Vajont per non dimenticare

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VAJONT 1963 – 2013 50 ANNI DOPO

PER NON DIMENTICARE Percorso nella memoria di una tragedia annunciata

5A I.T.T. ENRICO0 FERMI Venezia


“La tragedia continua ancora, lenta come i granelli della clessidra, ma sempre presente. Negli occhi di chi si è salvato rimane congelato il muto stupore, la coscienza di aver perduto qualcosa che nessun miracolo potrà restituirci.” Mauro Corona

Per non dimenticare “Perché, anche ciò, riteniamo rientrare nel preciso ed ineludibile dovere dei giudici: dovere giuridico e morale, se non vogliamo che in avvenire, in nome del progresso tecnico, dell’esigenza produttiva dello Stato, del profitto, di pochi o di molti, i nostri stessi figli siano testimoni e vittime di analoghe tragedie. Se non vogliamo, soprattutto, che essi (come il primo ferito, soccorso dall’eroico medico condotto di Longarone in quella triste notte) si trovino, improvvisamente, soffocati dal fango “senza sapere” questi e molti altri “perché”.” Sentenza del Giudice Istruttore Mario Fabbri n.85/64 G.I.457 20 febbraio 1968

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Prefazione Vajont. Cos’è stato il Vajont? Non in molti l’anno scorso, a scuola, hanno saputo rispondere a questa domanda. Ecco allora l’idea della visita alla diga e dell’incontro con i sopravvissuti. Ma prima, la preparazione con il film di Martinelli, Vajont, e lo spettacolo, in dvd, di Paolini, Vajont, 9 ottobre ’63. Orazione civile. Alla fine della visione, un silenzio eloquente e poi i commenti pieni di rabbia e sdegno. Da questa prevista incertezza nella conoscenza dei fatti e dalle reazioni degli studenti è nato il progetto “Vajont 1963-2013, 50 anni, per non dimenticare”, in cui i ragazzi della classe 5°A e anche noi insegnanti ci siamo rapportati non solo con dati tecnici, filmati e documenti, ma soprattutto con il fattore umano, così trascurato da chi costruiva la diga. Ci siamo misurati con i “come” e i “perché”, con i meccanismi sottili e nascosti di intrecci tra ambizioni e interessi, con l’angoscia di chi è rimasto a convivere con il proprio dolore. Il risultato finale è questa breve dispensa, che non può e non vuole essere esauriente e completa e sostituire altre più adeguate pubblicazioni e opere. Ma vuole, nella sua semplicità, aiutare a diffondere tra le nostre classi la conoscenza di una catastrofe che è realmente una tragedia di tutti. Una tragedia che pur a cinquanta anni di distanza appare ancora vicina nel continuo ripetersi di dinamiche economiche poco attente all’ambiente umano e naturale circostante. E’ una strage quindi che chiama a gran voce tutti noi perché i fattori che hanno portato a tanta distruzione, anche per i vivi rimasti, possano essere evitati da una collettività vigile e attenta a come costruire il futuro per i propri figli e le generazioni a venire. prof.Nicoletta Frosini

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LA CATASTROFE DEL VAJONT Carlo Alberto Valentini - Marco Tonetti

Dal punto di vista tecnico la diga per il progetto del Grande Vajont è stata sicuramente un successo. Era, infatti, all’epoca lo sbarramento più grande del mondo e, pur costruita in pochissimo tempo, è stata progettata in modo praticamente perfetto. Infatti, guardando solo all’aspetto tecnico della tragedia, essa ha resistito ad un urto, dovuto alla frana che cadde all’interno del bacino del Vajont, che è stato calcolato come due volte superiore a quello provocato dall’esplosione della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki. L’unico grave, fondamentale, errore (o più precisamente colpa) fatto dagli ingegneri del progetto Vajont è stato di trascurare le condizioni delle pareti rocciose tra le quali sorgeva il bacino idrico e i segnali dati dal monte. Dal punto di vista della tragedia umana si può dire che quella del Vajont è stata invece una vera e propria catastrofe annunciata, che ha portato immane morte e distruzione nei paesi antistanti alla costruzione.

Il progetto della diga Tutto ha inizio nel 1940, anno in cui viene presentato il primo progetto della diga da parte dell’ingegner Carlo Semenza, uno dei maggiori esperti di dighe a doppio arco del mondo, che già nel 1928 aveva abbozzato l’idea della La diga a doppio arco è una particolare creazione di un bacino artificiale nella tipologia di sbarramento che è zona del Vajont. caratterizzato da una doppia curvatura Il primo progetto concreto di diga della sua struttura, sia in senso nella valle del Vajont risale quindi al verticale sia in senso orizzontale. Carlo Semenza 1940 e consisteva nel creare un Questa sua particolare forma fa in modo che la spinta dovuta all’acqua sia serbatoio di raccolta e compensazione della rete dissipata ai lati della diga, in altre d’acqua comprendente il Piave e i suoi affluenti Boite, parole sui versanti delle montagne che Gallina, Maè e Vajont. Lo scopo di questo bacino idrico la circondano e sui quali è era quello di garantire riserve e alimentazione d’acqua “appoggiata”. alle centrali idroelettriche per potenziare il consumo di Per questo motivo una condizione che va sicuramente verificata prima della energia della pianura. Il progetto fu fortemente voluto dalla S.A.D.E. (Società costruzione della diga è la condizione del terreno sulle pareti delle montagne Adriatica Di Elettricità, fondata nel 1905 a Venezia dal che deve essere molto stabile. conte Giuseppe Volpi di Misurata, divenuto poi ministro Un’altra particolarità che riguarda la delle Finanze nel governo fascista) che voleva in questo forma delle dighe ad arco doppio è modo portare energia a una buona parte del Triveneto e quella di avere uno spessore alla base soprattutto al porto industriale di Marghera della cui e alla sommità molto differente. Questo è dovuto alla distribuzione realizzazione la Società era stata promotrice. Il progetto però non viene approvato perché l’Italia sta della pressione che grava sulla diga. convogliando tutte le sue risorse nell’entrata in guerra a fianco di Hitler. Nel 1943 ci sarà tuttavia parere favorevole del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, nonostante la seduta non ci sia il numero legale.

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L’approvazione del governo con Decreto di concessione del Presidente della Repubblica avverrà nel 1948, a guerra ormai da tempo conclusa. Alla fine della II guerra mondiale, infatti, grazie allo sviluppo della tecnologia, la richiesta di energia é aumentata notevolmente a tal punto che la Sade suggerisce un ulteriore innalzamento della diga per ottenerne il massimo rendimento. Il progetto iniziale prevedeva una diga a doppio arco alta 202 metri con una capacità di circa 50 milioni di metri cubi d’acqua. La diga del Vajont, inizialmente, quindi, di dimensioni relativamente più contenute, rientrava in un ampio sistema di sbarramenti idraulici che comprendeva più dighe, a Pieve, Valle e Vodo di Cadore, in Val Gallina, a Pontesei, al Vajont, per chiudersi alla centrale idroelettrica di Soverzene. Questo primo progetto subirà continue modifiche e variazioni per sfruttare al meglio le capacità del bacino. Lo studio sulla situazione geologica delle montagne circostanti la diga é affidato al professor Giorgio Dal Piaz. L’11 ottobre 1948 Carlo Semenza chiede un parere geologico sul possibile innalzamento della diga fino a quota 730 metri s.l.m. In seguito alle indagini geologiche Dal Piaz formula due ipotesi di costruzione della diga: la prima prevede una diga che arrivi a una quota di 679 metri s.l.m, l’altra invece é quella di portare lo sbarramento fino a quota 727 metri s.l.m. La soluzione prescelta sarà una intermedia tra le due. Giorgio Dal Piaz Il 31 gennaio 1957 la Sade presenta il progetto definitivo della diga, chiamato “Grande Vajont”. Questo prevedeva uno sbarramento alto 266 metri con una capacità utile di 150 milioni di metri cubi d’acqua e che rendeva quindi il serbatoio d’acqua indipendente, svincolato dal sistema idrico precedente. Anche per quest’ultimo progetto il professor Dal Piaz aveva dato il suo consenso geologico, allegando alla sua vecchia relazione del 1948 un’integrazione in cui conferma la stabilità dei due fianchi dei monti sopra il livello d’invaso. Consiglia comunque dei provvedimenti di rafforzamento, in considerazione della maggiore pressione dell’acqua. Questa relazione, in realtà, su suggerimento dello stesso Dal Piaz, verrà “aggiustata” Dall'immagine si evidenzia la forma a doppio arco (foto C.Valentini) da Semenza1. Il 17 aprile 1957 arriva dal Ministero l’autorizzazione alla costruzione dello sbarramento. Tuttavia già nel gennaio del ’57, senza l’autorizzazione ministeriale, erano iniziati i lavori di scavo delle fondazioni della diga a doppio arco, all’epoca la più alta del mondo. 1

”Ho tentato di stendere la dichiarazione per l’alto Vajont, ma le confesso sinceramente che non m’è riuscita bene, e

non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice”. G. Dal Piaz . “Le allego copia del testo al quale Ella secondo me potrebbe in linea di massima attenersi. Ho lasciato punteggiata una frase che, se Ella crede, potrebbe mettere per illustrare le condizioni delle note cuciture tra strato e strato” E.Semenza Documenti dell’Archivio di Stato dell’Aquila, in M. Reberschak, Il Grande Vajont.

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L’inizio dei lavori e le prime perplessità Vengono fatte le prime verifiche preventive durante le quali gli ingegneri del progetto Vajont si preoccupano soprattutto della resistenza della diga e in modo superficiale della resistenza del terreno sui versanti dei monti che la circondavano. Queste verifiche sia dal punto di vista geologico sia dal punto di vista costruttivo sono dichiarate positive, anche se già dall’inizio dei lavori si verificano fratturazioni e movimenti. Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, però, il 15 giugno del ’57, sollecita ulteriori indagini geologiche che tengano conto “della sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche in prossimità del massimo invaso”. Nell’agosto del ’57 il prof. Muller, il geotecnico austriaco incaricato dalla Sade di verificare la situazione geologica della zona, mostra le prime perplessità sulla situazione del versante del monte Toc. Nonostante la presenza di rischio di frana, i lavori proseguono ugualmente. Nel 1958 iniziano le prime gittate di cemento per la costruzione della diga. Nello stesso periodo il professor Dal Piaz scrive un'altra relazione, sulle condizioni del monte Toc, nella quale si evidenzia un rischio concreto di franamento del Leopold Muller versante, ma, afferma, di piccolissima entità. Alla Sade si affianca una Commissione di Collaudo, nominata dal Ministero dei Lavori Pubblici, con il compito di controllare la regolarità dei lavori, e della quale tuttavia fanno parte anche tecnici legati alla stessa Sade, quali l’ing. Penta. Questa anomalia nella composizione della Commissione di Collaudo, i cui membri in parte erano coloro che avevano approvato il progetto, verrà in seguito evidenziata, nelle sue evidenti implicazioni sulla mancata regolarità delle procedure e delle verifiche, anche dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul disastro del Vajont e dal giudice istruttore Mario Fabbri. 1

Le reazioni della popolazione locale e la solitaria battaglia di Tina Merlin Per il momento la popolazione dei paesi vicini al Vajont non è stata informata degli esiti delle verifiche fatte sul luogo e quindi, anche se già non vede di buon occhio la costruzione della diga e avanza delle forti perplessità sulla natura del suolo, ancora non pensa di correre un serio pericolo, mentre alcuni considerano positivamente l’opportunità di posti di lavoro forniti dall’opera. Nel 1959 c’è però un avvenimento che comincia ad impaurire la popolazione del luogo: una frana di 3 milioni di metri cubi di materiale roccioso cade all’interno del bacino artificiale di Pontesei, creato dalla Sade poco distante, nella valle del torrente Maè che da Longarone porta a Zoldo. A causa di questo incidente perde la vita un operaio (primo di quella che sarà una lunga lista). In seguito alla frana di Pontesei gli ingegneri del progetto “Grande Vajont” ritengono opportuno effettuare altre verifiche sulla condizione geologica del bacino. 1.

