione che supporta i singoli e permette il benessere della comunità. Ma attenzione: ciò che PASS: LA CINA IN ITALIA
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viene ricevuto deve essere a tempo debito dato. Anche a costo di rovinarsi: ben peggio sarebbe essere esclusi dal “clan”… Il “sì”, con le dovute promesse d’amore, viene pronunciato proprio lì, su un palco allestito nel ristorante, da cui una sorta di ”presentatore” conduce l’intero evento. Il cerimoniale vuole che, prima di iniziare il banchetto, la coppia si avvicini al tavolo dei genitori e si inchini tre volte: la prima per pregare il cielo e la terra, la seconda per coloro che li hanno messi al mondo e cresciuti, la terza per il matrimonio. Segue la solenne cerimonia del tè, offerto dai due sposi ai genitori in segno di riconoscenza, e quindi lo scambio delle fedi. E finalmente comincia il pasto, che non prevede necessariamente i tradizionali dodici piatti delle nozze cinesi (dove la sposa indossa ben tre abiti: il qipao a fiori la mattina, il bianco con strascico occidentalizzante e il lungo vestito rosso durante la cerimonia e le danze). Ma anche in Italia il menù è all’insegna del “purché costi”, con aragosta e caviale innaffiati – ça va sans dire – da champagne. Non sono previste distribuzioni di confetti, ma di caramelle e pacchetti di sigarette. Sulla marca non sembrano esserci regole di bon ton. L’etichetta, comunque, va a farsi benedire un brindisi dopo l’altro: la coppia che gira fra i tavoli deve farsi un calice con ogni ospite e spesso ce ne sono ben più di cento… Lei riesce in qualche modo a cavarsela grazie all’aiuto (codificato) di una damigella, ma lui non può sottrarsi, né alle bevute né agli scherzi (a volte un po’ grevi) dei commensali. L’ubriacatura fa parte delle regole! Come il rosso, simbolo di prosperità e felicità, immancabile a ogni festa, che sia un matrimonio, una nascita o il Capodanno. Rossi sono i fiocchi o le coccarde appuntate sugli abiti e rosse sono le decorazioni della sala, che riportano il carattere della “doppia felicità” (囍, shuangxi). A Milano si sposa mediamente una coppia di cinesi residenti alla settimana (il lunedì va per la maggiore), ma capita che qualcuna arrivi persino dalla madrepatria per celebrare o ricelebrare il matrimonio in Italia. A Chinatown ci sono agenzie che provvedono a tutto, dagli abiti alle foto, dal bouquet alla limousine e al ristorante, per una cifra iperconcorrenziale che si aggira intorno ai 1.5001.800 euro. Un’opportunità che gli italiani hanno già cominciato a prendere in considerazione.
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Prima e dopo Secondo la tradizione, la giornata comincia al mattino quando lo sposo che, insieme con gli amici più cari, va a prendere la sposa, che attende nella sua camera in compagnia delle amiche. Oggi, in Italia come in Cina, la “rappresentazione” avviene spesso in un hotel (vedere, per esempio, http://bit.ly/1woQqDq). Non è affatto detto che il “sì” burocratico venga pronunciato lo stesso giorno del matrimonio “vero”, cioè quello che si celebra al ristorante. Gli sposi disbrigano la pratica della registrazione anche in un altro momento, con comodo. E le immagini che vanno a comporre l’“album delle nozze” non sono solo quelle scattate nella giornata fatidica: nel periodo precedente, infatti, i due ragazzi posano in giro per la città come modelli, cambiando magari più e più abiti (presi a nolo). Per farsi un’idea delle agenzie che propongono il pacchetto completo si può vedere il video all’indirizzo http://bit.ly/1xXXoQu e magari visitare, per esempio, la Servizio matrimonio (via Paolo Sarpi 25, Milano). Per le scenografiche torte nuziali, e non solo, c’è la Pasticceria Torta Fresca (via Canonica 36, Milano).
