VENEZIA LIBERATA aprile 1945 – Le giornate della Liberazione un lavoro multimediale per la Resistenza della memoria classe 5A/B ITT Enrico Fermi Venezia sito:Fermi36ore.itVenezialiberata
Progetto a cura di:
prof.ssa Nicoletta Frosini
Testi: Massimiliano Alzetta, Francesco De Gaspari, D’Ottavi Fusato Alex, Marco Gisiato, Andrea Scarpa, Kevin Tonello, Antonio Tenderini
sito web: prof.ssa Nicoletta D'Alpaos redazione dispensa: prof.ssa Nicoletta Frosini
Dovete sapere, cari ragazzi, che la vita dei vostri nonni ,dei vostri genitori, la nostra e la vostra stessa vita non sarebbero state quelle che sono se 70 anni fa non ci fossero stati ragazzi, poco più grandi di voi,che hanno sacrificato tutto, la famiglia, il lavoro,la stessa vita, per un ideale di libertà in cui credevano. Anche loro avevano genitori, figli, fidanzate e mogli,avevano affetti, interessi e una grande voglia di vivere e di vedere il loro Paese libero ma hanno scelto di sacrificarsi per dare a noi e a voi un futuro di libertà e di pace.” Vittorio Zappalorto, Commissario straordinario Comune di Venezia 28 aprile 2015 Premiazione lavori delle scuole Concorso “Venezia Liberata” Teatro Toniolo Mestre
Il progetto realizzato dagli studenti della classe 5A/B dell 'I.T.T. Enrico Fermi in occasione del concorso “Venezia Liberata”, indetto dal Comune di Venezia, da Anpi e Iveser per il 70° anniversario della Liberazione di Venezia, è nato dall'idea di elaborare un percorso multimediale visibile anche in rete che raccogliesse in un quadro organico alcuni aspetti principali della Resistenza a Venezia e allo stesso tempo fosse agevolmente consultabile soprattutto dai loro coetanei. Di qui la realizzazione del sito www.Fermi36ore.itVenezialiberata, aperto ad ulteriori aggiornamenti e i cui contenuti vengono riproposti anche in questa versione cartacea che mantiene l’ordine di presentazione degli argomenti visibile nel sito: dalle giornate centrali della Liberazione si snoda un percorso a ritroso per ricostruire le dinamiche e le motivazioni che hanno permesso la ripresa della Libertà. Con nostra commossa soddisfazione nella presente dispensa si è integrato il capitolo relativo alla vicenda inedita di Alfredo Bordin “Tahoma” con l’esito sorprendente e lieto che la divulgazione on–line dell’intervista ha avuto per il figlio di Bordin: Giancarlo, qualche mese dopo l’intervista, fu inaspettatamente messo in contatto con la lontana Nuova Zelanda con il figlio di un soldato delle forze alleate salvato da Alfredo Bordin. Si sono instaurate tra loro una collaborazione per la ricostruzione di quei momenti sfocati della storia dei rispettivi padri e un’amicizia che danno ulteriore spessore e significato a questo lavoro sulla memoria svolto dagli studenti. Il sottotitolo “La Resistenza della Memoria” presenta volutamente un'inversione tra i termini: indica la precisa necessità di continuare a mantenere vivi e integri anche oggi quei valori di democrazia, libertà e spirito di sacrificio personale in nome del bene collettivo che furono i princìpi ispiratori delle azioni della Resistenza e di cui i ragazzi hanno preso sempre più consapevolezza man mano che procedevano nella conoscenza dei fatti e delle testimonianze. Una consapevolezza di cui hanno voluto rendere partecipi i loro coetanei con questo lavoro che sicuramente non può essere esaustivo, ma che ha ugualmente l’intento di fornire spunti a successivi approfondimenti. Soprattutto, però, nasce con lo scopo di servire quale stimolo ad una riflessione sul debito politico e morale che noi, cittadini italiani di oggi, abbiamo verso chi sacrificò la vita per garantirci libertà e democrazia.