“Dalla visita della Commissione di Collaudo la realtà del Vajont divenne duplice: l’una ufficiale, da valere per gli uffici del Genio Civile, del ministero dei lavori Pubblici, per le amministrazioni comunali (...); l’altra realtà, quella non ufficiale, venne riservata ad alcuni consulenti, al personale tecnico del Servizio Costruzioni Idrauliche e dell’ufficio studi, ai funzionari (...) fu posta ogni cura perciò nell’evitare che la situazione del Vajont venisse a trapelare in ambienti esterni, posto che l’intento principale della Sade era quello di completare le opere e giungere sollecitamente al collaudo”. Sentenza del giudice istruttore, Mario Fabbri, 20 febbraio 1968, in M. Reberschak, Il Grande Vajont, Cierre ed. 2008.

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Tra gli abitanti di Erto e Casso la preoccupazione per la sicurezza si affianca a quella per gli espropri dei loro terreni abitati, di pascolo e coltivabili, iniziati a metà degli anni ’50 intorno all’area coinvolta dai lavori e cresciuti in rapporto all’ampliamento del progetto iniziale della diga. Proprio nel ’59, il 3 maggio, il grande malumore degli abitanti di Erto per l’aumento degli espropri porta alla nascita del Consorzio per la difesa e la nascita della Val Ertana. Due giorni dopo, il 5 maggio, compare sull’Unità un articolo di Tina Merlin, giornalista bellunese, dal titolo “La Sade spadroneggia, ma gli abitanti si difendono”. Facendosi quindi portavoce delle apprensioni di molti degli abitanti del piccolo centro di Erto sulle sponde del Vajont, Tina Merlin ha iniziato ad interessarsi alla vicenda e a sensibilizzare l’opinione pubblica con i suoi articoli di critica nei confronti dell’opera della Sade. Denuncia le sopraffazioni nei confronti della popolazione, espropriata delle case e delle sue attività tradizionali, e la pericolosità della diga . Tina Merlin (per gentile concessione Come risposta la Sade la denuncia per diffamazione. In seguito, nel dell'Ass. Tina Merlin) processo tenutosi a Milano nel novembre del ’60, a diga ormai terminata e con gli invasi già iniziati, Tina Merlin verrà assolta, a conferma quindi che quello che ha scritto è reale e che l’opera della Sade rappresenta un pericolo concreto. A testimoniare in sua difesa anche gli abitanti di Erto, che raccontano la loro ansia per il continuo aprirsi di crepe nelle case, per le scosse frequenti, i tremolii e i botti sotterranei che si sentono sul Toc. Anche dopo il processo Tina Merlin continua la sua battaglia a fianco degli ertani. Invano però la corrispondente bellunese dell’Unità cercherà l’appoggio delle firme del giornalismo nazionale per la sua opera di sensibilizzazione alla vicenda. 1

La scoperta della paleo frana e la conclusione dei lavori Intanto già nell’agosto del ’59 Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, ricevuto l’incarico di verificare lo stato morfologico del bacino, dai rilievi ha scoperto la presenza sul versante del Toc di una paleofrana2 di notevoli dimensioni. DIGA DEL VAIONT – Dati tecnici Comunica i risultati della sua indagine ai progettisti, che Altezza complessiva 260,6 m però sottovalutano il rischio di catastrofe e decidono di Larghezza alla base:27 m Larghezza in sommità:3,4 m continuare ugualmente le operazioni di costruzione. Altezza di massimo invaso:722,5 m.s.l.m. La relazione di Edoardo Semenza non viene inviata agli Livello di massima piena: 462,0 m.s.l.m. Livello massimo: 725,5 m.s.l.m. organi di controllo. Capacità di invaso massimo:168.715 milioni di Tra il ’58 e il ’59 vengono dati i contributi statali, per un metri cubi 30% della spesa totale. Nel settembre del 1959 i lavori di costruzione dello sbarramento vengono portati a termine: la diga si erge con un’altezza di 261,60 metri e di 725,50 metri sul livello del mare. La Sade chiede ora l’autorizzazione ad un primo invaso sperimentale fino a quota 600 metri. 1

v. A. Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro. Cierre edizioni, 2012.

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La paleo frana era una frana antichissima, crollata nel primo letto del torrente Vajont, ostruendolo. Successivamente il torrente si era scavato un nuovo corso, incidendo profondamente la paleo frana e dividendola in due parti. Il timore, fondato, di E. Semenza e di Muller era che la paleo frana, che poggiava su un terreno argilloso, potesse rimettersi in movimento a seguito degli invasi.

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Gli invasi, le prime frane, i dubbi, le omissioni. Nel ’60 il servizio dighe autorizza l’invaso sperimentale. Già durante il primo invaso avviene una piccola frana, che fa capire la pericolosità del terreno sul versante del monte Toc, ma le prove continuano ugualmente. Anche il geologo Muller, che continua le sue indagini, nei suoi rapporti avanza ancora dubbi sulla stabilità delle sponde del Toc. Nel marzo del ’60 durante un invaso a quota 590 metri avviene un'altra piccola frana. A questo punto i progettisti, che iniziano a preoccuparsi per il movimento continuo del versante del Toc, decidono di avviare un’opera di controllo del versante della montagna tramite dei capisaldi, con lo scopo di verificare i movimenti del terreno. I cittadini dei paesi vicino alla diga si accorgono delle frane perché avvertono numerose scosse sismiche dovute appunto al movimento del terreno del monte Toc, chiamato così nel dialetto locale perché perdeva pezzi ed era considerato “marcio”. Inizia quindi a diffondersi il panico tra i paesani, ma la Sade tenta di rassicurarli. Il 9 luglio 1960 Dal Piaz scrive una relazione sullo stato morfologico del bacino in cui rileva smottamenti e movimenti di piccola entità e nega la presenza di una paleofrana che invece era stata rilevata da Muller ed Edoardo Semenza. Sottolinea, dunque, che non c’è alcun pericolo. In realtà i movimenti del versante assumono una notevole rilevanza visto che avanzano di circa 3 cm al giorno. Il 4 novembre del ’60 viene fatto un invaso fino a quota 650 metri che provoca uno scivolamento di una frana di 700. 000 metri cubi che cadendo nel lago crea un’onda di circa 2 metri. Compare allora sul monte Toc una lunga fessura di 2,5 Km a forma di M; è il bordo dell’immensa frana che crollerà nel bacino il 9 ottobre del ’63. Il bordo a forma di M della frana (immagine da Il prof. Penta, geologo della Commissione di Collaudo, www.cronologia.leonardo.it) tuttavia ipotizza che tale fessura riguardi uno strato molto superficiale, di massimo 10-20 metri, che non metterebbe a rischio né la tenuta della diga, né la “vita del serbatoio”. In seguito a questi avvenimenti i progettisti decidono comunque di abbassare lentamente il livello di invaso e di costruire una galleria di sorpasso che, in caso di caduta della frana, possa collegare i due bacini che da questa risulterebbero separati. In seguito al lento abbassarsi del livello dell’acqua nel bacino anche i movimenti del terreno rallentano e poi si arrestano. Si scoprirà durante le indagini del post-tragedia che ogni invaso effettuato non faceva altro che permettere all’acqua di infiltrarsi tra uno strato di roccia e l’altro, creando così una situazione ottimale per lo scivolamento dello strato più molle su quello più duro. Nel dicembre dello stesso anno il geologo Caloi ha, infatti, ipotizzato la presenza di due strati di roccia sulla frana: uno superficiale, più friabile, e uno sottostante molto stabile e duro. Anche Dal Piaz scrive una relazione in cui riconosce la presenza dell’antica frana segnalata da E.Semenza. Muller a questo punto prova a elaborare varie soluzioni al problema della frana tra cui utilizzare delle cariche di dinamite per far cadere gradualmente nel bacino delle piccole parti di materiale. Emerge però tra tutte le proposte quella più drastica: abbandonare il progetto. Anche questa relazione non sarà mai inviata agli organi di controllo. 7


Nello stesso periodo Tina Merlin scrive sull’Unità un nuovo articolo in cui avverte la popolazione che esiste, a ridosso della diga, un serio pericolo di franamenti e che “una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi della popolazione di Erto”. Anche il Consiglio provinciale di Belluno comincia a guardare con preoccupazione le operazioni di invaso; chiede rassicurazioni al Ministro dei Lavori pubblici, Benigno Zaccagnini, che tranquillizza i bellunesi sulla stabilità del terreno.

Il modellino di Nove e il livello di massima sicurezza Tra luglio e ottobre del 1961 vengono comunque installati 4 piezometrici, tubi di acciaio infissi sul versante franoso fino alla profondità di 221 metri, che permettono di controllare il comportamento dell’acqua all’interno della roccia e di verificare la profondità della frana. Se questa fosse stata di profondità maggiore a quella dei piezometri, la loro funzionalità non sarebbe stata compromessa, perché la frana non li toccava. Dei quattro tubi uno smette subito di funzionare, gli altri invece non subiranno alcun tipo di danneggiamento fino al tremendo 9 ottobre. Appurato il serio pericolo di frana nella zona della diga, i progettisti decidono di creare un modellino in scala della diga sul quale poter fare degli esperimenti per vedere cosa sarebbe successo nel caso in Il modellino della diga in scala utilizzato dai progettisti per cui il versante del monte Toc fosse caduto studiare e verificare le conseguenze di un'eventuale frana (foto nel bacino. Questo modellino viene creato C. Valentini) alla centrale idroelettrica di Nove. Nell’ottobre del ’61 nonostante l’assenza di permessi adeguati la Sade decide di fare un nuovo invaso, con l’obiettivo di raggiungere quota 680. Il servizio dighe a dicembre autorizzerà solo quota 655. Già da ottobre, quando è iniziato di nuovo l’invaso, i movimenti della frana riprendono alla velocità di 1,5 cm al giorno. Tra il ’61 e il ’62 muoiono sia Carlo Semenza che Dal Piaz. Capo del progetto diventa l’ing. Biadene. Nel gennaio del ’62 la Sade chiede nuovamente di poter innalzare il livello a Alberico Biadene quota 680; ottiene il permesso fino a 675 metri. L’ingegner Biadene a questo punto decide di cancellare dai rapporti al Ministero la registrazione delle scosse sismiche rilevate. La Sade chiede poi l’autorizzazione per quota 700 che è concessa a giugno. Nel frattempo si sono susseguite altre scosse sismiche. L’assistente del Governo, Bertolissi, rileva la presenza di nuove fessure e suggerisce una nuova relazione sulla situazione geologica, che appare preoccupante. Relazione che non viene effettuata. In questo periodo gli studi fatti sul modellino di Nove portano alcuni risultati, secondo i quali il livello di massimo invaso in sicurezza è a quota 700 metri perché un’eventuale frana provocherebbe un’ondata al massimo di 30 metri. Il 12 dicembre del 1962 il progetto Vajont passa all’E.N.E.L. (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), ma deve risultare pienamente collaudato, anzi, 8


addirittura in esercizio. Gli invasi e l’aumento della quota di riempimento del bacino devono quindi assolutamente proseguire.

