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Periodico edito da Cerindustries SpA 4 8 0 1 4 C a s t e l B o l o g n e s e ( R A ) I TA LY via Emilia Ponente, 1000 w w w. c e r d o m u s . c o m w w w. c e r d o m u s . n e t Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Laura Zavalloni – Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione To m m a s o A t t e n d e l l i Giuliano Bettoli Angelamaria Golfarelli Italo Graziani Va n n a G r a z i a n i Paolo Martini Alba Pirini Manlio Rastoni Va l e n t i n a S a n t a n d r e a Ta t i a n a To m a s e t t a Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Giuliano Bettoli A r c h i v i o C F C C a s o l a Va l s e n i o A r c h i v i o C o m u n e d i C a s t r o c a r o Te r m e Archivio Comune di Riccione Archivio Angelamaria Golfarelli Archivio Istituzione Culturale della Regina - Comune di Cattolica (RN) A r c h i v i o Va l e n t i n a S a n t a n d r e a Archivio Soc. Coop. Sociale p.a. Atlantide A r c h i v i o U f f i c i o S t a m p a - S e r v i z i o Tu r i s m o d e l C o m u n e d i Cesenatico Maurizio Cardelli C. Ortali Matteo Rossi G. Senni Ta t i a n a To m a s e t t a Viterbo Fotocine Laura Zavalloni Si ringraziano Aurelio Angelucci Centro Culturale Polivalente Cattolica C o m u n e d i C a s t r o c a r o Te r m e Foto Riccione Tinin Mantegazza Nadia Mengozzi Mirka Nadiani Lucilla Previati Parco del Delta del Po Provincia di Forlì-Cesena Sette Sere Si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca / Divisione immagine Cerdomus Tr a d u z i o n i Tr a d u c o , L u g o Stampa FA E N Z A I n d u s t r i e G r a f i c h e ©Cerindustries SpA Tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i A u t o r i z z a z i o n e d e l Tr i b u n a l e d i R a v e n n a n r. 1 1 7 3 d e l 1 9 . 1 2 . 2 0 0 1 (con variazione iscritta in data 11/05/2010)


“R

omagna solatia, dolce paese”, recita una

“Sunny Romagna, gentle country” runs the

classica rima pascoliana scritta nell’ormai

famous line written by Pascoli all those

lontano 1891. Tra i tanti repentini sconvolgimenti

years ago in 1891. In a world where upheaval

che interessano la nostra instabile epoca questa

and instability seem to be the norm, we’re

affermazione

dirsi

fortunate that his words still ring true.

ben vera. Se se ne chiede una prova oggettiva,

Romagna is still a place where nature

la si può forse trovare osservando la natura

matters – in the wildness of the Boscoforte

romagnola, sia essa ancora selvaggia come la

peninsula and the horses that live there,

penisola di Boscoforte e i cavalli che vi dimorano,

and the endless rows of vines cultivated by

o coadiuvata dall’uomo come accade per gli

expert hands. Nature can be simply framed

sterminati filari di vite da cui mani esperte sanno trarre

in a way which brings out all its poetic

vino. Una natura a volte semplicemente sottolineata,

power, reproduced in an attempt to capture

per renderne più facilmente decifrabile la carica

its reflection, or quite simply emulated, as

poetica, oppure riprodotta nel tentativo di fissarne un

in the architecture – ancient and modern –

riflesso, o addirittura emulata, come nel caso delle

which has always found inspiration in the

architetture antiche e moderne che sempre si ispirano

perfection and economy of nature, even

alla sua perfezione ed al suo rigore, anche quando

when its stated aim is anything but natural.

si propongono di contrastarla. Istantanee, queste,

All these ways of interpreting nature are

di un “dolce paese” che non lesina sul numero e

reflections of that “gentle country” which

la mole dei personaggi che lo popolano, dai severi

has always been generous in its gifts to

primi attori ai buffi caratteristi. Ma il momento in cui

the people who live and have lived here.

questa “dolcezza” si fa del tutto esplicita è quello

But the gentleness of Romagna is most evident

della festa, che mescola gli aspetti più cerimoniali

in its festivities, where the ceremonial and

agli episodi più gustosi. E, in senso lato, è proprio

the informal cohabit in happy confusion.

ad una festa che ci onoriamo di invitarvi, invitandovi

We’re honoured to invite you to our own

a scorrere le prossime pagina di ee.

feast in the pages of this edition of ee.

La Redazione di ee

ee editorial team

può

fortunatamente

ancora

EDITORIALE

1]


ea r th e lem e nt


una striscia di C amargue in R omagna

I cavalli selvaggi di Boscoforte angelamaria golfarelli

immagini: archivio fotografico della Soc. Coop. Sociale p.a. Atlantide

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boscoforte è una penisola che trafigge le valli di comacchio per circa sei chilometri, con quella naturale involontarietà che solo la terra impone quando si fa strada nelle acque. Formatasi intorno al IV secolo a.C. è un luogo dove, se l’implacabile orizzonte non disegnasse la sagoma degli insediamenti delle città di Comacchio e dei Lidi ferraresi, tutto sembrerebbe essere senza tempo. Solo acqua, terra e uno stradello sterrato bordato di tamerici e biancospini in cui si è concentrata una pullulante aggregazione di fremiti d’ali, fruscii, pigolii, ma il cui padrone incontrastato resta il silenzio. Qui le canne al vento si flettono all’unisono in quel moto elegante e gentile che sembra accarezzare e solleticare il cielo per sollevarlo da quella spontanea malinconia che nasce quando si specchia nelle basse acque delle Valli. Percorrendola si viene inondati dalla bellezza e dalla pace che essa infonde, fino a quando, quasi al’improvviso, uno strano senso di movimento scuote la terra, prima lievemente, poi sempre più forte. Lì per lì è difficile comprendere cosa stia succedendo, ma poi in lontananza appare un branco di bianchi cavalli selvaggi: i cavalli di Boscoforte. In realtà non esistono più cavalli autenticamente selvaggi, in quanto specie da tempo estinta, ma solo esemplari inselvatichiti che, pur facilmente addomesticabili, si avvicinano molto agli avi scomparsi. Sono animali fieri, robusti e senza paura, questi, per nulla spaventati dalla vicinanza con gli uomini, vivono in piccoli gruppi che non superano la decina di esemplari. Selvaggi e bradi come in una prateria del West, oltre a non temere affatto la presenza dell’uomo, ne sono più semplicemente alquanto infastiditi, e non ne fanno mistero.

Alzano la testa in segno di sfida, guardano da lontano chi si avvicina, scalciano in aria. Poi però non resistono al desiderio di rotolarsi sull’erba fra tarassaco e margherite, a gambe all’aria come cuccioli, felici di una vita libera che non conosce confini se non quelli disegnati dalla terra e l’acqua. Qualche puledro, alcuni stalloni e diverse femmine, in tutto circa una trentina di esemplari (di cui sfugge il numero reale per la difficoltà di censirli), si muovono suddivisi in tre o quattro gruppi. Galoppano e si fermano a brucare là dove, a pochi metri, nell’acqua aironi e fenicotteri pasteggiano austeri ed eleganti, senza curarsi di loro. I cavalli di Boscoforte hanno in comune con i cavallini sardi della Giara una collocazione territoriale piuttosto insolita, in quanto si trovano in un ambiente circondato da acque stagnanti e salmastre che condiziona in maniera estremamente precisa anche la loro alimentazione e, per alcuni aspetti, limita pure il loro spazio vitale. Di solito, infatti, siamo propensi a collocare idealmente i cavalli che vivono allo stato brado negli sconfinati spazi delle praterie, le quali, sia per la disponibilità che offrono di reperire cibo e acqua, sia per la libertà che concedono di correre al galoppo senza alcuna costrizione, rappresentano sicuramente l’habitat più consono alla loro sopravvivenza.

The w ild horses of B oscoforte a piece of the Camargue in the heart of Romagna The peninsula of Boscoforte is a needle of land which reaches six kilometres into the lagoons of Valli di Comacchio, advancing in that naturally haphazard way that earth has when it’s surrounded on three sides by water. Boscoforte formed in the 4th century BC, and despite the buildings of Comacchio and the coastal resorts rising in the distance from the relentless horizon, it’s a place with a timeless feel. All around is water and earth, with a rudimentary dirt track bordered by tamarisk and hawthorn, and although the air is constantly alive with the sounds of birdlife and its chirping, rustling and massed beating of wings, this is still a place where silence seems to reign, where the reeds bend to the wind in unison with that gentle movement that seems to be caressing or tickling the sky, as if trying to rouse it out of the melancholy that looms when we see ourselves reflected in the shallow waters of the lagoon. Walking out along the peninsula, we’re quickly overtaken by the beauty and peace of the place and then a strange sense of movement shakes the earth, almost imperceptible at first, then growing in intensity. It’s difficult to identify this sound until in the distance you spot a herd of wild horses: the horses of Boscoforte. We need to qualify this designation somewhat, as authentically wild horses have actually been extinct for some time now, and the horses we call wild are in fact feral beasts which, although easily domesticated, nevertheless have much in common with their vanished forerunners. The horses of Boscoforte are proud, robust and fearless animals who take no fright at the sight of humans. They live in small groups that don’t usually exceed ten members.