Si ringraziano la dott.ssa Enrica Berti dell 'Anpi di Venezia per il prezioso materiale fornito e la disponibilità nel dare suggerimenti e il dott. Marco Borghi, Direttore dell' Iveser, per le indicazioni sulle fonti e i siti da consultare. prof. ssa Nicoletta Frosini Venezia, 25 aprile 2016
VENEZIA LIBERATA 28 aprile 1945 a cura di Massimiliano Alzetta 1.La Resistenza a Venezia
2. La Resistenza dei ferrovieri veneziani Sul ponte di Rialto. Fonte: galleria fotografica da La Nuova Venezia
Festa della liberazione e la consegna delle armi in piazza San Marco 1 maggio 1945 foto: . La Nuova Venezia
LE PREMESSE La Resistenza contro i soprusi della dittatura fascista e dell'occupazione nazista anche a Venezia si consolidò a partire dal 1943, per poi esplodere nel 1945. Dall' arrivo delle truppe tedesche, dopo l'8 settembre 1943, la Resistenza veneziana ebbe nei primi tempi principalmente il compito di mantenere attiva la stampa clandestina contro il regime e di salvare dalla cattura militari e prigionieri degli eserciti alleati in cerca di scampo dai campi di concentramento. Particolarmente attiva fu l'azione clandestina dei ferrovieri veneziani. Il Comitato di Liberazione di Venezia aveva affidato ad un Esecutivo Militare, comprendente gli esponenti dei Partiti politici avversi al regime, il compito di coordinare le forze partigiane della provincia (Mestre e Mirano) e di operare i collegamenti con il centro storico, mentre il Comandante di Marina Alessandro Arcangeli era stato incaricato di preparare il piano di difesa per la liberazione di Venezia. Nonostante la scoperta da parte dei tedeschi della missione Argo e l’arresto o la fuga dei suoi membri, tra cui molti dell’Esecutivo Militare Veneziano, l’Esecutivo in poco tempo, nell’estate del 1944 si riorganizzò. Fu nominato un Consulente Tecnico, il ten. Colonnello Filipponi, con il delicatissimo compito di coordinare l’azione del Corpo Volontari della Libertà, dei gruppi insurrezionali di cittadini indipendenti dai Partiti politici, degli aderenti alla Resistenza tra i militari, i Carabinieri, la Guardia di Finanza e gli agenti della Pubblica Sicurezza e predisporre il piano di liberazione. Lo scopo era quello di creare, con l’aiuto delle formazioni dislocate in terraferma, un collegamento che fosse in grado di favorire eventuali azioni degli Alleati dal mare e intralciare i movimenti del nemico. Allo stesso tempo bisognava assolutamente preservare Venezia, il suo porto, il suo apparato industriale e i suoi Enti pubblici dalla probabile devastazione tedesca in caso di successo dell’insurrezione. Il difficile e rigido inverno del 1944, la delusione dei partigiani di fronte al proclama del Generale Alexander, che invitava le formazioni partigiane a sospendere le attività, l’intensificarsi della rappresaglia nazifascista renderanno però estremamente difficoltose le attività clandestine.
