Nèura Magazine Non È Una Rivista d’Arte
Numero 4 25 ottobre 2012
Superfici Eunomia Adriana Rispoli sul MADRE di Napoli
“Fiato d’artista” Yayoi Kusama per Louis Vuitton Nel segno di Capogrossi Sara Valentina e il Vetraio
Giuseppe Capogrossi, Superficie, Arazzo cm 74 x 200, Collezione Fondazione A. De Mari, Savona (particolare)
Nèurastenie Gli appuntamenti della settimana 25-31/10
Logo ©Cristiano Baricelli
Logo in copertina e a pagina 3: ŠCristiano Baricelli, Ictus, 2005
Indice - Numero 4
Editoriale - Superfici Eunomia - Adriana Rispoli: quale futuro per il MADRE? Eunomia - Louis Vuitton a pois: accusata Yayoi Kusama
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“Fiato d’artista” - Questione di superfici. L’omaggio di Savona a Capogrossi
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“Fiato d’artista” - Sara Valentina. La colorata leggerezza del vetro design
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Nèurastenie - I cinque sensi
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Editoriale - Nèura Magazine #4. Un mese dopo
L’ultimo numero di ottobre, nonostante i ritmi concitati di inaugurazioni di mostre e apertura di fiere, non ci fa dimenticare che siamo arrivati al nostro primo mese di vita. Senza spingerci troppo in là con i bilanci (la noia dei numeri diventa inesorabile) possiamo dirci soddisfatti dei piccoli passi mossi, uno per volta, ma in maniera costante. Siamo rintracciabili sui social network. Sì, diciamo la nostra sulla pagina facebook, su twitter, inviamo link su google+, lanciamo immagini su pinterest e interagiamo anche su tumblr. La scelta sta a voi. Noi siamo sempre Nèura Magazine. Abbiamo inaugurato una Nèurletter settimanale, che esce di giovedì mattina, proprio come il nostro numero online. Ogni volta ha un colore e un tema differenti e vi tiene aggiornati sulla nostra attività, che si esprime in formati diversi. Se siete curiosi di leggerla basta iscriversi, trovate tutto sulla nostra home page. E ricordate che scriviamo sul sito, ma vi regaliamo anche una versione pdf e in .epub di ogni numero, nero su bianco: perché possiate ascoltarci sempre, dove e come volete. Il magazine #4 esce oggi ed è dedicato alle Superfici. Yayoi Kusama le ha colorate, riempite con i suoi pois, che agiscono sugli spazi monocromi quasi in preda all’horror vacui della consuetudinaria contemporaneità. Operazione in parte simile a quella di Giuseppe Capogrossi, che delle sue forme simili a forchette ne ha fatto un simbolo. Oggi il suo lavoro è in mostra a Savona, la nostra recensione vi condurrà in loco, idealmente e materialmente. 5
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Sono superfici delicate, trasparenti e vetrose, quelle lavorate da Sara Valentina, che si è occupata della creazione delle scenografie del Minotauro di Dürrenmatt, spettacolo teatrale interpretato da Viviana Piccolo e Diana Palù e presentato in anteprima assoluta al pubblico di Pordenone. Infine, sono ancora tutte da scrivere le superfici delle pagine targate MADRE, il museo di arte contemporanea di Napoli in attesa del nuovo direttore. Conosceremo un pezzo della sua storia attraverso le parole della curatrice della project room, Adriana Rispoli. Ebbene, siamo arrivati al quarto atto della nostra storia. Ma diversamente da tutte le pièces teatrali, che giungono a questo punto a un meritato finale, noi vogliamo ripartire, o meglio, proseguire da qui. Buona lettura e alla prossima settimana.