L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando gli sei vicino. Charles Bukowski

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Pare quasi scontato pensare ai vecchi film western dove i Pellerossa catturavano e cavalcavano a pelo i selvaggi Mustang che abitavano alture e canyon di quell’America così vasta e sconfinata da fare ancora oggi dei suoi grandi spazi, limite e risorsa. Scontato e parallelo il destino che ha unito uomini ed animali con in comune una terra e un modo di vivere che si è avuta la presunzione di modificare brutalmente. A Boscoforte i cavalli sono stati riportati da circa una ventina di anni e subito si sono adattati perfettamente alla promiscuità di terra e acqua, nonché alla vicinanza con altre specie di animali. Stanno dunque lentamente tornando ad essere selvaggi, contribuendo a creare una tessera di mondo recalcitrante ad incastrarsi in quel puzzle contaminato dal cemento e dalle attività dell’uomo, che sono le nostre città e periferie. Un’oasi incantata, questa Camargue nostrana, che attraverso il senso di libertà ed autogestione vissuta dagli animali in questo luogo contribuisce a far sentire noi stessi liberi e migliori. Il galoppo dei suoi cavalli selvaggi ci vibra dentro e, passando attraverso le scarpe, ci invade come una gigantesca onda dalla quale, appena si riesce a distinguerne la sagoma, si è già stati travolti. Questa oasi è collocata fra Ravenna e Comacchio, all’interno del Parco del Delta del Po, a nord del fiume Reno, vicino a Sant’Alberto, in un’area naturalistica di grande pregio ed interesse paesaggistico dove una flora autoctona e una fauna concentrata come in pochi altri luoghi offrono un panorama davvero unico che, perché possa restare tale, necessita del rispetto e dell’impegno di tutti. Anche per questo, l’accesso alla Penisola di Boscoforte è consentito solo a gruppi accompagnati da personale autorizzato.

Wild and unbroken like the free-roaming horses of the American prairies, the horses of Boscoforte not only show no fear of human presence but seem even to regard it with a measure of contempt – an attitude they make no attempt to conceal. They simply raise their heads in a gesture of defiance, observe from a distance, prance and strut. And then back to the routine – rolling in grass starred with daisies and dandelions, their hooves in the air, happy in a life of freedom whose only limits are those imposed by land and water. In all, there are around 30 wild horses in Boscoforte (the odd colt, a few stallions and numerous mares, moving in three or four groups) although the exact number is unknown, and difficult to assess. They roam at will and stop to graze at the water’s edge, where just metres away herons and flamingos are feeding too, stately and studiously oblivious to their presence. Like the Giara horses of Sardinia, the horses of Boscoforte have a rather unusual habitat in that their environment is surrounded by stagnant, brackish water that seriously restricts their diet and in some aspects even limits their living space. Then again, when we think of wild horses we tend to think of open countryside and endless plains – places where food, water and the freedom to roam for miles in every direction are all readily available, an ideal habitat in more ways than one. Also informing our preconceptions are those old Westerns with redskins riding bareback on mustangs captured on the high plains and canyons of that vast, endless America of limitless resources - a way of life that united mankind and animals in a shared environment which was to vanish rapidly and brutally.

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Tutta la natura sussurra i suoi segreti a noi attraverso i suoi suoni. I suoni che erano precedentemente incomprensibili alla nostra anima, ora si trasformano nella lingua espressiva della natura. Rudolf Steiner Horses were re-introduced to the Boscoforte peninsula around twenty years ago, and they have adapted perfectly to this unique environment where land and water mix and mingle. They‘ve come to a living accommodation with the local fauna, too. Which means they’re slowly becoming wild again, and claiming for themselves a tiny patch of planet earth which is stubbornly resistant to the encroachments of city and suburb. Boscoforte is an oasis of enchantment, Italy’s very own Camargue, a place which exudes an infectious sense of freedom and independence, making us feel freer and happier. The gallop of its horses resonates inside us, entering our bodies through our shoes and invading us like a gigantic wave which carries us away no sooner we’ve spotted it coming. The Boscoforte peninsula lies due north of the village of Sant’Alberto, on the left bank of the river Reno, between Ravenna and Comacchio. Part of the Po Delta nature reserve, it forms part of a wetland environment of significant scenic value and with enviably high concentrations of flora and fauna. It’s a unique place which needs the respect and commitment of all of us if it’s to continue that way. For this reason, access to the peninsula is restricted to groups accompanied by authorized guides. I

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di

Romagna

TT ee rr r ii tt oo rr ii oo


dove la valle del montone si allarga gradatamente per aprirsi nella pianura forlivese si erge la rupe di castrocaro, coronata dall'imponente fortezza che la sovrasta.

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Il millenario maniero, eretto sullo sperone roccioso, vigila sul sottostante paese in cui la vita scorre tranquilla per i suoi abitanti, adusi a vivere intorno ad un così suggestivo soggetto panoramico. Fino al 2000 la Fortezza era però pressoché sconosciuta al grande pubblico a causa della sua prolungata inagibilità, benché universalmente considerata uno dei più significativi esempi di architettura fortificata composita. Gli ampliamenti strutturali, succedutisi nel tempo, si sono infatti adattati alle esigenze belliche e alla morfologia della rupe, quasi a completarne il disegno e la fisionomia. È suddivisa in tre blocchi: il Girone (la parte più antica della Fortezza che comprende l’imponente torre a pianta pentagonale, alta 32 metri, anteriore all’anno Mille), la Rocca (espansione due-trecentesca del Girone), e gli Arsenali Medicei (caratterizzati dall’enorme muraglia in cotto). Tra le numerose zone integralmente visitabili, una delle più notevoli è il Palazzo del Castellano, nelle cui sale, è stato allestito il Museo del Castello (che ospita anche una Esposizione storica Permanente, dal titolo “L’Aquila le Chiavi il Giglio”) e l’Enoteca della Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Forlì e Cesena. Durante tutto l’anno, la Fortezza è animata da un intenso programma di attività culturali e turistiche che vanno dagli spettacoli di rievocazione storica, musicali e teatrali, ai convegni, congressi e conferenze. Nella storia recente, Castrocaro è però più nota per essere una frequentata città d’acque. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, qui venne infatti creato dal nulla un complesso termale di assoluta avanguardia (l’area naturalistica delle sorgenti rientra oggi in un Sito di Importanza Comunitaria). Inaugurato nel 1938 dal principe Umberto di Savoia, era originariamente composto da tre strutture: lo Stabilimento dei Bagni, il Grand Hotel Terme e il Padiglione delle Feste, edifici la cui unità stilistica tra elementi costruttivi e decorativi è frutto dell’inesauribile creatività di Tito Chini. Il complesso è armonicamente inserito in un parco. Otto ettari di splendido giardino, risalente ai primi del Novecento, percorso da viali maestosi e costellato di angoli incantevoli e labirinti misteriosi. Dal 1958, le Terme sono anche la cornice principale del Festival di Castrocaro, concorso canoro da cui sono decollate le carriere di celebri artisti come Iva Zanicchi, Gigliola Cinquetti, Mino Reitano, Eros Ramazzotti, Zucchero, Laura Pausini e molti altri. Così il nome di Castrocaro continua a ricomparire nelle cronache, da quelle medievali a quelle attuali, vedendosi, lungo i secoli, associato a fatti della più disparata natura.

Castrocaro Terme

Rise la sorgente nel profondo gorgòglio: e anche più dolce fu la sua voce. Giuseppe Fanciulli

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tra scoscesi bastioni e acque curative

C astrocaro Terme soaring ramparts and curative waters Where the valley of the Montone gradually opens into the plain of Forlì rises the crag of Castrocaro, crowned by the imposingfortressthatdominatesthesurroundingcountryside.

manlio rastoni

Nowadays, the inhabitants of Castrocaro Terme go about their daily lives oblivious to the spectacular setting of their town and the rocky spur which dominates it, and which has been surmounted by a fort for millennia. Until 2000, the present-day fortress was largely unknown to the general public as it had long since fallen into an advanced state of disrepair, although universally considered a significant example of “composite” fortified architecture. The fortress we now see is the result of a series of structural accretions which occurred over the course of the centuries, as dictated by the morphology of the crag and new methods of warfare. It comprises three parts: the Girone (the oldest part of the fortress, with its imposing 32-metre pentagonal keep built before the first millennium), the Rocca (a 12th- and 13th-century extension to the Girone) and the Medicei Arsenals, with their high brick walls. Many parts of the fortress are now open to visitors, including the Palazzo del Castellano whose rooms now host a museum, a resident exhibition (The Eagle, the Keys and the Lily) and a wine shop selling local wines and delicacies (Enoteca della Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Forlì e Cesena). A range of cultural and tourist initiatives are held all year round in the castle, with re-enactments of local historical events, music, theatre and a busy programme of conferences and conventions. More recently, however, Castrocaro has been better known as a busy spa town. Created from scratch between the two world wars of the 20th century, the spa was – and remains – one of the most advanced of its kind, and the springs themselves are now listed as a European Site of Community Importance. The spa was inaugurated in 1938 by Prince Umberto of Savoy and originally comprised three buildings: the baths, the Grand Hotel Terme and the Padiglione delle Feste. The stylistic unity visible in the structural and decorative elements of these buildings bears the imprint of the inexhaustibly creative architect Tito Chini. There’s an impressive harmony, too, between the buildings and the early-20th-century gardens in which they stand - eight splendid hectares criss-crossed by majestic allées and dotted here and there with enchanting bowers and mysterious mazes. Since 1958, the spa complex has been home to the Festival di Castrocaro, a song contest that has launched the careers of some leading Italian singers including Iva Zanicchi, Gigliola Cinquetti, Mino Reitano, Eros Ramazzotti, Zucchero, Laura Pausini and many others. All these attractions make Castrocaro Terme a lively little town which has something to offer everyone – keeping it as important now as it was in the days of its medieval castle.

immagini: foto g. senni, c. ortali archivio fotografico comune e pro loco di castrocaro terme e terra del sole, provincia di forlì-cesena

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valentina santandrea

immagini: archivio valentina santandrea

truffatore gentiluomo

Carlo “Charles” Ponzi charles, al secolo carlo ponzi, romagnolo di lugo, classe 1882, non fu l’inventore del famigerato “schema ponzi”, ma ne fu evidentemente un abilissimo adepto. truffatore impeccabile e appassionato, fece scuola a “galantuomini” di recente memoria come bernie madoff.