Banchetti e squali Fra le tradizionali portate di un matrimonio in Cina – in cui non possono mancare il pollo, il maiale, i gamberi con le noci al miele, l’aragosta, il cetriolo di mare, l’abalone, un pesce intero al vapore e il riso fritto con gamberi – il pezzo forte è sempre stata la zuppa di pinna di pescecane. Prelibata e costosissima (una porzione costa sui 50 euro), viene servita nelle grandi occasioni. Ma negli ultimi anni è stata registrata una drastica riduzione nei consumi. Sia per le campagne ambientaliste (cui sono molto sensibili i giovani) sia per la legge anticorruzione emanata dal governo, che ha proibito di consumarla nelle cerimonie ufficiali.
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LINGUA 普通话 PASS: LA CINA IN ITALIA
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CHE CARATTERE!
Più delle difficoltà possono la curiosità e le prospettive. Gli italiani affollano i corsi per imparare a scrivere e a parlare il mandarino. Intanto gli atenei hanno istituito lauree specialistiche e puntano a equiparare i titoli di studio, il cinese è entrato nei licei ed è nata a Padova la prima scuola internazionale bilingue di alta formazione. E una seconda è in cantiere a Milano.
DI SILVIA FRAU FOTO DI GIOVANNI TAGINI PASS: LA CINA IN ITALIA
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ALL’INIZIO SPAVENTA: LA QUANTITÀ DI CARATTERI (circa 11mila),
i quattro toni (cui si aggiunge quello neutro) che danno significati differenti a ogni sillaba e la rigida struttura sintattica (che prevede una precisa collocazione di soggetti, verbi, aggettivi, avverbi, gruppi preposizionali, termini indicanti tempo ecc.) sono un deterrente allo studio del mandarino, o meglio del pǔtōnghuà (普通话). Poi – dicono – si scopre che 2mila sinogrammi coprono il 90 per cento dell’uso comune (un cinese laureato ne conosce sui 4.500), che la grammatica è in fondo abbastanza semplice (i verbi non si coniugano, nomi e aggettivi non hanno maschile e femminile, singolare e plurale) e, soprattutto, ci si abitua alla fonetica, imparando a comprendere il senso di una parola dal contesto (diversi caratteri vengono pronunciati nello stesso modo) o dalla posizione nella frase (in alcuni casi, uno stesso carattere può essere verbo o preposizione, nome o aggettivo ecc.). L’incentivo ad affrontare tutto questo è, ovviamente, creare un ponte verso un Paese popolato da quasi un miliardo e mezzo di persone, dove l’economia è sempre più forte. Se ne sono resi conto da tempo negli States e più recentemente in Inghilterra, dove uno degli obiettivi del ministero dell’Istruzione è far diventare la lingua del Celeste Impero la seconda nelle scuole, a livello capillare e fin dalla primaria. E in Italia? A inizio autunno il Corriere della Sera titolava: “Cinese, boom di iscritti ai corsi: «Lingua del futuro contro la crisi»”. Università, corsi civici e istituti privati hanno registrato il tutto esaurito. Una situazione simile riguarda anche gli atenei più blasonati, riferimento per chi si cimenta in studi di livello accademico: L’Orientale di Napoli (www.unior.it), la più antica scuola di sinologia d’Europa, Ca’ Foscari a Venezia (www.unive.it), la Sapienza di Roma (www.uniroma1.it) e la Statale di Milano (www.unimi.it). Tutte sono attive con borse di studio e scambi con università cinesi, per permettere ai propri studenti di trascorrere un semestre nel Paese asiatico. In tutte e quattro (ma anche alla Cattolica di Milano e negli atenei di Firenze, Bologna, Macerata, Torino, Pisa e Padova) ha sede l’Istituto Confucio, creato dal ministero dell’Istruzione cinese per l’insegnamento della lingua e della cultura a tutti gli stranieri (non è riservato quindi a chi sta conseguendo una laurea). Ma l’idioma sta penetrando anche nei licei, negli istituti tecnici e nelle aziende, grazie all’Isti-