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Eunomia - Adriana Rispoli: quale futuro per il MADRE? Roberto Rizzente
Jacopo Miliani, Untitled (1967) 2011. Corpus. Arte in azione. Museo Madre, Napoli. Foto Amedeo Benestante
Inaugurato in pompa magna il 10 giugno 2005, sull’onda di quel grande movimento di rinnovamento seguito alla stipulazione, nel marzo 2003, del Patto per l’Arte Contemporanea tra il Ministero e la Conferenza Unificata delle Regioni e degli Enti Locali, all’inizio del 2012 il Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina (MADRE) rischia la chiusura. I finanziamenti alla Fondazione Donna Regina vengono congelati, il direttore Eduardo Cicelyn allontanato, i lavoratori rischiano il licenziamento. Pure, la Regione non sembra disposta a rinunciare a quello che, da più parti, viene ricordato come uno dei simboli del bassolinismo. L’assessore alla Cultura Caterina Miraglia promette lo stanziamento di 8 milioni di euro per tre anni. Durante 7
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l’estate viene bandito, per la prima volta nella storia dell’istituzione, un concorso pubblico che elegge, a inizio ottobre, un comitato scientifico “di tuono”: Gianfranco Maraniello, già direttore del Mambo di Bologna, Chus Martinez, curatrice capo di Documenta (13), Bice Curiger, curatrice della Kunsthaus di Zurigo e dell’ultima Biennale di Venezia, Johanna Burton, direttrice del Center for Curatorial Studies del Bard College di New York, e Andrea Bellini, direttore del Centre d’Art Contemporain di Ginevra. In attesa che venga nominato il nuovo direttore, il museo si trova ora di fronte a un bivio. Ne abbiamo parlato con Adriana Rispoli, già curatrice della Project Room per gli artisti emergenti. Quando nasce il MADRE? Il MADRE nasce nel 2005 con la prima grande mostra di Kounellis in Italia in una zona particolarmente lacerata della città, alla fine di via Duomo e di fronte alla Sanità, forse con l’obiettivo di farne un volano di sviluppo dell’area. Però va ricordato che il terreno a Napoli per l’arte contemporanea è sempre stato fertile, un po’ per i privati (Lucio Amelio e Peppe Morra, e, tra i più giovani, Alfonso Artiaco, Paola Guadagnino, Giangi Fonti, Umberto di Marino) e un po’ per la Regione, che già prima del MADRE aveva finanziato gli Annali delle Arti al Museo Archeologico — con Jeff Koons, Kapoor, Serra e Kiefer, tra gli altri, che avrebbero poi realizzato opere site specific per il museo — e le grandi installazioni in Piazza Plebiscito a Natale, iniziate negli anni novanta con la montagna di sale di Paladino e concluse due anni fa con il lavoro, contestatissimo, di Carsten Nicolai. Se volessi fare un bilancio del MADRE? Nei suoi anni di attività il MADRE è riuscito a catalizzare l’attenzione internazionale attraverso grandi mostre ed è stato l’antesignano di grandi musei, perché il Sud Italia, oltre al MADRE, non ha un museo di arte contemporanea. Purtroppo non è mai riuscito, a mio parere, a instaurare un buon rapporto col territorio, ed è stato questo il grande problema. La Project Room, il progetto che ho portato avanti in questi tre anni dal 2009 con Eugenio Viola, è stato, nel suo piccolo, un tentativo per uscire dal modello, coinvolgendo i giovani artisti locali e spronandoli al confronto con altre realtà. 8
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Quali sono stati i progetti della Project Room? Il progetto principale si chiamava “Transit” e prevedeva degli scambi, e relative residenze, con delle realtà del Mediterraneo da noi considerate affini a Napoli, che è considerata una città- soglia, una città al limite, l’ultima città europea e la prima del Mediterraneo. Su questo leit motiv abbiamo fatto dei gemellaggi con artisti e istituzioni dal Cairo, lavorando con la Townhouse, una realtà para-privata, con il CCA di Tel Aviv, PiST a Istanbul e lo State Museum di Salonicco, ottenendo spesso anche il supporto degli Istituti italiani di Cultura all’estero. A questi si affiancava “Spot”, pensato specificamente per artisti alle prime esperienze, molti dei quali stanno emergendo, come Roberto Amoroso o Donatella Di Cicco. Senza dimenticare la performance… Per due anni abbiamo presentato in collaborazione col Napoli Teatro Festival una selezione di artisti che usano la performance come medium privilegiato di espressione. La prima edizione, “Corpus. Arte in azione”, con un budget più solido, era incentrata principalmente sul corpo e le attuali derive del cosiddetto neoprimitivismo