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Di famiglia benestante, pare delapidasse un sacco di quattrini e giunse a definire il periodo dell’università a Roma come “una vacanza di quattro anni”. Terminata la “vacanza”, per esaurimento dei fondi, si imbarcò per Boston, nel 1903, «with $ 2,50 in cash and $ 1000 in hopes» (con $ 2,50 in moneta e $ 1000 in speranze). Per diversi anni si barcamenò tra lavoretti di fortuna, come lavapiatti o pittore, e frodi più o meno articolate, una su tutte quella collegata al canadese Banco Zarossi, che gli costò 20 mesi di carcere. Come cameriere si dice non valesse granché: pare barasse sul resto. Di quell’epoca sappiamo che una certa “azdora” lughese riceveva per posta aerea le notizie del figlio lontano, che, a quanto affermava, aveva trovato un posto come guardia carceraria. E poi lei: «La mia ispirazione, la più bella donna del mondo. Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per Rose» dichiarò Ponzi in un’intervista al New York Times poco prima della bancarotta. Rose Maria Gnecco, stenografa, figlia di un fruttivendolo, e signora Ponzi dal 1918, condivise con lui gli agi del palazzo in centro, con aria condizionata e piscina riscaldata, salvo chiedere il divorzio quando il fango travolse il consorte. Curioso è scoprire come dagli atti giudiziari alle cronache dell’epoca, agli studi più recenti, emerga un microcosmo tutto italiano: dalla musa nolente Rose, agli amici defraudati, Tony e Giuseppe, alla segretaria personale, la giovane miss Meli, al secolo Lucy Martelli, che pare avesse le “mani in pasta” più di quanto competesse a una diligente dattilografa. Lo schema fraudolento, passato dagli onori della cronaca ai libri di storia, invigorendo generosamente gli stereotipi americani sui furbi italiani, era banale quanto evidentemente perdente: consisteva nella raccolta dei risparmi degli investitori con la promessa della corresponsione di un interesse francamente fuori dal mercato. I lauti rimborsi effettivamente corrisposti non vantavano tuttavia solide basi finanziarie, giacché erano costituiti semplicemente dal denaro raccolto grazie a cotante promesse.

È indubbio che a un certo punto il “giochetto” era destinato a finire: quando, cioè, i profumati rimborsi finivano per superare i risparmi investiti. L’unico modo che Carlo - Charles aveva per farla franca, era scappare con il malloppo. Ma non lo fece. Rimborsò parte dei risparmiatori, e finì in galera. E così, la brillante avventura di uno dei pochi romagnoli espatriati, finì all’ospedale dei poveri di Rio. Quasi quasi, un truffatore tanto onesto meriterebbe di essere depennato dall’albo.

C arlo “ C harles ” Ponzi gentleman swindler Charles – real name Carlo – Ponzi was born in Lugo in 1882. Though not actually the inventor of the notorious “Ponzi scheme”, he was extremely adept at using it. An elegantly-attired and dedicated swindler, Ponzi was a forerunner of more recent scam-artists such as Bernie Madoff.

Ponzi was a squanderer from a well-to-do family who described his period at university in Rome as a “four years’ holiday”. By the time he had completed his “holidays” in 1903, Ponzi was penniless and embarked for Boston “with $ 2.50 in cash and $ 1 million in hopes”. For several years he drifted from one odd job to another, working as a dishwasher or house painter and pulling scams of greater or lesser degrees of ingenuity. One such scam, involving the Zarossi Bank of Canada, cost him 20 months in jail. As an honest man he was nothing special: as a cheat he was one in a million. During this period we know that a certain azdora back in Lugo received an air mail letter from her son, who claimed to have found work as an assistant prison warden. Then she came: “My inspiration, the most beautiful woman in the world. Everything I’ve done, I’ve done for Rose”, declared Ponzi in an interview with the New York Times shortly before his scheme went bust. Rose Maria Gnecco was a stenographer, the daughter of a fruit vendor. In 1918 she became signora Ponzi. They shared a life of ease in a city-centre apartment with air conditioning and heated swimming pool, but Rose later filed for divorce when the couple found themselves mired in scandal. What’s curious about Ponzi’s story is that from all the sources – the legal records and newspaper articles of the time as well as more recent research – a typically Italian microcosm emerges: Rose the reluctant muse, Tony and Giuseppe the defrauded friends, and Ponzi’s personal secretary, the young miss Meli – real name Lucy Martelli – who seems to have had her hand in the cash register far more often than her humble position as typist merited. From newspaper headlines to history books, the Ponzi scheme itself did much to invigorate American stereotypes of the crafty Italian. Blindingly simple but fundamentally flawed, it worked by promising exorbitantly high returns to investors persuaded into parting with their savings. But while the early returns really were as lavish as promised, the scheme had no solid basis in financial reality – the dividends were actually paid using the savings of investors who had entered the scheme at a later stage. Sooner or later, something had to give: or more precisely, when the expected payouts began to exceed the investments. The only way out for Carlo / Charles was to take the money and run. But he didn’t. Instead, he refunded some of his investors, and ended up in jail for the others. And the brilliant adventure of that rarest of birds, an expatriate Romagnol, eventually finished in a charity hospital in Rio de Janeiro - a sad end for a swindler whose streak of integrity cost him dear.

Chi ha paura del diavolo non truffa. Proverbio italiano

I Sensi di Romagna

St To Or Ri Ia A

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giuliano bettoli

R omagnol popes six pontiffs, six difficult reigns

immagini: archivio giuliano bettoli

From Saint Peter to Benedict XVI, there have been 266 popes. Six of them hailed from Romagna.

Papi romagnoli sei pontefici , sei travagliati pontificati sono 266 i papi che si sono succeduti da san pietro a benedetto xvi, l’attuale. ebbene solo sei provengono dalla romagna. Nella storia, le sole cause che muoiono sono quelle per le quali gli uomini rifiutano di morire. Fulton J. Sheen

[12 Il primo è Giovanni X, di Tossignano (Imola) che regnò dal 914 al 928. Era stato vescovo di Bologna e poi metropolita di Ravenna. Fu il Papa che incoronò imperatore il longobardo Berengario, che guidò personalmente una vittoriosa guerra contro i saraceni e finì, purtroppo, ucciso a Roma, dopo essere stato imprigionato per due anni, in seguito a una sollevazione della plebe. Le lotte fra le grosse famiglie romane e le relative fazioni, allora, erano terribili. Decidevano anche l’elezione dei pontefici. Il secondo Papa romagnolo è Pasquale II di Bieda, nato in quel di S. Sofia: fu Papa dal 1099 al 1118. Anch’egli ebbe un pontificato tempestoso, prima con l’imperatore Enrico IV, poi col successore Enrico V: era il tempo della lunga “Lotta per le investiture”. Dovette fuggire a Benevento. Morì chiuso in Castel S. Angelo. Durante il suo pontificato ci furono ben tre antipapi. Onorio II, di Fagnano di Imola, è il terzo Papa romagnolo. Si chiamava Lamberto Scannabecchi e fu Papa dal 1124 al 1130. Scomunicò Corrado di Hohenstaufen, preferendogli come imperatore Lotario di Suplimburgo. Ne seguirono vicende lunghe e complesse. Inviò legati in Oriente, Germania, Spagna, riprese le relazioni con l’Inghilterra, ottenne la sottomissione del francese Luigi VI il Grosso. Anch’egli ebbe i suoi ultimi anni turbati dalle lotte tra le fazioni romane. Giungiamo infine a ben tre Papi romagnoli che si susseguirono l’un l’altro: Clemente XIV, di Santarcangelo di Romagna (Giovanni Garganelli), Papa dal 1769 al 1774; Pio VI, di Cesena (Giannangelo Braschi), Papa dal 1775 al 1799; infine Pio VII, ancora di Cesena (Barnaba Gregorio Chiaramonti), che regnò dal 1800 al 1823. Vissero momenti difficilissimi tutti e tre. Clemente XIV fu costretto dalle grandi potenze europee ad abolire l’ordine dei Gesuiti. Ne seguirono polemiche a non finire. Alla sua morte si parlò addirittura di avvelenamento, poi smentito. Il suo successore, Pio VI, venne eletto dopo un conclave durato 4 mesi. Ebbe contrasti con le corti europee per le limitazioni che imponevano all’autorità ecclesiastica. Poi scoppiò la rivoluzione francese. Napoleone conquistò l’Italia e, dopo accesi contrasti, Pio VI, vecchio e ammalato, fu fatto prigioniero e morì a Valence, in Francia. Nel conclave che seguì, a Venezia, fu eletto l’ultimo Papa romagnolo, Pio VII. Era un monaco benedettino. Attraverso il suo abilissimo segretario, il cardinal Consalvi, raggiunse un concordato con Napoleone. Accettò anche di andare a Parigi a incoronarlo imperatore. In seguito, per i continui contrasti, fu fatto prigioniero, prima per tre anni a Savona, poi a Fontainebleau. Con la sconfitta di Napoleone, rientrò a Roma. Morì dopo 23 anni di travagliatissimo regno. Insomma, l‘alto onore del papato costò caro ai nostri sei romagnoli. I

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Romagna

Storia

The first was John X, a native of Tossignano near Imola, who reigned from 914 to 928. He had earlier been bishop of Bologna and then archbishop of Ravenna. As pope, he crowned the Longobard king Berengar as Emperor and personally led a victorious war against the Saracens. He was killed in prison, where he had languished for two years after a popular uprising. At this time the power struggles between the leading Roman families and their factions were terrible, and their outcomes equally determined the deposition (as in John’s case) and election of popes. The second Romagnol pope was Paschal II who was born in Santa Sofia and reigned as pope from 1099 to 1118. His pontificate was a tempestuous one too, as he found himself at odds first with Emperor Henry IV and then with his successor Henry V during the long Investiture Controversy. Paschal was forced to flee to Benevento. He died an inmate of Castel S. Angelo, Rome. There had been no fewer than three anti-popes during his pontificate. The third Romagnol pope was Honorius II, a native of Fagnano. Born Lamberto Scannabecchi, he was pope from 1124 to 1130. Honorius excommunicated Conrad Hohenstaufen, preferring a rival candidate to the throne of the Empire, Lothair of Supplinburg. In a long and complex concatenation of events, Honorius sent legates to the Orient, Germany and Spain, restored relations with England, and obtained the submission of the French king, Louis VI “the Fat”. The later years of Honorius’ reign were also troubled by factional struggle in Rome. The next three Romagnol popes reigned consecutively: Clement XIV, born Giovanni Garganelli in S. Arcangelo di Romagna, was pope from 1769 to 1774; Pius VI, born Giannangelo Braschi in Cesena, reigned from 1775 to 1799; and Pius VII, born Barnaba Gregorio Chiaramonti and like his predecessor a native of Cesena, reigned from 1800 to 1823. All three popes encountered extremely difficult moments during their reigns. Clement XIV was forced by the major European powers to abolish the Jesuits, a move which sparked an endless series of controversies. He was rumoured to have died of poisoning, although this claim was later refuted. Clement’s successor, Pius VI, was elected after a conclave which lasted 4 months. His reign was marked by conflict with the European kingdoms in their efforts to restrict ecclesiastical authority. Then came the French Revolution. Napoleon later conquered Italy, and after much bitter conflict the old and ailing Pius VI was taken prisoner and ended his days in Valence, France. At the conclave held in Venice after the death of Pius VI the last Romagnol pope, Pius VII, was elected. Pius was a Benedictine monk. Thanks to the skills of his secretary, cardinal Consalvi, he negotiated a concordat with Napoleon, an agreement which involved Pius travelling to Paris to crown Napoleon emperor. The conflicts continued however, and Pius was eventually imprisoned, first for three years in Savona, then in Fontainebleau. He returned to Rome after the demise of Napoleon. His 23-year reign had been one of relentless strife and turbulence. Like his Romagnol predecessors, he had suffered for the honour of being pope.