Verso la catastrofe La diga quindi è passata all’Enel, ma la gestione resterà alla Sade fino al ’27 luglio ’63. Nonostante il gennaio del ‘63 siano rilevati dei movimenti critici all’interno della frana, a marzo l’Enel, (nella persona di Biadene prima direttore della Sade, poi vicedirettore dell’Enel compartimento di Venezia) decide per un nuovo invaso fino a quota 715 metri, senza tener conto dei risultati ottenuti sul modellino di Nove, che segnano come limite massimo di sicurezza la quota di 700 m. Questo nuovo invaso porta ad un aumento lento, ma costante, dei movimenti franosi. Nel settembre del ’63 gli abitanti dei comuni intorno al bacino del Vajont avvertono una forte scossa. Il sindaco di Erto esprime la sua angoscia per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini dei comuni vicini alla diga, chiedendo all’Enel di Venezia e alla Prefettura di Udine, senza ottenere risposta, provvedimenti urgenti per i continui boati e tremiti avvertiti nella zona. A luglio l’invaso raggiunge quota 709,40. A settembre quota 710. I movimenti della frana continuano ad aumentare e raggiungono una velocità di 2 cm al giorno e a settembre sul monte Toc compare un’altra fessura, gli alberi si inclinano e si allarga anche la fessura a M. Per questo l’Enel decide di ridurre la quota di invaso. L’abbassamento dell’invaso però avviene il 26 settembre, troppo tardi per poter arrestare i movimenti franosi. E. Semenza nel suo libro sul Vajont tenta di giustificare questi ritardi dicendo che erano dovuti al passaggio di gestione da Sade ad Enel. Il 7 ottobre i tecnici della Sade chiedono un urgente sgombero della zona del Toc e il divieto di transito sul suo fianco sinistro; la strada è impraticabile già dal 6 ottobre a causa delle crepe e fessurazioni che continuano ad aprirsi sull’asfalto1.

Il 9 ottobre 1963 La mattina del 9 ottobre gli operai notano che dal versante del monte Toc iniziano a spezzarsi e a cadere interi alberi e riescono a vedere ad occhio nudo il muoversi della frana. Si apre una nuova crepa lunga 5 metri che avanza continuamente. Alle 17.00 viene vietato il transito nelle zone di pericolo. Alle ore 22.39 di quella stessa sera si stacca dal monte Toc un corpo unico di circa 260 milioni di metri cubi di roccia che, trascinando con sé pascoli e abitazioni, cadendo nel bacino della diga, provoca un’onda di dimensioni mostruose che investe i paesi circostanti la L'enorme massa del Toc franata nel bacino (per gentile concessione Comitato zona. Sopravvissuti del Vajont)

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“Il 6 ottobre turisticamente sono passato per la strada della sinistra del Vajont e ho potuto notare che la strada da quattro o cinque tornanti dopo la diga (...) era completamente sconvolta, presentando fessure notevoli nelle murature (30,40,50 cm), spostamento delle stesse e ruotamento e la sede stradale era completamente sconvolta, con avvallamenti per cui il transito, seppure possibile, era difficoltoso, tanto che non aveva più l’aspetto di una strada e sembrava di andare su di un campo.” Giuseppe Beghelli, documento dell’Archivio di stato dell’Aquila, in M.Reberschak, Il Grande Vajont, Documenti, p.322. Cierre ed. 2088

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Dividendosi in due masse d’acqua devastanti, l’onda da una parte risale il costone roccioso sulla riva opposta del bacino e arriva ai paesi più bassi, Frasegn, La Spesse, San Martino, Pineda, Marzana, Cristo, Ceva, lambendo il più alto Erto; dall’altra, sfiorando Casso, supera lo sbarramento della diga e precipita con 50 milioni di metri cubi su Longarone, spazzandola via, travolgendo poi Rivalta, Pirago, Fornace, Faè, Villanova, Castellavazzo e Codissago. Immagine da www.vajont.net Al momento del crollo del versante del Toc la prima cosa che ha distrutto i comuni adiacenti alla diga è stato il flusso d’aria creato dallo spostamento dell’enorme massa d’acqua del bacino del Vajont. Questo è avvenuto soprattutto a Longarone, che sorge ai piedi della diga. L’aria ha avuto un effetto tanto devastante su Longarone perché è stata convogliata verso il paese con una forza immane a causa della forma ad imbuto della gola e della vallata del Vajont. Tutto quello che non è stato distrutto dall’aria, è poi stato annientato dall’ondata di acqua che si è infranta al suolo spazzando via tutto ciò che incontrava. Quello che era sopravvissuto all’ondata è stato infine distrutto dal “ritorno Longarone dalla diga. Si nota la particolare forma ad imbuto della valle (foto C. Valentini) d’onda”. Dalla descrizione degli eventi legati alla tragedia del Vajont si può dedurre perché si parla di “tragedia annunciata”. Infatti, la questione del Vajont è stata caratterizzata da una continua negligenza e da costanti omissioni da parte dei progettisti e costruttori della diga. Questi, pur avendo davanti ai loro occhi i segnali evidenti che sarebbe potuta accadere una catastrofe, li hanno sottovalutati, decidendo di continuare i lavori alla diga, causando migliaia di morti, in seguito alla frana che ha distrutto Longarone, il più colpito perché sorgeva proprio sotto la diga, Erto e gli altri abitati vicini e ha alterato per sempre le esistenze, le memorie e le tradizioni di chi è sopravvissuto.

Longarone prima e dopo la tragedia (per gentile concessione Comitato Sopravvissuti del Vajont)

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Le testimonianze Nicoletta Frosini

Agghiaccia leggere le testimonianze1 del giorno della catastrofe. Attraverso le parole di chi l’apocalisse l’ha vissuta sulla sua pelle o toccata con mano al momento di prestare i soccorsi, emerge ancora, come fosse solo ieri il 9 ottobre del 1963, l’orrore che in una manciata di minuti ha dilaniato e alterato per sempre migliaia di esistenze. Si scorre una testimonianza, si fatica spesso ad arrivare fino in fondo e a pensare di affrontare la lettura di altre. Eppure, soprattutto attraverso queste voci passa necessariamente la condivisione del dolore e dell’angoscia, la trasmissione del ricordo e la consapevolezza che l’intera collettività deve essere pronta a muoversi e lottare perché simili scempi e sopraffazioni non possano più essere provocati. Tutti i documenti di quel giorno tremendo sono sconvolgenti. Però, in un percorso crescente verso il nucleo del dolore, apriamo questa sezione con le parole di coloro che, pur abituati a misurarsi quasi quotidianamente con la morte e le catastrofi, hanno vissuto sulla distesa di fango e acqua di una Longarone ormai distrutta un senso di smarrimento e angoscia mai provato in precedenza. Queste le testimonianze dei Vigili del Fuoco di Pieve di Cadore giunti sul luogo del disastro poche ore dopo la tragedia: “Alle 23,45 del 9 ottobre la campagnola V. F.5309 lasciava lo scrivente sul ciglio della strada di Alemagna, a Nord di Longarone, oltre il quale la carreggiata era completamente scomparsa. La scena era apocalittica. Un vento gelido spazzava la zona e, alla luce di poche torce elettriche, le ombre delle macerie erano ancora più terrificanti; le urla dei feriti e degli scampati rendevano più agghiacciante la situazione, mentre l’acqua defluiva in centinaia di piccoli torrenti dalle pendici della collina sovrastante il paese e attraverso le macerie defluiva nel Piave, il livello del quale era poco al di sotto di quello della strada Nazionale. L’entità del disastro, più che vederlo, si intuiva per l’angosciosa intuizione che ci rende consapevoli dell’immensità di una sventura quando le forze della natura si sono scatenate senza freno.” Antonio Bergamo Com.te Distaccamento VV.F. di Pieve di Cadore, da Numero speciale della rivista mensile Antincendio e Protezione Civile – ediz. Speciale ampliata del n.59 novembre 1963, stampato giugno 1964.

I binari divelti (per gentile concessione Comitato Sopravvissuti Vajont) 1

In corsivo sono riportate le parole testuali dei testimoni e dei sopravvissuti, come da documenti ufficiali.

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I soccorsi (per gentile concessione Comitato Sopravvissuti del Vajont)

Le ricerche (per gentile concessione Comitato Sopravvissuti del Vajont)

“Ciò che i pompieri hanno fatto questa volta è assolutamente nuovo nella storia delle loro imprese, tra le quali pur figurano calamità pubbliche di grosse e grossissime dimensioni: i bombardamenti di quattro anni di guerra, le alluvioni del Polesine e dell’Olanda, i terremoti, gli incendi. Tra tutte queste prove del passato l’esperienza di Longarone è stata senza possibilità di confronto la più dura. E non per la fatica di scavare giorno e notte tra le macerie, o di stare ore ed ore a mezza gamba nel fango e nell’acqua, o di manovrare le pale meccaniche, i mezzi cingolati, le gru, i bulldozers, o di bruciare con i lanciafiamme le carogne delle bestie al fine di scongiurare il pericolo della putrefazione e delle epidemie; o di andare giorni e giorni lungo il fiume alla disperata ricerca dei barili verdi contenenti cianuro di potassio in quantità bastante ad avvelenare per mesi tutta l’acqua del Piave, .. infine nelle migliaia di interventi di soccorso e assistenza prestati in oltre 260mila ore/uomo lavorative. Non è questo che ha reso improba la fatica di Longarone, poiché tutto questo non è che ordinaria amministrazione e lavoro corrente per i Vigili del Fuoco. La novità questa volta erano tutti quei morti. Settanta giorni di cadaveri. La novità questa volta era il navigare nel lago e nel fiume alla pesca delle salme; erano i morti in catasta, i morti all’ingrosso nelle anse di Cadola e di Soverzene; o i morti al minuto cercati e trovati lungo un tragitto di cinquanta chilometri dal luogo della sciagura, nascosti tra i cespugli o scavati con le mani sanguinanti da sotto le pietre o tenuti a bagno dalle travi soprastanti. La novità era questa lenta e sfibrante ricerca... La novità era quella Via Crucis, erano le braccia e le teste staccate dal tronco, le carni infangate e decomposte, i camioncini carichi, le aspersioni di insetticidi e disinfettanti a guisa di acqua santa, le bare in fila, le grandi fosse sul pianoro di Fortogna, la processione dei familiari, le scene strazianti della ricognizione, i qui pro quo dei riconoscimenti, le inumazioni, le riesumazioni. Ecco cosa è stato il Vajont per i Vigili del fuoco: un massacrante, ingrato, disgustoso lavoro di becchini. Ma un disgusto vinto dalla pietà, un lavoro compiuto in mestizia, mormorando le preghiere dei morti.” Andrea Pais, L’opera del Corpo Nazionale Vigili del Fuoco nella zona del Vajont Longarone, Numero speciale della rivista mensile Antincendio e Protezione Civile – ediz. Speciale ampliata del n.59 novembre 1963, stampato giugno 1964.