Regina José Galindo, Caparazon. 2010, Corpus. Arte in azione Museo Madre, Chiesa di Donna Regina Vecchia, Napoli. Foto Amedeo Benestante 9
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(vedi Ron Athey), la seconda edizione è stata dedicata al Sud America, con importanti artisti come Regina Jose Galindo, che aveva appena vinto il Leone d’oro, Teresa Margolles, Maria Jose Arjona, Tania Bruguera, tutti lavori site specific realizzati per questo festival. E l’ultima edizione, lo scorso anno, è stata un focus sulla performance in Italia che ha visto la partecipazioni di sette artisti tra cui Francesca Grilli, Luigi Presicce, Cristian Chironi. Che cosa è successo poi? Già dalla fine del 2010 con lo sforamento del Patto di Stabilità, il cambio ai vertici della Regione e il conseguente ridimensionamento dei finanziamenti, dovuto anche alla terribile congiuntura economica globale, il museo ha affrontato un momento finanziariamente molto difficile che è sfociato in un cambio dirigenziale che si concluderà in seguito alla nomina per concorso pubblico di un nuovo direttore, che unirà la figura manageriale con quella curatoriale. Alcuni artisti hanno portato via le proprie opere… Il MADRE oltre alle attività culturali vive anche della sua collezione. Un collezione storica che non è mai stata di proprietà: a parte le opere site specific delle origini, la collezione era composta da comodati d’uso quindi da prestiti, come quasi sempre accade in Italia. Man mano queste opere sono tornate agli artisti o ai prestatori e credo che questo sia stato dovuto alla nebulosa intorno al futuro del museo. Spero davvero che con il nuovo direttore si possa ricostruire una collezione, perché di fatto un museo senza collezione non è un museo, ma un centro per le arti, che è un’altra cosa. Quale direttore sogni per il futuro? La nuova figura di direttore sarà un ibrido, un’unica figura dirigenziale al tempo stesso curatoriale, quindi dal peso importante, che spero possa essere affiancata da un team in grado di guidarlo nelle viscere di questa città. Mi auguro che si trasferisca a Napoli e che sia una figura internazionale “forte” perché serve una persona di larghe vedute e con un fornito patrimonio di esperienza e contatti. Ma spero che non ci sarà da preoccuparsi, considerando il comitato scientifico che è stato appena eletto. 10
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Quali sfide si troverà ad affrontare? Il grande problema a Napoli è che il lavoro è una lotta e quindi ci vorrà una grande passione. E credo che una grande passione ci sia stata, all’atto di fondazione del MADRE. Ora il museo deve risollevarsi: c’è stato un azzeramento completo, ma solo così possono cambiare le cose. Spero che nascerà una realtà che riesca a dialogare maggiormente con il territorio. Magari con un archivio, o una mediateca, purché intercetti
Luigi Presicce, La custodia del sangue nella giostra dei tori, 2012. Corpus. Arte in azione. Museo Madre, Chiesa di Donna Regina Vecchia, Napoli. Foto Amedeo Benestante 11
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il genius loci, perché questo è il compito di un museo, quello di essere un incubatore. Spero, poi, che il nuovo MADRE riesca a trovare il giusto equilibrio tra la sperimentazione, attraendo artisti internazionali e curando mostre temporanee di livello, e la conservazione, ricostruendo, seppure attraverso i prestiti, una collezione che sia di supporto a chi l’arte la vuole studiare, la vuole vedere senza essere costretto ad andare in giro per il mondo. Sono fiorite in questi anni a Napoli alcune realtà museali interessanti che hanno contribuito a colmare un vuoto, come il Museo Nitsch, la Galleria dell’Accademia, il Museo del Novecento a Castel Sant’Elmo, ma spero che il MADRE possa tornare a essere nuovamente il faro per l’approfondimento dell’arte contemporanea a Napoli con la “costruzione” di una collezione. C’è un