NèuraMagazine #3

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Nèura Magazine Non È Una Rivista d’Arte

Numero 3 18 ottobre 2012

Modi di abitare Eunomia Ugo La Pietra racconta Milano I musei Vasarely tra Francia e Ungheria

“Fiato d’artista” Picasso a Milano I vetri di Savona

Nèurastenie Gli appuntamenti della settimana 18-24/10

Pablo Picasso, Nu couché, 4 avril 1932. Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palazzo Reale in Milan from September 2012 to January 2013. © Succession Picasso by SIAE 2012 Pablo Picasso

Logo ©Cristiano Baricelli


Logo in copertina e a pagina 3: ŠCristiano Baricelli, Ictus, 2005


Indice - Numero 3

Eunomia - Ugo La Pietra: Abitare la città, raccontare Milano

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“Fiato d’artista” - Picasso, un eroe per tutte le stagioni

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Eunomia - I due volti di Victor Vasarely: Aix-enProvence e Budapest

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“Fiato d’artista” - Vetri d’artista. Non solo Murano

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Nèurastenie - Maestri

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Nèura Magazine - 18 ottobre 2012

Eunomia - Ugo La Pietra: Abitare la città, raccontare Milano Anna Castellari

Artefatti cinesi. Credits: Ugo La Pietra

Abbiamo incontrato Ugo La Pietra nel suo studio vicino a via Sarpi, a Milano. Tra i mille oggetti delle sue ricerche sulla città, un tavolo colmo di opere e una lezione d’arte contemporanea, l’artista ci racconta Milano (e le città d’Italia) secondo lui. La mostra raccoglie un po’ tutti i suoi lavori riguardanti la città, dagli anni sessanta a oggi. Ce ne può parlare? La mostra raccoglie una serie di lavori dagli sessanta a oggi, riferiti 5


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esclusivamente alla città di Milano (intesa come collocazione). Non si sofferma su tutti i miei lavori, solo su alcune esemplificazioni. Questo perché, quando faccio ricerche su certi soggetti legati all’ambiente urbano, opero una ricognizione su un argomento particolare, su un territorio preciso, e produco una serie di lavori, trenta, quaranta, cinquanta... sufficienti per farne ogni volta una mostra. Nel momento in cui espongo alcune ricerche, è chiaro che si tratta di un’esemplificazione molto ridotta: ad esempio, su sessanta opere ne porto due o tre, introspettive. Rispetto all’artista tradizionale o non tradizionale, il mio lavoro parte da alcuni temi, e trova poi materiali e strumenti per raccontarli o indagarli. Ecco perché gran parte del mio lavoro è fatto di cose diverse: molti mi considerano un filmmaker, altri uno che ha lavorato con la fotografia, molti conoscono la mia pittura segnica, altri i lavori oggettuali. Non ho mai utilizzato un solo linguaggio, un solo mezzo espressivo. Questa mostra esemplifica in maniera coerente le esperienze di ricerca sul territorio attraverso la documentazione e l’elaborazione (sono tutte elaborazioni fotografiche). La sua è una ricerca propositiva o puramente introspettiva? Le mie ricerche hanno sempre un carattere di denuncia, analisi critica, decodificazione. Già negli anni sessanta avevo teorizzato una modalità personale di estrinsecare questo lavoro, il cosiddetto sistema disequilibrante: si tratta di rompere l’equilibrio di persone, di cittadini che guardano la realtà in un modo codificato, e sono quindi incapaci di leggere oltre le forme imposte, che dovrebbero invece essere superate e trasgredite. Il mio lavoro può diventare una denuncia, o una semplice lettura di elementi più profondi, non facilmente leggibili. Quali sono gli elementi principali che vuole che il pubblico colga dalla mostra? Non un’opera ma una quindicina di temi che ho sviluppato, dal sessanta a oggi, guardando la città di Milano e osservandone alcuni aspetti caratteristici: a quell’epoca la periferia si trasformava e c’era bisogno di recuperare la manualità. È una delle necessità cui facevo 6