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tuto Confucio e alla Fondazione Italia Cina (che dallo scorso anno organizza anche corsi preparatori di italiano per cinesi che vogliono studiare nei nostri atenei). Sono sempre di più i giovani, in particolare quelli con studi scientifici, i professionisti e gli imprenditori che si avvicinano alla lingua e che, oltre ai corsi (molto apprezzati anche quelli di calligrafia), partecipano a conferenze, lezioni, presentazioni di libri ed eventi. Per i cinesi nati in Italia, che rischiano di perdere il proprio background, ma anche per gli italiani che vogliono far entrare in contatto i propri figli, fin da piccoli, con la cultura della Repubblica Popolare, è un esempio di eccellenza il Convitto Nazionale Cicognini di Prato, un liceo dove si studiano in mandarino anche materie come scienze, storia e geografia, e che oggi punta a far dare al diploma il doppio valore legale, e quindi il riconoscimento anche in Cina. È ancora sulla carta, ma si sta concretizzando, la Milano International Chinese School (Mics), un superscuola di eccellenza voluta da una manciata di imprenditori cinesi, che hanno già raccolto l’adesione di importanti partner finanziari. Aperto a studenti cinesi e italiani, avrà tre lingue obbligatorie (pǔtōnghuà, italiano e inglese) e un percorso formativo riconosciuto nei due Paesi, dalla materna al liceo. Sarà “un campus di 24mila metri quadrati, con strutture didattiche e sportive all’avanguardia, che nascerà alla periferia orientale della città, in grado di ospitare 640 alunni”, riportava a luglio di quest’anno la Repubblica, con la possibilità di ospitare quanti vengano da fuori. In attesa della sede definitiva – che, una volta ottenuto il via libera, potrebbe essere realizzata in 24-36 mesi – si pensa di avviare materna ed elementare a partire dall’anno scolastico 2015-2016, utilizzando un edificio già esistente e i libri di testo della Siic di Padova, la prima Scuola internazionale italo-cinese d’Italia, al suo secondo anno di attività e diretta da Li Xuemei, già docente di cinese a Ca’ Foscari, coadiuvata dal marito Wang Fusheng, fondatore dell’Istituto Confucio di Padova. Lì si studia già fino alla terza media, ma a breve sarà avviato il liceo (linguistico e scientifico) e una facoltà universitaria. Una realtà in evoluzione che prefigura il futuro dell’istituto milanese. Che vuole essere uno strumento di integrazione e un’ipoteca sull’avvenire, viste le partnership che gli ideatori stanno stringendo con il mondo del lavoro. 祝好运 (buona fortuna)! PASS: LA CINA IN ITALIA
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DOVE • COME • QUANDO
CORSI DI LINGUA E CULTURA Istituto Confucio
Milano: Università degli Studi, Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione, piazza Indro Montanelli 1 (stanza T037), Sesto San Giovanni; tel. 0250321675, www.istitutoconfucio.unimi.it; i corsi si svolgono nella sede di via Festa del Perdono a Milano. Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore, via Carducci 28-30; tel. 0272345226, http://istitutoconfucio.unicatt.it Torino: via Verdi 8; tel.0116703913, http://istitutoconfucio.torino.it/it; i corsi si svolgono in via Po 18 e in via Sant’Ottavio 20. Padova: Università degli Studi, via Beato Pellegrino 28; tel. 0498274874, www.unipd-org.it/istitutoconfucio Venezia: Università Ca’ Foscari, Palazzo Vendramin ai Carmini, Dorsoduro 3462; tel. 0412349548, ww.unive.it/confuciovenezia Bologna: Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Palazzo Paleotti, via Zamboni 25; tel. 0512088537, www.istitutoconfucio.unibo.it Firenze: Università degli Studi, Polo delle scienze sociali di Novoli, via delle Pandette 32; tel. 0552759029, www.istitutoconfucio.unifi.it Pisa: Scuola superiore Sant’Anna, via San Francesco 78; tel. 050883178, www.sssup.it/confuciopisa Roma: Sapienza – Università di Roma, via Principe Amedeo 182/b; tel. 064464135, www.istitutoconfucio.it Macerata: Università di Macerata, Villa Cola,
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Scuole
via Martiri della Libertà 59; tel. 07332584364-5813, www.confucio.unimc.it Napoli: Università degli Studi L’Orientale, Palazzo del Mediterraneo, via Nuova Marina 59; tel. 0816909256, www.confucio.unior.it
Fondazione Italia Cina
via Clerici 5, Milano; tel. 0272000000, www.fondazioneitaliacina.it
LICEI Convitto Nazionale Cicognini
Piazza del Collegio 13, Prato; tel. 057443711, www.convitto-cicognini.it Liceo scientifico internazionale con opzione di lingua cinese; corsi di mandarino per adulti e bambini (l’istituto ha anche primaria e secondaria).
