Cerindustries SpA Periodico edito da Cerindustries SpA 4 8 0 1 4 C a s t e l B o l o g n e s e ( R A ) I TA LY via Emilia Ponente, 1000 w w w. c e r d o m u s . c o m w w w. c e r d o m u s . n e t Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Laura Zavalloni – Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione To m m a s o A t t e n d e l l i Giuliano Bettoli Marcello Cicognani Franco De Pisis Angelamaria Golfarelli Paolo Martini Alba Pirini Manlio Rastoni Va l e n t i n a S a n t a n d r e a Ta t i a n a To m a s e t t a Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Cinematica (frame tratti da “Insulo de la Rozoj – La libertà fa paura”) Archivio Comune di Sogliano al Rubicone Archivio Gabriella Zoli Archivio Giuliano Bettoli Archivio Enrico Maltoni Archivio Museo d’arte della città di Ravenna Archivio Museo Internazionale del Motociclo Archivio Paolo Martini A r c h i v i o Te n i m e n t i d i S a n M a r t i n o i n M o n t e A r c h i v i o Va l e n t i n a S a n t a n d r e a Luca Berardi To n i n o M o s c o n i Franca Romani si ringraziano Comune di Mondaino Comune di Sogliano al Rubicone Cinematica Enrico Maltoni Gabriella Zoli, per aver messo a disposizione le foto di Irene Ugolini Zoli e dei suoi lavori Ufficio stampa del Museo d’Arte della città di Ravenna Si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca / Divisione immagine Cerdomus Tr a d u z i o n i Tr a d u c o , L u g o Stampa FA E N Z A I n d u s t r i e G r a f i c h e ©Cerindustries SpA Tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i A u t o r i z z a z i o n e d e l Tr i b u n a l e d i R a v e n n a n r. 1 1 7 3 d e l 1 9 . 1 2 . 2 0 0 1
numero 22 gennaio 2010
C
on un nuovo inverno, il rinnovato invito ad aprire
With a new winter on its way, it feels good to
una breccia nella routine quotidiana per ricavare
make a break from everyday routine and enjoy
una parentesi di innocua, ma non banale, evasione.
an interval of harmless, but not mindless,
Dedicata a immaginare di spostarsi nel tempo, ad
escape. This escape takes us back through
interrogare antiche mura merlate per ascoltare lontani
time, to ancient battlements that have mutely
racconti fatti di epici eventi come anche di buffi aneddoti
witnessed epic and more mundane events. And
d’ordinaria umanità. Immaginare di spostarsi nello
it takes us through space, on the four heavy
spazio, passando magari dalle quattro lente e solenni
wheels of a rural oxcart, and the two much
ruote di un plaustro rurale alle due, ben più celeri, di una
faster wheels of a sleek motorcycle. From
lucente motocicletta. Tra un fulminante motto di spirito ed
words of wit to aromas from the earth. And as
un aroma indagato e sviscerato. Sempre indugiando
always dwelling to contemplate the beautiful,
sulla contemplazione del bello, si tratti di arte sacra,
whether it takes the form of devotional art,
anticonformista o design. Sulle tracce di una sottile
anti-conformism or design. In search of that
forma d’utopia che può dirsi “endemica” in una terra di
elusive utopia which seems to live in the hearts
sognatori come la Romagna.
of many in a land of dreamers like Romagna.
La Redazione di ee
ee editorial team
EDITORIALE
1]
e a r th e lem e nt
ANTICHE OPERE CHE MODIFICANO L’ORIZZONTE
THE CASTLES OF ROMAGNA ancient buildings in modern landscapes
la Romagna dei castelli
not a patch of earth on this planet – especially if that patch is graced with fertile soils and natives of robust constitution – has ever escaped the attentions of the powerful. by right of birth or by statecraft, they have always sought to impose their control over the rest of us. sometimes with generosity and humanity, sometimes by brute force and despotism.
valentina santandrea
immagini: archivio valentina santandrea
non esiste angolo del pianeta, specie se graziato da terre fertili e autoctoni di forte tempra, sul quale uomini di potere, per nascita o per astuzia, non abbiano desiderato imporre il proprio dominio, a volte generoso e umano, spesso soverchiante e dispotico.
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Nelle terre romagnole la presenza medievale di conti e signori, cardinali e castellani, è ancora tangibile, tant’è che a ridosso di antiche cinte e rocche sono state spesso costruite abitazioni e ristoranti, cosicché molti romagnoli hanno tutt’ora la grazia di conversare tra le stesse fiere mura che secoli fa sopravvissero agli assalti di archi e frecce, cannoni e fucili, carri armati e baionette. Ma se nella Rocca di Montebello (vedi ee N° 10) si può cenare ed in quella di Montegridolfo ci si sposa, anche i manieri che le armi del tempo hanno logorato, e quelli che gli assalti dell’uomo hanno fracassato, avrebbero parecchio da dire, se solo i muri potessero parlare. Si narra per esempio che il castello di Castel Bolognese fosse il più bello della Romagna: fu edificato da 400 uomini inviati dal Comune di Bologna attorno al 1388, ma il suo aguzzino Cesare Borgia, il cui architetto ufficiale era nientemeno che Leonardo Da Vinci, lo fece radere al suolo. E per similari capricci nobiliari, rinunciò al suo record anche la torre del castello di Santarcangelo, la più alta d’Italia finché nel 1447 Sigismondo Malatesta non provvedette a dimezzarla, beandosi poi per iscritto sulla lapide all’ingresso di averla addirittura fatta costruire. C’è chi invece vanta vicissitudini meno frustranti. Il castello di Pondo per esempio, ora un rudere presso l’abitato di Santa Sofia, fu così denominato da un antico castellano che, costretto ad arrendersi, fuggì con il dulce pondo della sua sposa sulle spalle. Le origini del castello di Terra del Sole (vedi ee N° 5) sono addirittura in odore misticismo: all’apertura dei lavori per volontà del Granduca di Toscana, l’8 ottobre 1564, apparve il sole tra le nubi cariche di pioggia. Se le genesi spesso sono curiose, le vicissitudini di dimore e fortezze hanno riempito pagine e volumi e forse intere biblioteche: donati o conquistati, saccheggiati o assaliti, si può dire che le hanno viste tutte. Caterina Sforza (vedi ee N° 6), figura tra i castellani che prediligevano le maniere forti. Per ammobiliare il suo castello a Bagnara di Romagna, nella Valle del Santerno, si appropriò indebitamente di oggetti d’ogni sorta: «Madonna mandò a tutti i sudditi suoi fino a cercarli nei letti, che voleva dei capezzali ed altre cose simili, per addobbare le stanze della sua rocca; tanto che udì suo padre dire queste parole: “oh, questa Madonna è la più mala femmina! Ella vuole dai poveri uomini sino dei letti”; e questo lo disse suo padre». Fonte di gioie e d’ambasce, signori incontrastati del territorio, unico orizzonte visivo di generazioni di uomini, forse sono stati più i castelli che i padroni a caratterizzare il territorio, vegliando su gesta e amori di chi non ha fatto la storia.
I
Sensi
di
Romagna
È un errore grandissimo pensare che la storia debba consistere necessariamente in qualcosa di scritto: può consistere benissimo in qualcosa di costruito, e chiese, case, ponti, anfiteatri possono raccontare le loro vicende con la chiarezza di un libro stampato, se si hanno occhi per vedere. Eileen Power
In Romagna, the legacy of the counts and feudal overlords and cardinals and castellans of the Middle Ages is still a tangible one. Today’s houses and restaurants stand in the shadow of yesterday’s castles and ramparts, of the same proud walls that formerly offered a last line of resistance to terrible offensives of bows and arrows, cannon and musket, tanks and bayonets. In the castle of Montebello (see ee issue no. 10) you can now have dinner; and in the castle of Montegridolfo you can even get married. But even the castles that the wars of the past have reduced to ruins, and those that the assaults of armies have smashed to pieces, would have so much to say if their walls could talk. The historians tell, for example, that the castle of Castel Bolognese was the most beautiful in Romagna: it was built by 400 men recruited in Bologna in 1388, but the tyrant Cesare Borgia, whose official architect was none other than Leonardo Da Vinci, had it razed to the ground. It was a similar whim of nobility that robbed the tower of the castle of Santarcangelo of its status as highest in Italy – a record that stood until 1447 when Sigismondo Malatesta ordered it to be cut down to size. Malatesta then congratulated himself on having built the tower in a tablet he placed above the entrance. Other castles have happier tales to tell. The castle of Pondo, for example, now a ruin near the village of Santa Sofia, was given its name by a castellan who, rather than surrender to besiegers, fled with the dulce pondo (“gentle weight”) of his wife over his shoulders. The origins of the castle of Terra del Sole (see ee issue no. 5) are steeped in mysticism: when its construction began on 8 October 1564 on the orders of the Grand Duke of Tuscany, a ray of sunlight broke through the blanket of rain-laden clouds. Origins are often curious, but no less interesting are the fortunes of the castles over the centuries, accounts of which have filled volumes and even entire libraries: donated, conquered, assailed and put to the sack, these castles have seen it all - even the impetuous and overbearing Caterina Sforza (see ee issue no. 6). When furnishing her new home – the castle of Bagnara di Romagna in Valle del Santerno – Caterina appropriated all sorts of property, and not all of it legitimately: “Madonna (i.e. Caterina Sforza) even ordered all her subjects to take bolsters and other similar things from their beds, to decorate the rooms of her castle; so that she heard her father speak these words: ’Oh, this Madonna is the most evil of women! She even wants the beds the poor sleep in.’ And this her own father said.” Scenes and sources of joy and anguish, the undisputed masters of their landscapes, visible landmarks which have endured for generation after generation, perhaps it’s the castles themselves, not their owners or occupants, that really characterize historic Romagna, the mute witnesses of the countless loves and lives which never went down in history. Territorio
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Ritratto di Mondaino LUOGO DI COERENTE FASCINO franco de pisis
immagini: tonino mosconi / franca romani / luca berardi
I
Sensi
di
Romagna
È meglio conservare il proprio paese che conquistare l’altrui. Proverbio popolare
adagiato sulla cresta di una rigogliosa collina nella media valconca, il paese di mondaino si inserisce armoniosamente nei dolci lineamenti del panorama che lo accoglie, tramandando di sé un’immagine quasi immutata nei secoli.