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Le dimensioni della tragedia, immediatamente evidenti agli occhi dei soccorritori, appaiono nella loro crudezza anche ai giornalisti accorsi per documentare l’evento. Sul luogo del disastro, stranamente, però non viene mandata come corrispondente Tina Merlin. Lei la tragedia l’aveva preannunciata, per prima aveva denunciato il pericolo dalle pagine dell’Unità e quando la sera del 9 ottobre a Belluno salta la corrente e il Piave scorre ingrossato trascinando rottami, capisce che qualcosa di tremendo è successo al Vajont. Riceve una telefonata di conferma e si precipita a Ponte nelle Alpi, dove è fermata al posto di blocco. E’ sconvolta. Chiama l’Unità che il giorno dopo invia il giornalista Mario Passi che così riporterà nel suo librodossier “Vajont senza fine” le terribili immagini del 10 ottobre: “A Fortogna non c’è più la strada. Si deve proseguire a piedi in un ammasso fangoso, superare blocchi di pietra, tronchi, pozze d’acqua e i primi cadaveri, scomposti, abbandonati dal fiume. Mucche riverse, dal ventre rigonfio e le zampe protese in alto accentuano il senso di morte del paesaggio. (...) Poco oltre Faè, (...)ecco le prime case tagliate in due come da un enorme coltello. Poi soltanto nuda roccia sbiancata sulla quale inerpicarsi, aggrappandosi con le mani, perché il Piave è giunto fin qui nei pochi minuti in cui si è trasformato in un apocalittico mostro. (...) Procediamo sempre più in affanno, sempre più intontiti, depressi, spaventati da quanto ci circonda. Ma la misura non è colma. Bisogna guardare Longarone, quel che ne resta. L’animo umano fatica ad immaginare ciò che non conosce, che non appartiene in qualche modo alla sua esperienza sensibile. Io che da ragazzo avevo vissuto la guerra, i bombardamenti sulla mia città, forse inconsciamente pensavo a cumuli di rovine, case diroccate, muri sbrecciati, ammassi di macerie. Niente di tutto questo. Longarone appare solo una immensa distesa piatta e grigia. Ogni casa è scomparsa, livellata, ridotta a un tritume di pietra e ghiaia.” La frana, il vento, l’onda mostruosa. Testimoni oculari e sopravvissuti. Se numerose sono le testimonianze del giorno dopo la catastrofe, poche sono le persone che hanno potuto riferire le dinamiche della frana e dell’onda mostruosa. Ancora meno, ma più dolorosi e angoscianti, pur nella loro essenzialità descrittiva, i ricordi sofferti dei sopravvissuti. Spesso sono poche frasi, semplici, crude, asciutte. Non hanno l’elaborazione retorica e le metafore delle grandi firme dei giornali. Il dolore tanto più è duro e radicato, tanto meno sembra lasciare spazio all’abbondanza delle parole. Ma è quello che più riesce a colpire e a incidersi anche nella memoria di chi legge. A farci immedesimare nel terrore di quelle migliaia di persone innocenti che, nella normalità delle proprie esistenze, per colpa di altri in pochi attimi si sono trovate di fronte alla propria apocalisse anticipata. Queste le testimonianze di testimoni oculari e sopravvissuti raccolte dallo storico Maurizio Reberschak 1dai documenti dell’Archivio di Stato de L’Aquila, dove si è svolto il processo, e dalla sentenza del giudice Istruttore Mario Fabbri del Tribunale di Belluno. Don Carlo Onorini, parroco di Casso: “Io quella sera, verso le 10 e mezza, sento questo rumore di frana, apro la finestra e questo rumore aumentava in modo straordinario, contemporaneamente a questo un bagliore che credevo fosse il riflettore, invece poi ho saputo, era il corto circuito dei trasformatori che ha illuminato quasi a giorno la valle. C’era poi una colonna d’acqua molto alta, che ha poi distrutto molte case, e il terremoto, con un boato tremendo, spaventoso, e poi tutto il resto. L’onda, più o meno, arrivava alla sommità del mio campanile. Dunque, se Casso è nel più alto, circa 250 metri dalla diga, senza esagerazione è stata verso i 300 metri.” Benito Castellano “Udii un forte boato, accompagnato da un bagliore, seguito subito dopo da un rumore simile a quello che si ode al passaggio di una formazione di reattori (...) 1

M. Reberschak, o.c., p 281 e segg.

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Mi voltai e vidi un’enorme onda verticale che si alzava verso il cielo, (...) L’ondata, per quel che io ricordo, era costituita da una serie di spruzzi misti a sassi e si stava rivolgendo di nuovo verso il bacino, dopo aver asceso le pendici sottostanti Casso. (...) a mio giudizio il disastro si è concluso nello spazio di un minuto, ma la mia valutazione è molto sommaria.” Rinaldo Aste, carabiniere: “ Il nostro compito era quello di impedire che gli abitanti della frazione di Dogna e Provagna affluissero verso Longarone o verso Erto (...) eravamo arrivati da sei, sette minuti e tutto di un tratto un grande boato. Io, in quell’istante guardai verso l’alto e vidi un bagliore e mi è rimasto impresso, a metà altezza, quella nube biancastra, quest’uragano. Allora cominciai a correre, feci più di un centinaio di metri, i sassi cadevano come la pioggia, l’acqua non ci ha raggiunto.(..) Quando ho visto il bagliore ho guardato in alto per vedere cosa accadesse e ho visto l’acqua che veniva giù con una pressione e una violenza incalcolabili e cadeva a metà del greto del fiume e sui costoni. L’acqua formava come una cascata.” Germano Accamillesi: “Mentre stavamo nel bar Faè, ci accorgemmo che improvvisamente saltava l’alimentazione del televisore e quasi subito cominciarono a sentirsi delle forti scosse telluriche e poi si spegneva anche l’illuminazione (...) Ci portammo sulla strada e guardammo verso Longarone e vedemmo una nube biancastra alta sopra Longarone e distendersi avallandosi sopra Longarone, Dogna e Pirago. Percepimmo un odore come di miccia bruciata e un rumore fortissimo che si avvicinava.” Antonio D’Incà: ” Il primo fenomeno che si verificò la notte del disastro fu l’improvvisa interruzione dell’illuminazione (...) Il boato che sentii era il fragore dell’acqua che irrompeva sotto la mia casa. Contemporaneamente, una violenta corrente d’aria ruppe i vetri e le finestre, spazzando via tutti gli oggetti anche presenti che si trovavano nella casa. (...) Mi rifugiai con mia madre in una cameretta dove rimasi finché la casa fu travolta e sbriciolata dalle acque. Non ricordo come mi separai da mia madre. Rammento solo che fui colpito dalle macerie che cadevano. Svenni e mi ripresi mentre le acque mi trascinavano in un forte gorgo”. Dott. Giacomo Trevisan, medico condotto di Longarone. Morirà il 4 novembre dello stesso anno. E’ una delle testimonianze più significative. “Prima di mancare la corrente, improvvisamente si è spalancato il portoncino di ingresso, per un colpo d’aria, accompagnato da un rumore di aria irrompente (...) Immediatamente pensai che la diga avesse ceduto. Identica sorte ha subìto una finestra non chiusa dell’ambulatorio. Nello stesso momento mancò la luce. Mi precipitai immediatamente fuori e notai che i fiori, la strada e la stessa mia faccia venivano irrorate da acqua nebulizzata. Era cessato il vento e persistevano dei violenti scuotimenti della terra, un rumore indefinibile molto forte, come di un tuono estivo (...) Non appena si è verificato il colpo di vento, ho sentito venire dal paese un urlo prolungato di più voci e subito dopo, quando mi son fatto sull’uscio, ho visto venire da Dogna dei lampi di scariche elettriche che illuminavano il paese, anzi la valle. Data l’oscurità, non ho potuto vedere cosa succedeva nell’abitato di Longarone (...) Mi sono reso conto quando, poco dopo, mi sono portato verso le scuole elementari a bordo della mia macchina. L’autoveicolo, a 50 metri da casa mia, era inservibile, perché affondava nel terriccio e nell’acqua alta circa mezzo metro (...) ed aveva depositato legname per circa due metri di altezza. Subito vicino al cumulo di legname ed alle scuole trovai i primi feriti. Da questo ebbi la sensazione del disastro. Sono tornato immediatamente in ambulatorio e mi sono munito di torce, per tornar indietro subito dopo, sperando di essere utile ai feriti che purtroppo erano pochi rispetto ai morti. Il primo ferito che ho soccorso è stato un bambino di circa 10 o 12 anni, (...) era stato trovato nei pressi dell’abitazione Dalla stella in Via Roma con una gamba fratturata. Il ragazzo è deceduto dopo otto giorni all’Ospedale di Pieve di Cadore. Parlava, mi riferì che stava dormendo a letto e di essersi trovato dove venne soccorso, senza sapere il perché.” 14