3.L'estate di sangue
3B. La vicenda Tramontin
4. La Beffa del Goldoni
5. Il partigiano Ta-ho-ma a Venezia: una testimonia nza inedita 5B . Video intervista Ta-ho-ma
6. La Resistenza a Mestre
7. La Missione Argo
I GIORNI DELLA LIBERAZIONE Il 24 marzo 1945 la situazione del Comando Piazza, che coordina le operazioni del centro storico, è gravissima; a seguito di una delazione, vengono arrestati alcuni fra i membri più importanti del Comando, tra cui lo stesso Comandante della Piazza , Mario Coccon. L’attività del Comando continua ugualmente; riesce ad avere i grafici delle devastazioni predisposte dai tedeschi, che comprendevano la distruzione di tutti i mezzi acquei comprese le gondole, e su queste basi elabora un piano per impedirle. Il Comando comincia a prendere accordi con vari Enti al fine di assicurare il funzionamento dei servizi indispensabili alla vita della città: acqua, luce, gas, Acnil. Nel frattempo giungono notizie della rapida avanzata degli Alleati; si intensificano le azioni di coordinamento delle forze partigiane del litorale e della terraferma a cui si aggiunge l’aiuto delle popolazioni locali. Le formazioni partigiane operanti nel settore di Chioggia attaccano colonne di militari tedeschi in ripiegamento; conquisteranno l’isola il 27 aprile alle ore 15. La mobilitazione dei reparti armati partigiani dilaga in tutta la città, da Lido-Malamocco, fino a Mestre; l’ordine è BLOCCARE GLI ACCESSI A VENEZIA. Il pomeriggio del 24 aprile, di fronte al precipitare degli eventi, il Comandante di Piazza Coccon, allora detenuto nella caserma di S. Zaccaria, viene convocato dal Questore di Venezia per concordare una soluzione che eviti danni alla città. Sono contrari all'accordo il Federale e il Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana che propongono una difesa ad oltranza della città assieme alle forze tedesche.
LA RIVOLTA NEL CARCERE DI S. MARIA MAGGIORE E I FATTI CONVULSI DEL 27 APRILE Nel pomeriggio del 26 aprile, i detenuti nelle carceri di S. Maria Maggiore, unitisi ai detenuti politici e approfittando di un allarme aereo , riescono , armati di pugnali e poche pistole, a bloccare il Direttore del carcere e il Comandante degli agenti. Quando un reparto delle “brigate nere”, con elementi delle SS tedesche, accorre per riprendere il controllo del carcere, il fuoco di fucileria dal carcere li fa fuggire verso il riparo di un vicino rifugio antiaereo. Il giorno dopo ,27 aprile, a seguito di colloquio con un parlamentare della Prefettura, i detenuti politici riescono ad uscire armati dal carcere. Nello stesso giorno la Questura è ormai controllata dal Comando di Piazza; dall’Arsenale si fa uscire la motonave “Zara”, in salvo. La notte i volontari di Dorsoduro si impossessano delle armi della Polizia Ausiliaria; viene occupata la caserma di San Zaccaria con la conseguente liberazione dei prigionieri politici e la cattura degli Ufficiali della G.N.R . Nel frattempo, nella medesima notte i membri del CLN veneziano si riuniscono in uno scantinato a casa di Alessandro Marcello Del Maino e preparano il manifesto della mobilitazione generale. Significative sono le testimonianze lasciate da Eugenio Gatto (alias Andrea, avv. Stoppato, fondatore della Democrazia Cristiana a Venezia) nel 1976, rivelanti il clima di quella sera. “(...) Ricordo che quella sera di fronte alla proposta di alcuni di insorgere subito, mi opposi decisamente: era mia convinzione che le truppe alleate fossero ancora lontane e quindi ritenevo troppo pericolosa l'insurrezione. Dopo una lunga e ed animata discussione nella quale alla fine ebbe la meglio la posizione da me espressa, mi avviai verso casa. Incontrai per strada un amico (…) Egli mi confidò che era possibile avere
la resa dei fascisti per il giorno dopo. Questo mi fece ovviamente mutare completamente di opinione, perché vedevo la possibilità di ottenere il controllo della città con uno sforzo relativo. Feci pertanto riconvocare d'urgenza il CLN (…) Chiarii che avevo avuto l'informazione della possibilità di ottenere la resa (…)e decidemmo l'insurrezione.” 1 Fu diffuso quindi in città il proclama del CLN per l’ inizio dell’insurrezione: “Il Comitato di Liberazione della Provincia di Venezia, espressione unitaria delle forze che hanno collaborato alla lotta di liberazione nazionale, per volontà ed elezione di popolo, in forza del mandato conferito dal Governo Democratico Italiano al Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (C.L.N.A.I.), rappresentante legittimo del Governo stesso e come tale riconosciuto dalle Autorità Alleate, assunti tutti i poteri di Governo e di Amministrazione nel territorio della Provincia di Venezia, dichiara iniziata da questo momento anche nella provincia di Venezia l’insurrezione nazionale per la liberazione del Paese dal giogo degli invasori tedeschi e dei traditori fascisti.” Riunito anche il Comitato Militare, lo stesso Gatto fu mandato in Patriarcato per avere informazioni sulle possibilità di resa dei tedeschi, che però, stando alle notizie raccolte in Curia, erano praticamente nulle. In città intanto si verificavano già le prime sparatorie per l’insurrezione ormai in corso.