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Fra reali saperi ed anatemi angelamaria golfarelli

immagini: archivio angelamaria golfarelli, mirka nadiani (caricatura)

la medicina popolare di Z ambutèn [14

Herbal medicine the folk remedies of Zambutèn That the dialect of Romagna has made an occasionally (predatory) borrowing from French is now a well-established fact. One unusual example is Zambutèn, the name by which Augusto Rotondi was better known. The sobriquet of this celebrated figure is in fact derived – as Rotondi himself was fond of boasting – from the name of the French botanist Jean Boutin, whose knowledge Rotondi professed to share. Zambutèn was active in Romagna in the early half of the 20th century, and his remedies are still clearly remembered here - especially his famous b’còn, a large pill consisting of a herb filling enclosed in wafer. Pill is the correct term – for Zambutèn was a healer, a quack, and a spinner of tales who combined a real knowledge of illness and remedy (it was said that many doctors sought his advice when they were unable to cure their patients) with an irresistible power of persuasion. In Zambutèn’s time, health was an even more indispensable asset than it is today, for the peasants who toiled in the fields or the artisans at work at their benches could not allow themselves the luxury of a day’s work lost on account of ill health. And they were often unable to pay a real doctor, anyway. Even today the prodigious cures of Zambutèn, and his generosity in not refusing treatment to those who were unable to pay, are fondly remembered. Zambutèn had no formal medical training, but he was well versed in the time-honoured folk remedies of peasant culture, and his family passed from one generation to another a fat volume of recipes which described the properties of medicinal herbs. Everyone had heard of him, the law included, of which he fell foul on more than one occasion for practising a profession for which he was not qualified. To everyone but the law he was known as Zambutèn, however; “Augusto Rotondi” was reserved for the courtroom and his death notice. And while his scartòz (bags) of herbs, his impiàstar par la tòssa (cough poultice) and ont’d manèla (corn ointment) ensured Zambutèn an enduring place in popular memory, the official literature which had the thankless task of revealing his true identity is long lost. Mention Zambutèn to old people today and many will smile as they remember a brusque-mannered, generous man who for just one lira had cured them of a ingunaja (whitlow). He’d often take this lira straight to the nearest tavern and spend it there, for Romagna is traditionally a place where debts are settled, deals closed, and the trials and anxieties of life temporarily forgotten over a glass of wine. And then, his spirits lifted by a glass of red, Zambutèn would set off for the countryside on his bicycle or his Guzzi 500 (he never had a licence) in search of nettles, pimpernel and couch grass. Zambutèn was born in Villanova di Bagnacavallo in 1868 and died in Forlì on 26 March 1950, at the venerable age of 82.

le incursioni, a volte predatorie, del dialetto romagnolo nella lingua francese, sono ormai cosa certa, e il personaggio di augusto rotondi, meglio noto come zambutèn, ne è uno degli esempi più eclatanti. Il suo celebre soprannome, infatti, ha derivazione, come egli stesso vantava, dal nome del botanico francese Jean Boutin, del quale il nostro discusso personaggio sosteneva di possedere anche analoghe conoscenze. Di Zambutèn, la Romagna della prima metà del secolo scorso ha una memoria ancora molto precisa e presente. Di lui si ricordano i famosi “b’còn” (bocconi), grandi pastiglie formate da un interno a base di erbe chiuse in una piccola cialda. Sì, perché Zambutèn era un guaritore, un empirico, un potente affabulatore che univa alle sue reali conoscenze (c’è chi dice che anche molti medici si rivolgessero a lui quando non riuscivano a curare un malato) in materia di malattie e relativi rimedi, una forza persuasiva indiscutibile. A quei tempi la salute era un bene ancora più indispensabile di adesso perché le molte persone che lavoravano i campi o facevano gli artigiani non potevano permettersi di perdere un giorno di lavoro, né spesso potevano pagare le costose cure di un medico vero. Può suonare troppo semplice ma si può dire che la differenza fra magia e scienza consiste in questo, che esiste un progresso nella scienza ma non nella magia. La magia non ha una direzione di sviluppo che le sia intrinseca. Ludwig Wittgenstein

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Le prodigiose guarigioni di Zambutèn, associate a quella sua generosa capacità di non rifiutare una cura anche a chi non poteva pagare, si ricordano ancora oggi come miracolose e proverbiali. Era un uomo privo di cultura scientifica che però possedeva un sapere antico proveniente da una cultura popolare che la sua famiglia si tramandava attraverso un grosso librone di ricette che descriveva le proprietà delle erbe medicinali. Di Augusto Rotondi tutti conoscevano l’esistenza, e in alcuni casi ebbe anche a che fare con la giustizia per la pratica di una professione per la quale non aveva alcun titolo. Fu solo nelle aule dei tribunali e sul suo manifesto funebre che il suo nome si sostituì a quello del famoso Zambutèn. Così, mentre i suoi “scartòz” (cartocci) di erbe, l’”impiàstar par la tòssa” (cataplasma) o l’”ont’d manèla” (l’unto per i calli) lo consacravano alla memoria popolare, quelle carte che ebbero l’ingrato compito di far

conoscere la sua vera identità, si sono scolorite e perdute. Oggi quando con gli anziani si parla di Zambutèn, c’è ancora chi sorride e si commuove pensando a quell’uomo brusco e generoso che per una lira gli aveva guarito un’ingunaja (un giradito). Una lira che subito si era precipitato a spendere all’osteria perché si sa che in Romagna davanti ad un bicchier di vino si saldavano debiti, si concludevano affari, si superavano i momenti tristi e la miseria. Chi Zambutèn, non vuole far il prima terreno gli produce ortiche. E, come faceva ci si fatiche, rinfrancava di ripartire, in sella alla bicicletta o alla Guzzi 500 (che guidava pur Proverbio popolare senza avere la patente), verso le campagne, a raccogliere l’ortica, la pimpinella e la gramigna. Era nato a Villanova di Bagnacavallo nel 1868 e morì a Forlì il 26 marzo 1950, alla veneranda età di 82 anni. I

Sensi

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Romagna

Storia


I carri di pensiero un rito illuminato a C asola V alsenio ogni anno, sulle rive del fiume senio, va in scena uno spettacolo unico. una sfilata di carri che non ha nulla di carnascialesco, poiché più dell’apparire conta l’idea, il messaggio che l’allegoria rappresentata vuole dare.

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Sono i Carri di Pensiero della Festa di Primavera di Casola Valsenio, piccolo comune adagiato sulle colline della Vena del Gesso in provincia di Ravenna. Proprio l’originalità e le regole immutabili cui sono soggette le tre società costruttrici, assegnano ai carri un valore unico, facendone anche uno strumento e un pretesto per narrare un pezzo di questo lembo di Romagna. La Festa di Primavera affonda le sue radici in quella di Mezzaquaresima, detta anche della Segavecchia (vedi ee N° 9). Tradizione comune all’intera area emiliano-romagnola, la Segavecchia è un retaggio pagano, intimamente legato alla vocazione agricola della zona. Difatti la Vecchia, oggi come in passato, è accusata, nel corso di un processo farsesco, di tutte le difficoltà e i mali della stagione agricola trascorsa e sommariamente condannata a essere segata oppure, come a Casola, bruciata fra danze e balli propiziatori. Ma le assonanze con altre realtà terminano qui, la Vecchia è solo l’abbrivio da cui partirono i casolani per creare qualcosa di assolutamente unico. Correva il 1891 quando un gruppo di artigiani approntò la prima festa di Mezzaquaresima. Sui tradizionali carri agricoli romagnoli, questi oscuri pionieri innalzano le loro opere con legno, grigioli e gesso: gli stessi materiali che si utilizzano ancora oggi. Allora vennero trainati da una coppia di buoi, oggi dai cavalli vapore dei trattori: questa l’unica concessione alla modernità. A quanto raccontano, con sfumature leggendarie, le testimonianze orali raccolte nel tempo, i primi carri rievocavano la Battaglia delle botti del 28 Ottobre 1523. Il successo è straordinario. Il seme ha attecchito: i carri di Casola devono essere “seri”. E dal messaggio serio a quello politico il passo è breve, anche e soprattutto in Romagna, terra dove la politica è un tratto inalienabile. Nell’analisi di questo processo ci corre in aiuto Giuseppe Pittàno, casolano doc, ideatore di carri negli anni ’50 e, en passant, colto docente di latino all’Università di Bologna.