SCUOLE INTERNAZIONALI ITALO-CINESI Siic
Via Palladio 51/B, Padova; tel. 0490983405, http://siic.it Esteso su una superficie totale di 6.500 metri quadrati (di cui 2.500 di strutture scolastiche), offre lezioni, bilingue, conformi ai programmi scolastici italiani e cinesi. L’obiettivo dell’istituto è il raggiungimento da parte degli studenti della completa padronanza delle lingue italiana, cinese e inglese in un ambiente multietnico e multiculturale. Sono già attive le scuole dell’infanzia (3-5 anni, riservata ai bambini residenti a Padova, con possibilità di tempo pieno e alloggio), primaria (6-11 anni) e secondaria di primo grado (12-14 anni). I programmi per il liceo e l’università saranno avviati nel 2015.
Dai valore alla Comunicazione. C’’’’’’’r’ ’ s’’p’’’’: p’r f’r’’ ’’ ’’’’ ’ff’’’’’ ’’’’rr’ ’sp’r’’’’’’ D’ 15 ’’’’ r’’’’’’’’’’ ’’ ’’’’’ ’’’’’ I’pr’s’ ’’’r’v’rs’ ’’ PR, ’’ p’’’’’’’’’, g’’ ’v’’’’, ’’ w’’ ’’rk’’’’g ’ ’’’’’ ’’ ’’’’v’’’ s’r’’’g’’h’ ’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’
V’’ D’ C’’’r’s’, 12/3 - 20144 MILANO T’’’ +39 0243981646 - +39 0243316189 www’’’rk’’’’g’’’’’’ PASS: LA CINA IN ITALIA
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RITRATTI
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CINESE A CHI? Un attore, una ristoratrice, un medico e un’imprenditrice. Hanno successo e sono impegnati a costruire ponti fra le due culture. Nel cuore hanno sempre il Paese d’origine, ma nella testa sono (quasi) italiani. Con tutti i pregi e i difetti… DI GIANNA MELIS
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PER TANTISSIMO TEMPO DEI CINESI CHE VIVONO IN ITALIA abbiamo sa-
puto poco: le Chinatown erano mondi separati, abitati solo da “loro”, dediti a tempo pieno al lavoro (molto) e alla famiglia. Parecchi – pur essendo approdati a Milano o a Prato anche decine di anni fa – non parlano correttamente la nostra lingua e chiedono ai figli di fare da interpreti per comunicare con clienti e medici o per sbrigare le pratiche negli uffici pubblici. All’inizio arrivavano soprattutto dalla provincia dello Zhejiang, vicino a Shanghai; alla fine degli anni Ottanta si sono aggiunti migranti del Fujian (nel sudest) e recentemente della Cina settentrionale. Oggi i cinesi sono circa 223mila (esclusi gli illegali e coloro che hanno ottenuto la cittadinanza), su un totale di quasi 5 milioni di stranieri residenti nel nostro Paese, e costituiscono per presenze la terza comunità fra gli extracomunitari. La maggioranza vive al Nord, fra Lombardia, Veneto e Toscana. Per capire meglio dobbiamo tornare indietro di quasi un secolo: i primi cinesi approdati a Milano negli anni Venti erano sì originari dello Zhejiang, ma arrivarono da noi dall’Oltralpe. Nel 1917, infatti, Francia e Cina avevano firmato un accordo per spostare circa 100mila persone nel Paese europeo, da impiegare per scavare trincee e sostituire nelle fabbriche i giovani partiti per la Grande Guerra. Nacque da quel nucleo di una quarantina di uomini (che si sposarono tutti con italiane) la più vecchia Chinatown d’Italia (nonché la più numerosa, seguita da quella romana), fra le vie Canonica, Sarpi, Bramante e Messina. A passare in questa zona, in effetti, le insegne dei negozi, dei ristoranti e i cinesi per le strade possono far pensare di non essere a Milano. Attenzione, però, perché Chinatown non è davvero una “città cinese”: l’84 per cento degli abitanti in zona è italianissimo! Le ristrutturazioni delle storiche case di ringhiera, effettuate proprio dai nuovi arrivati, hanno alzato via via i prezzi e ora “loro” si sistemano in quartieri meno cari, fra Loreto e Casoretto, per esempio, in viale Monza e in via Padova. Era il 1958 quando don Pietro Yeong Kien Lii cominciò a officiare nella parrocchia di Santa Maria