Se non è cambiato il suo aspetto, sono però forse differenti i sentimenti che ora ispira la sua vista rispetto ai tempi in cui, come avamposto militare atto alla difesa della zona di confine tra i domini dei Malatesta e dei Montefeltro, provocava tenaci brame di conquista. Oggi è Mondaino a conquistare coloro i quali si trovano a passeggiare per le sue viuzze che lambiscono l’imponente Rocca Malatestiana, le antiche chiese e i palazzi nobiliari lasciati in eredità al paese dalle varie dominazioni succedutesi. Non sono però solo merli e torrioni a catturare i sensi. Qui la tradizione si esprime anche attraverso l’arte, da quella pittorica sacra e quella ceramica di retaggio rinascimentale, fino all’artigianalità dei prodotti tipici di questa terra, come il formaggio di fossa e il miele. A colpire il forestiero è però soprattutto l’espressione senza tempo di qualità della vita che si respira a Mondaino, favorita anche dal reiterarsi di antiche usanze, come il mercato settimanale, le cui antichissime origini sono testimoniate da un quadro del 1700, che tuttora resta uno dei più importanti della valle, occupando tutto il paese a partire dalla semicircolare piazza Maggiore. Piazza che con il suo scenografico porticato ottocentesco è l’elemento di maggiore caratterizzazione architettonica del paese e principale teatro naturale del Palio del Daino.
Una manifestazione ufficiale del Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche che si svolge ogni estate, in cui si riproducono quadri animati della vita ai tempi del Rinascimento, fulcro della quale è la sfida storica fra le quattro contrade cittadine che si contendono il Palio in una sorta di gioco dei quattro cantoni. Ma il concreto legame dei mondainesi con la propria storia non si traduce in una sorta di immobilismo culturale, tra le numerose rassegne ed iniziative promosse da questo vivace Comune va indubbiamente citato il progetto di educazione ambientale e laboratorio delle idee che trova sede nel suggestivo arboreto, un giardino botanico specializzato per arbusti ed alberi organizzato per un costante studio dello sviluppo e della conservazione di specie ed ecotipi di particolare pregio. Qui si alternano laboratori di sperimentazione su teatro, musica, danza, cinema, scrittura, poesia e altri processi creativi, che oltre agli spazi adibiti ad ospitare le residenze creative, dispongono dal 2004 del Teatro Dimora, una struttura deputata all’apprendimento e alla sperimentazione. Quasi un piccolo “santuario” circondato dal bosco dedicato alla modernità, che pare il naturale erede dell’antico tempio dedicato a Diana, eretto in epoca romana su quello che al tempo venne battezzato Mons Damarum, primo insediamento umano da cui discende Mondaino.
A PORTRAIT OF MONDAINO where old and new coexist in peace Perched on the crest of a tree-clad hill in the middle Valconca, the village of Mondaino blends perfectly with the gentle lineaments of its surroundings, and has remained practically unchanged over the centuries. While its appearance has scarcely changed, the sentiments Mondaino inspires among today’s visitors surely have little in common with the days when it was a military outpost overlooking the border between the territories of two different dynasties, the Malatesta and the Montefeltro, and its location made it coveted by both. Nowadays, Mondaino is no longer the conquered but the conqueror – of the visitors who wander its narrow streets that lap the imposing castle, the old churches and the noble palazzi which successive waves of domination have bequeathed to the village. It’s not just the towers and battlements that capture the imagination, however. In Mondaino, tradition is also expressed in art, with its sacred paintings and ceramics of the Renaissance, and crafts and produce, such as pit cheese and honey. What really strikes visitors to Mondaino, though, is the sense of timelessness that its streets exude. Some very old customs are still observed here, such as the weekly market which appears in a painting from 1700 and remains one of the most important in the valley, spilling out from the semi-circular piazza Maggiore to occupy the whole village. With its charming 19th-century arcade, piazza Maggiore is the architectural centrepiece of Mondaino and the natural backdrop to the local Palio del Daino - sponsored by the Consortium of European Re-enactment Societies, this pageant is held every summer and is essentially a giant tableau vivant of life as it was during the Renaissance. The main event, the Palio, is a historic contest in which the village’s four fraternities face off in a kind of medieval games tournament. And yet with all this fondness for the past there’s no cultural inertia in Mondaino. The local council sponsors a number of initiatives, star of which is the environmental education programme and ecology thinktank located (appropriately enough amid beautiful greenery) in a botanical garden specializing in shrubs and trees. The ideal place for the study and conservation of some prized species and ecotypes. It’s also the venue for experimental workshops on theatre, music, poetry and other creative processes. There are facilities for artists in residence and a theatre, the Dimora, which opened in 2004 and is specialized in coaching and experimentation in drama. Like a little sanctuary set in a wood dedicated to modernity, Mondaino seems a worthy inheritor of the ancient temple of Diana, built during Roman times on a hilltop known as Mons Damarum, the earliest human settlement in what is now Mondaino.
Territorio
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Augusto Frassineti
Nato a Faenza nel 1911 da una famiglia borghese, lo scrittore ebbe l’infanzia segnata dalla madre Giuseppina, colta donna di lettere ma estremamente severa nei confronti dei suoi otto figli. Studia filosofia all’Università di Bologna, stringendo amicizia con Giorgio Bassani e Attilio Bertolucci. Sempre durante gli studi si avvicina al movimento antifascista di Giustizia e Libertà. Conseguita la laurea, si sposa con Enrichetta, la donna che lo accompagnerà per tutta la vita, e sembra destinato a una serena esistenza dedicata all’insegnamento. Ma la seconda guerra mondiale segnerà per sempre la sua vita. Fatto prigioniero in Sicilia nel 1943 dagli Alleati, trascorrerà due anni peregrinando nei campi di prigionia dell’Africa settentrionale e sarà liberato solo grazie all’interessamento del suo vecchio sodale Bassani. Il dopoguerra si apre per Frassineti con un impiego ministeriale: è dirigente del servizio reduci nel neonato Ministero dell’Assistenza Postbellica. Qui vive tutti i paradossi della grottesca macchina burocratica che dovrebbe essere al servizio dei cittadini, ma che in realtà li tiranneggia. La cloaca ministeriale diventa la goccia che fa traboccare il vaso, quella che spinge Frassineti verso la letteratura. Nel 1952 viene pubblicato «Misteri dei Ministeri», in cui lo scrittore romagnolo tratteggia la vita burocratica. Lo fa con una lingua colta, ironica, consapevole che ogni potere, sia esso dittatoriale o più subdolamente amministrativo, può essere smascherato e distrutto solo da una risata. Il libro ottiene un immediato successo di critica e di pubblico, ammirato da intellettuali del calibro di Giorgio Manganelli, Italo Calvino ed Ennio Flaiano. «Misteri dei Ministeri» rimarrà, seppur ampliato e rieditato in più occasioni, l’unico romanzo che Frassineti darà alle stampe. Allergico alle etichette, lo scrittore non ama neppure quella di romanziere. Nel corso degli anni pubblica volumi di racconti, sillogi poetiche illustrate da Mino Maccari, collabora con il cinema e con la televisione assieme a Manganelli. Il suo unico romanzo ispira la pièce di un giovane commediografo: Dario Fo. Ma soprattutto, e sopra a tutto, si dedica alla traduzione, che interpreta come un tradimento del testo di partenza, per restituire in italiano lo splendore delle parole originali. Traduce, fra gli altri, Rabelais, Scarron, Villon, Diderot, Keats. Scelte che descrivono un percorso civile prim’ancora che letterario. Muore a Roma, sua città d’elezione, nel 1985. Un infarto lo coglie al tavolo di lavoro mentre è impegnato nella traduzione de «L’arte di fare fortuna» dell’abate Béroalde De Verville. Il particolare è riportato, con ironica burocrazia, nei necrologi pubblicati l’indomani sui maggiori quotidiani nazionali.
LA RISATA COME ARMA AFFILATA
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paolo martini
immagini: archivio paolo martini
«solo quando non c’è motivo / si può essere infelici in modo serio / e rappresentativo». in questi tre versi è sintetizzata la cifra stilistica di uno degli scrittori più raffinati e misconosciuti della letteratura italiana del ventesimo secolo: augusto frassineti. I
Sensi
di
Romagna
Storia
Il solo impiego razionale della ragione sta nella ricerca ragionata delle ragioni delle infinite sragionevolezze dell’animale ragionevole uomo. Augusto Frassineti
AUGUSTO FRASSINETI laughter as a weapon “Only when there’s no reason / can we be unhappy in a serious / and representative fashion.” These three lines sum up the style of one of the most refined and overlooked Italian writers of the twentieth century: Augusto Frassineti. Born in Faenza in 1911, Frassineti was raised in a middle-class family and in his childhood was strongly influenced by his mother Giuseppina, an educated and well-read woman who was extremely strict with her eight children. He studied philosophy at the university of Bologna, where he became friend with Giorgio Bassani and Attilio Bertolucci. In his student years he moved in circles close to the Giustizia e Libertà anti-fascist movement. After graduating, he married his fiancée Enrichetta, and they would remain together for the rest of their lives. At this point, Frassineti seemed destined for a peaceful life as a teacher. But the Second World War came, and changed the course of his life for ever. Imprisoned by the Allies in Sicily in 1943, Frassineti spent two years moving from one North African prison camp to another, and was only released after the intercession of his old university colleague Bassani. At the end of the war Frassineti found a job in government, as head of the veterans’ office in the newly-created Ministry for PostWar Assistance. Here he experienced all the paradoxes of a grotesque bureaucratic machine which was purportedly at the service of the public but which in reality tyrannized it. His ordeal at the ministry was the drop that made the cup overflow, and pushed Frassineti towards a life in literature. In 1952 he published Misteri dei Ministeri, his account of life as a bureaucrat. In cultivated, ironic language, Frassineti exposed bureaucracy (whether its methods were overtly dictatorial or underhand and deceitful) as a clay-footed monster that could be toppled with a burst of laughter. The book was an immediate success with critics and public, and won the admiration of intellectuals of the calibre of Giorgio Manganelli, Italo Calvino and Ennio Flaiano. Extended and amended in several new editions, Misteri dei Ministeri remained the only novel ever published by Frassineti. He was averse to being labelled, and was uncomfortable with being called a novelist. Over the years he published several volumes of short stories, collections of poetry illustrated by Mino Maccari, and worked in cinema and television projects with Manganelli. His only novel was the inspiration for a play by a promising young dramatist: Dario Fo. But Frassineti’s enduring love was translation, which in his view involved a betrayal of the original text to reconstitute the splendour of the original words in his own Italian. Among the authors he translated were Rabelais, Scarron, Villon, Diderot and Keats - personal choices that reflected the development of a man rather than a literary career. He died in Rome, the city he had adopted as his home, in 1985, of a heart attack which struck while he was sitting at his desk working on a translation of Béroalde De Verville’s Moyen de Parvenir. A detail which was reported with typically bureaucratic irony in the obituaries printed in Italy’s leading newspapers.