Giuseppina De Nes, unica sopravvissuta di questo nucleo famigliare: “ Avevo spenta da poco la luce quando avvertii la terra tremare (...) Mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci della strada emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto ed afferrai i due bambini che dormivano, Roberta di 13 anni e Riccardo di 11; li avvinsi a me. Sentii l’acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola oltre al campo sportivo su un pino ove l’acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato rinvenuto nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi della mia casa .I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana.” Chiudono questa dolorosa ma necessaria sezione i sofferti ricordi che i membri del Comitato dei Sopravvissuti del Vajont hanno acconsentito a lasciarci riportare perché la memoria di questa tragedia continui a sopravvivere. "C'era una strana aria, in quei primi giorni di ottobre, a Longarone. Si sentivano strani discorsi. La gente bisbigliava continuamente, ma non capivamo bene di cosa, almeno noi bambini. (...) C'erano stati dei piccoli terremoti, ma non poteva essere colpa della diga!! (...) Qualcosa però era diverso. Era proprio l'aria ad esserlo; c'era una tensione in tutte le persone, una paura, quasi, di guardarsi; un sussurrare quasi continuo, una paura nuova negli occhi (...) Nel dormiveglia ho sentito un tuono. La voce di mia nonna che diceva a mia sorella che stava andando a dormire: "Chiudi le imposte che sta arrivando un temporale! Nello stesso istante, una folata di vento che arriva da lontano e fa sbattere le imposte, poi … un rumore sordo, fondo, la sensazione che il letto prendesse velocità, una forza spaventosa che mi prendeva alla schiena, mi piegava in due, mi schiacciava; la sensazione di essere di gomma, di allargarmi e poi restringermi, gli occhi diventati due stelle; una pressione enorme che mi tirava per i capelli, che mi risucchiava in un pozzo senza fine; mi inchiodava le braccia al corpo senza possibilità di muovermi; un gran male alla schiena giù in fondo; l'impossibilita' di respirare … ho alzato le braccia sopra la testa … cercavo qualcosa da toccare … e poi … il nero. Nero totale. Non so quanto tempo dopo ho cominciato a sentirmi più leggera; non c'era più quel peso che mi schiacciava; ho sentito mani che mi tiravano, mi prendevano per una mano e un piede … finalmente aria!” Micaela Coletti, Pres. Comitato Sopravvissuti del Vajont

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Non so bene che ore fossero, ma ad un certo punto della serata mancò la luce ed io andai in camera da Micaela e Giancarlo per mandar via il gatto. Micaela dormiva(...) La camera aveva un grosso armadio tra il letto e il comodino e nel girarmi sentii di colpo un forte vento che tagliava tutti i vetri, poi vidi un buco enorme nel pavimento e questa grandissima forza che mi spingeva dentro. Una grande botta ed il mio pensiero che mi diceva: è finita!Poi buio completo. Mi sono ritrovata in piedi sotto una montagna di macerie, mentre Micaela e Giancarlo erano sotto: vicini a me. Avevo un piede completamente bloccato dalle macerie, ma volevo tirare fuori a tutti i costi mio fratello. Cercavo di portarlo vicino a me. Ricordo che Micaela era coperta di maceria, con il pigiamino rosa a righe. (...) Hanno dovuto scavare con le mani da dietro e mi dicevano "adesso ti tocchiamo le gambe", ma tra loro dicevano "questa le gambe non le ha più". Io muovevo il piede ed urlavo "io le gambe le ho" ma non mi rendevo conto che muovendo il piede mi sarei rovinata per sempre. Fui tirata fuori da quella specie di bara e portata in barella dai militari e nell'ambulanza non avevo più pensieri per nessuno, solo sonno e debolezza. Matelda Coletti, Comitato Sopravvissuti del Vajont


“La sera del 9 ottobre 1963 abitavo a Longarone, avevo dieci anni ed ero a letto con mio fratello più piccolo di solo tre anni, quando ho sentito un rumore forte e la casa tremare tutta. Pensavo fosse il terremoto, subito dopo ho sentito un vento ancora più forte che sembrava non finire mai, poi l’acqua che arrivava da tutte le parti. Gridavo- aiuto, mamma, vieni a prendermi che c’è il terremoto-. La casa è crollata tutta e purtroppo lei non mi poteva sentire. Non so quanto tempo sia passato, continuavo a chiedere aiuto e non riuscivo a muovermi perché, Salvataggio del piccolo Gino Mazzorana (foto di essendo quasi tutto sotto le macerie, avevo qualcosa Bepi Zanfron per gentile concessione Comitato che mi impediva i movimenti delle gambe. Infatti avevo sopravvissuti del Vajont) addosso una trave di legno che mi bloccava. Giunsero finalmente i soccorritori, ricordo le tenui luci delle pile, che, sentendo le mie grida, cominciarono a scavare con le mani liberandomi dalle macerie. (...) Quella notte ho perso i genitori, un fratellino e uno zio.” Gino Mazzorana, Comitato Sopravvissuti del Vajont Quella sera maledetta io, otto anni, dormivo in camera con mia sorella di dieci anni al terzo piano della mia casa.(...) La mamma sentì un forte vento, i vetri che sbattevano, la luce sparì e la casa si aprì dallo spostamento d’aria, vide le stelle e poi arrivò l’acqua. Mentre veniva sballottata dalle onde, si fece il segno della croce dicendo -Questa è la fine del mondo!- La forza dell’acqua la portò a nord, al bivio con Castellavazzo. (...) Io non mi sono accorto di nulla, per fortuna! Quando mi sono svegliato, ero in po’ intontito, ho fatto per accendere la luce e sono scivolato. Non mi rendevo conto di quello che era successo essendo al buio. Sentivo l’acqua che mi arrivava alle caviglie e tante urla di aiuto, tanto che mi misi anch'io a gridare aiuto. Poco dopo sono arrivati i soccorritori che mi hanno trovato sui gradini del Municipio. Mi hanno portato in un appartamento lì a fianco (...) Mia sorella, purtroppo è deceduta e l’hanno trovata a Sedico-Bribano, a 30 chilometri di distanza. Mio papà fu trovato a Fortogna. Dopo 40 giorni di ospedale siamo andati, provvisoriamente, dagli zii, a Igne, una frazione. Rimasi molto scioccato quando vidi che al posto di Longarone c’era un deserto di rottami dove lavoravano ruspe, gru, camion, soldati e, soprattutto, c’erano molti cadaveri. Renzo Scagnet, Comitato Sopravvissuti del Vajont

“C’era una volta una voce che poteva fermare il Vajont. Ma il lupo era pieno di menzogne e fece fuori l’agnello. Così la voce di una donna contro il disastro non vinse l’inferno. (...) Il buio si fece più buio. Un soffio e la montagna si accese di vita: con il rumore del vento infranse lo specchio del lago. E poi su, a soffocare la voce del cielo e giù con gli artigli a chiudere il respiro della valle. L’acqua raschiò anche la terra, il fango lasciò solo schegge di vita.(...) Il vento accarezzò il dolore, grattò la scorza del pianto e del singulto. La rabbia divenne lamento. Perché c’era una voce che poteva fermare il Vajont.” Bruno Pittarello 16


L’Unità – 11 ottobre 1963 “E’ stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore dalla valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari.” Tina Merlin

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"Il Giorno", l'11 ottobre 1963 “Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c'erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!... Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muovere guerra.. “ Giorgio Bocca

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Vajont, il dopo strage. di Marco Padovani

Mentre la mattina del 10 ottobre 1963 Longarone agli occhi dei superstiti e dei soccorritori appariva come una distesa piatta e grigia, iniziava il secondo capitolo di questa strage, per alcuni versi più umiliante del primo. Dopo essere stati travolti da un’onda paragonata alla forza di due bombe sganciate su Hiroshima (circa quaranta mila tonnellate di tritolo), i superstiti si trovarono travolti dagli stessi meccanismi che hanno portato a questa tragedia. L'Italia si svegliò leggendo sui quotidiani la notizia di quello che era successo da poche ore. Il ruolo di maggior parte della stampa italiana fu fondamentale nel presentare all’opinione pubblica l’enormità della catastrofe, ma allo stesso tempo nel relegare in secondo piano le reali cause e le premesse alla tragedia. Mentre sui giornali esteri (New York Times, The Times, Le Monde ecc.), molto attenti a raccontare quello che era davvero successo, si dava largo spazio all'inchiesta condotta dalla giornalista dell'Unità Tina Merlin, in Italia si mobilitarono le più prestigiose firme del giornalismo (tra gli altri Montanelli) per fugare ogni dubbio: quello che era successo era una disgrazia naturale per la quale l'uomo non aveva alcuna responsabilità. La penna di Giorgio Bocca “Il Giorno” minimizzava sul fatto che nessuno aveva colpa se non l’indifferente natura, Dino Buzzati de “Il Corriere Della Sera” elogiava la magnifica diga che aveva resistito all’urto usando un macabro paragone tra la diga come un bicchiere, la frana come un sasso, le persone come i microbi sulla tovaglia allagata dal bicchiere. I superstiti che reclamavano giustizia erano fomentati da «sciacalli comunisti», giornalisti di sinistra che speculavano sul dolore e sui morti. I processi e i risarcimenti Il Ministero dei Lavori Pubblici avviò immediatamente un'inchiesta per individuare le cause della catastrofe. Scendevano in campo forze potenti che dovevano rispondere di responsabilità penali, civili e politiche. Emerge nelle prime battute che la Sade conosceva il pericolo franoso, che le perizie erano state accuratamente occultate e che anche gli organi della pubblica amministrazione avevano abdicato ai loro doveri di controllo. Per un breve momento sembra che il governo di centro sinistra Moro-Nenni voglia fare sul serio andando fino a fondo per dare giustizia alle persone colpite da questa tragedia. Il 14 febbraio 1964 il Procuratore della Repubblica, dottor Mandarino, trasmette le sue accuse al giovane ma determinato Giudice Istruttore di Belluno, Mario Fabbri. Nel 1967, a meno di quattro anni dal rischio di prescrizione, il giudice Fabbri riceve una perizia esclusiva che contesta che la frana e il relativo disastro erano inevitabili visto l’evolversi delle situazioni che versavano sulla zona. 19


La sentenza di rinvio a giudizio per disastro colposo depositata da Fabbri il 20 febbraio del 1968 denuncia chiaramente connivenze, omissioni, evidenti e gravissime responsabilità. Viene quindi avviata un’istruttoria formale contro il vicedirettore della Sade Alberico Biadene, i membri della Commissione di collaudo Luigi Greco, anche presidente del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici, Francesco Sensidoni, anche ispettore generale del Genio civile, e Fracesco Penta, contro Curzio Batini della quarta sezione dei Lavori pubblici e Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova e consulente della Sade, e contro tutte le persone che in corso di istruttoria risultavano imputabili. I reati contestati erano: cooperazione in disastro colposo di frana e inondazione aggravato dalla previsione, cooperazione in omicidio e lesione colposi plurimi. Vengono sottolineati i legami tra ingegneri dell’Enel-Sade e i funzionari del Ministero. La sentenza definitiva deve arrivare entro il 9 aprile 1971, prima della prescrizione. Dall’altra parte la Sade-Enel si sta attrezzando per mettere a punto la sua difesa, sembra che voglia puntare sulla “imprevedibilità ed eccezionalità dell’evento”, in quanto non è stato possibile valutare con precisione la velocità di slittamento della frana e la sua massa effettiva che avrebbe, secondo il triangolo Sade-Enel-Stato, rese vane le misure protettive adottate nella diga del Vajont. I primi contrasti interni al processo avvengono con la maggioranza della Commissione parlamentare di inchiesta che nega i documenti, l’Enel che si arrende alle prime battute contro la vecchia commissione Sade, diventando sua alleata e offrendosi di pagare i danni. L’istruttoria del giudice Fabbri verrà attaccata dagli avvocati della difesa, inutilmente. Negli stessi anni i superstiti sono contattati dagli avvocati per i risarcimenti. Secondo Giovanni Leone (il Presidente del Consiglio che i giorni successivi alla tragedia era andato dai sopravvissuti a garantire giustizia nome dello Stato, ma che poi assumerà la difesa della Sade) l’impossibilità di stabilire ai processi un colpevole non poteva garantire ai superstiti una ricompensa per i beni materiali e morali. Quello che invece gli avvocati offrivano, ad esempio, erano un milione e mezzo per i genitori morti (se il figlio era minorenne, altrimenti un milione), ottocentomila lire per i fratelli conviventi, seicentomila per quelli non conviventi. In base al cavillo trovato da Leone nulla era dovuto per nipoti, nonni, zii scomparsi, anche se conviventi. Ci fu chi per sette parenti, la casa rasa Risarcimenti per i congiunti defunti. al suolo, ottenne 6 milioni di Lire, Per gentile concessione della sig.ra Micaela Coletti equivalenti a circa 45.000 euro del 2002. 20