LE ORE DELLA LIBERTA’ 28 aprile dal rapporto di Giovanni Filipponi (Zucchi) già Capo del Comando Piazza Ore 1:
Il Comando Piazza ordina l'insurrezione generale. Gli Enti e gli stabili di pubblica utilità, già occupati da volontari che agiscono nell'interno, vengono presidiati da formazioni di partigiani. In vari punti della città, delle isole, della terraferma accadono scontri violenti tra i partigiani e gli elementi avversari. Ore 6: Il Federale e comandante della diciassettesima “brigata nera”, il suo Stato di Capo Maggiore e il Comandante della G.N.R accettano le condizioni di resa imposte dal Comando Piazza. Ore 7: La stazione ferroviaria di S. Lucia è in mano dei volontari dopo che hanno catturato e disarmato il presidio militare nemico. Si combatte a piazzale Roma e alla Marittima contro gruppi tedeschi e della X Mas. Intanto dal ponte sulla laguna arrivano rinforzi mentre c’è il forte rischio che i tedeschi possano, alla Marittima, far brillare le mine predisposte da tempo. Il Comando Piazza invia sul posto il Capitano Italo Cannella a coordinare le forze dei sestieri di S. Croce, Dorsoduro, S. Polo e della Ferrovia. La difesa dei nazifascisti è accanita, ma i volontari costringono i nemici ad asserragliarsi. Alle 9.45 verrà firmato l'atto di resa. Ore 9:
Una squadra del Gruppo di Azione Universitaria a S. Marco soverchia la difesa tedesca di Piazza S. Marco: dai balconi di Palazzo Ducale è ritirata la bandiera della Platzkommandantur e dal palazzo delle Assicurazioni Generali quella delle SS. Sul pennone centrale, di fronte a S. Marco riappare la Bandiera nazionale italiana. Ore 10: Due parlamentari del Comando Piazza si recano ad intimare la resa al comandante tedesco. Questi risponde che “rifiuta di arrendersi al nemico minacciando di fare aprire il fuoco sulla città dalle batterie dislocate lungo il litorale e in terraferma di far distruggere gli impianti del gas, della luce, dell'acqua; di far saltare la polveriera della
Ore 12: Ore 16:
Certosa, qualora il Comando Piazza non accetti le condizioni che lui pone.” I due si ritirano per riferire. Con l’intermediazione del Patriarcato e dopo lunghe trattative tra il Comandante tedesco, il Console germanico, il Comandante della Marina tedesca e tre rappresentanti delle forze di Liberazione, si arriva all’accordo che i reparti dell'esercito e della Marina tedeschi possono lasciare liberi e indisturbati la città con tutte le armi, navi da guerra e pochi autoveicoli. I comandi tedeschi, in cambio, garantiscono che non vi saranno distruzioni. I reparti nemici partiranno dalla città nel pomeriggio e il giorno successivo all'alba. La Certosa viene conquistata dai partigiani. Di conclude l'assalto all'Arsenale. La Bandiera Nazionale viene issata, mentre all'interno si spengono principi di incendi e si salvano alcuni natanti che i tedeschi tentano di affondare.