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cenno prima e che – ancora oggi – considero un fenomeno della nostra società, che cerca sempre di superare la dimensione della virtualità, per entrare in quella fattuale (vedi tutte le correnti di design che vogliono recuperare l’artigianato). Il monumentalismo è un altro tema che Milano ha coltivato, attraverso i grattacieli: e qui sono praticamente inutili, perché nascono dalla necessità di collocare più gente possibile in uno spazio limitato. Infatti, sono rimasti mezzi vuoti. Si tratta di operazioni di speculazione edilizia e non di reali necessità di carattere sociale. Denunciare queste operazioni è uno degli scopi che la mostra si prefigge. Come è cambiata la città di Milano nel corso di questi anni? Uno dei cambiamenti più radicali che si è sviluppato negli ultimi vent’anni è la composizione della città, in termini di formazione di ghetti o ‘quasi ghetti’. Per esempio, il quartiere Sarpi contiene trentamila abitanti cinesi. Penso a New York, dove si è creata una situazione molto critica. Da sempre, due elementi diversi, se accostati, hanno un punto di contatto, così tra due gruppi sociali, o segni diversi: bene, quel punto rappresenta la rottura, il momento critico. La soluzione migliore, quindi, sarebbe non creare mai situazioni estreme.

Milano città senza morale. Credits: Ugo La Pietra 7


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L’altro punto critico – la parte peggiore, soprattutto a Milano – è che un pezzo della città si è progressivamente trasformato in un porto, un deposito di container provenienti dalla Cina, si è sviluppato un traffico di carico e scarico sproporzionato e anomalo. Tutto ciò è una follia, è una delle più grosse forme di devastazione del tessuto urbano. E non finisce qui. Ricordiamo anche che ogni anno, a Milano, c’è una grande kermesse, dove si condensa un alto tasso di qualità creativa e di design: il Salone del Mobile e il Fuorisalone. Finito tutto, dopo quattro giorni di feste e bagarre, come nei paesi della tradizione, le giostre e le luminarie si smontano, e si ritorna come prima, senza vantaggi aggiunti. La città, certamente, è diventata negli anni un centro internazionale di confronto, ma ha perso il primato della vendita. Il Salone è oggi un luogo di scambi, di confronti, dove s’incontra il meglio delle genialità del design mondiale. Eppure, nonostante questo, la città è una delle più miserande e povere al mondo quanto ad ambiente e arredo urbano. Ci troviamo in una realtà radiocentrica: tutte le piazze o, più in generale, gli spazi aperti, sono mostruosi incroci di strade. Non ci è dato di conoscere il valore della piazza, tranne quella del Duomo che però è sovradimensionata, rispetto alle altre italiane. Soffriamo a causa di una struttura così diversa e non abbiamo una città che guarda alle necessità e ai comportamenti dell’individuo. E il consumo è esagerato: tutto ciò che si deve ‘fare’, costa, e quel tanto di comfort non è garantito: per esempio non si può riposare, non ci sono panchine, se non nei parchi. Milano è una città poverissima per quanto concerne i servizi alla cittadinanza. Tornando al Salone, mi è venuto in mente che forse c’è una totale mancanza di dialogo tra una manifestazione così e la cittadinanza di Milano. È vero, ma solo in parte. La città ne approfitta: il dialogo c’è se il Comune deve concedere spazi a pagamento. Va benissimo, e questi non bastano mai, come per la moda. Basta pagare, e il Comune è contento. Piazza Duomo era piena di padiglioni, come una fiera, purché si paghi. 8


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Parlavo proprio del dialogo con il pubblico, che è completamente venuto a mancare... è tutta colpa dei cittadini o è una mancanza di manifestazioni come questa? Il dialogo con le amministrazioni esiste in quanto sfruttamento reciproco. Ma i cittadini sono abituati a vedere Milano come un luogo che non dà niente, è un’abitudine ormai consolidata. Nessuno si aspetta di vedere il lungo naviglio come luogo di piacere, riposo, godimento – come a Parigi sul lungo Senna. Spesso, nelle città che si affacciano su fiumi e canali (come Tolosa) c’è un minimo di godimento. La natura viene in qualche modo organizzata; è presente un’attenzione per il paesaggio che Milano non ha mai avuto. Come dicevo, le piazze non ci sono anche per una questione strutturale, non c’è un fiume ma avevamo i canali, esistono elementi naturali che possono contribuire a un incremento del benessere, ma sono quasi scomparsi.