«I costruttori dei primi carri, in genere piccoli borghesi del paese, intendevano divertire e fare un poco di cultura, in seguito i socialisti furono i più accaniti costruttori di carri. Avvertirono, in anticipo sui tempi, le potenzialità di propaganda e di indottrinamento dei carri, anche considerando la scarsissima diffusione della carta stampata e l’alto tasso di analfabetismo». I carri, con le loro allegorie, diventano un affresco medievale con cui spiegare alle masse senza scrittura i grandi temi. Sono gli anni di Andrea Costa, padre nobile del socialismo italiano, che dalla vicina Imola diffonde le idee socialiste anche nella Valle del Senio. I più attivi risultano essere i calzolai, vero caposaldo del socialismo casolano. Per tutti, basti ricordare il carro “L’ira di un giorno” che nel 1912 celebrava la rivolta di Spartaco, la lotta dello schiavo contro il padrone. Giunge la Grande Guerra che obbliga i casolani a dimenticare i carri per dedicarsi a più tristi compiti.

paolo martini

immagini: archivio cfc casola valsenio, maurizio cardelli

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La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si applica ai popoli di ogni paese, quale che sia il loro retaggio culturale, perché tutti gli esseri umani hanno una comune aspirazione alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità. Tenzin Gyatso

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Romagna

Passioni


La festa di Mezzaquaresima riprende a metà degli anni ’20, in un momento in cui il fascismo favorisce il recupero della cultura popolare e della civiltà contadina. Non sfugge al regime, va da sé, il potenziale propagandistico dei carri. Le allegorie hanno titoli allineati al pensiero del Duce di Predappio come, solo per fare un esempio: “La nuova Italia”. Ma anche un carro può diventare strumento di lotta politica. Nel 1931 l’antifascista Aurelio Acerbi presenta “Le grandi tappe della storia”, autorizzato dalla Prefettura che, dal titolo, ritiene celebri le conquiste del regime. In realtà i casolani colgono una forte critica al Mascellone. Vista la malaparata, il carro viene squalificato e gli autori vengono “ammoniti”, formula burocratica che nasconde ben altre nefandezze. Nonostante il pesante clima politico e la generale uniformità dei temi trattati, la Festa di Mezzaquaresima negli anni ’30 raggiunge l’apice del successo. Anche grazie alle telecamere dell’Istituto Luce, che nel 1935 diffondono nei cinematografi di tutta Italia le immagini dei carri. Una ribalta che si spegne, per tutti, con la carneficina della Seconda Guerra Mondiale. La Festa di Mezzaquaresima riapre i battenti nel 1949 e con essa, i carri di pensiero. Il dopoguerra porta con sé un forte ripensamento dovuto all’ecatombe appena vissuta, con frutti inaspettati. È del 1950 il carro “Fermati Uomo!”, approntato dal già citato Giuseppe Pittàno. Un’allegoria contro la bomba atomica, in anticipo anche sull’appello di Stoccolma, che tocca il cuore del pubblico. E, se ci si consente un pizzico di malizia, rompe anche un tabù. Difatti i figuranti, fino ad allora ricoperti di mutandoni e maglie di lana, quel giorno sfilarono nudi. Altro carro rimasto nella memoria collettiva è quello ideato da Pellegrino Dardi nel 1952: “Rumagna”. Quando giunge nella piazza, dalle valve di una “pavaraza” (frutto di mare), esce una splendida dama discinta che regge fra le mani una “caveja”, simbolo quasi ancestrale della Romagna. Le esigenze economiche, il calo demografico e la nascita del turismo sposta più volte le date della Festa di Mezzaquaresima, finché, nel 1967, viene collocata nell’ultima domenica di aprile con il nome di Festa di Primavera. Ciò che non cambierà mai è lo spirito con cui le tre società si affrontano per dare forma a un’idea, a un’ideologia politica, a un sogno. Con segretezza, uomini lavoreranno per piegare materiali poveri alla loro volontà e per redigere la relazione da presentare alla giuria. Per produrre fantasia da donare a ogni spettatore. Ben sapendo che, come da tradizione, finita la sfilata i carri saranno smantellati dai giochi dei bambini. Perché se la materia è in balia degli eventi, il pensiero può essere immortale.

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Cultura: l’urlo degli uomini in faccia al loro destino. Albert Camus

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Romagna

The allegorical floats of Casola Valsenio Every year, the banks of the river Senio play host to a unique spectacle. Don’t mistake it for a carnival procession, however, as what matters here are not appearances but the ideas behind them, the message that each allegorical float (quite literally) conveys. The procession in question is the Spring Fair of Casola Valsenio, a village nestled in the hills of the Vena del Gesso in the province of Ravenna. The allegorical floats in the procession are built by three local teams or “societies”. The striking originality of these floats belies the fact that they are built according to strict and unchanging rules. Each allegory is a unique creation which relates an aspect of the history or culture of this part of Romagna. The origins of the Spring Fair lie in the former mid-Lent or Mezzaquaresima fair, also know as the Segavecchia (see ee issue 9). A tradition common to the whole of Emilia Romagna, the Segavecchia is a throwback to pagan days and is closely connected with the agricultural heritage of the region. The central figure of the Segavecchia is an old woman or vecchia, who during the course of a mock trial is accused of having brought upon the community all the evils and difficulties which blighted the previous year’s crops, and is summarily sentenced to be sawn in half or, in the case of Casola, to be burnt at the stake amid much propitiatory dancing. The similarities with other Segavecchia pageants end here however, for in Casola the tribulations of the old woman are merely the catalyst for something completely different and unique. In its modern incarnation, the Spring Fair of Casola dates from 1891, when a group of local craftsmen organized the first Mid-Lent fair. The floats in this inaugural fair were the traditional Romagnol farm carts, on which our anonymous pioneers placed their sculptural creations, made of wood and plaster: the very same materials that are used today. The original floats were pulled by a pair of oxen, but nowadays, they’re drawn by tractors - the fair’s only concession to modernity. According to contemporary oral accounts (which have doubtless accrued a certain amount of legend in their successive retellings), the first floats evoked the Battle of the Barrels of 28 October 1523. This first procession was an extraordinary success. The bug had bitten: now the floats of Casola were to be on “serious” themes. But it’s a short step from a “serious” to a political message, especially in Romagna, a region of lively political sensibilities. Casola-born Giuseppe Pittàno, who designed

floats in the 1950s and now teaches Latin at the University of Bologna, remembers: “The builders of the first floats, generally from the more humble strata of village society, wanted to entertain and educate a little; later, the most assiduous float builders were the socialists. They saw before everyone else the potential of the floats as vehicles of propaganda and indoctrination, especially at a time when the diffusion of printed matter was extremely limited and illiteracy rates were high”. The floats with their allegorical sculptures therefore acted like medieval frescoes, a way of explaining things to the unlettered masses. In this same period Andrea Costa, one of the founding fathers of Italian socialism, was active in spreading socialist ideas in the Valle del Senio from his home town of Imola. In Casola, the stalwarts of the socialist creed were the shoemakers. They were responsible for the famous float of 1912, “A Day’s Rage”, which celebrated the revolt of Spartacus and the struggle of slaves everywhere. Two years later came the Great War, and the people of Casola had to put aside their floats to concentrate on more sombre duties. Celebration of the Mid-Lent fair resumed in the mid-1920s, when the rise of fascism encouraged the resurgence of popular culture and peasant customs. It goes without saying that the fascist regime too was awake to the propaganda potential of the procession. The allegories now had titles that followed the ideology of il Duce, like “New Italy”. But the potential for subversive ideas was just as great. In 1931 the anti-fascist Aurelio Acerbi presented his allegory, “The great Stages in History”, which the local prefecture had judged by its title to be a celebration of the achievements of the regime. In reality, it was severely critical of the Heavy-Jowled One. The authorities spotted the danger in time: the float was disqualified and its creators “admonished”, a bureaucratic term which could denote all kinds of nefarious acts. Despite the lugubrious political climate and the uniformity of the themes addressed, the Mid-Lent fair was going stronger than ever as the 1930s arrived - thanks partly to the cameras of Istituto Luce, which in 1935 broadcast pictures of the floats all over Italy. And then came the Second World War, and the fair was once again discontinued. It resumed again in 1949, complete with allegorical floats. Italy had emerged from the slaughter and misery of the war with a new perspective, and this was reflected in the subject matter of the floats. In 1950 Giuseppe Pittàno presented his “Stop, Man!”, an antiatom bomb allegory that pre-dated the Stockholm Appeal and captured the hearts of the public. It also broke a taboo. Previously, the figurants who appeared on the floats had worn loincloths or woollen body suits - this time they appeared nude. Another float which went down in the local annals of history was the one designed by Pellegrino Dardi in 1952: “Rumagna”. When this float reached the village piazza, out of the shells of a giant clam there emerged a formidable, scantily-dressed woman holding in her hands a caveja, the centuries-old symbol of Romagna. For reasons connected with money, a decrease in the local population and the rise of tourism, the actual date of the annual Mid-Lent fair was often shifted. Finally, in 1967, its date was fixed on the last Sunday of April and its name changed to Festa di Primavera, or Spring Fair. What remains unchanged is the spirit with which the three societies compete to give form to their ideas, political ideologies and aspirations. Even today, the societies work for long weeks behind closed doors to mould their humble materials to their purposes and draft the description they present to the jury. All to produce ephemeral works of the imagination for the benefit of the spectators, and in the full awareness that, as tradition requires, their floats will be left to be dismantled by children after the end of the procession. For if matter is at the mercy of events, the ideas it represents may well be immortal.

Passioni

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La Strada della poesia N ino , cantore a O riolo dei F ic h i italo e vanna graziani immagini: laura zavalloni

per realizzare qualcosa di straordinario, in ogni campo, servono “ingredienti” diversi e ben accostati. per un qualsiasi progetto artistico è lo stesso.