Assunta in Vicentino, dove rimase fino alla morte, nel 2000 (oggi a occuparsi dei fedeli cinesi cattolici è il giovane don Domenico Liù, inviato nel 2008 dal Vaticano nella chiesa della Santissima Trinità, in via Sarpi). Era il 1962 quando aprì La Pagoda di via Filzi, il primo ristorante a servire ravioli al vapore e pollo con gli anacardi (Rita, la figlia del primo chef di quel locale, guida ancora la cucina del Lon Fon di via Lazzaretto). Era il 1967 quando il primo cinese ottenne la cittadinanza italiana, con il servizio militare: si chiama Angelo Ou, padre cinese della primissima ondata migratoria e madre italiana, ed è un imprenditore di successo, capo cordata del progetto di un supercampus nell’area metropolitana (vedi il servizio LINGUA). Ora a Milano vivono circa 19mila cinesi, Hu è il secondo cognome più diffuso in città dopo Rossi e la China Business Association in Italia ha stanziato 100mila euro per adottare una guglia del Duomo. Da mezzo secolo, quindi, nella comunità cinese è in atto una “rivoluzione culturale”, guidata dalle seconde, terze, quarte e quinte generazioni. Frequentano le scuole italiane a cominciare dall’asilo, giocano a calcio, studiano fino all’università e trasformano i laboratori artigianali dei genitori in aziende moderne e competitive. La vocazione per cui sono universalmente noti pare infatti non conoscere crisi: nel 2013 gli imprenditori cinesi in Italia sono risultati essere ben 66mila, con una crescita di oltre il 6 per cento rispetto all’anno precedente. Di pari passo, però, sono calate le rimesse in Cina: nel 2013 sono ammontate a 1,10 miliardi di euro, meno della metà del 2012, segno che la Penisola viene eletta definitivamente a nuova patria. Eppure misteri e leggende continuano a circolare: “dove nascono i cinesi?”, “i cinesi non muoiono mai”… Docufilm • Giallo a Milano di Sergio Basso (2009) Libri • Il Drago e il Biscione. Cent’anni di convivenza: i cinesi a Milano di Claudio Bianchi (Ibis, 2012); I cinesi non muoiono mai di Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò (Chiare Lettere, 2008) e Il vicino cinese di Valentina Pedone (Nuove Edizioni Romane, 2008) Link • www.associna.com/it PASS: LA CINA IN ITALIA
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Shi Yang Shi attore
“Giallo fuori e bianco dentro” È alto quasi un metro e novanta, ha 35 anni, è bello, comunicativo ed empatico quanto un italiano del sud, ma milanese al 100 per cento nel comportamento. La sua storia è comune a quella di molti stranieri giunti in Italia da clandestini: aveva 11 anni quando, con un passaporto giapponese, è arrivato a Milano con la mamma. Erano partiti da Jinan, nel Nord della Cina, spinti dal papà, ingegnere, che dopo un viaggio di lavoro nel nostro Paese se ne era innamorato e aveva deciso che ci sarebbe tornato con la famiglia. Per sempre. Yang e la madre hanno fatto da apripista, il padre li ha raggiunti 5 anni dopo. L’inizio non è stato facile: la mamma ha dovuto dimenticare di essere un medico, si è tirata su le maniche e ha fatto la cameriera in un hotel della riviera romagnola, la colf e tanti lavori umili e poco retribuiti. Anche Yang si è dato da fare fin da piccolo come lavapiatti e venditore ambulante di erbe e unguenti cinesi sulle spiagge, solo per dirne alcuni. «Lavoravo d’estate e tutto quello che guadagnavo lo conservavo per pagarmi gli studi a Milano. Mi sono diplomato in ragioneria e poi mi sono iscritto all’Università Bocconi, che ho abbandonato 4 esami prima del termine. Per mantenermi ho fatto