Gli avvocati dell’Enel cominciano a girare di casa in casa per convincere i superstiti a firmare la transazione. La speranza dell’Enel che si cela dietro a questa mossa è di ridurre i danni per i risarcimenti civili, nel caso il processo debba andare nelle peggiori delle ipotesi. La preoccupazione della gente che si trova a rifiutare è quella di dover combattere con un gigante economico e politico come l’Enel. Quasi tutti i superstiti firmarono la transazione. Gli avvocati ottennero per ogni liberatoria ottenuta un compenso di 5 milioni di Lire, spesso molto più di ciò che venne dato ai parenti delle vittime. Di lì a poco la presidenza dell’Enel avanza pubblicamente una clamorosa proposta: offre la transazione ai superstiti, dieci miliardi di lire in cambio della loro rinuncia alla parte civile nel processo. Dal 1968 i fatti si susseguono con una rapidità sconvolgente; Pancini si suicida, viene proposta l’accusa di strage dolosa anziché omicidio colposo, iniziano i primi interrogatori. Il processo di primo grado è spostato all’Aquila, a 550 chilometri da Belluno, considerato ambiente troppo coinvolto dalla tragedia e quindi poco obiettivo. Clamorosamente in prima battuta, al processo non sono riconosciuti la prevedibilità della frana e i reati di frana e inondazione. Sono condannati per omicidio colposo, quindi involontario, solo Biadene, Batini e Violin. Le persone presenti al processo inveiscono contro la sentenza, non sono stati riconosciuti i meccanismi di un sistema che per la logica del profitto ha causato tanto. Viene invocato il processo d’Appello in cui, nel 1970, i principali imputati sono condannati per frana, inondazione, aggravata dalla previsione dei fatti, che con una sentenza clamorosa questa volta viene riconosciuta. Le condanne, tuttavia, sono lievi: sei anni, condonati a tre, per Biadene, quattro anni e mezzo, condonati di tre, per Sensidoni, capo del Servizio dighe del Ministero dei Lavori pubblici. I principali imputati al processo dell'Aquila: in prima fila Biadene (foto Archivio Unità)

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Successivamente in Cassazione, nel 1971, pur essendo riconosciuto i reati di unico disastro colposo, inondazione aggravata dalla previsione dei fatti, frana e omicidio colposo plurimo, le pene saranno ancora ridotte. Unico a finire in carcere, a Venezia, S. Maria Maggiore, sarà l’ing. Biadene, il quale oltre al condono di tre anni su una condanna a cinque, riceverà anche uno sconto di pena per buona condotta. Nel 1982 nella Corte d’Appello di Firenze Enel e Montedison vengono condannate a pagare i danni allo Stato, mentre la sola Montedison i danni al comune di Longarone (sanzione ribadita dalla Corte Suprema di Cassazione alla quale la Montedison aveva fatto ricorso). Dopo il processo ci si avvia alla chiusura giudiziaria di questa lunga e triste storia. Sarà però lo Stato, quindi la collettività italiana, ad accollarsi il peso del risarcimento, versando nel luglio 2000, con un decreto del Presidente del Consiglio, settantasette miliardi di lire per i danni causati a Longarone. Di tale cifra una parte sarà destinata al rifacimento del cimitero delle vittime, a Longarone. Un cimitero di cippi uguali a ricordo di un’ecatombe, avvenuta in una manciata di secondi, pari per numero di morti ad una strage di guerra.

Il nuovo cimitero delle vittime del Vajont, a Fortogna (foto N. Frosini)

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Il cimitero del Vajont di Nicholas Michelini

Il giorno 10 ottobre, durante la nostra visita alla diga del Vajont abbiamo fatto sosta a Fortogna, dove si trova il cimitero delle vittime del Vajont. Qui abbiamo incontrato la signora Micaela Coletti, presidente del Comitato dei Sopravvissuti al disastro. Dopo essersi presentata, si è quasi scusata dicendo che non aveva altra sede dove parlarci, perché incredibilmente non è stato messo a disposizione del Comitato un luogo dove poter accogliere chi desidera sentire le loro testimonianze, cosa, a nostro parere, La sig.ra Micaela Coletti nella cappella del cimitero di Fortogna (foto L. Brait) realmente vergognosa. Ha proseguito poi il suo discorso dicendo che il cimitero che avevamo davanti non era quello originario. Il primo contava 1464 croci, di cui solo 700 avevano nome, perché la maggior parte delle vittime non era stata riconosciuta. L’attuale cimitero è stato ristrutturato e si presenta, al contrario del precedente, come un immenso giardino, un infinito prato verde, sul quale poggiano 1910 cippi marmorei bianchi, uno per ogni vittima della tragedia, a prescindere dal ritrovamento, dal riconoscimento o dal luogo di sepoltura, perché erano ritenute tutte vittime di una stessa tragedia. Secondo lei, il nuovo cimitero non dà le stesse emozioni e non evidenzia la questione dei non riconosciuti, perché se è vero che sono morte 2000 persone, numero tra l’altro convenzionale, bisogna ricordare che solo meno della metà dei corpi è stata riconosciuta, tutti gli altri non hanno un nome. Ci confessa, poi, che con il vecchio cimitero lei e gli altri i parenti delle vittime facevano un determinato percorso per arrivare dai propri familiari, mentre adesso, facendo lo stesso tragitto, non si ritrovano più con il cippo Il Cimitero delle vittime (foto C. Valentini) corrispondente. 23


Anche se all’ingresso del cimitero, davanti al portale, hanno messo un computer con il quale, digitando il nome del defunto, è possibile trovare la strada per raggiungere la tomba, non si sa se questa coincida con il corpo del defunto. Questa situazione, ci ha spiegato, è dovuta al fatto che, durante la ristrutturazione, sono state tolte le croci con i nomi dei defunti senza mettere alcun segno per ricordare il luogo della sepoltura e, dopo aver terminato i lavori, hanno messo i cippi a caso nel terreno. Continua mostrandoci una raccolta di fotografie di prima e dopo il disastro. Queste includevano i vari paesi colpiti dalle catastrofi che l’onda aveva provocato. In una foto, in particolare, raffigurante la vecchia Longarone, ci ha fatto vedere dove abitava, dicendo che la notte del disastro è stata trascinata fuori per 300 metri ritrovandosi davanti alla scuola. Ha fatto girare anche varie fotografie raffiguranti i membri della sua famiglia e due di suo padre, una prima del disastro e una fatta la mattina dopo, quando fu ritrovato, quasi irriconoscibile, sottolineando che però fu identificato solo un anno dopo. Conclude il suo discorso dicendo che il governo aveva poi trascurato la loro situazione, non solo per lei, ma anche per gli altri sopravvissuti, mentre i colpevoli di quello che è successo furono accusati di inondazione, ma pochi entrarono in carcere e solo dopo un anno di prigione furono rilasciati per buona condotta. Questa, per lei, è la giustizia per quello che riguarda la tragedia del Vajont.

Interno della cappella dedicata alle vittime. Lista dei nomi (foto N. Frosini)

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Un dolore ancora irrisolto

L’incontro con la tragedia

Due sono gli aspetti che mi sono rimasti impressi dall’incontro con la sig.ra Coletti: un dolore che va oltre le classificazioni tra le persone colpite dalla tragedia e la sua percezione dell’impossibilità dello Stato e delle Istituzioni di comprendere appieno una sofferenza interiore che sarà difficilmente sanabile. Le persone che hanno vissuto questa tragedia in modo diretto, ha voluto puntualizzare, si contraddistinguono in due “categorie”: i sopravvissuti e i superstiti. I sopravvissuti sono coloro che al momento della tragedia erano presenti fisicamente nei luoghi colpiti dall’ondata di morte del Vajont e che si sono ritrovati sommersi da fango e detriti di ogni genere. I superstiti invece sono coloro che erano in un altro luogo al momento della catastrofe e che quindi non hanno vissuto sulla propria pelle la furia del muro d’acqua che si è abbattuto sui paesi vicini alla diga, ma che hanno comunque vissuto e vivono il dolore della perdita dei loro cari e delle loro case. Poco dopo la catastrofe, ha ricordato, fu recuperata la maggior parte dei corpi (molti impossibili da identificare) e fu costruito un cimitero in cui i parenti delle vittime potevano piangere i propri cari, quelli che erano stati identificati. Recentemente il cimitero è stato ricostruito in maniera molto anonima e fredda, dal punto di vista dei parenti delle vittime. Il comune ha voluto renderlo un cimitero visitabile dai turisti, che crei un particolare effetto visivo da cimitero di guerra. Per fare questo, però, ha distrutto quello precedente, alterandolo radicalmente e collocando al posto delle croci migliaia di cippi anonimi. Quindi i parenti delle vittime al giorno d’oggi non sanno neanche se sotto alla lapide che loro vedono ci sia realmente un loro caro o una qualsiasi altra vittima. Per loro è stato un po’ come perderli un’altra volta.

La prima parte della visita al Vajont, l’incontro al cimitero di Fortogna con una dei pochi sopravvissuti alla tragedia, mi ha colpito particolarmente. Più che i soliti calcoli, le solite analisi scientifiche di un disastro che non si potrà mai risanare, è stato di maggior importanza il racconto della sopravvissuta, dei suoi ricordi e della perdita di gran parte della sua famiglia. In quel momento, nel cimitero dei “caduti” del Vajont, ho visto particolare attenzione da parte di tutti, me compreso, per cercare di entrare nei panni di questa donna e di capire la difficoltà di perdere i propri cari all’improvviso e in quel modo così tragico, soprattutto in tenera età. La sig. Micaela, inoltre, è stata molto critica nei confronti delle Istituzioni locali e del governo per le ingiustizie a lei inflitte, come, ad esempio la somma irrisoria di risarcimento per la morte del padre e delle sorelle e i molti altri problemi burocratici e di sradicamento affettivo legati a questo disastro. Mi hanno impressionato la forza e la tenacia della donna, quando ci mostrò la foto del cadavere di suo padre totalmente irriconoscibile. Mi ha colpito però anche il suo dolore che non le ha permesso di narrarci fino in fondo i momenti drammatici vissuti quella sera. In conclusione, a mio parere, questo incontro è stato il punto di riferimento dell’uscita a Longarone e tutto il rimanente ha ruotato intorno ad esso.