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La libertà è la base di uno stato democratico. Aristotele
tommaso attendelli
immagini: frame tratti dal film documentario “insulo de la rozoj – la libertà fa paura”
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durante l’estate del ‘68, per alcune settimane le acque territoriali italiane antistanti al comune di rimini hanno lambito il confine di sud-ovest di una micronazione che fu conosciuta come isola delle rose, o più propriamente insulo de la rozoj per usare il suo nome ufficiale.
Isola delle Rose
Quella che fu allora interpretata dalle autorità italiane come la potenziale propagazione strategica di qualche oscura potenza straniera e dagli operatori turistici della Riviera Romagnola come un’inaspettata attrazione folkloristica nasceva semplicemente dall’utopia di un tranquillo ingegnere bolognese di nome Giorgio Rosa, concretizzatasi in una piattaforma di 400 metri quadri saldamente ancorata sul fondale a 500 metri dalle acque territoriali italiane. Questo sogno di libertà non si era materializzato da solo, ben dieci anni erano occorsi al tenace ingegnere dal progetto alla realizzazione attraverso un telaio di tubi saldati fra loro installato su di un rialzamento del fondale ottenuto mediante un sistema di drenaggio della sabbia trattenuta da alghe, tra continui intralci legali e avverse condizioni meteomarine a rallentare il procedere dei lavori. Infine, il 20 agosto del ‘67, l’isola artificiale fu aperta al pubblico ed il primo maggio 1968 venne dichiarata unilateralmente la sua indipendenza. L’Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj era una realtà. Il suo nome è in esperanto, lingua ufficiale della micronazione. Venne eletto un Governo con una Presidenza e cinque Dipartimenti, suddivisi in Divisioni ed Uffici. La neonata repubblica provvedette ad adottare anche uno stemma (rappresentante tre rose rosse, con gambo verde fogliato, raccolte sul campo bianco di uno scudo sannitico) e un inno nazionale. Per poter emettere i propri francobolli si dotò addirittura di una divisa monetaria: il “Mill”, che fu tradotto in esperanto come Milo. Il valore del Mill, all’epoca, doveva essere corrispondente a quello della lira italiana, con un cambio alla pari. In seguito alla conferenza stampa di presentazione, tenutasi lunedì 24 giugno 1968, giornali e televisioni trasformano l’esistenza del manufatto marino in un caso nazionale e internazionale. E mentre i governi si interrogano sulla natura recondita dell’installazione, incerti tra un possibile utilizzo bellico, il pericolo rappresentato dal possibile allacciamento di incontrollabili antenne radio televisive oppure da progetti immorali come un casinò o peggio, folle di curiosi si mettono in fila per salire sulle barche che fanno il giro attorno alla piattaforma e comperano i francobolli emessi dal nuovo Stato, originale souvenir delle loro vacanze. Nel frattempo sull’Isola si trasferisce un abitante stabile, Pietro Bernardini, che, in seguito ad un naufragio nelle acque limitrofe, riesce, dopo otto ore in mare, a mettersi in salvo sulla piattaforma e decide in un secondo momento di prendervi uno spazio in affitto per un anno. Passano però solo 55 giorni dalla proclamazione dell’ingegner Rosa prima che lo Stato italiano decida di intervenire in maniera drastica. Martedì 25 giugno 1968, una decina di pilotine della polizia prendono possesso, senza alcun atto di violenza, della piattaforma. Viene dunque proclamato lo stato di “embargo” vietando qualunque attracco all’isola e, fino all’11 luglio, al guardiano Pietro Ciavatta ed a sua moglie, uniche persone trovatesi al momento sull’Isola, verrà impedito di sbarcare a terra. Il 22 gennaio 1969 un pontone della Marina Militare Italiana salpa alla volta dell’Isola delle Rose con la missione di posare l’esplosivo destinato a cancellarla per sempre. L’11 febbraio i sommozzatori della Marina Militare Italiana, demoliti i manufatti in muratura e segati i raccordi tra i pali della struttura in acciaio, la minano per farla implodere e recuperare i detriti. L’isola tuttavia resiste alla prima esplosione, si procede dunque ad applicare una nuova carica di esplosivo che, fatta brillare, riesce solo a deformare la struttura portante della piattaforma, la quale però resiste. Sarà una forte burrasca abbattutasi sul quel tratto di mare due settimane dopo a far inabissare definitivamente i resti della pacifica micronazione.
LO STATO SOVRANO CHE GUARDAVA RIMINI DAL MARE
I Sensi di Romagna
STORIA
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A Rimini si ricorda che in corrispondenza con questo evento furono affissi dei manifesti a lutto che recitavano: «Nel momento della distruzione di Isola delle Rose, gli Operatori Economici della Costa Romagnola, si associano allo sdegno dei marittimi, degli albergatori e dei lavoratori tutti della Riviera Adriatica condannando l’atto di quanti incapaci di valide soluzioni dei problemi di fondo, hanno cercato di distrarre l’attenzione del Popolo Italiano con la rovina di una solida utile ed indovinata opera turistica. Gli abitanti della Costa Romagnola.». A quarant’anni da questi fatti, l’Isola delle Rose risale agli onori della cronaca grazie al ritrovamento dei suoi resti da parte del club subacqueo riminese Dive Planet, dal quale, il 28 giugno 2009, è giunto l’annuncio che l’ennesima spedizione di ricerca organizzata aveva finalmente avuto buon esito. Esito confermato dallo stesso Giorgio Rosa, che ha riconosciuto ufficialmente le immagini dei resti della sua creatura. Tornerà dunque a essere un’attrazione turistica, benché subacquea, oggi la sua posizione è addirittura segnalata su Google Maps, e tornerà a far parlare di sé anche grazie al film-documentario prodotto da Cinematica “Insulo de la Rozoj - La libertà fa paura” (alcuni fotogrammi del quale corredano questo articolo), che ne racconta nei particolari l’affascinante vicenda utilizzando, tra gli altri documenti, i filmati restaurati e le fotografie che Davide Minghini, il celebre fotoreporter riminese amico di Federico Fellini, aveva realizzato nel corso dei suoi servizi sull’Isola delle Rose. Adesso come allora, la storia di questa entità statale suggerisce estese riflessioni connesse al suo innegabile valore simbolico. Una storia nata dalla candida idea, inseguita da un sognatore, di “veder fiorire le rose sul mare”, per usare le parole dell’ideatore, realizzatore ed ex Presidente dell’Isola delle Rose.
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ROSE ISLAND a sovereign state off the coast of Rimini For a few weeks during the summer of 1968, the coastal waters of Rimini bordered with the south-west confines of a micronation known as Rose Island, officially known as Insulo de la Rozoj. What was viewed in its day by the Italian authorities as potentially the strategic vanguard of some obscure foreign power – and by the tourist operators of the Romagnol riviera as a windfall in terms of its ability to draw tourists – was in reality the dream come true of an easy-going Bolognese engineer called Giorgio Rosa, a platform of 400 square metres firmly anchored to the sea bed 500 metres outside Italian territorial waters. Rosa’s dream of freedom did not come true overnight, of course. It took no fewer than ten years for the engineer to make it a reality. The platform was built on a rig of welded metal tubes resting on an elevation in the seabed, made by dredging sand into place and securing it with seaweed, and its construction was hampered by continuous legal wranglings and adverse weather conditions. Finally, on 20 August 1967, the artificial island was opened to the public. On the first of May 1968, it made a unilateral declaration of independence. Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj, as it was officially known, was a reality. The name was in Esperanto, official language of the new micronation. A government was elected, with a president overseeing five departments subdivided into divisions and offices. The new-born republic also adopted its own coat of arms (three red roses on leafy green stems, on the white ground of a Samnite shield) and a national anthem. In order to issue its own stamps, Rose Island also created its own currency: the Mill, or milo in Esperanto. At the time, the Mill was worth the same as the Italian lira, with a one-to-one exchange rate. After a press conference announcing the creation of the new nation on Monday 24 June 1968, TV and newspaper coverage transformed the story of the small marine platform into a national, and international, cause célèbre. Governments wondered what the real purpose of the platform might be. It could be used in a military offensive, and then there was the danger that pirate radio and TV transmitters could be set up there... or the island might be used for immoral purposes, such as a casino, or worse... and meanwhile, crowds of curious onlookers were flocking to the coast to stand in queues for boat excursions to the island and buy the stamps issued by the fledgling state as souvenirs of their holidays. At this point, Rose Island had one permanent inhabitant, Pietro Bernardini, who had shipwrecked in the neighbouring waters and found salvation in the platform after spending eight hours adrift at sea. Bernardini then decided to rent a room on the island for a year. However, only 55 days after Giorgio Rosa’s declaration of independence, the Italian authorities took drastic action. On Tuesday 25 June 1968, ten police launches stormed the platform and took control of it in a bloodless coup. The island was placed under an embargo, with boats prohibited from mooring there. The island’s watchman Pietro Ciavatta and his wife – the only people on the island at the time of the assault – were detained on the platform until 11 July. On 22 January 1969 an Italian navy barge set off for Rose Island with the mission of laying the explosives which would wipe the platform out for ever.