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In primis, occorre il luogo: Oriolo dei Fichi, sulle prime colline di Faenza, dove le tracce della presenza umana nei millenni, su un paesaggio modificato dal paziente ritmo delle stagioni, creano uno scenario di insospettabile fascino. E poi c’è l’uomo: il professore – é profesor – Nino. Nei primi anni Sessanta Nino Tini è stato il mio insegnante di pratica agricola alla scuola professionale di Bagnacavallo. Amava il suo mestiere e, consapevole che molti ragazzi venivano mandati al lavoro fin da piccoli per le necessità famigliari e forse perché lo studio non era considerato così importante al tempo, andava di casa in casa a cercare personalmente potenziali studenti. L’ho incontrato quarant’anni dopo e ho ritrovato un uomo di immutata autorevolezza e con la forza di ripartire alla volta di imprese quasi impensabili per un settantenne: l’impianto di un campo di zafferano, il solario, il convivio per il recupero della cucina del territorio, il passaggio all’agricoltura biologica, la produzione del vino Rosso Oriolo da vendere in azienda. Ultima, in ordine di tempo, l’idea della “Strada della poesia”. La strada è quella stretta che porta da San Mamante a Castrocaro, tutta curve e tornanti, ombreggiata da alte piante ai margini della carreggiata. Ad ognuno di quei tronchi è stata attaccata una piccola targa sulla quale si può leggere una poesia, ovviamente a patto di abbandonare l’automobile e camminare. Così facendo si ha quasi l’effetto di seguire le tracce lasciate con sassolini o briciole di pane, come nelle favole. Qui però l’obiettivo non è ritrovare la via, ma piuttosto ritrovare se stessi, facendosi invadere da sensazioni di pace e gioia, ed allontanando per un po’ l’ansia che attanaglia i pensieri nella nostra quotidianità. È facile lasciarsi condurre per questa strada dai versi di Nino Tini: sembra davvero di trovarsi a camminare per la campagna di fianco a lui e al suo fedele Ciube, il terranova nero a cui, come si dice in Romagna, manca solo la parola. Purtroppo però ogni tanto l’ispirazione è costretta a incontrarsi/scontrarsi con la rigidità dei regolamenti e della burocrazia. Un giorno Nino Tini è stato quindi convocato dal sindaco di Castrocaro per giustificare la sua bizzarra iniziativa, del tutto priva delle necessarie autorizzazioni, e pagare le relative imposte. Tuttavia l’eloquenza e simpatia del professore, oltre all’evidente passione che traspare dall’opera, hanno fatto sì che il richiamo ufficiale finisse con un abbraccio. “Lei può essere l’eccezione”, sono state le parole con cui l’autorità civile – “il principe del tempo”, se vogliamo – ha sancito il valore della sua impresa, come per una sorta di moderna licenza poetica.

Dall a’ lto di Bagnolo in questo mese di agosto dalla calura irreale vedo argille cotte dal sole calanchi crespati dal tempo prati bruciati dal caldo vigneti frustati dal vento La poiana nell a’ ria ferma della sera scivola d a’ la alla ricerca del suo vivere I

Sensi

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The Road of Poems in Oriolo dei Fichi To achieve something extraordinary, whatever our sphere of activity, we need the right combination of ingredients. Art is no exception. First, we need a place: in this case Oriolo dei Fichi on the hills just outside Faenza, where the influence of thousands of years of human presence and a landscape which changes according to the patient rhythm of the seasons provide an unexpectedly charming backdrop. Then we need the artist: in this case Nino Tini. Back in the early 1960s Nino Tini was my teacher at the agricultural high school of Bagnacavallo. He loved his job, and since he knew that many children started work at a very young age, owing to family necessity and perhaps also because education was not considered to be all that important in those days, he’d go from house to house to recruit potential students in person. When I recently met him again forty years on, I found him as commanding a figure as ever and busy with all kinds of projects that might seem unlikely in a man now in his seventies: a saffron field, a solarium, a grand banquet for the rehabilitation of local cuisine, the changeover to organic farming, and the production of the wine Rosso Oriolo, on sale from the estate. Chronologically the most recent of these projects was the “Road of Poems”. The road in question is the one which leads from San Mamante to Castrocaro, a tortuous succession of curves and hairpin bends shaded by the tall trees that line the roadside. On the trunk of each of these trees Tini has fixed a small plaque with a poem written on it. (To read the poems, obviously you have to get out of your car and walk.) Moving from one poem to the next, we get the impression we’re following a trail of pebbles or breadcrumbs, like children in fairy tales. Here, though, the objective is not to find our way out of the forest but to find ourselves, to open our spirits to the feeling of peace and joy that the poems communicate, to drive off the anxieties that plague our everyday lives and thoughts. One poem, one tree leads effortlessly to the other: we really feel as if we’re walking in the company not of his poems but of the man himself and of the faithful Ciube, his black Newfoundland dog, an intelligent beast who would talk if only he could. Every now and again, however, inspiration falls foul of bureaucracy and its regulations. One day Nino Tini was summoned before the mayor of Castrocaro to give account of his unusual initiative, for which he’d failed to secure the necessary authorization, and to pay the respective fine. But there was nothing bureaucracy could do to resist Tini’s eloquence and amiability and infectious passion for his project. The encounter ended in an embrace between teacher and mayor, with the mayor making “an exception” and giving his blessing – poetic licence, if you like – to Tini’s Road of Poems.

Calanchi forgiati dalla officina del tempo con argille crude bruciate dal sole erose da acque che scendono a valle irruenti creano interessi di poesia gennaio 2008 Passioni

In un momento di nostalgia per il passato mi guardo attorno con ironia rivivo quel tempo di progetti e illusioni caduti nel vuoto la realta‘ della vita cruda ed amara sorridi dei tuoi fallimenti non erano tuoi.

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La prima carbonara fu servita a Riccione sulla tavola degli A lleati al finire della G rande G uerra alba pirini

immagini: foto riccione archivio fotografico comune di riccione

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Capita così che la ricetta della carbonara, piatto italiano ormai ampiamente internazionalizzato, tanto che lo si può trovare nel menu di una palapa messicana come in quello di un ristorante chic di Pechino (con le più svariate ed impietose alterazioni a seconda della latitudine), venga reclamata come propria da più di una tradizione culinaria. A Roma esiste addirittura un Carbonara Club con tanto di Carbonara Day e pure dalla Svizzera si avanzano rivendicazioni. Nemmeno i ricettari più autorevoli sembrano essere completamente concordi sugli ingredienti che compongono questo piatto. Per risolvere la “quaestio” bisogna tornare indietro nel tempo fino al 22 settembre 1944, quando, all’hotel Vienna di Riccione durante una cena di gala organizzata dal comandante delle truppe canadesi, gen. Eedson Burns, per festeggiare la liberazione di quel lembo di costa dalle armate tedesche fu portata in tavola, alla presenza di ospiti illustri come il Ministro Harold MacMillan, il gen. Harold Alexader e sir Oliver Leese, la prima carbonara della storia. A prepararla fu Renato Gualandi, cuoco di origine bolognese, che la “partorì” rifacendosi alle conoscenze culinarie acquisite all’estero (in particolare durante il servizio prestato presso il corpo dell’11ª armata italiana) ed utilizzando alcuni degli ingredienti messi a disposizione dagli Alleati: bacon cotto in un po’ di burro, crema di latte e formaggio fuso, polvere di rosso d’uovo, spaghetti e una manciata di pepe macinato a fresco. Era nata la carbonara. Gualandi, che nel 1963 è stato nominato dai francesi Gran Cancelliere della Commandarie des Cordons Blues, nel 2001 ha ricevuto il Premio Artusi e durante la sua lunga carriera ha cucinato per personaggi quali De Gaulle, la Regina d’Olanda, Wanda Osiris, Tyron Power e Guglielmo Marconi, ne custodisce gelosamente la ricetta originale: mettere in un souté una noce di burro, aggiungere 35 grammi a testa di bacon a listarelle, fatto leggermente tostare a basso calore, bagnando con della crema di latte in misura; ottenuta la crema si aggiunge fuori dal fuoco un tuorlo d’uovo a testa e una grattata di pepe nero al momento di servire. Per ribadire il proprio status di patria del piatto, la cittadina di Riccione il 21 settembre 2008 ha platealmente riprodotto, nella cornice di Villa Mussolini, la storica cena di gala, chiamando l’ottuagenario e pluridecorato chef Gualandi (oggi residente a Misano, città natìa della moglie Laura) a dirigere lo staff di cuochi che ha riproposto il menu originale servito 65 anni fa. Sulle note di un’orchestra dixieland, i camerieri, per l’occasione in abiti militari, hanno così accompagnato al tavolo degli ospiti la celeberrima gran dama della serata: la carbonara.

Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio. Andy Warhol

in tempi di presidi gastronomici e certificazioni alimentari come questi non è infrequente che più “campanili” si arroghino la paternità di un piatto tipico, come in passato ci si contendevano le reliquie di santi, eroi ed artisti.

The first-ever carbonara was served in Riccione at an Allied dinner at the end of World War II In these days of gastronomic protectionism and food certification it’s not unusual for different towns, regions and even countries to dispute the paternity of certain dishes – just as in the past they argued over the origins of saints, heroes and artists. Carbonara, an Italian dish that’s now gone global to the extent that you can eat it anywhere from Mexico to Beijing (allowing for the often startling variations that come with the latitude), is one such dish. Rome has its Carbonara Club, many places now celebrate a Carbonara Day, and even Switzerland has lately emerged as a claimant. To confuse things further, not even the most authoritative recipe books are completely in agreement as to the ingredients of the “authentic” carbonara. To settle the dispute once and for all, we need to go back to 22 September 1944, and a gala dinner in Hotel Vienna, Riccione, organized by the commander of the Canadian forces, general Eedson Burns, to celebrate the Allied liberation of Riccione. It was at this dinner, whose guests included future British prime minister Harold Macmillan, general Harold Alexander and sir Oliver Leese, that the first-ever carbonara was served. Its creator was Renato Gualandi, a Bologna-born chef who drew on his culinary experiences abroad (and in particular his service with the Italian 11th Army) to concoct a new dish from the ingredients provided by the Allies: bacon, butter, cream, grated cheese, powdered egg yolk, spaghetti and black pepper. The result: spaghetti carbonara. Gualandi was made a Grand Chancellor of the Commanderie des Cordons Blues in 1963 and in 2001 received the Artusi Award. Over the course of a long career he has cooked for illustrious figures such as Charles de Gaulle, the queen of the Netherlands, Wanda Osiris, Tyrone Power and Guglielmo Marconi. Gualandi has jealously preserved the original recipe, and here it is: melt a little butter in a sauté pan, add 35 grams per person of bacon cut into strips and brown gently over a low heat, then add the cream. Remove from the heat and add one egg yolk per person, and a scrape of black pepper just before serving. To reaffirm its status as the birthplace of carbonara, on 21 September 2008 the town of Riccione held a re-enactment of the historic dinner in the setting of Villa Mussolini. Renato Gualandi (now in his eighties and living in Misano, the home town of his wife Laura) directed the team of chefs in their re-creation of the original menu served 65 years earlier. There was music by a dixieland orchestra and the waiters were dressed in military uniforms in tribute to the star of the event: the original carbonara.