rinnovamento in atto, in Italia, del sistema museale? No, sinceramente. Pensiamo a realtà vicinissime come il MAXXI o il MACRO: il finanziamento è pubblico, e di conseguenza i fondi e le possibilità di manovra sono limitati. Molti musei stanno sì facendo un ottimo lavoro a livello di proposta culturale, ma poi ti giri, a luglio, e scopri che il MAXXI è stato commissariato. C’è poi il problema dell’immensità del patrimonio artistico per capirci “antico”, in Italia, che necessariamente assorbe la maggior parte delle finanze pubbliche. Pertanto l’investimento nel settore contemporaneo è per forza di cose limitato. Non si può negare che in Italia l’arte contemporanea venga sottovalutata nel confronto diretto con la Storia. Ci sono ancora spazi per un giovane curatore? La figura del curatore è molto ibrida. Molto dipende dalle sue capacità, sia nella proposta che nel movimento. I musei sono realtà chiuse: sono l’obiettivo, non lo step di partenza per la carriera di un curatore. Bisognerebbe iniziare a pensare più in via indipendente. Le gallerie private lavorano sempre più autonomamente, gli spazi no profit, che all’estero sono realtà molto vivaci, in Italia sono quasi assenti. Certo, stanno nascendo delle fondazioni su tutto il territorio, Morra Greco e Morra a Napoli, o le fondazioni romane Giuliani e Nomas, anche molto vicine ai musei capitolini e principalmente al MACRO, ma parliamo sempre di un pubblico se non chiuso, certo molto ristretto. 12
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Eunomia - Louis Vuitton a pois: accusata Yayoi Kusama Silvia Colombo
Cartolina promozionale: Yayoi Kusama per Louis Vuitton © Kusama at “Dots Obsession 2011”, Watari Museum of Contemporary Art, Tokyo. Courtesy Victoria Miro Gallery, London | Ota Fine Arts, Tokyo | Yayoi Kusama Studio Inc. © Yayoi Kusama
Se vi state chiedendo cos’è accaduto alla classica collezione di Louis Vuitton, niente allarmismi, si tratta di una trovata di Marc Jacob, il noto designer del marchio francese che ha voluto la firma della giapponese Yayoi Kusama per una linea a dir poco singolare. Da qualche decennio l’arte, si sa, ha dispiegato le proprie ali, aprendosi ad ambiti differenti eppure affini. Ha compiuto plurime incursioni nel cinema, ha giocato con il design e, trasformandosi mano a mano in diva pop, non ha potuto fare a meno di guardare, ammiccante, a tutto ciò che, letteralmente, è patinato e fashion. Già negli anni trenta Salvador Dalì, in collaborazione con Elsa Schiaparelli, dà vita a uno splendido vestito da sera, 13
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morbidamente color pastello, non fosse per la presenza di un’aragosta gigante stampata sulla gonna (Woman’s Dinner Dress, 1937). Qualche tempo dopo (1964) Andy Warhol rende omaggio ai clienti più assidui della zuppa Campbell regalando, a chi ne acquista almeno cinque latte, un tubino stampato a tema, e solo l’anno dopo Piet Mondrian con Yves Saint Laurent lavora al modello “Mondrian” day dress (collezione autunno 1965). Ancora, persino il nostrano Alighiero Boetti si lascia sedurre dalla moda, restituendoci un avveniristico completo – abito e pochette – in plastica trasparente e blu, con monete da cinque lire incorporate (1967). Non è una novità se, oggi, anche il marchio Louis Vuitton è desideroso di rimanere al passo. Così Marc Jacob, in occasione dell’apertura di una grande personale dedicata alla Kusama (classe 1929) presso il Whitney Museum di New York, tenta il colpaccio e decide di chiamarla a sé, commissionandole il confezionamento di una collezione nuova e originalissima. A noi che cosa resta da dire? Ai pois dell’artista che, parrucca fiammante a portata di mano, sin dagli anni sessanta ha disseminato su tele dalle proporzioni smisurate, su corpi esposti al pubblico e all’interno di installazioni luminose i suoi Polka dots siamo ormai avvezzi. Lo stesso vale per le sue sporadiche ma ripetute esperienze di moda. Nel 1968 Yayoi allestisce un Fashion show all’interno dello studio newyorkese e, nel medesimo anno, fonda e lancia sul mercato il suo marchio di fabbrica. Ulteriori creazioni si incontrano, sorpresa delle sorprese, nei musei in giro per il mondo – non ultimi i due modelli esposti alla mostra “Reflecting Fashion” allestita la scorsa estate al MUMOK di Vienna. Ed eccoci al risultato della recente collaborazione. La linea non poteva che chiamarsi Infinitely Kusama (Infinitamente Kusama in Italia) e non poteva fare altro che impossessarsi – purtroppo in maniera forse piattamente ‘globalizzata’ – delle vetrine di tutto il mondo, urlando, pur in silenzio, il nome dell’autrice dell’operazione. Più riusciti, poiché divertenti, spensierati e sfiziosi, gli accessori e i capi decorati dai soli pois (trench in nero su nero, occhiali da 14