I
Sensi
di
Romagna
Non è la libertà che manca. Mancano gli uomini liberi. Leo Longanesi
On 11 February, navy frogmen moved in. The island’s superstructure had now been destroyed and the lengths of steel tubing which held the platform together severed, and the frogmen now laid mines in an attempt to finish it off for good – and recover what detritus was worth saving. The first round of explosives failed to destroy the island, so new charges were laid. The new detonation bent the platform deck out of shape, but Rose Island remained above water. It held out for two more weeks, until a storm brought the remains of the peaceful micronation crashing down into the sea. In Rimini, bills were posted in the streets which read: “At the moment of the destruction of Rose Island, the Business Fraternity of Romagnol Coast share the indignation of the coastal dwellers, hoteliers and workers of the Adriatic Riviera, condemning the act of those who, in their inability to find valid solutions to underlying problems, have tried to divert the attention of the Italian People with the destruction of a solid, useful and successful tourist attraction. The inhabitants of Romagnol Coast”. Forty years on, Rose Island is once again in the news with the discovery of its remains by Rimini’s Dive Planet subaqua club, which announced on 28 June 2009 that its umpteenth expedition in search of the remains of the micronation had finally succeeded in locating them. The island’s creator, Giorgio Rosa, has officially attested the authenticity of the photos of the remains of his creation. And so Rose Island looks set to become a tourist attraction again, although only divers will be able to enjoy it. It’s even indicated on Google Maps, and has been the subject of a documentary film produced by Cinematica, Insulo de la Rozoj - La libertà fa paura (some stills from which are reproduced with this article). The film tells the full story of this fascinating episode, with photographs and restored film footage which Davide Minghini, the acclaimed Rimini-based photo-journalist who was a friend of Federico Fellini, had taken during his visits to Rose Island. Now as then, the story of this micronation continues to stimulate debate on what it was and what it stood for. A story which began with an innocent dream of “seeing roses flourish on the sea”, in the words of the inventor, builder and ex-president of Rose Island.
STORIA
ANTICO “MONUMENTO” SEMOVENTE DEDICATO ALLA FATICA
Il plaustro romagnolo solo da adulto ho sentito per la prima volta chiamare “plaustro” - un termine preso pari pari dal plaustrum latino - quello che per tutti, una volta, era solo e’ car, il “carro”.
E la maestra riconosciuta da tutti fu Maddalena Venturi di Granarolo Faentino, morta nel 1935. A Granarolo, vera capitale romagnola del “carro”, vi erano e lavoravano anche delle autentiche dinastie di “carradori”. Qui, naturalmente, parlo del classico “carro” romagnolo, un attrezzo che in altre regioni, anche per ragioni geografiche, era del tutto sconosciuto. I colori erano vivacissimi, le ruote e i mozzi di un rosso scarlatto. Rosse anche le altre parti, ma tutte decorate di disegni bianchi, verdi, turchini, gialli che rappresentavano fiori, rami, foglie, festoni. Poi, in quegli autentici capolavori che furono i “carri” di Maddalena Venturi, c’erano, immancabili, tre figure di santi. Nel paratoio davanti, dentro a un cerchio, la figura bonariamente barbuta di Sant’Antonio abate, veneratissimo perché era considerato il grande protettore della campagna, delle bestie domestiche e dei lavori agricoli. Invece, nel paratoio posteriore, in alto, sempre dentro a un cerchio, era dipinta l’immagine della Madonna delle Grazie che teneva nelle mani due fasci di frecce spezzate. E poi, al centro in basso, il pezzo più straordinario: un giovane San Giorgio con l’elmo, sul cavallo impennato, che trafiggeva il drago sottostante. Il “carro” romagnolo, pesante e lento, è il vero simbolo di un’epoca in cui la fatica e il tempo non avevano nessun limite.
THE ROMAGNOL PLAUSTRO a moving monument to the toils of country life Not until I was an adult did I first hear the word plaustro – a term derived directly from the Latin plaustrum – used to describe something once known by everyone as e’ car, “the cart”.
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giuliano bettoli
immagini: archivio giuliano bettoli
Ne vedevo passare, di carri, anche in città, non solo in campagna, tirati da due o da quattro buoi. Ne vedevo mentre li costruivano, perché nel Borgo Durbecco di Faenza, dove ho sempre abitato, anni fa c’erano dei famosi “carradori”: i Grilli, detti “i Biundì”. E lavoravano all’aperto, lungo l’antica via Emilia. Il “carro” era il più imponente e il più importante degli attrezzi che il contadino usava per i suoi faticosi lavori. Una famiglia di campagna senza il “carro” era considerata una famiglia di disgraziati. Nei grandi poderi ce n’erano addirittura due. Per il trasporto del fieno, della canapa, del grano, dell’uva, del mosto dentro alle lunghe botti dette “castlé”, della legna; per trasportare i mobili, quando la famiglia si trasferiva: sempre il “carro” era il mezzo sicuro per questi servizi. Quattro ruote di legno cerchiate di ferro, un lungo timone ligneo, nel quale si infilavano le famosissime cavèie di ferro col giogo (vedi ee N° 15), il pianale del carro poteva arrivare a tre metri di lunghezza, ma non è possibile descrivere in breve tutte le parti dettagliate che lo componevano. Il “carro” dava il senso del monumentale e del pittoresco. Perché, dopo che i carradori lo avevano creato, diventava come una grande tela per i “dipintori” - più di verniciatori, meno di pittori - che decoravano il carro con incredibile arte. I
Sensi
di
Romagna
As a child I’d see these oxcarts in the town as well as the country, drawn by two or four oxen. I saw them being built too, as my home town of Borgo Durbecco, where I’ve always lived, was once famous for its cartmaking family: the Grilli, known in the dialect as Biundì. They worked in the open air, on via Emilia. These oxcarts were the biggest and most important accoutrements of the labours of the peasants. A country family without an oxcart was seen as a wretched family. Some larger farmsteads even had two carts. They were used for transporting hay, hemp, wheat, grapes, grape must (which was carried in long barrels known as castlé) and firewood; and if the family had to move home their oxcart was the perfect vehicle for carrying their furniture. Four wooden wheels with iron rims, a long wooden shaft pinned to the yoke by the characteristic caveja (see ee issue no. 15), and a platform up to three metres long – these were the essential features. They were both picturesque and monumental in their visual effect. For once the cartmakers had built them, they became a canvas for the dipintori – painters in both senses of the word, although the artistic sense prevails – who decorated them with amazing skill. Recognized as best painter of all was Maddalena Venturi of Granarolo Faentino, who died in 1935. Granarolo was a major Romagnol centre of cartmaking where whole dynasties of cartmakers lived and worked. I’m talking here of the classic Romagnol carro, a vehicle which was completely unknown in other regions, for geographic and other reasons. It was painted in gaudy colours, the wheels and axes in scarlet, the other parts with a scarlet ground overlaid with designs in white, green, turquoise and yellow, representing flowers, tendrils, leaves and festoons. The masterpieces produced by Maddalena Venturi also featured her trademark devotional paintings. On the front panel, inside a circle, was a bearded and affable St. Anthony, especially venerated by peasants as the patron of the countryside, domestic animals and agricultural work. On the top of the rear panel, again inscribed within a circle, was the image of Our Lady of Graces, holding two bundles of broken arrows in her hands. Below, in the centre, was the most extraordinary feature: a young St. George in helmet, mounted on a rearing horse, slaying the dragon. That was the Romagnol carro – heavy and slow, and the perfect symbol of a period when the toils of the peasantry were as long as the days.
Chi non vuole far fatiche, il terreno gli produce ortiche. Proverbio popolare
STORIA
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tatiana tomasetta
immagini: archivio enrico maltoni
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Le dame del caffè, vestite d’argento L A C O L L E Z I O N E M A LT O N I A FORLIMPOPOLI sono 108 anni che si beve il caffè espresso in italia, questa è anche l’età della prima macchina costruita per prepararlo, non un elettrodomestico ma una vera e propria opera dotata di una storia e di un’identità che si intrecciano con quella della bevanda più apprezzata nel mondo e con l’evoluzione del costume italiano.
I
Sensi
di
Romagna
Ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè. Thomas Stearns Eliot
Per gli italiani ordinare un caffè è più di un gesto quotidiano, è un rito e un piacere. Incontrare Enrico Maltoni – che vive e lavora a Forlimpopoli - significa soffermarsi ad osservare gli oggetti che sposano questo rito, intrattenersi con una passione e scoprire un mondo per niente scontato “a servizio” del caffè. Il collezionista romagnolo quasi vent’anni fa, davanti ad una Faema Marte del 1952 trovata in un mercatino, decide di acquistarla per utilizzarla in casa propria. Cercando i pezzi per restaurarla e ripararla rimane colpito da quanta poca documentazione esistesse su di un soggetto potenzialmente così vasto. Da quel momento ad oggi Maltoni ha creato l’omonima collezione, il primo sito al mondo sul caffè, un libro dal titolo “Espresso Made in Italy 1901-1962”, una mostra itinerante di macchine del caffè espresso (le più belle e efficaci del secolo scorso), infine, edita recentemente, ha curato la pubblicazione dal titolo “Faema Espresso 1945-2010”. La Collezione Enrico Maltoni è un punto di riferimento per gli appassionati nel mondo, oggi è presentata in un sito: www.espressomadeinitaly.com, l’unico museo online della macchina da caffè, una raccolta di opere d’arte del Made in Italy. Al centro, protagoniste, le macchine del caffè espresso, oltre 100 pezzi, sagome brillanti e scintillanti che il proprietario chiama le “dame vestite d’argento”. Accanto a loro trovano posto anche le macchine per la moka, gli accessori inconsueti, i manifesti d’epoca, le tazzine del caffè, una biblioteca cartacea, l’archivio, le geniali pubblicità storiche; in poche parole le tracce di una tradizione lunga un secolo. E così gli interpreti della storia di questa bevanda grazie al collezionista romagnolo si svelano al pubblico, protagonisti di un mondo che sposa industria ed arte, tutto rivolto al design, e che segue i mutamenti della società e dei costumi italiani del Novecento. Nel novembre del 1901 viene depositato il brevetto del primo modello, studiato dall’ingegnere Luigi Bezzera di Milano, nel 1905 Desiderio Pavoni, sempre a Milano, inizia a progettare e commercializzare macchine per caffè espresso, avvalendosi del brevetto. La sua macchina, in ottone cromato, di forma cilindrica e con una caldaia scaldata da un fornello a gas, funzionava a una pressione di 1,5 atmosfere e bruciava il caffè! Durante tutto il secolo scorso grandi menti italiane hanno pensato e realizzato sistemi per migliorare la resa del gusto e prodotto nuove macchine sempre costruite con un occhio di riguardo all’estetica, che ha assolutamente seguito le correnti artistiche, lasciando alla storia prodotti di design senza pari. In fondo si trattava di oggetti destinati ad arredare i più famosi bar.