Milano, orti urbani, 1969. Credits: Ugo La Pietra 9


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In alternativa si potrebbe lavorare sull’artificio, come fanno a Rimini, dove il mare è inesistente e si punta sul divertimento. Mi stupisco anche per questo: tutto questo ingegno milanese, i designer e gli architetti non hanno prodotto niente. In questo senso, non c’è dialogo tra amministrazione, creatività, qualità e ingegno: c’è sempre stato, ma non si è mai espresso. Dal punto di vista espositivo come vede i cambiamenti nella città? C’è una cosa leggibilissima. Il degrado è enorme: di mostre se ne vedono tante, fin troppe. Ma cosa non vedi mai? Una mostra di progetto. Cioè, si ha la possibilità di visitare esposizioni con opere che arrivano da lontano, ad esempio di grandi artisti come Van Gogh, Picasso, ma sono sempre ‘chiuse’ in se stesse. Certo, in alternativa ci sono autori nostrani. Ma sono sempre più rare le mostre che si soffermano su un tema contemporaneo, come l’indagine o l’esplorazione delle periferie, della vita e del tempo libero, esplorativo. Oggi, riuscire a fare programmi concreti sul lungo termine sembra sempre più complesso: per questioni politiche, commissariamenti, ma anche finanziamenti ridotti all’osso. Nei musei stranieri, quando si fa una mostra di ricerca, si lavora a lungo. Qui invece funziona in modo un po’ diverso: si telefona a un po’ di galleristi, si mette tutto insieme, e si parte, con un budget molto basso. Che poi questo sia solo una scusa per non affrontare una mostra come si deve è un altro discorso.

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“Fiato d’artista” - Picasso, un eroe per tutte le stagioni Roberto Rizzente

Pablo Picasso, Massacre en Corée, 18 gennaio 1951. Olio su compensato, cm 110

x 210.Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palazzo Reale in Milan from September 2012 to January 2013 © Succession Picasso by SIAE 2012

Se n’è parlato per mesi. Le vie della città sono state prematuramente tappezzate di manifesti. Politici e assessori hanno fatto a gara per tessere le lodi di questa mostra grandiosa, la terza a Milano dedicata a Pablo Picasso (1881-1973), dopo quelle del 1953 e del 2001, attirando a sé e alla propria amministrazione i meriti dell’operazione. Logico presumere, dinanzi a tanta sicumera e considerando il nome di Picasso — c’è una società, la Picasso Administration, deputata alla tutela e lo sfruttamento dei diritti d’immagine — una qualche gabola. Come talvolta accade, a Palazzo Reale: si ricordino solo, nel 2004 e 2010, le mostre su Van Dyck e Cattelan. E come insegnano i casi di Linea d’ombra a Brescia o Torino: mostre grandiose, un battage pubblicitario imponente, numeri impressionanti 11


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al botteghino. Ma povere dal punto di vista dell’allestimento e dell’innovazione. Tanto da far pensare a un’intelligente e sgamatissima operazione di marketing, più che ad un’operazione culturale storicamente fondata. Nonostante le premesse, “Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi” (fino al 6 gennaio) ha una sua ragione di essere. Merito principale dell’operazione è quello di aver fatto conoscere in Italia la collezione del Museo Picasso di Parigi. Dal 2008, anno del restauro dell’Hotel Salé, il Museo ha avviato una tournée mondiale (Europa, Medio Oriente, Giappone, Russia, Stati Uniti, Australia, Cina, Taiwan, Canada), nella quale Milano è stata lesta a infilarsi. Sono 250 le opere, alcune delle quali inedite in Italia, distribuite al piano nobile su una superficie di oltre 2.000 metri quadri. L’allestimento di Anne Baldassari segue il percorso cronologico impresso da Picasso, che nella sua convulsa vicenda biografica ha attraversato più strade, sempre esaurendo le vecchie e aprendone di nuove. Si comincia con una ricostruzione virtuale di Guernica, significativamente collocata, come nel 1953, nella Sala delle Cariatidi. Al centro, una serie di pannelli per ricostruirne l’evoluzione, la ricerca sulle fonti, gli studi cromatici, le tematiche e un’intelligente documentazione fotografia sull’uomo Picasso, attraverso lo sguardo, tra gli altri, di Dora Maar, Doisneau e Robert Capa. Si prosegue con le opere giovanili: La morte di Casagemas, 1901, anteriore all’arrivo a Parigi. E poi La Célestine (1904), Le Fou (1905), opere chiave del periodo blu e poi del periodo rosa, notevoli per l’insofferenza alle forme precostituite e la predilezione per la monocromia. Troppo ridotta la sezione cubista, a lungo preparata (Tre figure sotto un albero, 1908), e poi rilanciata dalla Testa di donna (Fernanda) del 1909 e il dittico Uomo con chitarra e Uomo con mandolino del 1911. Fino alle sperimentazioni tridimensionali dei primi collages, le composizioni (la Chitarra del 1912) e le constructions (Chitarra e bottiglia di Bass, 1912). Né mancano le opere degli anni Venti, segnate da un generico ritorno all’ordine e l’amore per il classico, Ingres e gli impressionisti (Ritratto di Olga in poltrona, 1917, Due donne che corrono sulla spiaggia, 1922, Paulo nei panni di Arlecchino, 1924). O la produzione surrealista, che impone un certo dinamismo alla tela, sostituendo 12