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Da sinistra: Andy Warhol, Souper Dress (1964) Piet Mondrian, “Mondrian” day dress – collezione di Yves Saint Laurent (autunno1965)
sole gialli, portafogli, bracciali e ballerine con tanto di fiocco rosso e bianco), risultano invece meno affascinanti e d’impatto quelli con entrambi i ‘loghi’, il dot dell’artista e il monogramma Vuitton. La scelta è decisamente vasta, non c’è alcun dubbio. Ma tutte coloro che pensano di potersi finalmente permettere un pezzo unico, collezionando in maniera accessibile un’opera dell’artista, non si facciano illusioni. In linea con gli standard della maison parigina, i costi sono piuttosto elevati: cosa scegliere, una borsa a spalla modello Papillon, in giallo e Pumpkin dots, a 1.080 euro o una serigrafia recente, quotata tra i 1000 e i 4000 euro? [ndr E attenzione alle più recenti quotazioni artistiche, leggermente lievitate rispetto agli anni passati: il lavoro Universe RYKP è stato venduto, in occasione del Frieze di Londra, a 500.000 dollari] Se non rientrate tra le precedenti opzioni, ma masticate un po’ di tecnologia c’è un’alternativa: potete scaricare, direttamente dal sito 15
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della casa di moda, una app gratuita per iPhone, Louis Vuitton Kusama Studio. Come si legge dall’introduzione: “Creata come tributo all’artista, questa applicazione è un modo completamente nuovo di guardare il mondo attraverso gli occhi di Kusama”. Scatta, applica all’immagine un filtro luminoso o a pois. In totale libertà creativa, certo. Click. Yayoi Kusama Louis Vuitton www.louisvuittonkusama.com
Vetrina del punto vendita di Milano, Galleria Vittorio Emanuele, ottobre 2012. Credits: Silvia Colombo 16
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“Fiato d’artista” - Questione di superfici. L’omaggio di Savona a Capogrossi Sonia Cosco
Foulard, 1954, cm 84,5 x 84,5, Edizione della Galleria del Cavallino, Venezia, Collezione Milena Milani
Superficie 209, Superficie 635, Superficie G 127. Giuseppe Capogrossi e le superfici. Immagino di non sapere nulla dell’artista romano (1900-1972), è un sabato pomeriggio a Savona, la Pinacoteca Civica di Piazza Chabrol è aperta e scopro che è in corso una mostra che s’intitola Nel segno di Capogrossi. Un allestimento semplice, poche, ma significative, le opere: oli su tela, acquerelli, litografie, foulard, terracotte, quasi tutti provenienti dalla Fondazione Milena Milani in memoria di Carlo Cardazzo. 17
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Non sono e non voglio essere un critico d’arte, semplicemente mi appago dell’esperienza visiva in cui mi sono imbattuta e scattano con immediatezza le associazioni mentali. Innanzitutto le didascalie con quei titoli enigmatici: “superficie”, una parola che mi rimanda alla matematica, a una forma geometrica senza spessore,
Giuseppe Capogrossi, Piatto, 1957, terracotta decorata sottovernice, diam. cm 40 (particolare) 18
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piatta o curva, limitata, illimitata, chiusa, aperta. Dai titoli passo al contenuto delle opere. Cosa sono quei di-segni? Forchette? Pettini? Tridenti? Mi sfiora un pensiero provocatorio che condivido solo con voi lettori di Nèura: quei di-segni per me (non storcete il naso!) sono gli antenati degli alieni di un videogioco arcade del 1978 chiamato Space Invaders che, sono certa, i nati tra gli anni settanta e ottanta, ricorderanno. Superfici. Spazio. Spazialismo. Non è un caso che Giuseppe Capogrossi abbia aderito al movimento ideato da Lucio Fontana. Non è un caso che le sue opere (post ’49) mi riportino