Anche se nello stesso pomeriggio del 28 e nella notte successiva imbarcazioni armate tedesche tentano di sbarcare in Marittima con lo scopo di far brillare le mine predisposte, la sera del 29 aprile quasi tutta la città è sgombra e controllata ad eccezione del Lido e dell'isola di S. Elena, dove la X MAS, potentemente armata, è asserragliata nella sede dell'ex Collegio Navale. La situazione al Lido infatti continua a peggiorare: dopo aver rifiutato le condizioni di resa i tedeschi minacciano di aprire il fuoco su Venezia alle prime nostre azioni di guerra. Le forze partigiane riescono, però, ad occupare i forti di S. Nicolò, Ca’ Bianca e gli Alberoni; due giorni dopo i tedeschi si arrendono. A S. Elena il Comando della X Mas, dopo aver tentato inutilmente una sortita, si arrende senza condizioni alla mattina del 30 aprile. Mestre invece, nella sera del 28 aprile, è ormai completamente controllata dai partigiani dopo che nel pomeriggio si era verificato lo sbarramento al ponte sulla laguna, l'occupazione della stazione e dei depositi ferroviari e l'assalto ai centri di resistenza tedeschi e fascisti. Il 30 aprile le Forze Armate Alleate entrano in città dal ponte sulla Laguna, che l’accortezza delle azioni attuate dalle forze della Liberazione ha potuto preservare intatto dalla distruzione tedesca. Il 3 maggio 1945 il Generale delle Forze Armate Alleate Mark Clark con questo messaggio si complimenta per le modalità della Liberazione attuata a Venezia: “ Invio ai cittadini di Venezia le mie congratulazioni per l’insurrezione, coronata da pieno successo, che ha portato alla liberazione della loro città dalla morsa e dal controllo degli invasori. Possiamo dichiarare, per la verità, che la vostra città è stata liberata dall’interno, da forze armate del Corpo Volontari della Libertà, con l’aiuto e l’incoraggiamento dell’intera popolazione. La zona del porto e i servizi pubblici di Venezia sono intatti e al nemico non è stato permesso di deturpare i molti edifici e monumenti che parlano della vostra meravigliosa tradizione di cultura e di civiltà. Quando le forze del Quindicesimo Gruppo di Armate sono entrate nella vostra città, hanno trovato che la vita si svolgeva col suo ritmo normale. Rendo omaggio all’opera svolta dal Comitato Nazionale di Liberazione, che ha organizzato e diretto le operazioni in modo da prevenire inutili danni alla città e spargimento di sangue. La città di Venezia avrà certamente una parte notevole nella ricostruzione di un’Italia libera e indipendente”. Fonti: 11943-1945, Venezia nella Resistenza, a cura di G.Turcato e A. Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 1975-76; www.storiamestre.it/2013/04/liberazionevenezia
Link utili: www.iveser.it www.anpivenezi a.org/ www.anpivenezi a.org/storia/resis tenzamiranese.html www.italiaresistenza.it/luog hi-di-memoria-2/ www.centrotrent in.it www.resistenzev eneto.it/ www.storiamestr e.it https://it.wikiped ia.org/wiki/La_Re sistenza_nel_com une_di_Venezia_ (1943-1945) Immagini: galleria fotografica da La Nuova Venezia
LA RESISTENZA A VENEZIA a cura di Andrea Scarpa