l’interprete per ministri, imprenditori e registi internazionali, poi l’inviato speciale per Le Iene, l’attore di teatro, tivù e cinema». Sembra una favola a lieto fine. In realtà Yang, come molti ragazzi emigrati in giovanissima età, ha l’anima divisa in due. E non sa bene chi è. «Sono cinese perché sono nato in Cina o italiano perché dal 2006 ho la carta d’identità e il passaporto italiani? In realtà, sono cinese per gli italiani, mentre per i cinesi sono una specie di banana, giallo fuori e bianco dentro. Persino i miei genitori mi considerano un po’ straniero. Un conflitto d’identità apparentemente irrisolvibile, che ho portato in scena nello spettacolo Tong men(g), con la regia di Cristina Pezzoli. Per la prima volta è salito su un palcoscenico un cinese-italiano che recita nelle due lingue e si rivolge a un pubblico misto (http://bit.ly/1s0FH0Q)». Da anni Yang, insieme con altri artisti del Compost di Prato, crea azioni d’arte sociale che hanno l’obiettivo di favorire il dialogo fra la comunità cinese e quella italiana. Il Compost è stato coinvolto in una difficile opera di mediazione culturale, soprattutto dopo l’incendio scoppiato nel 2013 in una fabbrica della città toscana, che costò la vita a sette operai cinesi, morti carbonizzati. Yang ha fatto spesso da interprete in situazioni di conflitto. «Nella partita Italia vs Cina
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ogni volta mi sono domandato: chi ha ragione? Da che parte devo stare? A queste e ad altre domande cerco di rispondere nella piéce teatrale. La prima parte è un viaggio nelle radici familiari, alla ricerca delle mie origini attraverso gli antenati che hanno vissuto fra la guerra civile e la rivoluzione di Mao, fino agli anni Ottanta. La seconda parte è la mia storia, dall’arrivo in Italia all’impegno sociale. Questa ricerca mi ha aiutato a costruire un’identità culturale e sociale, anche se con un equilibrio instabile». Durante lo spettacolo, supportato dalla clown-coach Rosa Masciopinto, si ride molto e s’impara che le tragedie possono diventare l’occasione per favorire l’integrazione fra i popoli. Info • www.spaziocompost.it/who.html/team/58-Shi%20Yang%20Shi PASS: LA CINA IN ITALIA
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© Giovanni Tagini
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Chiara Wang Pei ristoratrice
La mia “madeleine”? Un “dim sum” Quello che colpisce, a prima vista, è la dolcezza e la serenità che emana. Ma sotto l’apparenza rilassata, Chiara – 31 anni e residente a Milano – nasconde forza e determinazione. Venti anni fa i genitori l’hanno portata a Firenze dalla provincia dello Zhejiang. I suoi sono andati a lavorare a Prato nei laboratori d’abbigliamento, mentre lei ha iniziato la terza elementare. Non era per nulla contenta di essere più grande di tutti i compagni di classe, ma è stata talmente brava a recuperare che l’anno successivo è andata direttamente in quinta. Dopo le medie, ha cominciato a lavorare con i genitori, a 18 anni la voglia d’indipendenza l’ha portata a Milano. «Ho trovato lavoro come cameriera nel locale di proprietà di Yike Weng, diventato sei anni dopo mio marito. Ora abbiamo tre figli, di 8, 7 e 6 anni, e due ristoranti di alta cucina, il Dim Sum e il Bon Wei (vedere il servizio CIBO). Ne sono molto orgogliosa perché sono la dimostrazione che i ristoranti cinesi non sono solo di livello medio-basso. Siamo andati a Shanghai e Canton per studiare questo tipo di arte culinaria, molto famosa all’estero, in particolare a Londra, ma ancora poco conosciuta in Italia». Come concilia il ruolo di mamma e il super-lavoro? «Come le mamme