indietro in un tempo ancestrale e contemporaneamente nell’universo di alieni stilizzati per PC MS-DOS. Preistoria futuristica. Pitture rupestri e glossario informatico. Segno che si ripete ossessivamente come sequenze all’interno di una catena DNA. È come se Capogrossi parlasse un linguaggio scientifico e lo rendesse visivamente con la sua arte, nella misura in cui, tutto ciò che riguarda la vita, è ritmo di elementi che si ripetono, si incastrano, catena di montaggio, catena di smontaggio. Lavori non necessariamente sensati, lavori non necessariamente solo decorativi (la principale accusa dei detrattori di Caprogrossi). La mostra presso la Pinacoteca Civica di Savona realizzata dalla Fondazione Museo di Arte Contemporanea Milena Milani in memoria di Carlo Cardazzo, a cura di Simona Poggi e Milena Milani, con la collaborazione del Servizio Musei del Comune di Savona e dell’Associazione Culturale Arte DOC, è un omaggio all’artista romano che ha dato vita a un alfabeto che — può piacere o non piacere — di certo è oscuro. Segno come simbolo, come indice o come icona? Si chiederebbe il filosofo Charles Peirce. Deviando in ambito pubblicitario, potremmo dire che Capogrossi ha creato un logo, sicuramente una cifra identificativa della sua arte, che non era sin dall’inizio così criptica. Capogrossi passa dal figurativo all’astrazione e al concettuale dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un gesto coraggioso. Non gli importa di perdere clienti, non gli importa dello scetticismo dei critici italiani, va avanti e i riconoscimenti non tardano ad arrivare dall’estero, a partire dalla Parigi e la sua notorietà varca i confini nazionali partecipando, unico tra gli italiani, alla mostra Véhémences 19
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Giuseppe Capogrossi, Superficie, Arazzo cm 74 x 200, Collezione Fondazione A. De Mari, Savona (particolare)
Confrontées del 1951. In patria, a parte poche menti illuminate come il gallerista-mecenate Carlo Cardazzo, intorno a lui si fa il vuoto e ci vorrà del tempo per riconoscerne il valore. «La personale di Savona sta raccogliendo consensi sia dal pubblico che dalla critica» commenta la curatrice Simona Poggi «è un approfondimento dei rapporti di Capogrossi con il gallerista-mecenate Carlo Cardazzo e con la scrittrice Milena Milani in ambito ligure. Nell’esposizione si possono vedere diverse tele, alcune delle quali inedite, un tavolo e alcuni piatti in ceramica e svariati foulard a tiratura limitata dell’Edizione del Cavallino Venezia». L’iniziativa si accompagna con un catalogo con i contributi critici di Riccardo Barletta, Milena Milani, Simona Poggi, Lorenza Rossi, Roberto Giannotti, si avvale del contributo della Fondazione “A. De Mari”. «Giuseppe ha avuto un forte legame con il nostro territorio e ha lasciato una traccia indelebile del suo operato. Ne sono testimonianze il mosaico per la Passeggiata degli Artisti di Albissola Marina, Superficie 30 e la tela Superficie 512 realizzata presso l’Ostello 20
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della Gioventù di Albissola Marina che si trova al Solomon Guggenheim di New York». Alla mostra manca però all’appello l’opera forse più significativa della Fondazione savonese: Superficie 209 (del 1957), in quanto richiesta dalla Fondazione Peggy Guggenheim per l’antologica Capogrossi. Una retrospettiva a cura di Luca Massimo Barbero. Per vederla bisogna quindi andare a Venezia, e avete tempo fino al 13 febbraio 2013. Nel segno di Capogrossi Sale Mostre temporanee della Pinacoteca Civica, Palazzo Gavotti 15 settembre - 28 ottobre 2012, ingresso gratuito lun. mar. mer., 9.30-13 gio. ven. sab., 9.30-13 / 15,30-18,30 dom., 10-13 www.comune.savona.it
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“Fiato d’artista” - Sara Valentina. La colorata leggerezza del vetro design Anna Castellari
La scenografia del Minotauro di Sara Valentina, con l’attrice e regista Viviana Piccolo e la ballerina Diana Palù (coreografia di Ceclia Faotto)