Nonostante il partito fascista fosse riuscito minuziosamente ad eliminare ogni forma di libertà di pensiero attraverso un ampio uso della violenza, la Resistenza italiana contro i soprusi della dittatura di Mussolini e successivamente contro l'occupazione nazista caratterizzò tutto il periodo fascista. E così fu anche nella nostra città. Gruppi di opposizione al regime, di orientamento politico diverso, si formarono fin da subito in centro storico. Sicuramente, però, l’attività di Resistenza si intensificò dopo il 25 luglio del ’43, giorno in cui fu dato l’annuncio della caduta del regime, e dopo l’8 settembre quando cominciò l’occupazione tedesca. Ricorda Eugenio Gatto,nel libro "1943-1945 Venezia nella Resistenza"1, che da subito i gruppi di opposizione tennero riunioni per pensare ad un piano e per avere dei dibattiti su ciò che stava accadendo. " Fummo folli, ma di una follia meravigliosa, che sempre invidio a me stesso, quella sera in cui, con l'avv. Cerutti, con l'amico Gianquinto(...) e con molti altri di cui mi dispiace di non ricordare i nomi, andammo all' Ammiragliato a chiedere le armi perché volevamo resistere all'occupazione tedesca combattendo sul Ponte della Libertà, che allora si chiamava Ponte Littorio". LA SPECIFICITA’ DI VENEZIA E L’INSEDIAMENTO DEI COMANDI NAZIFASCISTI Venezia, grazie alla specificità del suo straordinario patrimonio artistico e culturale, venne dichiarata immune dai bombardamenti dagli Stati Alleati, in seguito ad accordi segreti tra i comandi alleati e quelli tedeschi e all’intermediazione della Santa Sede. Ciò aveva portato, di conseguenza, ad una concentrazione nella città lagunare di truppe di occupazione nazista e alla collocazione di uffici e centri di polizia della Repubblica Sociale Italiana. Approfittando infatti dell'immunità di Venezia e considerandone la natura di capoluogo, i nazisti avevano deciso di occupare il centro storico con i loro comandi, almeno una quindicina, e in Piazza San Marco, dove ora c’è la sede delle Assicurazioni Generali, avevano insediato la Platzkommandantur. Anche la Repubblica Sociale Italiana aveva trasferito ben 24 Ministeri completi con i relativi uffici. Questo era il motivo per cui un numero impressionante di "foresti" in camicia nera o con la svastica si erano trasferiti a Venezia. Tra l'altro questo aumentò l'avversione dei veneziani nei confronti dei due regimi, a causa anche dell'alto numero di abitazioni messe a disposizione di queste migliaia di persone, impiegate lì , che aveva creato un vero e proprio problema casa e un aumento degli affitti. Anche l’OVRA, la terribile polizia politica del regime, aveva una sua sede in centro storico, ai Gesuiti. Infine, la temibile X MAS era stata collocata a S. Elena; questo reparto che aveva avuto pesanti perdite in combattimento durante l'ultima offensiva alleata era ripiegato anche su Venezia, dove rimase fino all'arrivo degli alleati. Questa consistente presenza di organi militari, ministeriali e di polizia nazifascisti e la difficile conformazione di Venezia rendevano un certo tipo d'azione praticamente impossibile e difficile era anche la clandestinità. Giorgio Amendola, della Direzione Alta Italia del Partito Comunista, trovandosi a Venezia per una riunione clandestina, ricordava il senso di insicurezza e di paura provato nel girare in una città pullulante di nazifascisti e repubblichini, tanto che una volta ripreso l’autobus a Piazzale Roma tirò “un sospiro di sollievo”. LE OPPOSIZIONI AL FASCISMO E AL NAZIFASCISMO Eppure, nonostante queste premesse negative, Venezia vide gruppi e singoli cittadini di orientamento politico differente organizzare da subito azioni di Resistenza, riunendosi in case private, in caffè, in osterie.