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Pablo Picasso, La Célestine (La Femme à la Taie). Marzo 1904. Olio su tela, cm 74,5 x 58,5. Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palazzo Reale in Milan from September 2012 to January 2013.© Succession Picasso by SIAE 2012

la linea curva alla rigida griglia d’impronta cubista. Come nelle “Teste di Boisgeloup”, dedicate alla modella Marie Thérèse e notevoli per la sperimentazione formale che arriverà a livelli attualissimi, neodada, nella Testa di donna del 1929-1930, in ferro, molle, lamiera e scolapasta. Ma il vero clou della mostra sono le creazioni dei tardi anni Trenta e Quaranta (La donna che piange, 1937, Gatto che divora un uccello, 1939, Massacro in Corea, 1951). L’esperienza della guerra suggerisce a Picasso nuovi colori, nuove forme, più drammatiche, e un’idea nuova dell’arte, pubblica, civile, democratica. Sarà una lezione importante, che tornerà negli anni Cinquanta e Sessanta, segnati da una cospicua 13


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produzione in ceramica, accanto alla rivisitazione, in un certo senso postmodernista dei capolavori del passato (La colazione sull’erba, 1960, Les Meniñas, 1958). Dispiace, tuttavia, constatare come molto spesso questo percorso rischi di diventare blandamente illustrativo. Mancano le connessioni interne, una prospettiva critica nuova, una scansione tematica capace di rivelare l’intrinseca unità del corpus picassiano. Ma, cosa più grave, mancano i contesti. Le opere non vengono adeguatamente storicizzate, a confronto con i contemporanei, le tradizioni e anche le correnti a venire. Le fonti sono tralasciate, l’eredità del Maestro ignorata, facendo perdere di vista uno dei lati fondamentali di questa produzione, profondamente radicata nel Novecento. Così, nel caso del cubismo, manca ogni riferimento a Braque, che del movimento è stato l’inventore, accanto a Picasso. Nell’esposizione dedicata a Guernica non viene approfondito l’enorme impatto che quest’opera ebbe sull’arte europea, persino sull’informale (si vedano i grumi, drammatici, di linee, spesso liberati dai profili delle campiture). La fondamentale mostra del 1953 è ricostruita – con grande dispiego di mezzi, documenti, lettere persino – nella sua genesi, ma senza un’adeguata riflessione sull’influsso che quella mostra ebbe presso i giovani artisti del Jamaica a Milano. Morale, la grande mostra di Palazzo Reale è sì importante. Con il suo ampio dispiegamento di tele e sculture, segna un percorso necessario per avvicinare i giovani a Picasso. Perché questo si traduca in un’opportunità per la storia dell’arte, oltre che per le casse della Picasso Administration, è necessario tuttavia uno sforzo in più. Meno (auto)celebrativo e più critico. Come nel 1953. Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale di Parigi www.mostrapicasso.it Milano, Palazzo Reale 20 settembre 2012 – 6 gennaio 2013 Orari: lunedì, martedì, mercoledì 8.30-19.30 giovedì, venerdì, sabato, domenica 9.30-23.30 Ingresso: 9 euro intero | 7.50 euro ridotto 14


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Eunomia - I due volti di Victor Vasarely: Aix-en-Provence e Budapest Silvia Colombo