Non è facile entrare in un ambito come il design mescolandolo all’artigianato antico e tradizionale, come la lavorazione del vetro di Murano. Ma Sara Valentina, erede della storica azienda cordenonese Il Vetraio, ce l’ha fatta. Noi l’abbiamo scoperta a uno spettacolo di teatro contemporaneo, Il Minotauro. Le collezioni che presenta Sara Valentina, responsabile anche dell’ufficio stile e marketing dell’azienda di famiglia Il Vetraio, sono diverse e tutte con una personalità particolarissima. Ognuna ha uno stile ben definito, ma tutte hanno in comune la leggerezza e la ricerca del bello. Noi Sara l’abbiamo incontrata a Pordenone, alla prima di uno spettacolo teatrale contemporaneo che si è tenuto all’ex convento 23
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di San Francesco. Si tratta dell’adattamento teatrale del Minotauro di Dürrenmatt, su cui ha lavorato Viviana Piccolo, attrice e regista formatasi tra Padova e Bologna, che in passato aveva già portato in scena Fando y Lis di Arrabal, il quale l’aveva notata e le aveva scritto un monologo ad hoc. Questa volta, la Piccolo è tornata nella sua terra d’origine e ha scelto di mettere in scena il romanzo di Dürrenmatt, pubblicato Marcos y Marcos, con una ballerina di danza che impersonasse il Minotauro protagonista, attraverso inattese e leggiadre coreografie e, appunto, con Sara Valentina come scenografa. «L’idea iniziale» ci spiega l’artista del vetro, subito dopo la prima, il 5 ottobre «era quella di creare un vero e proprio labirinto fatto di vetri e specchi, che conducesse attraverso i suoi meandri nel bel mezzo della stanza in cui si teneva lo spettacolo, partendo dal chiostro. Ma per motivi di sicurezza, questo non è stato possibile, e ci siamo dovute accontentare di un percorso di specchi che portasse in una sola “galleria”, non un vero labirinto». Se il Minotauro dürrenmattiano confonde la propria immagine con il labirinto di specchi creato in questa occasione da Sara Valentina, anche il pubblico (se la scenografia avesse potuto essere quella che inizialmente era stata pensata) si sarebbe visto riflesso mille volte allo specchio. E sarebbe entrato – ancora di più – nella prospettiva del Minotauro, che in questo romanzo è piuttosto una vittima che un carnefice. La leggerezza delle opere di Sara Valentina è un’ottima alleata nel contesto teatrale pensato da Viviana Piccolo, proprio grazie alla versatilità della vetraia. Pur rimanendo ancorata a uno stile riconoscibile, le opere sullo sfondo dello spettacolo riescono a comunicare al pubblico il senso di spaesamento del protagonista. Le trasparenze e le decorazioni rimangono tuttavia molto riconoscibili in questo lavoro, come si può notare confrontandolo con le opere che Sara vende al pubblico. Sul suo sito web, infatti, ritroviamo molti tratti caratteristici, ricorrenti anche nella pièce. Ad esempio, le decorazioni geometriche con semplici motivi — la luna e le stelle, la spirale — sono riprodotti sul vetro di un pannello del labirinto, ma anche in molte altre creazioni dell’artista. E la spirale è anche motivo utilizzato come simbolo del labirinto. Non solo: vi sono complementi d’arredo che l’artista crea, e che 24
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Rosanna La Spesa, Luna d’acqua
Viviana Piccolo (in bianco) a fianco alla ballerina Diana Palù durante un momento dello spettacolo Il Minotauro con la scenografia di Sara Valentina (coreografia di Ceclia Faotto) 25
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La scenografia del Minotauro di Sara Valentina, con l’attrice e regista Viviana Piccolo e la ballerina Diana Palù (coreografia di Ceclia Faotto)
qui sono riproposti in doppia valenza: sia come scenografia, sia per il suono tintinnante che producono. Si tratta di alcuni fili sospesi dall’alto, attraverso i quali sono infilati — uno dietro l’altro — alcuni pezzi tondi in vetro trasparente e colorato. Le idee di Sara Valentina sanno di antico e di design contemporaneo al tempo stesso. Nella mente di chi ha visto Il Minotauro esse sono anche una scenografia che si esprime da sola. Di certo, sono leggere e dense di colori brillanti. Per informazioni: www.saravalentina.it | www.ilvetraio.it
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Nèurastenie - #I cinque sensi Sonia Cosco Cinque Nèurastenie per i cinque sensi. Perché l’arte non si vede soltanto, ma si tocca, si gusta, si sente, si ascolta.