italiane, faccio salti mortali per andare alle riunioni a scuola, per accompagnare qualche volta i miei figli alle feste dei compagni e mi dispiace non riuscire ad avere il tempo per frequentare di più gli altri genitori e gli amici. Vorrei anche viaggiare, visitare questo Paese, ma gli impegni ci assorbono troppo e per ora siamo riusciti ad andare con i bambini solo a Roma e Venezia». Si sente più cinese o italiana? «Anche se ho vissuto pochi anni in Cina, sono profondamente cinese, i miei migliori amici sono cinesi e ci tengo che i miei figli non perdano la memoria delle origini. Per questo, quando lavoro, sono seguiti da mia madre e da una tata cinese. Ma fanno fatica a esprimersi in mandarino, fra loro parlano solo in italiano e preferiscono la pizza ai nostri piatti. Anche a me piace molto vivere qui, adoro la moda, la pasta, la pizza, la carne e il vino, ma davanti a un dim sum rivivo le emozioni di quando ero bambina in Cina». Info • www.dim-sum.it e www.bon-wei.it PASS: LA CINA IN ITALIA
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Ivan Pan medico
Come funziona (bene) una famiglia mista È uno dei pochissimi cinesi che ha fatto il militare nell’esercito italiano (è stato bersagliere a Pordenone) e come moltissimi italiani da bambino ha giocato a calcio e dopo l’università ha sposato una compagna di liceo, italiana. «Sono un cinese atipico: sono nato 41 anni fa a Milano da genitori di Taiwan, ma non ho mai frequentato la Chinatown di via Paolo Sarpi, soltanto i miei compagni di classe, di entrambe le nazionalità. Sono cresciuto soprattutto con italiani perché negli anni Settanta e Ottanta ero l’unico studente cinese della mia scuola, ma non ho vissuto problemi d’integrazione, a parte qualche battutaccia durante le partite di calcio, se segnavo più di qualche amico italiano. Ho avuto la grande fortuna di imparare a parlare e scrivere bene la lingua italiana e di ricevere in famiglia la disciplina cinese classica, che insegna la fatica e l’impegno, essenziali per farmi raggiungere ottimi risultati nello studio e nella vita. Ho frequentato buone scuole, a 17 anni avevo già il diploma di maturità scientifica, seguito poi dalla laurea in Medicina e Chirurgia e da un master all’Università di Pavia. Ho completato in Cina la mia cultura universitaria, con una specializzazione in Medicina tradizionale cinese e in Agopuntura medica, che pratico nel mio studio di Milano. Nelle famiglie cinesi è uso che i giovani siano spinti a cercare la persona con cui creare un nuovo nucleo familiare all’interno del proprio gruppo, anche e soprattutto per assicurarsi la discendenza “pura”. I miei genitori mi hanno lasciato libero di scegliere: ho conosciuto mia moglie Francesca al liceo, stiamo insieme da 23 anni, abbiamo tre fantastici bambini - Romeo, Giada e Viola - e la nostra famiglia mista funziona benissimo. Sono convinto di essere nato e di vivere in uno dei luoghi più belli del mondo: l’Italia è ricca di tutto, natura, arte, imprenditoria, cibo, creatività e voglia di fare. E anche se da qualche anno non mancano le difficoltà, a livello politico ed economico, per me l’Italia è il Paese più bello del pianeta». Cosa ama del mondo delle sue origini? «Amo la Cina in generale, ci vado sia per vacanza sia per lavoro, e quando gli amici italiani mi chiedono un itinerario per scoprire la terra dei miei padri, consiglio un tour che includa Beijing, Shanghai, Xi’an, Guilin e Hong Kong. In queste
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© Giovanni Tagini