Fondation Vasarely, Aix-en-Provence. Credits: Silvia Colombo

Per conoscere la produzione di Victor Vasarely, esponente dell’optical art, basta seguirne le tracce biografiche, in Ungheria – dove è nato – e in Francia, patria adottiva. In questi Paesi sorgono due centri d’arte dedicati al maestro, differenti per natura e identità, a partire dall’accento sul nome. Vasarély o Vasarelý? Si può anche fare a meno di scegliere. Capita, talvolta, che un artista sia ‘manager’ di se stesso e si preoccupi del destino della sua opera post mortem, di che cosa ne sarà del lavoro da lasciare ai posteri. Già, ma quali posteri? C’è chi, lungimirante e accorto, ha deciso di costruire da sé il proprio futuro, investendo risorse e scegliendo il luogo migliore per fondare un monumento artistico di imperitura memoria. Tra gli esempi più celebri la Fondació Dalí a Figueres, il Musée Tinguely di Basilea, la cui donazione risale alla vedova Niki De Saint Phalle e – in Italia – il Museo Marino Marini, a Firenze e Milano (prima alla GAM, oggi al Museo del 900). 15


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Vasarely (1906-1997) rientra in questo medesimo contesto. Nato a Pécs all’inizio del XX secolo, segue la vocazione artistica, dopo alcuni tentativi universitari fallimentari sollecitati dalla famiglia, e completa la sua formazione alla scuola di Műhely, votata a un insegnamento interdisciplinare. All’inizio degli anni trenta si trasferisce a Parigi, dove lavora come grafico pubblicitario, interessandosi, contestualmente, allo studio dell’ottica e alla composizione di opere fondate sull’equilibrio forma/colore. Il linguaggio, altrimenti conosciuto come Op Art, si sistematizza negli anni cinquanta ed è la ricerca che il maestro perseguirà per

Fondation Vasarely, Aix-en-Provence. Credits: Silvia Colombo 16


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Vasarely Museum, Budapest. Credits: Silvia Colombo

tutta la vita. Le opere, scientificamente corrette e otticamente ingannevoli, sono – secondo quello stesso principio di commistione tra le arti che aveva predominato all’interno della sua educazione – tele, ma anche sculture tridimensionali e fibre tessili. Dunque se, con gli anni, il problema si focalizza sul come e il dove conservare una produzione così vasta, Vasarely risponde con alcuni progetti espositivi permanenti: nel 1970 apre il Musée didactique di Gordes (poi chiuso e smantellato nel 1996) e, solo sei anni dopo, la Fondation Vasarely di Aix-en-Provence. La struttura, visibile poiché situata su una collina della periferia verdeggiante di Aix, rappresenta una compenetrazione simbiotica tra arte e natura ed è riflesso del lavoro di Victor: un edificio composto da corpi cubici aggregati gli uni agli altri, in lastre di alluminio e vetro, coronato da decorazione geometrica. Nel prato circostante, compare – disseminata – qualche scultura (in stato di conservazione non propriamente impeccabile), a partire dall’imponente ‘V’, sigla che introduce il suo nome. La fondazione, con sede unica oggi in Provenza, è diretta dal figlio Pierre Vasarely ed è attiva anche grazie al mecenatismo di privati che contribuiscono alla sua programmazione culturale. Essa nasce come centro architettonico e si radica nel territorio francese, divenendo 17


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Un’immagine di una mostra temporanea al Vasarely Museum di Budapest. Credits: Silvia Colombo

l’esemplificazione di tanto desiderati scambi tra architettura, progettazione, arte e interazione sociale. Oltre all’esposizione di una collezione permanente, quarantaquattro lavori di grandi dimensioni firmati Victor Vasarely, la Fondation ospita mostre temporanee 18