Passioni
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Le imponenti macchine a colonna dell’inizio secolo sono in stile Liberty, realizzate in fonderia, venivano arricchite con decorazioni cromate e scritte smaltate di pregevole fattura. Nella piccola officina di via Parini a Milano, la Pavoni fabbrica tre modelli: piccolo, medio e grande. E ne vende al ritmo di una al giorno. La torinese Victoria Arduino perfeziona il sistema del caffè a vapore, ma le Officine Fratelli Romanut, la cui macchina a colonna in cima sfoggia il leone di San Marco cesellato a mano, sposano il funzionamento elettrico e a gas. Si va verso gli anni Venti, L’Augusta Massocco & C, la Snider, la Universal, “carrozzerie” cromate per eleganti macchine del caffè a funzionamento elettrico istantaneo. Arrivano gli anni Trenta, la Victoria Arduino fabbrica un modello la cui immagine nelle linee e nei volumi attinge agli stilemi fascisti. Giuseppe Cimbali, l’artigiano che fabbrica i componenti delle macchine, negli anni Trenta avvia la produzione in proprio, le Cimbali sono richiestissime. L’ingegner Simonelli, nel 1936, da Macerata mette sul mercato il suo modello a colonna con meccanica per preparazione istantanea. Nel secondo dopoguerra, Gaggia con la Classica 1948 sostituisce il modello “a colonna” con il funzionamento “a pistone”, e la bevanda che prima sapeva d’amaro e di bruciato diventa la moderna “crema caffè”. Le macchine Gaggia si diffondono rapidamente nei bar e nei ristoranti del Belpaese. Dagli anni Cinquanta entrano in scena le scelte artistiche, la materia diventa linguaggio a firma di grandi designer e architetti. Si cimentano artisti come Gio Ponti, Luigi Caccia Dominioni, Bruno Munari, Alberto Rosselli, Antonio Fornaroli, Giuseppe De Gotzen, Marco Zanuso, Rodolfo Bonetto, i fratelli Castiglioni, Giovanni Travasa, Ettore Sottsass, Enzo Mari, Gianfranco Salvemini, Pininfarina, che hanno realizzato “strumenti” di lavoro divenuti dei veri e propri elementi di collezionismo che contribuiranno ad imporre l’inconfondibile stile nazionale nel mondo. Degna di nota la Pavoni Modello Concorso del 1956. Il design di Enzo Mari e Bruno Munari le fa meritare il soprannome di Diamante. Ancora oggi tra le più ricercate dai ristoratori è la Faema - azienda che, più di tutte, ha saputo scrivere il futuro delle macchine da caffè - E61, del 1961. Decorata con una banda rossa su fondo bianco, veniva pubblicizzata come unica al mondo ad iniezione diretta, “dotata a richiesta di idonea apparecchiatura alimentata da una comune batteria”, così anche senza corrente elettrica il caffè è garantito. Ma nell’archivio del collezionista si possono trovare testimonianze e curiosità di ogni genere, come i cento anni del costo delle tazzine, la ricostruzione dei tempi tecnici del caffè - una volta ci volevano tre minuti, oggi quaranta secondi – oltre ad un cortometraggio ottenuto montando in successione scene tratte da film famosi che hanno per filo conduttore l’apparizione di una macchina del caffè espresso. [18
Si c a che mbia p iù caff è. G facil me eorg es C nte re li ourt elin gione e
I
Sensi
di
Romagna
SILVER LADIES the Maltoni collection of coffee machines in Forlimpopoli Italians have been drinking espresso coffee for 108 years, when the first-ever machine for making it was invented. But espresso machines have never been mere appliances – at their best they’re works of art whose history and identity are interwoven with those of the world’s best-loved beverage and the evolution of Italian customs. For Italians, ordering a coffee is more than a mere transaction – it’s a ritual and a pleasure. So to meet Enrico Maltoni, who lives and works in Forlimpopoli, is to encounter the accoutrements of the ritual, come face to face with one’s man’s passion, and discover a whole world dedicated to coffee. It all started twenty years ago, when our Romagnol collector found a 1952 Faema Marte machine in a market stall and decided to buy it to use at home. As he looked for parts to restore and repair the machine, Maltoni was struck by the scarcity of literature on so potentially vast a subject. It was the beginning of a passion that led to the creation of the Maltoni Collection of coffee machines, the world’s first website dedicated to coffee, a book, Espresso Made in Italy 1901-1962, a travelling exhibition of espresso machines (the most beautiful and efficient of the 20th century) and, quite recently, another book, Faema Espresso 1945-2010. The Enrico Maltoni collection is revered by coffee enthusiasts all over the world, and is now online at www.espressomadeinitaly.com. It’s the world’s only online museum of coffee machines, and every specimen was made in Italy. Doyens of the collection are the espresso machines – over 100 gleaming, scintillating creations that their owner calls his “Silver Ladies”. The collection also features mocha machines, unusual accessories, period posters, coffee cups, a library, archive, and some wonderful original advertising material. Together, they trace the evolution of the coffee cult over the course of a whole century. The machines themselves form the backbone of the collection. Every machine is a triumph of design, a marriage of industry and art, and every machine brilliantly reflects the evolution of Italian society and customs over the course of the twentieth century. The earliest recorded patent for a coffee machine dates from November 1901, for a model designed by Luigi Bezzera of Milan. In 1905, also in Milan, Desiderio Pavoni began designing and selling machines for espresso coffee, and his design too was patented. Pavoni’s machine was of chrome-plated brass, cylindrical in form with a boiler heated by a gas burner. It operated at a pressure of 1.5 atmospheres – and it burned the coffee! There was plenty room for improvement then, and during the twentieth century a series of refinements designed to improve flavour were introduced. The new machines were always designed with an eye on their aesthetic appearance, and so their evolution reflects changing artistic currents – leaving for posterity some matchless classics of Italian design. Most of the machines on display were made to be used in bars. The imposing column machines from the early twentieth century are in the art nouveau style, their cast bodies enriched with chromium highlights and delicate enamel writing. In its small factory in Milan’s via Parini, Pavoni made three models: small, medium and large. It generally sold one machine a day. Turin designer Victoria Arduino perfected the steam-driven espresso machine, while Fratelli Romanut, whose column machine sported a hand-tooled St. Mark’s Lion on top, combined electric and gas-powered technology. By the 1920s, Augusta Massocco & C, Snider, and Universal were producing elegant electric machines with chrome-plated “coachwork” that worked at the flick of a switch. In the thirties, Victoria Arduino produced a model which reflected the fascist aesthetic of the day. In the same decade, components manufacturer Giuseppe Cimbali began producing his own machines, and these were soon in great demand. In 1936, Simonelli from Macerata introduced a column machine incorporating a mechanism for instant preparation. After the Second World War, Gaggia’s Classica 1948 replaced its earlier piston-driven column model, and the drink that had previously tasted bitter and burnt now became the modern foamy-topped café crème. Gaggia machines rapidly established a place in bars and restaurants all over Italy. By the fifties, espresso machines had become an art form in their own right and attracted the attentions of illustrious designers and architects. Creations by the likes of Gio Ponti, Luigi Caccia Dominioni, Bruno Munari, Alberto Rosselli, Antonio Fornaroli, Giuseppe De Gotzen, Marco Zanuso, Rodolfo Bonetto, the brothers Castiglioni, Giovanni Travasa, Ettore Sottsass, Enzo Mari, Gianfranco Salvemini and Pininfarina have since become collector’s items which have contributed to the global diffusion of a distinctively Italian style. Among these are Pavoni’s Concorso model from 1956, while a curious faceted machine designed by Enzo Mari and Bruno Munari earned itself the nickname of Diamante. Today, one of the machines most sought after by bars and restaurants is the Faema E61 from 1961. A landmark and a turning point in espresso machine design, the E61 sported a distinctive red band on a white background, and was launched as the only machine in the world with a direct injection system, “equipped to order with a special system powered by a common battery” – which meant coffee was now possible even when the power failed. The archives of the Maltoni collection are full of information and curious information, such as the price of a coffee over a hundred-year period, and an account of the time it takes to make an espresso – three minutes in the past, now just forty seconds – and there’s also a video installation with a sequence of clips from famous movies in which coffee machines feature prominently.
Passioni
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La motocicletta in mostra
marcello cicognani
immagini: archivio museo nazionale del motociclo
Tutta la nobiltà delle due ruote, dall’Italia e dall’estero, è presente: Guzzi, MV Agusta, Ducati, Benelli e poi Norton, BSA, Triumph, e ancora Harley-Davidson, Honda, Yamaha. «Ovviamente, ognuno dei soci ha le sue preferite», dichiara Zaghini con gli occhi che brillano; «le mie sono la Frera 1140 bicilindrica del 1918 e la Linto da GP progettata nel 1968 da un nostro conterraneo, Lino Tonti. Invece, il mio socio Corvatta stravede per la Stucchi 2,75Hp del 1904». L’esposizione, che ha già cambiato sede due volte per meglio contenere il sempre crescente numero di esemplari, e dal 2005 è ospitata negli spazi di uno stabile in via Casalecchio, dispone anche di una ricchissima biblioteca con documenti risalenti a fine ‘800, nonché di locali per riunioni e l’intrattenimento degli ospiti. Il Museo, inoltre, ospita ogni mese un vivace mercatino delle due ruote, punto di riferimento per appassionati, e piacevole diversivo per visitatori e curiosi di passaggio.