Carlo Alberto Valentini

Daniel Brugnaro

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Vajont 1963 Una comparazione cronologica A cura di Giacomo Vulpone

La storia delle comunità di Erto, Casso, S. Martino, Longarone venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del Monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un’immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione. La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime. Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione. Fu subito aperta un'inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la prevedibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti, se pur con mille difficoltà. La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere. Dopo la catastrofe annunciata, tra gli autori principali che scrissero sul Vajont per mantenere viva la coscienza della tragedia, primo tra tutti e fondamentale fu Marco Paolini con il suo lavoro teatrale ed i suoi scritti che denunciarono le responsabilità umane alla base del disastro. A lui “rispose”, con il testo specialistico La storia del Vajont, Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, l’ingegnere che progettò la diga. Abbiamo comparato le cronologie presentate dai due autori, per evidenziare le differenze di opinioni sulla vicenda del Vajont. Da questa analisi emerge che E. Semenza tenta in qualche modo di difendere il padre, Carlo Semenza, cercando delle scusanti per giustificare l'accaduto. Ad esempio E. Semenza scrive che uno dei motivi per cui è stata trascurata la situazione geologica del Monte Toc fu la scarsa conoscenza tecnica e scientifica sull'argomento frane. Invece Paolini nel suo libro parla, in questo caso, di negligenza da parte dei progettisti. Semenza dice anche che una delle motivazioni che ha portato a un ritardo nelle operazioni di svaso fu il passaggio da Sade a Enel, mentre Paolini sembra sottolineare più la logica del profitto nelle scelte fatte. Penso che il miglior modo di rendere omaggio alla memoria delle vittime e ai comuni colpiti da quell'immensa evitabile tragedia ambientale sia di continuare a mettere in evidenza la vicenda, come di fatto stiamo facendo. Ma in questo ricordo è allo stesso tempo necessario non dimenticare anche gli errori commessi dall’uomo che evidenziano una chiara responsabilità umana rispetto ad un evento catastrofico. Trasparenza nelle procedure, maggiore considerazione dell’elemento umano e ambientale e serietà nella realizzazione del progetto avrebbero evitato la tragedia. Queste, ora, le due cronologie commentate dagli stessi autori, in un confronto degli eventi che abbiamo ritenuto più significativi.

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Cronologia Anno

M. Paolini – F.Niccolini

E. Semenza

1926

Primo progetto dell'impianto della diga del Vajont al ponte di Casso, con centrale a Dogna. Relazione del prof. J. Hug di Zurigo in cui si consiglia questa sezione perché a valle del Colombèr il calcare è permeabile.

1928

Relazione prof. Dal Piaz, in cui si afferma che le Il prof. Giorgio Dal Piaz preferisce la sezione al Ponte del condizioni strutturali della conca del Vajont, Colombèr perché al ponte di Casso la roccia non è buona e la nonostante le apparenze, non sono peggiori di diga non avrebbe potuto essere alta più di 50 m. quelle delle altre zone montane.

1929

Richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici da parte Domanda per la realizzazione del progetto con diga al Ponte di della Società Idroelettrica Veneta per sfruttare il Casso (con invaso di 656 metri) con la prima relazione del prof. bacino del torrente Vajont per la produzione di Hug. energia.

1930

G. Dal Piaz presenta la sua relazione: per la massa della Pineda esclude franamenti importanti.

1937

Relazione geologica Dal Piaz

Presentazione nuovo progetto con la diga al Colombèr con invaso massimo 660 metri. Seconda relazione positiva di Dal Piaz.

1940

La SADE (Società Adriatica di Elettricità) amplia la richiesta con il permesso di sfruttamento dei flussi del Piave, del Bojte, del Vajont e altri affluenti minori. Si presenta un progetto con capacità di 50 milioni di metri cubi d’acqua e un’altezza di 200m.

C. Semenza formula l’idea di realizzare un unico impianto con una serie di serbatoi più o meno alla stessa quota delle valli del Piave, con centrale unica a Soverzene e un’altra diga alta fino a quota 667.

1948

Concessione con Decreto del Presidente della Repubblica. Nuove relazioni di Dal Piaz in cui si afferma che in caso di smottamenti, questi sarebbero di lieve entità.

Si progetta di aumentare l’altezza della diga fino a 679 metri con una maggiore produzione di energia. Nuova relazione di G. Dal Piaz riguardante i possibili fenomeni di instabilità delle sponde del serbatoio della zona Pineda di fronte a Erto. La relazione indica anche vari studi da compiersi, fatti negli anni successivi.

1949

Il comune di Erto e Casso vende alla SADE i terreni comunali compresi nel progetto. Si prevede una passerella pedonale per gli abitanti che devono attraversare il bacino per raggiungere i pascoli. Il Ministero approva la richiesta. Sono affidate le perizie al geofisico Pietro Caloi e al geotecnico Leopold Muller. Perplessità di quest’ultimo su un pericolo di frana. La sua relazione non viene inviata agli organi di controllo.

Gennaio ‘57 La Sade inizia i lavori senza autorizzazione. Dal Domanda di costruzione con innalzamento dell'invaso alla quota Piaz chiede a Semenza consigli per redigere la di 722,5 metri. Questa quota tiene conto dei nuovi studi sul relazione da mandare al Ministero. bacino che evidenziano in particolare nella zona di Erto le buone condizioni di stabilità. Inizio lavori. Giugno 1957: Relazione di Dal Piaz, dopo visione e lievi Relazione di G. Dal Piaz sui fenomeni tettonici della valle del aggiustamenti dell’ing. C. Semenza. Vajont e dintorni: non si parla di fenomeni di instabilità. L'interesse primario era rivolto alla stabilità e alla tenuta dell'imposta della diga, mentre gli studi sulla stabilità dei versamenti erano obiettivamente poco sviluppati. E. Semenza ricorda che mancava a quel tempo una cultura specifica sulle frane. Agosto 1957: Relazione di Muller in cui si parla di forte pericolo Rapporto del prof. L. Muller: si parla di alcune masse poco di frana sulla sponda sinistra. stabili nella zona del Toc, facilmente asportabili.

1958

Viene nominata una commissione di collaudo.

Inizio dei getti per la costruzione della diga. Nuova relazione di G. Dal Piaz sulle condizioni geologiche del luogo: afferma che eventuali frammenti saranno di scarsa importanza. (26 ottobre).

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1959: Marzo

Frana di 3 milioni di metri cubi cade dal bacino di Frana di Pontesei: dopo si sente l’esigenza di verificare pericoli Pontesei. Muore il primo operaio. di franamenti nella zona dell’invaso del Vajont.

3 maggio

Si forma il Consorzio Civile per la rinascita della valle di Erto, fondato dai cittadini di Erto e Casso.

5 maggio

Tina Merlin comincia a scrivere sull’Unità articoli contro l’opera della SADE, denunciandone la pericolosità. Viene citata in giudizio per diffamazione.

Luglio

Trasferimento in altra sede del capo del Genio E. Semenza riceve da Muller un programma di studio geologico Civile di Belluno che ha imposto la sospensione tecnico dell’intero invaso ed inizia subito lo studio. dei lavori della strada di circonvallazione sulla sinistra del Vajont per mancata presentazione del progetto da parte della Sade al Genio Civile.

Agosto

E. Semenza scopre la paleo frana sul Toc e comunica verbalmente ai progettisti i principali risultati riguardanti la stabilità dei versanti. Ipotizza che la massa possa muoversi durante l’invaso.

Settembre – Si concludono i lavori della diga (altezza 725m). Indagine geosismica del prof. Pietro Caloi: evidenzia una massa Novembre La SADE chiede l’autorizzazione di fare un primo di elevata solidità. invaso sperimentale fino a quota 600metri.

1960 Febbraio

Il servizio dighe concede l’autorizzazione. Inizio dell’invaso sperimentale. Durante l’invaso una frana si stacca dal Monte Toc, ma la SADE continua ugualmente l’invaso fino a quota 660m.

Marzo

Al primo invaso si stacca una frana dal monte Invaso a q. m.590: si manifestano dei movimenti franosi, Toc. probabilmente dovuti all'inizio della rimobilizzazione della paleo frana. Posizionamento di capisaldi per controllare i possibili movimenti della paleofrana.

Primi di maggio e giugno

Su incarico della SADE due nuovi geologi, Franco Le prime misure mostrano piccoli movimenti che continuano Giudici e Edoardo Semenza, stilano la loro con velocità crescenti nei mesi successivi. perizia: entrambi esprimono la loro preoccupazione di fronte all'esistenza di una frana che si potrebbe mettere in moto con il procedere dell'invaso. La relazione stimata dai due non verrà mai inviata all'organo di controllo.

9 luglio

Relazione di Dal Piaz, in cui si prevede una Relazione di G. Dal Piaz sulla stabilità di tutto il bacino; parla di progressiva situazione di equilibrio. Consiglia falde detritiche senza importanza. Nega l’esistenza della paleo comunque una sistematica sorveglianza. frana.

Settembre

Fine dei getti per la costruzione della diga.

Fine ottobre

I movimenti raggiungono e superano la velocità di 3 cm al giorno.

4 novembre

Una frana di 700.000 metri cubi cade dal Toc Invaso a 650 m: una frana di circa 700.000 metri cubi scivola nel bacino. Compare sul versante sinistro una nel lago provocando un'ondata di 2 metri, la quale fessura a forma di M lunga 2,5 km. infrangendosi contro la diga raggiunge un'altezza di una decina di metri.

8,9,15, e 16 novembre

Riunione dei tecnici. Si decide per la costruzione Viene proposto di abbassare il lago molto lentamente, cosa che di una galleria di sorpasso che colleghi i due inizia immediatamente e porta subito ad un rallentamento dei bacini in caso di frana. movimenti e quindi all'arresto. C. Semenza propone di costruire una galleria di sorpasso.

28-30 novembre

Si apre il processo contro Tina Merlin, la Si decide di abbassare l'invaso, sempre molto lentamente fino a giornalista dell’Unità che ha scritto contro la q. 600 e di costruire la galleria di sorpasso. Sade. La SADE rinuncia a deporre e il processo si chiude con l'assoluzione della Merlin.

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Dicembre

Ulteriori sopralluoghi e indagini geosismiche. Nuova indagine geosismica di Caloi. I risultati indicano una Il prof. Penta solleva dubbi e timori sulla roccia in condizioni di fratturazione, che appoggia in profondità profondità della frana. su roccia compatta. Dal Piaz nella sua relazione, mai consegnata e nemmeno battuta a macchina, riconosce un’antica frana, come constatato da E. Semenza. (fine dicembre).

1961:

Inizio costruzione galleria di sorpasso. La Sade commissiona al Centro Modelli Idraulici la costruzione di un modello del bacino del Vajont.