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di autori che proseguono il medesimo indirizzo interdisciplinare di colui che, tempo prima, aveva interpretato l’arte in questo modo. A un decennio di distanza dall’apertura del centro di Aix, Vasarely va oltre, e pensa a un museo preposto alla conservazione dei suoi lavori ubicato nella terra natia, e più precisamente a Budapest. Detto, fatto, il Vasarely Museum (Vasarely Mùzeuma) inaugura nel 1987. Di natura differente dalla versione francese, la sede ungherese è di carattere pubblico e di impatto visivo modesto, pressoché inesistente. L’edificio si incontra quasi per caso, nel cuore di Obuda (la vecchia Buda) ed è una struttura anonima, mal segnalata, con un ingresso all’interno di un cortile alberato, facilmente confondibile con il bookshop. Tuttavia, se si è interessati alla produzione dell’artista, vale la pena varcarne la soglia. Certamente, non tanto per l’allestimento o la distribuzione spaziale degli interni (che pure sono sufficienti a ospitare tutti i servizi, sale adibite a laboratori didattici comprese) quanto per la collezione – una vasta panoramica dell’opera del maestro, dagli esordi in seno alla grafica sino alla produzione optical più ardita. Non manca proprio nulla: costruzioni tridimensionali in plexiglas, sculture totemiche, opere op specchianti e un tappeto di dimensioni notevoli. Il tutto nello stile colorato, geometrico e impeccabile di Vasarely. Non solo: come nel caso francese, anche a Budapest il museo ospita, parallelamente, esposizioni temporanee molto interessanti. Al momento è allestita la collettiva Paris-Vienna-Budapest transfer, dedicata al lavoro del gruppo Magyar Műhely, fondato a Parigi nel 1962. Unica pecca, una volta rimasti ammaliati dalle collezioni e desiderosi di saperne di più in materia di arte nazionale, sono i cataloghi, per la maggior parte pubblicati in ungherese. Senza traduzione a fronte, of course. Fondation Vasarely www.fondationvasarely.fr Aix-en-Provence Orari: martedì-domenica 10-13 e 14-18 Ingresso: 9 euro intero | 6 euro ridotto | 4 euro bambini (fino ai 6 anni) 19


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Vasarely Museum www.vasarely.hu Budapest Orari: martedĂŹ domenica 10-17.30 Ingresso: 3 euro intero| 1.50 euro ridotto [permesso fotografico acquistabile in loco]

Vasarely Museum di Budapest. Credits: Silvia Colombo 20


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“Fiato d’artista” - Vetri d’artista. Non solo Murano

Sonia Cosco

Rosanna La Spesa. Anime d’acqua

Anche in provincia di Savona si nasconde un borgo, Altare, che ha tante storie di vetro da raccontare: tra arte, artigianato e design. Uno dei vetri artistici più famosi ed enigmatici della storia dell’arte contemporanea è sicuramente il Grande Vetro di Duchamp. Opera rompicapo a cui l’artista lavora dal 1915 al 1923. Una sorta di environment che nel tempo ha cambiato se stesso - nel moltiplicarsi dei significati - e l’artista stesso. Il titolo completo è La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli ed è una firma della problematicità interpretativa che caratterizza le opere di un genio della 21


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contemporaneità. Forse, solo una provocazione per chi vuole a tutti i costi cercare un senso. Ma non solo Duchamp, anche altri grandi della storia dell’arte si sono confrontati con la tecnica vetraria: César, Tony Cragg, Lucio Fontana, Da Graham, Orlan, Joseph Kosuth, Man Ray, Jean Arp. Fragilità e preziosità del vetro, figlio di magiche alchimie e di necessità pragmatiche, di espressione creativa e tecnica. Il vetro può essere opera d’arte, boccetta per i medicinali, materiale industriale. Sarà per questo che gli eventi dedicati al vetro rimangono sempre a metà strada tra arte, artigianato e design, come Altare Vetro Design e Altare vetro Arte, due appuntamenti che fino al 4 novembre ci portano a scoprire un piccolo borgo nella provincia di Savona, Altare, con una kermesse dedicata all’arte vetraria tra mostre, incontri, laboratori. L’evento è stato ideato da Maria Teresa Chirico ed Enzo L’Acqua, promosso da ISVAV (Istituto per lo Studio del Vetro e dell’Arte Vetraria) e dal Museo dell’arte vetraria altarese. Ospite d’onore è l’architetto e designer Enrico Bona che unisce tecniche antiche e tecnologie d’avanguardia e ha creato per l’occasione Altarina — un abat-jour di piccole dimensioni che manda luce bianca attraverso gli effetti cromatici del vetro soffiato — e Arcubaleni, cubetti disegnati dallo stesso Enrico Bona che diventano segnaposti, portafoglietti e portafotografie. Tutti sappiamo (e Glass Stress, evento collaterale alla Biennale di Venezia 2009, ce lo aveva ribadito con un grande evento) quanto Venezia e il piccolo centro di Murano leghino la loro storia al vetro. Quelli che pochi invece sanno è che, se le cose fossero andate diversamente — e questa non è sede per analizzare i “se” — anche Savona avrebbe avuto la sua Murano, perché Altare, paese della provincia, è stata per secoli fucina e laboratorio di vetro artistico e artigianale (oggi anche industriale) e la lavorazione del vetro ha caratterizzato anche la vita economica e sociale del paese. Si tratta di una lavorazione introdotta nel Medioevo forse da vetrai di origine fiamminga o da monaci benedettini che creano le prime fornaci. Inizialmente il vetro si crea per uso farmaceutico, poi diventa espressione artistica. Ci sono minuscoli paesi che, del poco che hanno, riescono a farne volano turistico, economico, artistico, culturale, ci sono minuscoli 22