MUSEO NAZIONALE DEL MOTOCICLO
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dagli uffizi al prado, passando per il louvre e il british museum, chi ama l’arte ben conosce le tappe imprescindibili per soddisfare appieno la propria sete di bellezza. se poi, dell’arte, si apprezza ogni poliedrica manifestazione, allora non si resterà senz’altro delusi dopo una visita al museo nazionale del motociclo. «Arrivano da ogni parte del mondo per vedere le nostre moto, e sono molto più numerosi gli stranieri rispetto agli italiani. Nel luglio del 2006 è venuto a farci visita anche un islandese, percorrendo la distanza che separa l’isola artica dal nostro museo a cavallo della sua fiammante Triumph degli anni ’70». Chi parla è Tino Zaghini, che prima ha sognato e quindi realizzato, insieme agli amici Germano Corvatta e Giuseppe Savoretti, quest’esaustiva raccolta, sorta nel 1993 – e non poteva essere altrimenti – nel cuore di Romagna, a Rimini. «La nostra passione,» prosegue Zaghini «ci porta ad un lavoro di costante e capillare ricerca per recuperare pezzi storici. Abbiamo trovato cose che sarebbero state altrimenti buttate, potenziali rottami trasformati in gemme museali. Siamo riusciti persino a scovare la moto del pittore naïf Antonio Ligabue». E la collezione, iniziata unendo quelle dei tre fondatori, è davvero impressionante: 250 sono gli esemplari esposti, in rappresentanza di 60 Marche diverse, a partire dall’inizio del secolo scorso – quando si trattava, per lo più, di biciclette equipaggiate da un motore a scoppio – sino alla fine degli anni ’80 ed i “missili” da Gran Premio. I
Sensi
di
MOTORCYCLES ON SHOw the Museo Nazionale del Motociclo The Uffizi, the Prado, the Louvre, the British Museum – art lovers know all the essential stops in their quest for beauty in the arts. But those whose interests extend into rather more recondite areas of artistic expression won’t be disappointed by a trip to Italy’s national motorcycle museum. “People come from all over the world to see our motorcycles, and many more foreigners than Italians. In July 2006 we were visited by an Icelandic biker who’d come all the way with his 1970s Triumph”. The speaker is Tino Zaghini, who with his friends Germano Corvatta and Giuseppe Savoretti is custodian of this comprehensive collection of motorbikes, on display since 1993 in – where else – Rimini, the heart of Romagna. “Our passion - continues Zaghini - makes us search constantly search for historic artefacts. We look everywhere and anywhere. We’ve saved things that would otherwise have been thrown out, scrap that’s been transformed into museum pieces. We’ve even managed to track down the motorbike which belonged to naive painter Antonio Ligabue”. The collection, which first took form when the three enthusiasts combined their personal collections, is truly impressive: there are 250 bikes on show, with over 60 different makes represented and a chronology ranging from the early 20th century – when most models were essentially bicycles fitted with internal combustion engines – to the late 1980s and the “missiles” of the Grand Prix circuit. The cream of the motorcycle aristocracy, from Italy and abroad, is present: Guzzi, MV Agusta, Ducati, Benelli from Italy, and Norton, BSA, Triumph, Harley-Davidson, Honda and Yamaha from further afield. “Obviously, each of us has his preferences, notes Zaghini with a gleam in his eye - mine are the two-cylinder Frera 1140 from 1918 and the Linto GP designed in 1968 by a local boy, Lino Tonti. My partner Corvatta, on other hand, is crazy about the Stucchi 2.75 hp from 1904”. The museum has already moved home twice in its endeavours to accommodate its ever-growing collection, and since 2005 has been located in Rimini’s via Casalecchio. It also has an extremely rich library with documents dating back to the 19th century, as well as conference and hospitality facilities. The museum holds a monthly motorbike market where enthusiasts can buy and sell all things bike-related – it’s an interesting sight for the casual visitor too.
Un mezzo meccanico è come il deserto. O ti affascina o ti inorridisce. Wilfrid Noyce
Romagna
Passioni
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TENIMENTI SAN MARTINO IN MONTE L’idea su cui hanno scommesso il docente universitario di architettura Maurizio Costa, il noto chef Paolo Teverini, Paolo Cantelli e i loro soci è che l’innalzamento globale delle temperature climatiche non potrà che favorire ulteriormente nel prossimo futuro una zona dall’ancora parzialmente inespresso potenziale enoico come il lembo di Appennino Tosco-Romagnolo compreso tra i comuni di Brisighella e Modigliana che questo manipolo di entusiasti ha battezzato quale terroir vocato ad ottenere un grande vino. Posta della suddetta scommessa è una tenuta di 60 ettari, di cui per ora solo 8 vitati, ubicata tra boschi e uliveti a circa 350 metri sul livello del mare, lambita delle correnti marine che spirano dalla costa adriatica e favorita delle escursioni termiche notturne dovute all’altitudine. Su questi terreni di antica genesi, formatisi dall’evoluzione di rocce di arenaria con intrusioni di marne, la coltura della vite ha radici profonde, come dimostra il vecchissimo vigneto a gradoni risalente al 1922, che è stato recuperato dopo 30 anni di abbandono, grazie anche al contributo di un agronomo d’eccellenza come Remigio Bordini e di un enologo illuminato come il figlio Francesco, dalle cui uve si produce il vino di punta dell’Azienda, il Sangiovese Vigna 1922. La filosofia di fondo che si respira in Azienda è quella di esaltare innanzitutto la produzione ambientale ed in secondo luogo l’espressione varietale di ogni singolo vitigno, partendo naturalmente dalle due più illustri produzioni autoctone del territorio: Sangiovese e Albana di Romagna. Da un’attenta analisi di fattori ambientali come l’altitudine e la giacitura dei suoli si è costruita la scelta relativa ai vitigni, cloni e portainnesti da impiantarsi nei nuovi campi, compresi alcuni vitigni internazionali coltivati e vinificati separatamente, dal cui incrocio con le varietà autoctone nascono un blend rosso ed un bianco in grado di esaltare le caratteristiche ambientali, grazie al rispetto dei cicli biologici e vegetativi. Da segnalare, infine, la piccola produzione di olio pregiato nelle tre varietà: Ghiacciola, Frantoio – Leccino e Nostrana, che ben corona una “missione” che si nutre di esiti positivi, senza perdere di vista il suo obiettivo ultimo.
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TAKING THE LONG VIEw Tenimenti San Martino in Monte
Scommessa a lungo termine dall’incontro di un gruppo di amici accomunati dalla voglia di investire su di un’intuizione, trae origine un progetto che promette di superare nel prossimo futuro i già lusinghieri riscontri ottenuti nei pochi anni trascorsi dalla sua nascita. carlo zauli
immagini: archivio tenimenti san martino in monte
Vigna 1922_ Sangiovese di Romagna DOC 2004_ Uve/Grapes 100% Sangiovese
From a meeting of a group of friends with a shared desire to invest in a hunch, there emerged a venture which soon promises to exceed the already impressive results obtained in its few years of existence. The hunch into which university architecture teacher Maurizio Costa, noted chef Paolo Teverini, Paolo Cantelli and their partners sunk their money is that global warming could only favour a zone whose potential as a wine-growing area had only been partially realized – an outcrop of the Tuscan-Emilian Apennines straddling the municipal districts of Brisighella and Modigliana, which the group of enthusiasts had identified as an area capable of producing excellent wine. The estate in question covers 60 hectares, of which only 8 are planted with vines at present, among woods and olive groves. It lies at an altitude of 350 metres above sea level, where it’s exposed to the sea breezes of the Adriatic coast and the nocturnal thermals which its altitude attracts. The terroir itself is formed by sandstone soil with veins of loam. Vines have been grown here for some time, as attested by a very old terraced vineyard which dates from 1922 and was recently rehabilitated after 30 years’ disuse, thanks to the efforts of renowned agronomist Remigio Bordini and his equally talented oenologist son Francesco. Its grapes now produce the estate’s signature wine, the Sangiovese Vigna 1922. San Martino in Monte gives precedence to organic production first and the expression of each varietal second, based, naturally enough, on two grapes which are native to the area: Sangiovese and Albana di Romagna. Newly-planted vines, clones and rootstock were chosen after careful analysis of environmental factors such as altitude and orientation. These include a few “international” vines, which are grown and vinified separately before being blended with wines from the indigenous grapes to create reds and whites that express the characteristics of the terroir because they’re grown with respect for biological and reproductive cycles. The estate also produces some excellent olive oils in small quantities, available in three varieties: Ghiacciola, Frantoio Leccino and Frantoio Nostrana. The icing on the cake for a venture which has gone from success to success and never lost sight of its primary objective.
Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva, si gusta, si sorseggia e... se ne parla. Edoardo VII
I
Sensi
di
Romagna
Vino “simbolo” della Cantina, si annuncia con un colore rosso granato concentrato. Sviluppa profumi maturi di frutti a polpa rossa, accento floreale di media complessità e vira nel finale verso il minerale. Di grande equilibrio, si esprime al palato con un ingresso caldo e morbido che denota tannini perfettamente fusi con la sapidità e termina in un finale persistente e speziato. La macerazione e la fermentazione avvengono in piccoli tini con temperature oscillanti, in modo da estrarre solo i tannini migliori. Affina per 12 mesi in tonneaux di rovere francese, poi in bottiglia. Temperatura di servizio 16° C. Si abbina felicemente a piatti dai sapori pronunciati, come il petto di fagiano in salsa di carciofi. The signature wine of San Martino in Monte, this wine is a deep garnet-red in colour. On the nose it has notes of ripe, red fruit, with floral accents of medium complexity and a mineral finish. An extremely well-balanced wine, it’s initially warm and soft on the palate - the sign of tannins and sapidity in perfect equilibrium – with a persistent, spicy finish. Maceration and fermentation is in small vats at varying temperatures to extract only the best tannins. Aged in French oak tonneaux for 12 months, then bottle aged. Serving temperature: 16°C. Goes well with robustly-flavoured dishes such as pheasant in artichoke sauce.
Vigna alle Querce_ Forlì IGT rosso 2005_ Uve/Grapes 40% Merlot, 30% Cabernet Franc, 30% Syrah Blend di uve provenienti da vigneti coltivati e vinificati separatamente per esaltare le caratteristiche mirco-ambientali, possiede un colore rosso rubino intenso, limpido e di apprezzabile consistenza. All’olfatto risulta fruttato con profumi di mora e mirtillo e penetranti note speziate. Al palato rivela una buona struttura, notevole morbidezza e tannini eleganti. Equilibrato e lungamente persistente, termina con un finale armonico e minerale. È prodotto ed affinato in barriques di rovere francese, poi in bottiglia. Temperatura di servizio 18° C. Consigliato l’abbinamento con sottofesa in salsa di ribes. Made from grapes grown and vinified separately to enhance their micro-environmental qualities. The colour is a bright, even, limpid ruby red. On the nose it’s fruity, with notes of blackberry and bilberry and some sharp, spicy highlights. On the palate it’s well-structured and remarkably soft, with elegant tannins. Well-balanced and lingeringly persistent, finishing with a harmonic mineral note. Produced and aged in French oak barriques, then bottle aged. Serving temperature: 18°C. Goes well with silverside and blackberry sauce.