città si può trovare il giusto mix di storia, modernità e paesaggi meravigliosi, nonché cinque tipi di cucina differenti. A proposito di cibo, a Milano, ogni tanto, vado nei ristoranti cinesi dei miei amici, alcuni ex compagni di scuola: i miei preferiti sono il Ta Hua (via Fara 15), il Mandarin 2 (via Garofalo 22) e il Lon Fon (via Lazzaretto 10)». Info • studio medico, via Vallazze 12, Milano PASS: LA CINA IN ITALIA
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Lucia Hui King imprenditrice
Missione: integrare per crescere Parla correttamente l’italiano, con una leggera cadenza romana, ma anche cinese e inglese; è nata a Shanghai 60 anni fa, ma è arrivata in Italia da piccola. Ha studiato dalle elementari all’università nelle scuole italiane, ma poi ha preso anche una laurea in giornalismo alla Fudan University nella sua città natale. In passato ha collaborato con Confindustria, Confcommercio, Legacoop e Ice, è consulente economico di molte regioni cinesi e di alcune società italiane, promotrice e sostenitrice di numerosi eventi e partnership fra i due Paesi. Il suo amore per il cibo italiano è talmente grande che è riuscita a convincere il gruppo cinese Alibaba (attivo nel campo dell’e-commerce, vende più di eBay e Amazon messe insieme) a commercializzare in patria le eccellenze gastronomiche della Penisola. «A volte dimentico di non essere nata in Italia, perché in pratica ho sempre vissuto come i miei coetanei di qua. Lucia è il nome italiano che mi ha dato la mia prima maestra della scuola elementare e l’ho sentito talmente mio che l’ho mantenuto e l’ho fatto inserire su tutti i documenti. L’Italia è una nazione molto aperta e cordiale, adoro la cucina e tutte le sue eccellenze, ma quello che apprezzo di più sono la cultura e la storia, un patrimonio artistico importante che ha molte similitudini con la Cina. Vivere in Italia è sempre stato facile e naturale, per me: ho avuto la grande fortuna di non sentirmi mai fuori luogo, non ho mai subito discriminazioni a scuola o sul lavoro, né ho mai provato la sensazione di vivere in un Paese non mio. Per aiutare chi è meno fortunato di me mi sono impegnata in prima persona per favorire il dialogo. Sono convinta che solo con la comprensione e il rispetto reciproci, nei rapporti personali e professionali, si possa vivere in armonia e produrre ricchezza. Non ho mai dimenticato le mie origini, con i miei genitori ho sempre parlato in cinese, come me anche mio figlio, dopo la laurea in economia, andrà a fare un master in Cina. Gli amici sono equamente divisi fra le “mie” due nazioni e normalmente passo da una serata romana a una cinese. Da molti anni dedico tempo ed energia per cercare di avvicinare le due culture, ma anche per promuovere la tradizione alimentare e lo stile di vita italiani in Cina attraverso la società Inphinito, di cui sono amministratore delegato. Per questo impegno ho ricevuto il “Pre-
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mio speciale all’imprenditoria femminile” durante il Cathay Pacific Business Award 2014. Un riconoscimento che mi ha reso molto felice». Quali sono i ristoranti cinesi che frequenta a Roma? «Per motivi opposti, sono due i locali dove vado spesso con gli amici: il Dao restaurant (viale Jonio 328-330), molto raffinato nell’arredamento e nella cucina, e il Hua Qiao (via Giolitti 185/195), di fianco alla Stazione Termini, spartano, con un ambiente semplice e una cucina autenticamente cinese. Oltre alla cucina italiana (prediligo il pesce), mi piace molto anche la moda. Adoro Roma e non vorrei mai lasciarla, ma se dovessi cambiare città andrei a vivere a Shanghai oppure a Vienna, Salisburgo o Barcellona». Info • @KingLucia PASS: LA CINA IN ITALIA
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