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Rosanna La Spesa, Luna d’acqua

paesi che, del tanto che hanno, rischiano di perderne a poco a poco i pezzi. Ecco perché sono importanti iniziative come queste, pur nella consapevolezza che ci sono aspetti migliorabili. Gli eventi dedicati al vetro, come Altare Fest Glass quest’estate o come Altare Vetro Design adesso, si stanno moltiplicando, perché si sente finalmente l’urgenza di mostrare un passato — e un presente — di lavorazioni 23


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artistiche e artigianali pregiate, di sensibilizzare il pubblico e gli studenti ad avvicinarsi alla lavorazione e suggestione del vetro, in contesti in cui designer e artisti si confrontano con i maestri vetrai, in uno scambio di competenze e sensibilità. Quello del vetro è fenomeno straordinario, esperienza estetica dalle sfumature alchemiche e, come già sottolineato, molti sono gli artisti che s’invaghiscono del materiale e si cimentano nel trasformarlo in espressione creativa, ma difficilmente si trovano persone che esprimono la loro arte solo ed esclusivamente attraverso il vetro. Un’artista della provincia savonese, la cui produzione è legata in particolar modo al vetro, è Rosanna La Spesa, reduce da una mostra presso le Grotte dei Dossi (Cn), in cui le sue installazioni dialogavano — sospese — con l’ambiente naturale. «Mi sono innamorata del posto e quindi ho deciso di esporre le mie opere qui» dichiara l’artista «e la presenza dell’illuminazione ha permesso di dare rilievo alle opere». Quello che si valorizza è dunque l’aspetto etereo delle opere in vetrofusione, il connubio interessante con le concrezione delle grotte molto colorate per la ricchezza di ferro e altri minerali. «L’incontro tra arte e natura è già insito in molte mie opere per i temi a cui mi sono da sempre ispirata — l’acqua, le rocce, la luce, i sassi, i fossili — che fanno parte della mia poetica e la scelta di esporre in tal contesto è stata spontanea, senza dimenticare la denuncia delle problematiche che insidiano costantemente questi luoghi dell’anima, patrimonio dell’umanità».

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Nèurastenie - #Maestri Roberto Rizzente

#Pavia

Pierre-Auguste Renoir, La Cueillette des fleurs, 1875

Iniziamo il viaggio nell’arte del Novecento con uno dei padri dell’Impressionismo, Pierre-Auguste Renoir (1841-1919). Artista prolifico, con i suoi cinquemila e più quadri, negli ultimi anni della vita, paralizzato dai reumatismi, aprì nuove strade all’arte, influenzando la generazione dei fauves. La vie en peinture, curatela di Philippe Cros, lo documenta con un’ampia selezione di dipinti, pastelli e disegni, provenienti da realtà museali internazionali come il National Gallery of Art di Washington, il Columbus Museum of Art (Ohio), il Centre Pompidou di Parigi e il Palais des Beaux Arts di Lille. Dove e quando Pavia, Scuderie del Castello Visconteo 15 settembre-16 dicembre

Info e contatti Orari. Da lunedì a venerdì 10-13/1519 (giovedì apertura fino alle 21.00). Sabato, domenica e festivi 10-13/14-19 Ingresso. Intero 10 euro. Ridotto 9, 8.50, 5 euro Sito web www.scuderiepavia.com e-mail segreteria@scuderiepavia.com tel. 0382538932

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Kandinsky, Auf Weiss I, 1920

#Pisa Non ci saranno tutte le tele del Blaue Reiter, ma Wassily Kandinksy. Dalla Russia all’Europa ha il merito di ricostruire con una fitta sequela di rimandi alla tradizione folclorica russa, lo sciamanesimo e i modelli pittorici coevi (Munter, Jawlensky, Werefkin e Schonberg), il fondamentale periodo in cui il padre dell’astrattismo (1866-1944) elabora il proprio linguaggio, chiarendone le implicazioni e i sottili scarti interni, all’indomani dell’addio definitivo alla Russia sovietica, nel 1922. La mostra è curata dalla direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, Eugenia Petrova, in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi. Dove e quando Pisa, Palazzo Blu 13 ottobre-3 febbraio