#Vista La nobile arte di Valentina Beotti e Claudia Pajewski è una performance/installazione fotografica di 30’ collocata all’interno del Festival Internazionale Gender Bender che si svolgerà nella prossima settimana a Bologna. Un’indagine non oggettiva sulla violenza dell’amore. “Di quanta capacità vitale ho bisogno per contenerti? Quanta capacità vitale ho quando mi accorgo che non ci sei? Quanta capacità vitale ho quando ricordo come era averti vicino?”. Un innesto di generi, un ibrido tra performing art e fotografia. I due canali espressivi si sviluppano su binari paralleli attraverso l’immagine evocativa della boxe, sezionandola in tre match: la ricerca, l’incontro e la perdita. Se dal punto di vista performativo il nucleo approfondito è il sentimento amoroso, la parte fotografica si concentra sul tema dell’identità. Amore e identità sono qui intesi come parti di un unicum, in cui il perdersi nell’altro diventa al contempo epifania identitaria. Il sé dischiude i suoi confini precostituiti per scoprirsi parte del tutto e contenitore di tutte le infinite possibilità dell’essere. Da vedere. Dove e quando Bologna, Festival Internazionale Gender Bender 27 ottobre 2012
Info e contatti Orari. h 23 Ingresso. gratuito sito web. www.genderbender.it 27
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#Udito Un Giardino Sonoro come opera d’arte, ecco il progetto di Simone Conforti e Lorenzo Brusci per la Biennale Architettura di Venezia, realizzato da un’equipe di architetti, designer, ingegneri del suono, da poter ammirare e ascoltare fino al 25 novembre 2012. Sensori che captano le frequenze dell’ambiente per creare nuovi paesaggi sonori e vivere nuove esperienze acustiche. Il basalto, la ceramica, la terracotta, il marmo sono materiali che riproducono il suono per sentirsi vivere all’interno di un ambiente in cui natura e architettura convivono in armonia. Un suono ecologico contro l’inquinamento acustico che viene diffuso da altoparlanti che assumono diverse forme – campane, sfere, gocce, chiocciole, delfini – in modo da poter essere appoggiati a terra o pendere dagli alberi, ma anche appesi a un soffitto o a una parete. Saranno queste particolari sculture a ricreare l’area del Giardino delle Vergini all’Arsenale per tutto il periodo del Festival. Dove e quando Venezia, Giardino delle Vergini Arsenale, Biennale Fino al 25 novembre 2012
Info e contatti Sito web www.labiennale.org/it/mediacenter/ video/giardino-sonoro.html
#Olfatto Spostiamoci dall’Italia e andiamo a New York per conoscere i segreti che si nascondono nella profumeria artistica con la mostra The 28
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Art of Scent, 1889-2012, firmata Chandler Burr. Dal 2010 la grande mela ospita un museo dedicato al profumo, il Center of Olfactory Art presso il Museum of Arts and Design di New York. Il progetto nasce da un’idea di Chandler Burr, perfume critic per il New York Times. Fino al 27 gennaio 2013 sarà possibile esplorare il design e l’estetica dell’arte olfattiva attraverso 12 fragranze cardine degli ultimi 123 anni tra le quali: Chanel N ° 5 by Ernest Beaux, Jicky by Aimé Guerlain, Aromatics Elixir by Bernard Chant, Angel by Olivier Cresp, Pleasures by Annie Buzantian e Alberto Morillas, Untitled by Daniela Andrier, Drakkar Noir by Pierre Wargnye, L’Eau d’Issey by Jacques Cavallier, cK One by Alberto Morillas e Harry Frémont, Prada by Carlos Benaim e Clément Gavarry. Dove e quando New York, Museum of Arts and Design 13 novembre 2012 - 27 gennaio 2013
Info e contatti sito web. www.madmuseum.org
# Gusto All’interno della mostra Food Design - Capolavori da mangiare verranno presentate creazioni di food art design, cibo creativo come le asce di torta di Natascia Fenoglio o i piatti volanti a motivi astratti e futuribili di Roberta Mitrovich, i mobili da masticare di Rui Pereira & Ryosuke Fukusada e le verdure di Valerio Guadagno e poi ancora pranzi d’autore con tovaglie d’ombre di Ludovico Sartor, merende con i portafrutta di Gimena Fernandez e set ispirati a Le Corbusier di Nomadesign-Office. Non mancheranno le bottiglie di prosecco Conte Loredan Gasparini con etichette d’arte e poesia edite da Nicola D’Angelo. Dove e quando Vicenza, Casa del Palladio 30 settembre - 18 novembre 2012
Info e contatti sito web. www.comune.vicenza.it 29
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#Tatto Vietato non toccare. Presso la Nuova Galleria Tretyakov di Mosca saranno esposte sculture per non vedenti e ipovedenti create apposta per la percezione tattile. Si tratta di venticinque opere scolpite in bronzo, legno o pietra dall’artista Aleksandr Smirnov-Panfilov. Enormi, stralunate, esagerate nelle forme e nelle proporzioni, le sculture dell’artista sono fatte apposta per essere toccare ed esplorate dalle mani e hanno commenti in braille. La mostra è frutto di un’idea dello studio tedesco Franke Design Studio Steinert, che progetta regolarmente spazi espositivi dedicati ai non vedenti per i musei di Berlino rientra nella politica del museo di consentire l’accesso all’arte a tutte le persone con disabilità. Un’esperienza per non vedenti, ma anche per chi vuole prendere familiarità con l’arte in modo alternativo, attraverso un senso diverso dalla vista. Dove e quando Mosca, Nuova Galleria Tretyakov Fino al 30 novembre 2012
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Info e contatti www.tretyakovgallery.ru/en
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