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Romagna

Enogastronomia

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Villa Venti local character, shared purpose Villa Venti is a relatively young winery that has chosen as its emblem the winged lion of Venice, in tribute to the flourishing wine trade which once existed between Roncofreddo and the Serenissima. Villa Venti belongs to a trend which has been visible in Romagna for some years now, with entrepreneurs and families with no traditional connection with the earth leaving their jobs to dedicate themselves to wine growing. It’s a back-to-nature movement which has produced some of the most interesting wines of recent years - partly because modern winemaking requires a modern approach that’s free of the time-honoured “quantity at any cost” philosophy. At Villa Venti three generations of three families – the Castellucci, the Riva and the Giardini – have joined forces with the stated objective of producing fine wine and a shared determination to respect every aspect of the character of this mild and narrow corner of land, overlooking plain and sea from the hills above the Rubicon. Approximately six hectares are planted with vines.

Villa Venti

una cantina relativamente giovane ha scelto per emblema il leone alato di venezia in ossequio ad un passato di florido commercio vinicolo tra il territorio di roncofreddo, sul quale sorge l’azienda, e la nobile repubblica marinara.

Vino color del giorno, vino color della notte, vino con piedi di porpora o sangue di topazio, vino, stellato figlio della terra [...] Pablo Neruda

carlo zauli [24

immagini: archivio Viterbo Fotocine - Matteo Rossi

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carattere e comunione d ’ intenti La sua storia si inserisce nell’inedito filone, osservabile da alcuni anni in Romagna, che vede individui e famiglie non tradizionalmente legati al lavoro della terra lasciare il proprio campo d’impiego e dedicarsi alla vita del vitivinicoltore. Un ritorno alla natura che non ha mancato di produrre come risultato alcuni dei vini più interessanti degli ultimi anni. Ciò anche perché nel lavoro in vigna si presuppone un approccio moderno, libero dalla vetusta filosofia della quantità a tutti i costi. Così, tre famiglie, Castellucci, Riva e Giardini, composte da tre generazioni, hanno deciso di unire gli sforzi con il manifesto intento di produrre il miglior vino e il muto patto di rispettare integralmente il carattere di questo “angolo stretto e dolce delle colline oltre il Rubicone, affacciate sul piano e in vista del mare”. Circa sei ettari vitati, prevalentemente coltivati a Sangiovese con cloni differenti e affiancati da una piccola quantità di Merlot, Cabernet franc e Centesimino. Gli impianti sono allevati ad alberello modificato, con una resa di circa 1 Kg/ceppo. Anche in questo caso appare determinante la consulenza del “nume tutelare” dell’agronomia romagnola: Remigio Bordini, coadiuvato dal collega Stefano Tellarini. Pare limitativo definire biologico il metodo di coltivazione, tale è la tensione a ridurre all’osso qualunque intervento in vigna, con la precisa volontà di coadiuvare la sapienza di autoprotezione della natura, ben riassunta nella dichiarazione: «Pochi tratti essenziali per una terra che parla un dialetto brusco e ripido come i suoi pendii». La stessa filosofia si ritrova in cantina, dove, sotto la supervisione di Francesco Bordini, si lavora per ottenere un vino che possieda tutto il carattere originale del Sangiovese, prendendo le distanze da quei prodotti, spesso pensati con un occhio al mercato estero, che privilegiano a tutti i costi la morbidezza. Oltre che Cantina ed agriturismo, Villa Venti è anche una Fattoria Didattica con una serie di percorsi che aiutano a riappropriarsi dell’armonia dei cicli stagionali e a partecipare a quella positiva etica agreste che è elemento portante dei vini di Villa Venti. I

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Romagna

The predominant grape is Sangiovese in various cultivars, with small quantities of Merlot, Cabernet Franc and Centesimino also grown. The vines are goblet-trained and pruned low to yield around 1 kg of grapes per vine. The advice of one of Romagna’s leading agronomists, Remigio Bordini, working with his colleague Stefano Tellarini, has proved decisive. To define the cultivation methods as organic is to put things mildly, such is the determination to restrict intervention to a bare minimum and let nature work its own wisdom. It’s a philosophy that’s nicely summed up in the declaration “Very little treatment is necessary for a terroir that speaks a dialect as rugged and abrupt as its hillsides.” The same philosophy is applied during the winemaking process, where operations are directed by Francesco Bordini. The wine produced in Villa Venti has all the character of the Sangiovese grapes it’s made of, yet it’s noticeably different from other Sangiovese wines – often created with one eye on the export market – that aspire above all else to gentle contours. Villa Venti also offers tourist accommodation, and an educational farm which gives visitors the chance to reacquaint themselves with the natural rhythms of the seasons and experience for themselves the rural ethic which is the winning feature of the wines produced at Villa Venti.

Primo Segno_ Sangiovese di Romagna DOC Superiore 2007_ Uve/Grapes 100% Sangiovese Questo Sangiovese in purezza, il cui nome attinge all’antico uso popolare di chiamare i figli con il numero relativo all’ordine di genitura, è ottenuto da 4 biotipi di Sangiovese a grappolo spargolo messi a dimora secondo le tipologie delle argille. Il colore è un rosso rubino tendente al violaceo. Già al naso presenta la sua robustezza con profumi intensi e dolci speziature. In bocca conferma la sua ricchezza con tannini nobili e finale persistente. Viene vinificato in recipienti d’acciaio a temperatura controllata e attraversa una maturazione in botti d’acciaio e in bottiglia. Temperatura di servizio: 18° C. Si ben abbina ai piatti di carne rossa. A thoroughbred Sangiovese whose name alludes to the traditional countryside custom of naming children after numbers in their order of birth, Primo Segno is made from 4 different biotypes of Sangiovese, grown in loose-packed clusters and planted according to the clay content of the local soil. The colour is ruby tending to violet. A robust wine with an intensely fragrant and gently spicy bouquet. In the mouth it’s as rich as its bouquet promises, with fine-grained tannins and a persistent finish. Fermented in stainless steel tanks at controlled temperature then aged in stainless steel vats and in the bottle. Serving temperature: 18°C. Goes well with red meat dishes.

Felis Leo_ Forlì Rosso IGT 2007_ Uve/Grapes 40% Merlot, 40% Sangiovese, 20% Cabernet Franc Si presenta alla vista con un colore rosso rubino particolarmente concentrato dalla ricca consistenza. Offre al naso un bouquet dolce e complesso con note minerali e speziate. Al palato si rivela polposo, fruttato e annuncia un sorso caldo, equilibrato e di buona persistenza. La vinificazione avviene in recipienti d’acciaio a temperatura controllata, la maturazione in botti d’acciaio e barrique francesi. Temperatura di servizio: 18° C. Si consiglia l’abbinamento a secondi di carne dal sapore deciso, come il castrato. A richly consistent wine with a deep ruby colour. On the nose it’s sweet and complex, with mineral and spicy notes. On the palate it’s succulent and fruity, with a warm, well-balanced and persistent finish. Fermented in stainless steel tanks at controlled temperature then aged in stainless steel vats and French barriques. Serving temperature: 18°C. Best enjoyed with robustly-flavoured meat dishes such as mutton. Enogastronomia



Tinin Mantegazza colours of the sea “Mantegazza” could easily be a Romagnol surname or nickname, but in fact it belongs to a multifaceted artist who left Milan to live in Cesenatico, where for many years he has indulged his passion for capturing the ever-changing colours of the Adriatic. Perhaps the sea is part of his genetic makeup, for Tinin Mantegazza was actually born in Varazze, Liguria, moving to the Lombard capital while still a child. Mantegazza’s work is difficult to sum up, as his career as an artist has seen him work in theatre, radio and TV, as director, author and entrepreneur. His real vocation, however, is painting and illustration. On the image and its ability to communicate, Mantegazza observes: “The illustrator and the graphic artist are aiming for very different things, as are the designer and the cartoonist. But what they all have in common is the absence of the written word: their ‘illiteracy’. Their duty therefore is to make a conscious and instrumental use of this illiteracy, of this talking without words. To communicate via symbols, expressions, moods given external expression in the form of signs”.

Another common denominator in his work is its appeal to children. Mantegazza has written fairy tales and fiction for children, and there are certain fairy-tale aspects to his own life. After co-founding one of the historic Milanese cabarets, Cab 64, with Gino Negri, Lino Toffolo, Cochi e Renato, Jacqueline Perrotin and Bruno Lauzi, he started writing children’s plays for RAI, with puppets made and operated by his wife Velia. Then, sitting in a trattoria in the 1970s, he realized that it must previously have been a theatre, and by 1975 had succeeded in converting it into Italy’s first permanent theatre for children, with the name of Teatro Verdi. Besides the many children’s productions staged here over the years, Teatro Verdi has also hosted productions by companies including l’Elfo, le Briciole, Teatro del Sole, Teatro dell’Angolo. Many illustrious names in Italian theatre – Rossellini, Manfredi, Gianco, Gianna Nannini, Paolo Conte – have treaded the boards here. Today, from the window of his studio, Mantegazza scans the continuously moving swell that seems to endlessly combine and recombine in different tones of blue, as if in search of the perfect nuance for every instant. Mixing his colours on his palette, Mantegazza emulates the work of the sea before transferring to his canvasses the ever-changing aspect of the Adriatic, adding a feature or two from his own imagination: a solitary tree, a beach hut, a tower, features that guide the observer’s eye to the line of the horizon where sea and sky separate.

Tinin Mantegazza color mare

angelamaria golfarelli

immagini: archivio gabriella zoli

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mantegazza potrebbe tranquillamente essere un cognome o soprannome romagnolo, appartiene invece ad un poliedrico artista che ha lasciato milano scegliendo di vivere a cesenatico, dove da molti anni insegue e fissa sulle sue tele le mutevoli sfumature cromatiche dell’adriatico che lo bagna.