Vigna d’Oro_ Forlì IGT bianco 2005_ Uve/Grapes 100% Albana Ottenuto da uve raccolte in più passaggi per attendere la muffa nobile e la giusta concentrazione zuccherina, questo raffinato passito sembra sfruttare al meglio i benefici del microclima della catena appenninica. Onora il suo nome con un colore giallo oro brillante acceso da leggeri riflessi verdognoli, offre profumi fini e penetranti di frutta esotica e spezie. Intenso e persistente in bocca, denota un buon bilanciamento di zuccheri e acidità. Viene prodotto seguendo le tecniche della vendemmia tardiva di scuola francese del vitigno Albana. Fermenta ed affina in legno, in botti di rovere francese, per circa 12 mesi. Temperatura di servizio 18° C. Ottimo per accompagnare dessert delicati, come la torta di ricotta e pere. Obtained from grapes picked in several tries to promote the development of noble rot and a high concentration of sugar, this is a refined passito wine that is clearly flourishing in the microclimate of this part of the Apennines. Vigna d’Oro does justice to its name with its bright golden colour shot through with gentle greenish tints. The bouquet is subtle and penetrating, with notes of exotic fruits and spices. Intense and persistent in the mouth, with a good balance between sweetness and acidity. Produced from Albana grapes picked according to the late harvesting methods perfected in France. Fermented and aged in French oak barrels for around 12 months. Serving temperature: 18°C. Excellent with delicate desserts like pear and ricotta tart.
Enogastronomia
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Formaggio di Fossa STAGIONATO NEL VENTRE DELLA TERRA DI SOGLIANO come accade non di rado in casi simili, la scoperta delle proprietà organolettiche conferite al formaggio dalla tecnica di stagionatura in fossa è antica e fortuita.
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Formaggio. Forma di latte per l’adulto. Richard Condon
alba pirini
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immagini: archivio comune di sogliano al rubicone
L’usanza di deporre il formaggio in questi antri tufacei, generalmente a forma di fiasco, con una base di circa due metri di circonferenza ed un’altezza di tre, nacque infatti, secondo la tradizione, dalla necessità per i pastori e contadini soglianesi di difendere le proprie vivande dalle razzie delle truppe aragonesi che nel XV secolo imperversavano su queste terre. Al momento di riappropriarsi delle provviste, gli sventurati popolani furono ricompensati in parte delle tribolazioni subite dal nuovo, e squisito, sapore acquisito dalle loro caciotte durante l’imprevista relegazione sotterranea. Il formaggio aveva infatti acquistato i profumi di legno, tartufo e muschio ed assunto il caratteristico sapore, sospeso tra il dolce e il piccante, che ha reso questo prodotto un vessillo gastronomico di questo territorio (dal 2007 gli è stata assegnata la DOP nazionale). Per fregiarsi di questo nome, il Fossa di Sogliano attraversa varie fasi di produzione. In primis la preparazione della fossa, la quale viene liberata dall’umidità accumulata mediante l’accensione di un piccolo falò. Le sue pareti vengono poi rivestite da uno strato di paglia. Si procede quindi alle due infossature annuali (solitamente in primavera ed in estate) del formaggio chiuso in sacchetti di panno. Le caciotte sono realizzate con latte intero ovino oppure con aggiunta di latte intero vaccino. Le forme cilindriche, precedentemente maturate per almeno 30 giorni, vanno dai 600 ai 1.800 grammi. Vengono accatastate fino all’imboccatura della fossa, la quale sarà infine riempita di teli e chiusa con un coperchio ligneo sigillato con il gesso. Comincia a questo punto la stagionatura, che oltre a donare al formaggio il caratteristico gusto, gli conferisce una maggiore digeribilità e migliori caratteristiche nutritive. Dopo circa 90 giorni, tradizionalmente il 25 novembre, si passa alla sfossatura. A causa del processo di fermentazione e alla pressione delle forme, l’una sull’altra, la sezione finale risulta quasi rettangolare, per lo stesso motivo la crosta e la pasta divengono indistinguibili e si presentano compatte e friabili. A seconda della maturazione, della tipologia del formaggio di partenza e della fossa nella quale è stato stagionato, il colore va dal bianco al giallo paglierino mentre il delicato sapore diviene sempre più piccante man mano che permane al palato e termina con un retrogusto amaro. Oltre ad essere gustato da solo, magari accompagnato con miele, confetture di frutta o aceto balsamico, il Fossa viene utilizzato per la preparazione di primi e secondi piatti, come ad esempio i passatelli e gli gnocchi, oppure grattugiato come condimento. Le ultime due domeniche di novembre e la prima domenica di dicembre Sogliano celebra il suo “tesoro” con la caratteristica fiera, tappa obbligata per migliaia di gourmand. I
Sensi
di
Romagna
FORMAGGIO DI FOSSA matured in the womb of the earth of Sogliano As often happens in such cases, the discovery that burying a cheese for a few months improved its flavour is an old and fortuitous one. According to tradition, the habit of interring cheese (in this case in flask-shaped pits dug into tufaceous rock, with a base circumference of two metres and a height of three) began as a ruse thought up by the shepherds and peasants of Sogliano in an attempt to protect their victuals against the ravages of Aragonese troops in their territory. When they went to unearth their provisions, the local inhabitants were pleasantly surprised to discover that their cheeses had acquired a new and exquisite flavour during their forced interment. They were now imbued with a woody fragrance of truffles and moss and the now-characteristic flavour, somewhere between sweet and sharp, which has made pit cheese the gastronomic emblem of Sogliano (in 2007 it was awarded national DOP status). To earn the right to bear the name of Fossa di Sogliano, pit cheeses must be produced according to a strictly-regulated procedure. First comes the preparation of the pit, in which a small bonfire is lit to get rid of humidity. The walls of the pit are then lined with a layer of straw. The cheese is buried in two batches annually, generally in spring then summer, enclosed in cloth sacks. The cheeses themselves are made with whole ewe’s milk, although whole cow’s milk may also be added. They’re prepared in cylindrical forms and matured for at least 30 days prior to burial, by which time they weigh anything from 600 to 1,800 grams. They’re then stacked one on top of another up to the neck of the pit, which is closed and sealed with a plug of wood and plaster. This is when the cheese begins to age, a process which not only gives the cheese its characteristic flavour but also makes it more digestible and nutritious. After about 90 days underground, the cheese is removed from its pit - traditionally on 25 November. Owing to the fermentation process and the pressure of each cheese one on top of another, the end product is a cheese that’s almost rectangular in section. For the same reason there is no discernible difference between rind and paste, which are compact and friable. Depending on how long the cheese is aged, the quality of the cheese originally placed in the pit and the conditions of the pit itself, the colour ranges from white to straw-yellow, with a delicate flavour which becomes more piquant the longer it remains on the palate, and a bitter aftertaste. Fossa can be enjoyed on its own, or with honey, fruit preserves and balsamic vinegar. It’s commonly used as a cooking ingredient, for instance in passatelli and gnocchi, or for grating. Sogliano celebrates its buried treasure every year in a fair held on the last two Sundays of November and the first Sunday of December, attended by cheese lovers from all over Italy and beyond.
Enogastronomia
BEYOND SURFACE
AU DELA DE LA SURFACE
Irene Ugolini Zoli UN’ANIMA GITANA ATTRAVERSATA DALL’ARTE pensare di circoscrivere la figura di un artista dentro i limiti di una biografia è stato spesso l’esempio più infelice di renderlo immortale.
IRENE RENE UGOLINI ZOLI a wandering soul at the service of art Defining an artist by his or her biography has often proved the most unfortunate way of making them immortal. What really matters is the work. For an artist like Irene ugolini Zoli, her art continues to talk and dialogue with those who have survived her. Her exuberance of expression, often inspired by nature but also rooted in the rock paintings of the prehistoric world and the gigantic statues of Easter Island, steeps her almost prophetic visions in the complexities of modern world. unpredictable like spheres of mercury that take on random forms when left to run free, that only produce their effect when in some way confined. All of Zoli’s works are imbued with an impulsive, spontaneous, unmistakable anti-conformism, but we’d be wrong to think they’re absent of premeditation.
angelamaria golfarelli
immagini: archivio gabriella zoli
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Ciò che gli permette infatti di segnare il tempo e la vita, sono le sue opere. Quindi di Irene Ugolini Zoli, sarà la propria profonda ed inquieta arte a parlare e a dialogare coi posteri. La sua inarginabile espressività, spesso ispirata dalla natura, ma anche legata alle antiche pitture rupestri, alle gigantesche statue dell’isola di Pasqua, intingeva nel complesso universo moderno le sue quasi profetiche visioni. Impenetrabile come le sfere di un mercurio emotivo che libero moltiplicava le sue forme, ma che solo “costretto” produceva il suo effetto. Tutte le sue opere hanno risentito di un totale anticonformismo prezioso, nel suo incontro con il segno, inconfondibile, impulsivo, spontaneo ma non per questo meno ricercato, meditato, protetto. Il colore l’ha dominata senza mai sottrarla a quella sofferta malinconia che ha spento nelle sue opere le chiare tinte del giorno, con i densi e scuriti transiti notturni. Un’opera intensa e poetica che ricava dalla natura il suo aspetto istintivo, ma che mediata dagli umani tormenti, esplode raffinata ed elegante nelle sue calle, fino ad esporsi inquieta e stratificata nei quadri che ritraggono i Tropici. Sì, perché Irene è stata un’artista che nel viaggio e nell’errare ha placato, ma più spesso acceso, la sua sete di intimismo e di sogni. Osservatrice attenta benché rapita dalle sue illusioni, si è lasciata andare allo stordimento che la bellezza le offriva, senza resistenza alcuna. In quella potenza creativa che generosa e sapiente, attraverso il segno, la rendeva parte dominante, ma anche sottomessa, della magia dei suoi incontri. La sua copiosa produzione artistica ha saputo continuamente produrre suggestioni che, alimentate da quegli illusori viaggi fantastici a cui Irene non si è mai voluta sottrarre, hanno rasentato la narrazione fiabesca. Nelle sue tartarughe, come pure nei suoi cavalli, trasfigurano espressioni umane. Sguardi e movenze dilatate che seppur nella fedele e reale rappresentazione, non mancano di suggerire malinconia, dolore, paura. Così come le intricate foreste, nell’intreccio di liane e fiori, celano e svelano le profonde contraddizioni dell’esistenza umana. Irene Ugolini Zoli è stata una donna indimenticabile nella sua arte e in quel suo personale e prezioso anticonformismo che ne faceva una raffinata e stravagante donna senza confini. Un’anima gitana, preda del suo bisogno di muoversi e guardare il mondo per poi rappresentarlo contaminato da quegli sconfinati viaggi fantastici che, incontrando il suo primordiale talento, producevano quel sublime miraggio che era la sua arte. Era nata a Forlì nel 1910 e la sua vita si è spenta sempre a Forlì nel 1997, lasciando una traccia indelebile. I
Sensi
di
Romagna
L’arte vera non è quel che sembra, bensì l’effetto che ha su di noi. Roy Adzak
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Colour dominates her paintings, although it never manages to eliminate a sense of deeply-felt melancholy which overwhelms her bright daylight tones with the thick, dark shades of night-time. Hers is an intense and poetic body of work whose instinctiveness is rooted in nature but whose subject matter is human suffering – the explosion of refinement and elegance in her arum lilies, restless and layered in her paintings of the Tropics. Irene ugolini Zoli was an itinerant artist whose travels sometimes quenched, but more often aroused, her thirst for emotional engagement and dreamlike experience. A keen but not disinterested observer of her own passions, she willingly succumbed to beauty without putting up any resistance. It was this surrender that gave her a creative power, made her the dominant party – or the willingly submissive party – in the magic of her encounters. Her prolific artistic output is endlessly evocative, fuelled by flights of fancy that imbue it with an almost fairy-tale character. Her animals – turtles, for example, or horses – wear transfigured human expressions. Expressions, dilated movements that even in the most faithfully realistic representation exude a sense of melancholy, pain and fear. Just as her forests with their tangles of creepers and flowers both conceal and reveal the profound contradictions of human existence. Irene ugolini Zoli left behind an unforgettable body of work, and in her impassioned anti-conformism was a remarkable woman in her life as well as her art. A gipsy soul who was constantly prey to Wanderlust and the need to look at the world, so she could later represent it through the medium of those boundless imaginary journeys which dug deep into the primal matter of her talent to produce the sublime mirages that constitute her art. Irene Ugolini Zoli was born in Forlì in 1910. She died there in 1997, leaving behind many unforgettable works. Arte
manlio rastoni
immagini: archivio museo d’arte della città di ravenna
Luca Longhi [30
LA LEZIONE RAFFAELLESCA IN ROMAGNA nel cinquecento, l’operosa bottega ravennate di cui luca longhi fu capostipite segnò la storia del gusto nel territorio per quasi un secolo.