3 febbraio

Il geotecnico Muller stila un’altra relazione in cui Ipotizza una frana di 200 milioni di metri cubi. Afferma che l’unica soluzione al cedimento di una frana è l’abbandono totale del progetto. La relazione non viene mai mandata agli organi di controllo. Nuovo articolo di Tina Merlin contro la Sade e in cui si parla di una frana che minaccia gli abitanti di Erto.

Febbraioottobre

Sul versante sinistro del Toc si collocano quattro Dopo che il livello dell'invaso è stato abbassato si scava la piezometri: tubi in acciaio infissi nel terreno che galleria di sorpasso. Scavando si scoprono altre ghiaie fluviali. arrivano a 167/221 m di profondità e hanno lo Istallazione di 4 piezometri nella massa della paleo frana. scopo di controllare il livello dell’acqua dentro la roccia . (agosto)

Primavera

Lettera di C. Semenza in cui esprime Inizia la progettazione di un modello idraulico della diga, a Nove preoccupazione per i possibili smottamenti e le di Vittorio Veneto. frane alla ripresa dell’invaso. Finita la galleria di sorpasso.

Ottobre

Visita della Commissione di collaudo: parere positivo sulla ripresa dell’invaso. La Sade, senza aspettare l’autorizzazione ufficiale, inizia di nuovo l’invaso.

Rapporto Muller: propone i seguenti possibili rimedi, solo alcuni, però, tecnicamente eseguibili: limitare molto l’infiltrazione delle acque piovane e alleggerire la massa (inattuabili); abbassare l’invaso; drenare e installare piezometri per conoscere il comportamento dell’acqua nel versante; cementare la massa di frana, creare un contrasto al piede della frana utilizzandone parti distaccate con esplosivo.(altissimi costi e pericolosità)

Inizio del secondo invaso. I movimenti raggiungono la velocità di 1,5 cm al giorno e quindi il livello del lago viene abbassato fino a 650 m, ottenendo l'arresto dei movimenti. 20 ottobre Muore Carlo Semenza

1962

La SADE chiede di raggiungere l’invaso fino a 20 aprile Muore Giorgio Dal Piaz quota 680 (gennaio). La SADE ottiene l’autorizzazione per la quota 675. Da marzo l’ingegnere Biadene, che ha sostituito Semenza, morto a ottobre del 1961, cancella le registrazioni delle scosse dai rapporti inviati al Ministero. (febbraio) Scossa sismica (aprile).

Luglio

Relazione del prof. Ghetti della centrale di Nove, sul modello della diga. Si dà come sicura la quota di invaso a 700m. Chiede comunque la prosecuzione del collaudo nell’ipotesi di un’onda di massima piena.

Relazione del prof. Ghetti delle prove eseguite sul modello idraulico della diga alla centrale di Nove. I risultati sono utili per la previsione degli effetti idraulici di un possibile franamento. Si stima un’ondata alta al massimo 30 metri.

12 dicembre Nasce l’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica). La SADE passa allo Stato e deve dimostrare la perfetta funzionalità dell’impianto e accelera le operazioni per il collaudo finale.

1963

Fine giugno

L'assistente governativo Bertolissi rileva e La gestione dell’impianto passa dalla Sade all’Enel. (Marzo) dichiara l'aumento della velocità di abbassamento dei punti sotto osservazione sul Monte Toc. (gennaio) La SADE chiede un nuovo invaso fino a quota 715 m. Il servizio dighe autorizza senza parere della commissione di collaudo. (marzo) Superati i 700 m: i movimenti ricominciano, mantenendosi a bassa velocità. Si decide di innalzare ulteriormente il livello del lago. E. Semenza commenta che non capisce perché nonostante l'esperienza dei primi due invasi, non s’inizi ad abbassare il livello del lago, ma anzi lo si innalzi, raggiungendo i 710 alla fine del mese.

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Settembre Forte scossa. Il sindaco di Erto manda un La velocità aumenta, lentamente ma continuamente. Si decide telegramma dove esprime la propria preoccupazione per la sicurezza degli abitanti del Comune.(2 settembre) Nuova fessura sul Toc. Biadene e i tecnici della SADE rinunciano a raggiungere 715 m e di iniziare lo svaso. (15 settembre)

8 ottobre

9 ottobre.

lo svaso, che però inizia solo il 26, quando la velocità ha raggiunto i 2 cm al giorno; ma nonostante l'abbassamento essa non diminuisce e va anzi aumentando rapidamente fino al movimento finale del 9 ottobre 1963. Edoardo Semenza ipotizza che i ritardi siano spiegabili con l’avvenuto passaggio della gestione dell’impianto dalla Sade all’Enel, che può aver reso più difficile e lenta ogni decisione in merito alle misure necessarie a fronteggiare la situazione.

Biadene e gli altri ingegneri chiedono lo sgombero della zona del Toc e il divieto del transito sul fronte sinistro. Il Toc viene fatto sgomberare. Mattina i movimenti della frana ostruiscono il canale di scarico dell’invaso. Alla pausa pranzo alcuni operai vedono i movimenti della montagna. Si aprono crepe e cadono alberi con le radici sollevate. Alle 17 viene disposto il blocco del traffico nella zona di pericolo. Ore 20 i camion non riescono più a transitare sulla strada nella sponda sinistra del bacino. 22.39. La frana si stacca in un corpo unico di 22.39 La grande massa scivola nel serbatoio. L’ondata 260 milioni di metri cubi di roccia. Un’onda di distrugge gran parte di Longarone e gruppi di case di altri 50 milioni di metri cubi piomba a valle paesi. devastando i paesi sottostanti.

Longarone vista dalla diga- Il terribile percorso dell’onda mostruosa (foto N. Frosini)

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RICOSTRUZIONE IN CAD 3D DELLA VALLATA DEL VAJONT di Marco Tonetti e Carlo Alberto Valentini La ricostruzione1 dei rilievi del bacino del Vajont che abbiamo elaborato al computer, prima in disegno bidimensionale, poi con ricostruzione tridimensionale, ci ha permesso di visualizzare anche dal punto di vista tecnico l’enorme quantità di monte franata nel lago artificiale, ancora più impressionante se rapportata alle dimensioni dei centri abitati coinvolti dal disastro.

1 – Elaborazione in 2D in Autocad delle curve di livello dei monti Salta e Toc, situazione attuale

2120 m 1840 m

600 m

2- Stratificazioni attuali dei due monti. 2- Ricostruzione in Cad delle stratificazioni dei monti Salta e Toc. 1

Per la realizzazione della ricostruzione tridimensionale del bacino, abbiamo recuperato da Google Maps, una mappa morfologica della zona su cui sorge la diga. Gli steps seguiti per la ricostruzione delle montagne sono stati i seguenti: importazione nel software AUTOCAD dell’immagine della zona in oggetto; abbiamo “riscalato” l’immagine sfruttando l’indicazione della scala della mappa; utilizzando il comando polilinea, abbiamo ricalcato le diverse curve di livello, impostate ogni 40 metri; per ogni curva di livello è stata creata la rispettiva regione, per rendere possibile la successiva estrusione; utilizzando il comando “estrudi” abbiamo sviluppato i solidi delle varie regioni rappresentanti le diverse parti di montagna; utilizzando il comando “sposta” abbiamo traslato ogni singola parte alla rispettiva quota.

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3 - Ricostruzioni tridimensionali della situazione attuale della vallata del Vajont

2120m

Erto (880 m) Casso (920 m)

800m

600m

Bacino attuale del Vajont

Erto

Casso

Longarone

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Bibliografia Questa sezione non esaurisce tutte le numerosissime pubblicazioni e i materiali disponibili sul Vajont, ma comprende unicamente le fonti utilizzate per il nostro lavoro.

M. Corona, Vajont: quelli del dopo, Piccola biblioteca Oscar Mondadori, 2006 A. Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro. Cierre edizioni, 2012. T. Merlin, Sulla pelle viva, Cierre edizioni, 1997 M. Paolini – O.Ponte Di Pino, Quaderno del Vajont, Einaudi 1999 M. Paolini - G. Vacis, Il racconto del Vajont, ed. Garzanti, 1997 M. Passi, Vajont senza fine, Baldini Castoldi Dalai editore, 2003 B. Pittarello, Vajont, ottobre 1963, Cierre edizioni2004 M. Reberschak, Il grande Vajont, AA.VV. Cierre edizioni, maggio 2008 E. Semenza, La storia del Vajont, K- flash edizioni, 2005 B. Zanfron, fotoreporter, Vajont, 9 ottobre 1963, cronaca di una catastrofe, Tipolitografia Printhouse, settembre 1998.

Filmografia R. Martinelli, Vajont, 2004. M. Paolini - G. Vacis, Vajont, 9 ottobre ’63, Orazione civile, RaiTrade, DVD in ed. Einaudi 1999 A. Prandstralier, Vajont, 63, Il coraggio di sopravvivere, Venicefilm, 2008 Comune di Erto e Casso; Parco Naturale delle Dolomiti Friulane; Materiali della Mostra permanente del centro visite di Erto: La catastrofe del Vajont; Vajont dentro la catastrofe

Siti Web www.sopravvissutivajont.org www.tinamerlin.it www.vajont.net www.vajont.info www.anvvf.com

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Indice Prefazione

p. 2

La catastrofe del Vajont

p. 3

Il progetto della diga

p. 3

L’inizio dei lavori e le prime perplessità

p. 5

Le reazioni della popolazione locale e la solitaria battaglia di Tina Merlin

p. 5

La scoperta della paleo frana e la conclusione dei lavori

p. 6

Gli invasi, le prime frane, i dubbi, le omissioni

p. 7

Il modellino di Nove e il livello di massima sicurezza

p. 8

Verso la catastrofe

p. 9

Il 9 ottobre ’63

p. 9

Le testimonianze

p. 11

La frana, il vento, l’onda mostruosa. Testimoni oculari e sopravvissuti

Vajont, il dopo strage

p. 13 p. 19 p. 19

I processi e i risarcimenti

Il cimitero del Vajont

p. 23

Un dolore ancora irrisolto – L’incontro con la tragedia

p. 25

Vajont 1963 : Una comparazione cronologica

p. 26

Ricostruzione in Cad 3D della vallata del Vajont

p. 31

Bibliografia, Siti Web, Filmografia

p. 33

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Progetto a cura di: prof. Nicoletta Frosini, prof. Federico Grubissa, prof. Marco Ferrero. Autori: Carlo Valentini, Marco Tonetti, Marco Padovani, Nicholas Michelini, Daniel Brugnaro, Giacomo Vulpone, Nicoletta Frosini. Fotografie: Carlo Valentini, Lorenzo Brait, Nicoletta Frosini, Archivio Comitato Sopravvissuti Vajont. Disegno, dati tecnici e rilievi: Marco Tonetti, Carlo Valentini, prof. Federico Grubissa, prof. Marco Ferrero Documenti e fonti: prof. Nicoletta Frosini, prof. Marco Ferrero Redazione, correzione bozze e impaginazione : prof. Nicoletta Frosini

Venezia, agosto 2013

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