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“Seguo la natura senza poterla afferrare; questo fiume scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.” Claude Monet

tommaso attendelli

immagini: laura zavalloni, tinin mantegazza (illustrazione)

Il mare fa però parte del suo patrimonio genetico, essendo Tinin Mantegazza nato a Varazze in Liguria, da dove però si è trasferito, ancora bambino, nella capitale lombarda. Difficile inquadrare la sua figura rispettando i confini delle discipline, poiché Mantegazza ha contemporaneamente frequentato molteplici ambienti e ambiti artistici, occupandosi di teatro, radio, televisione, e giornali, in veste ora di regista, ora di autore, ora di organizzatore teatrale, senza però mai trascurare la sua vocazione fondamentale alla pittura e all’illustrazione. Del potenziale comunicativo dell’immagine dice infatti: «Ci sono molte differenze tra il segno dell’illustratore e quello del grafico, tra quello del designer e quello dell’umorista. Però c’è un minimo comune denominatore che è l’assenza della parola scritta: l’analfabetismo. Si tratta perciò di fare un elogio dell’analfabetismo cosciente e strumentale, della scrittura senza parole. Racconti fatti di simboli, di espressioni, di atmosfere, esternati con i segni [...]». Un altro trait d’union nella sua opera va ricercato nel pubblico a cui si rivolge, ove sono sempre contemplati i bambini. Per loro ha composto fiabe e spettacoli teatrali. Anche la sua vita contiene tratti che possono parere quasi fiabeschi. I

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Dopo aver creato uno degli storici cabaret milanesi, il Cab 64, a fianco di personaggi come Gino Negri, Lino Toffolo, Cochi e Renato, Jacqueline Perrotin e Bruno Lauzi, ha scritto telefiabe per la RAI, che venivano animate dai pupazzi realizzati e messi in scena dalla moglie Velia. Negli anni ‘70 poi, entrato in una trattoria, si rese conto che quel locale doveva essere anticamente un teatro e riuscì nel 1975 a trasformarlo nel primo Teatro Stabile per Bambini d’Italia con il nome di Teatro Verdi. Un palco che, oltre agli spettacoli espressamente pensati per il pubblico più giovane, ha visto transitare compagnie come l’Elfo, le Briciole, il Teatro del Sole, il Teatro dell’Angolo e nomi come Rossellini, Manfredi, Gianco, Gianna Nannini, Paolo Conte. Oggi, dalla finestra del suo studio, Mantegazza scruta il moto continuo dei flutti pelagici, che paiono rimescolare in perpetuo l’impasto del blu marino, come in cerca della sfumatura perfetta per ogni attimo, e copiando sulla sua tavolozza il lavoro del mare, fissa sulle sue tele il temperamento mutevole dell’Adriatico, accompagnandolo con comprimari di fantasia: un albero solitario, una cabina da spiaggia, una torre. Quasi a voler aiutare l’occhio di chi osserva il quadro a capire come orientarsi rispetto alla linea d’orizzonte che separa cielo e mare. Arte


tatiana tomasetta

Una scu stru lor ltore ttur a d Gui o giu a, q i lla sti uand vent a a ume fic o Apo azio i su rchi oi te lli n nai e nel ele tton me ic re la nat nti n a, e ura on n . han on no p

la

immagini: tatiana tomasetta, archivio fotografico dell’istituzione culturale della regina - comune di cattolica (rn), ufficio stampa - servizio turismo del comune di cesenatico

il R azionalismo in R omagna [30

L’ultima “architettura di Stato”

l’architettura fascista s’innesta nei più ampi movimenti del secolo scorso nati a cavallo delle due guerre e in quegli stili che hanno caratterizzato il dibattito degli anni venti e trenta come il razionalismo italiano, termine con cui s’intendono le correnti artistiche declinate all’architettura che vedono il proprio atto di nascita nel futurismo.

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La correttezza storica rende indispensabile decifrare, al di là dei simbolismi e dello strumento di propaganda, uno stile originale che da un lato rivela una fascinazione puramente estetica - l’occhio quindi guarderà allo stile architettonico del Ventennio secondo i criteri soggettivi della riflessione sull’arte – e che dall’altro rappresenta, oggettivamente, l’ultima creazione di un linguaggio destinato a affermarsi come nazionale e commissionato a progettisti capaci di designare, attraverso i loro lavori, un lascito artistico nel quale fosse rintracciabile la visione sociopolitica del Paese. In Romagna l’intervento urbanistico del Ventennio è molto evidente anche se gli architetti si espressero in un sostanziale pluralismo di esiti formali, tutta la regione offre validissimi esempi dell’idea inseguita dal regime legata al concetto di monumentalità e modernità delle città che strizza l’occhio al classicismo e alla romanità attraverso l’inserimento di statue e di superfici nei cui innesti i temi ricorrenti fossero la patria, la famiglia, il lavoro, lo sport, il progresso tecnologico. Una città come Forlì fu marcatamente contrassegnata, dalla Stazione ferroviaria alle piazze s’impone all’occhio dello straniero lo stile rettilineo e lineare del razionalismo, domina il ritmo ordinato e severo dei numerosi edifici di pietra, intriga la tensione data dagli incroci dei pesi architettonici evidenti in costruzioni maestose come il Palazzo delle Poste o l’ex Collegio Aeronautico. Non solo luoghi istituzionali ed edifici pubblici, ma anche impianti sportivi, case dell’assistenza e luoghi di aggregazione fra cui le colonie di vacanza costruite lungo la riviera adriatica. Fra queste, una delle costruzioni più spettacolari è certamente l’ex colonia di Cattolica, oggi Parco acquatico, costruita nel 1934 da Clemente Busiri Vici. I padiglioni riproducono in riva al mare l’immagine di una flotta di navi in formazione attorno all’ammiraglia, un’architettura geniale che restituisce l’armonia tra le forme scelte coniugando bellezza e metafora. Dello stesso anno la colonia Agip di Cesenatico, firmata da Giuseppe Vaccaro, che si presenta come una lunga stecca parallela al litorale. Grandi superfici vetrate incorniciano il mare, il corpo centrale è sollevato su pilastri che alzano l’intero pianterreno. Anche la dimessa colonia Varese a Milano Marittima, nonostante lo stato di abbandono, conserva il proprio impatto scenografico, a testimoniare l’interesse puramente artistico che si può nutrire per questo linguaggio architettonico.

Arte

The last “state architecture” rationalism in Romagna What we now call fascist architecture was one manifestation among many of the broad spectrum of artistic movements which emerged in the decades between the two world wars of the 20th century. Stylistically it belongs to Italian Rationalism, a term denoting an architectural idiom whose origins lay in Futurism. Behind the symbolism and the propaganda with which so much rational architecture is imbued there was, after all, an original style. On the one hand this style is purely aesthetic, and compels us to look at the architecture of the fascist decades in Italy according to subjective criteria of appreciation, while on the other it’s the objective representation of an idiom purposely conceived as national – Italian – and cultivated by architects who have left an artistic legacy in which the social and political values of the country’s then-rulers remain evident. In Romagna the urbanism of the fascist period is still much in evidence, and although there is considerable formal pluralism in the architecture itself, it still offers ample testimony to the ideals driving the regime – the city was conceived as a place of monumentality and modernity, with a nod to classicism and the Roman spirit in the inclusion of statues and friezes whose recurrent themes were fatherland, family, work, sport and technological progress. Forlì is one town where the marks of fascist planning are still everywhere to be seen. Its railway station and its piazzas strike the newcomer with their rectilinear, straight-edged rationalism, the severe and relentless rhythms of their buildings, and the tension in the handling of architectural volume as evident in Palazzo delle Poste and the former Collegio Aeronautico. The buildings of the fascist period were not only public and official edifices – there were also sports facilities, hospitals, and places where people gathered, such as the vacation colonies built along the Adriatic Riviera. Easily one of the most impressive of these complexes is the former vacation colony of Cattolica, now a water park, built in 1934 to plans by Clemente Busiri Vici. With their porthole-like windows the pavilions of this complex are arranged around the central building like a fleet in formation around its flagship, a conceit which confers unity on the architecture and combines metaphor with aesthetic. The Agip vacation colony in Cesenatico, built in the same year to designs by Giuseppe Vaccaro, presents a long, uniform façade to the coast. This façade is articulated by unbroken lines of glazing, with the central volume raised on a pilotis which elevate the ground floor. Then there is the former vacation colony of Varese in Milano Marittima, which despite its dereliction remains as visually striking as ever, and testifies to the artistic merit which lies behind the rhetoric of so much rationalist architecture.

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[04] TERRITORIO I cavalli selvaggi di B oscoforte_ una striscia di camargue in romagna The wild horses of Boscoforte_ a piece of the camargue in the heart of romagna Castrocaro Terme_ t ra sc o sc e si bast i o ni e ac que c urat i v e Castrocaro Terme_ soaring ramparts and curative waters

[10] STORIA Carlo “Charles” Ponzi_ truffatore gentiluomo Carlo “Charles” Ponzi_ gentleman swindler Papi romagnoli_ sei pontefici, sei travagliati pontificati Romagnol popes _ six pontiffs, six difficult reigns Fra reali saperi ed anatemi_ la medicina popolare di zambutèn Herbal medicine_ the folk remedies of zambutèn

[16] PASSIONI [32

I carri di pensiero_ un rito illuminato a casola valsenio The allegorical floats _ of casola valsenio La Strada della poesia_ nino, cantore a oriolo dei fichi The Road of Poems _ in oriolo dei fichi

[22] ENOGASTRONOMIA La prima carbonara fu servita a Riccione_ sulla tavola degli alleati al finire

della grande guerra

The first-ever carbonara was served in Riccione _ at an allied dinner at the end of world war ii

Villa Venti_ carattere e comunione d’intenti Villa Venti _ local character, shared purpose

[28] ARTE Tinin Mantegazza_ color mare Tinin Mantegazza _ colours of the sea L’ultima “architettura di Stato”_ il razionalismo in romagna The last “state architecture” _ rationalism in romagna

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