Protagonista, insieme ad Innocenzo da Imola, Biagio Pupini, Bartolomeo Ramenghi e Girolamo Marchesi da Cotignola della corrente nota come Classicismo di Romagna, nasce, secondo di tre fratelli, il 14 gennaio del 1507 a Ravenna. Si conosce poco della formazione artistica del pittore, quasi certamente avvenuta in una bottega locale, probabilmente quella di Francesco Zaganelli. Soprattutto nelle prime opere emerge l’influenza della scuola romagnola (Rondinelli e Palmezzano), bolognese (il Francia) e ferrarese (de’ Roberti e Garofalo) del tempo. Progredendo nella definizione della propria cifra stilistica, Longhi si apre anche alla contaminazione da parte di alcune delle figure imperanti nel panorama pittorico rinascimentale. Particolarmente, giunto alla maturità, fa sua la lezione di Raffaello. Appare però ingiustificata la definizione, affibbiatagli in passato da alcuni critici, di mero epigono del maestro urbinate, in quanto l’ottica eclettica e la personale visione sentimentale, che lo porta a prediligere le forme dolci e aggraziate, conferiscono al linguaggio visivo del Longhi una riconoscibile matrice personale. Qualche seminale influsso deve giungergli anche dall’incontro con il Vasari durante il suo soggiorno a Ravenna nel 1548, che così lo ritrae: “Maestro Luca de’ Longhi, ravingano, uomo di natura buono, queto e studioso, ha fatto nella sua patria Ravenna, e per di fuori, molte tavole a olio e ritratti di naturale e bellissimi; e fra le altre sono assai leggiadre due tavolette che gli fece fare, non ha molto, nella chiesa dei monaci di Classi il reverendo Don Antonio da Pisa, allora abate di quel monasterio; per non dir nulla di un infinito numero di grandi opere che ha fatto questo pittore. È per vero dire, se maestro Luca fosse uscito di Ravenna, dove si è stato sempre e sta con la sua famiglia, essendo assiduo e molto diligente e di bel giudizio, sarebbe riuscito rarissimo; perché ha fatto e fa le sue cose con pacienza e studio; ed io ne posso far fede, che so quanto gli acquistasse, quando dimorai due mesi in Ravenna, in praticando e ragionando delle cose dell’arte”. Nella seconda metà del Cinquecento, l’aumento delle commesse, in gran parte provenienti dalla curia ravennate, impone alla bottega Longhi un aumento di “organico” che si traduce nel coinvolgimento dei figli Francesco e Barbara (vedi ee N° 4), i quali, oltre a garantirne la crescita, ne assicureranno il proseguio. Per commemorare il quinto centenario di nascita del pittore, due anni fa il Museo d’Arte della città di Ravenna ha dedicato all’artista una mostra commemorativa, tracciando un breve ma preciso resoconto delle sue possibilità espressive: dalla ritrattistica nobiliare, alla rassegna più ampia di tematiche devozionali. Un tributo dovuto ad un artista il cui contributo non ha forse goduto fino ad oggi dell’adeguata considerazione.
LUCA LONGHI the Rafael of Romagna In 16th-century Ravenna, the studio of painter Luca Longhi dominated the artistic life of the region for almost the whole century. A member of the famed Classicismo di Romagna movement alongside Innocenzo da Imola, Biagio Pupini, Bartolomeo Ramenghi and Girolamo Marchesi of Cotignola, Luca Longhi was born in Ravenna on 14 January 1507, the second of three brothers. Little is known of Longhi’s training as an artist, but it almost certainly happened in a local studio, probably that of Francesco Zaganelli. In his early works the influences of the Romagnol (Rondinelli and Palmezzano), Bolognese (il Francia) and Ferrarese (de’ Roberti and Garofalo) schools were evident. As he gradually found his own style, Longhi also took on board influences from some of the leading figures of Renaissance art. One of these was Rafael. Critics have in the past dismissed Longhi as a mere follower of the great Urbino master, a label that now seems unfair. His eclecticism of outlook and his emotional engagement with his work, which led him to prefer gentle, gracious forms, impress on Longhi’s paintings a distinctively personal style. He may well have benefited from a meeting with Giorgio Vasari during the latter’s visit to Ravenna in 1548. Vasari described Longhi thus: “Maestro Luca de’ Longhi, a native of Ravenna, a man of good nature, tranquil and studious, has made in his home town of Ravenna and further afield many oil panels and portraits of splendidly natural effect; especially graceful are the two small panels in the church of the monks of Classe recently commissioned of him by the reverend Don Antonio da Pisa, then abbot of the said monastery; to say nothing of an infinite number of fine works made by this painter. It’s true to say, that if maestro Luca had left Ravenna, where he lives and has always lived with his family as an assiduous and most diligent man of good judgement, he would have met with rare success; because he has done and does his work with patience and application; and I can attest to this, for I know how much I learned from him, when I stayed for two months in Ravenna, practising and debating the things of art.” In the second half of the 16th century, an increase in commissions, most of them from the local curia, obliged the Longhi studio to take on extra helpers – including Longhi’s children, Francesco and Barbara (see ee issue no. 4), who in this way guaranteed not only the growth but the survival of the family studio. Two years ago, in commemoration of the fifth centenary of the painter’s birth, Ravenna’s Museo d’Arte dedicated an exhibition to Luca Longhi. It offered a small but instructive overview of the painter’s expressive talents, with portraits of noble patrons and works on a variety of devotional themes. A worthy tribute to an artist whose work has yet to receive the recognition it deserves.
Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio. Hermann Hesse I
Sensi
di
Romagna
Arte
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TERRITORIO
LA ROMAGNA DEI CASTELLI_ ant i c he o pe re c he mo di fi c ano l ’ o ri z z o nt e THE CASTLES OF ROMAGNA_ anc i e nt bui l di ngs i n mo de rn l andsc ape s RITRAT TO DI M ONDAINO_ l uo go di c o e re nt e fasc i no A PORTRAIT OF MONDAINO_ whe re o l d and ne w c o e xi st i n pe ac e
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STORIA
AUGUSTO FRAS SINETI_ l a ri sat a c o me arma affi l at a AUGUSTO FRAS SINETI_ l aught e r as a we apo n ISOLA DELLE ROSE_ l o st at o so v rano c he guardav a ri mi ni dal mare ROSE ISLAND_ a s o v e re i gn st at e o ff t he c o ast o f ri mi ni IL PLAUSTRO ROMAGNOLO_ ant i c o “ mo nume nt o ” se mo v e nt e de di c at o alla fatica THE ROMAGNOL PLAUSTRO _ a mo v i ng mo nume nt t o t he t o i l s o f c o unt ry life
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PASSIONI
LE DAME DEL CAFFÈ, VESTITE D’ARGENTO_ l a c o l l e z i o ne mal t o ni a fo r lim popoli SILVER LADIES _ t he mal t o ni c o l l e c t i o n o f c o ffe e mac hi ne s i n fo rl i mpo po l i LA MOTOCICLET TA IN MOSTRA_ muse o naz i o nal e de l mo t o c i c l o MOTORCYCLES ON SHOw _ t he muse o naz i o nal e de l mo t o c i c l o
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ENOGASTRONOMIA
SCOMMES SA A LUNGO TERMINE_ t e ni me nt i san mart i no i n mo nt e TAKING THE LONG VIEw _ t e ni me nt i san mart i no i n mo nt e FORMAGGIO DI FOS SA_ st agi o nat o ne l v e nt re de l l a t e rra di so gl i ano FORMAGGIO DI F OS SA _ mat ure d i n t he wo mb o f t he e art h o f s o gl i ano
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ARTE
IRENE U GOLINI Z OLI_ un’ ani ma gi t ana at t rav e rsat a dal l ’ art e IRENE UGOLINI ZOLI_ a wande ri ng so ul at t he se rv i c e o f art LUCA LONGHI_ l a l e z i o ne raffae l l e sc a i n ro magna LUCA LONGHI _ t h e rafae l o f ro magna
I
Sensi
di
Romagna