Info e contatti Orari. Da martedì a venerdì 10-19. Sabato e domenica 10-20 Ingresso. Intero 10 euro. Ridotto 8,50-4 euro. sito web. www.mostrakandisnky.it e-mail. info@impegnoefuturo.it tel. 050891349, 050894088

Joan Miro, Femme dans la rue, particolare, 1973

#Genova Sono circa ottanta le opere (oli, ma anche terracotte, bronzi e 26


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acquerelli), mai giunte in Italia, selezionate da Maria Luis Lax Cacho per documentare la carriera di Juan Miró (1893-1983), esponente principe del surrealismo. Particolare attenzione viene riservata all’ultimo trentennio, dal 1956 alla morte, un periodo particolarmente felice per l’artista catalano che, nel nuovo studio di Mallorca, a stretto contatto con la natura, poté sviluppare nuove idee, in linea con quel gusto per l’indagine psicanalitica e la scomposizione fantastica che avevano caratterizzato la rivoluzione surrealista. Considerata l’importanza che Mirò attribuiva al luogo di lavoro, viene ricostruito inoltre l’atelier, con tanto di oggetti, pennelli e strumenti originari, conservati dalla Fondazione Miró di Barcellona. Dove e quando Genova, Palazzo Ducale 5 ottobre-7 aprile

Info e contatti Orari. Da martedì a domenica 9-19. Lunedì 14-19 Ingresso. Intero 13 euro. Ridotto 10,5 euro. sito web. www.mostramiro.it e-mail. biglietteria@palazzoducale.genova.it tel. 0109868057

Bacon, Portrait of Henrietta Moraes, 1969

#Firenze Non solo Francis Bacon (1909-1992): la mostra fiorentina, curata da Franziska Nori e Barbara Dawson, muove da un nucleo di dipinti del maestro dublinese per indagare la condizione esistenziale dell’uomo nell’opera di cinque artisti internazionali contemporanei: Nathalie Djurberg (Svezia 1978), Adrian Ghenie (Romania 27


Modi di abitare

1977), Arcangelo Sassolino (Italia 1967), Chiharu Shiota (Giappone 1972), Annegret Soltau (Germania 1946). La sezione su Bacon è corredata da un ricco repertorio di still di film, riproduzioni di capolavori del passato immagini di riviste e ritratti fotografici, utilizzato dal Maestro per la creazione delle opere e messo a disposizione dalla Dublin City Gallery The Hugh Lane. Dove e quando Firenze, Palazzo Strozzi 5 ottobre-27 gennaio

Info e contatti Orari. Da martedì a domenica 1020. Giovedì gratuito 18-23 Ingresso. Intero 5 euro. Ridotto 4, 3 euro. sito web. www.strozzina.org e-mail. news@strozzina.org t. 055391711

Murale della Marquette University, Milwaukee Wisconsin, 1983. Fronte uno dei pannelli

#fuoritema È alto due metri e mezzo e lungo trenta. Fu realizzato nel 1983 a Milwaukee, nel luogo dove sarebbe sorto il nuovo Museo Haggerty, su invito dell’Università Marquette. Composto da ventiquattro pannelli in legno, con le sue fantasie di bambini, cani, ballerini di breakdance e televisori, il murale è un documento importante della prima stagione creativa di Keith Haring (1958-1990), direttamente ispirata ai disegni della metropolitana di New York. Già ospitato dal Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, torna ora in Italia, alla Reggia di Caserta, per una mostra d’eccezione. Per l’occasione, 28


Nèura Magazine - 18 ottobre 2012

verrĂ accompagnato da un acrilico della collezione Terrae Motus, costituita da Lucio Amelio nel 1980.

Dove e quando Caserta, Reggia di Caserta 2 giugno-4 novembre

Info e contatti Orari. Da lunedĂŹ a domenica 8.30-19.30 Ingresso. Intero: 13,2 euro. Ridotto 10,20-5,10 euro sito web. www.reggiadicaserta.beniculturali.it e-mail. caserta@civitamusea.it tel. 0823-448084/277380

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Nèura Magazine è uno spazio culturale di prospettiva. La redazione è composta da Anna Castellari, Silvia Colombo, Sonia Cosco e Roberto Rizzente. Per informazioni: info@neuramagazine.com


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