Nota, ad esempio, era a S. Vio l’Osteria della famiglia Spina, bersaglio della rappresaglia fascista per l’attività di Resistenza dei suoi membri. Fu in un piccolo caffè in Frezzeria ,il “Piccolo Lavena”, solitamente frequentato da alcuni appassionati di biliardo, che a poco a poco si creò un punto di incontro per molti giovani e laureati; un luogo di dibattito appartato per organizzare forme di propaganda antifascista. Ricordava Giovanni Giavi, perseguitato politico socialista, tra i fondatori della Brigata Matteotti e frequentatore del caffè “Piccolo Lavena”, che subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia, i fascisti avevano collocato vicino al campanile di S. Marco un enorme tabellone che riportava il teatro delle operazioni belliche in Africa, davanti al quale sostava la gente per vedere e commentare, soprattutto la domenica, le imprese di guerra. “ E finalmente, quando la stampa del regime non poté nascondere i primi insuccessi in Cirenaica, tre di noi, e precisamente Calò, Gallo e Bano (…) lanciarono contro il tabellone due uova che, previamente svuotate, erano state riempite, con una siringa, di una vernice di colore rossa. Il lancio riuscì perfettamente, centrando i punti che sul tabellone corrispondevano ai luoghi degli ultimi sanguinosi combattimenti e lasciando al loro posto due grandi macchie del colore, appunto, del sangue”.2 Un secondo episodio, rammentava sempre Giavi, si verificò la notte di capodanno 1941-1942, quando alcuni frequentatori del caffè, che passeggiavano conversando in Piazza San Marco, si imbatterono in un gruppo di cittadini, tra cui alcuni militari: “ non si sa chi fece scorrere la scintilla, ma in breve tempo la discussione a carattere politico si trasformò in diverbio ed alla fine in aperta colluttazione, in cui i giovani antifascisti ebbero la meglio(...) Nel giro di ventiquattrore i nostri amici furono tutti identificati, tradotti in Questura . Su di essi cadde inesorabile l'ira fascista : un adeguato soggiorno in carcere ed infine la condanna di cinque anni di confino”.3 Inevitabilmente queste tensioni antifasciste portarono all’adesione a gruppi più strutturati o a partiti. Furono molte in centro storico le abitazioni private luoghi di incontro degli appartenenti ai partiti antifascisti, costretti ad operare in clandestinità; si riunivano, separatamente per orientamento politico comune, ma spesso anche coordinandosi tra gruppi diversi, esponenti della Democrazia Cristiana, del Partito Liberale, dei Socialisti, dei Comunisti, del Partito d’Azione in cui erano confluiti i componenti di “Giustizia e Libertà”, il partito fondato dai fratelli Rosselli, Emilio Lussu, Silvio Trentin. I loro referenti nazionali ebbero diversi incontri in centro storico, nonostante il rischio di essere individuati e incarcerati. Questi partiti già verso la fine del 1942 avevano creato il “Fronte Nazionale d’Azione” che subito dopo l’8 settembre con un proclama invitò la popolazione veneziana alla Resistenza. I loro referenti entrarono nel Comitato Provinciale e in quello Regionale Veneto del CLN con il compito di coordinare i collegamenti e di stabilire legami con i Comandi Militari, con la Questura, con i direttori di Banche per facilitare le attività clandestine .1 Ricordiamo che il primo Comitato regionale di Liberazione era nato subito dopo l’armistizio su iniziativa di Silvio Trentin, una delle figure più rappresentative della Resistenza non solo del Veneto, ma dell’intera Nazione. Appoggiato da Concetto Marchesi (il famoso rettore dell’Università di Padova che nel novembre del ’43 si dimise dall’incarico per protesta contro la Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca), Trentin aveva capito la necessità di organizzare immediatamente la Resistenza di fronte all’ occupazione nazista e di occuparsi dell’aiuto delle truppe italiano allo sbando per evitarne la deportazione in Germania. Rende evidente il ruolo avuto da Venezia nelle operazioni di coordinamento delle forze di Liberazione il fatto che proprio nel città lagunare il Comitato di Liberazione Nazionale e del Comando Militare Regionale per un lungo periodo stabilì la sua sede operativa per pianificare il piano insurrezionale.
Sempre a Venezia fu determinante il sabotaggio e il contrasto all’occupazione militare tedesca dato, spesso a costo della vita, dai ferrovieri veneziani ostili all’occupazione nazifascista. Numerose furono le azioni della Resistenza Veneziana, dalla stampa clandestina all’ aiuto ai perseguitati politici e ai militari fuggiaschi, italiani e alleati; dalle azioni di sabotaggio dei ferrovieri agli scioperi degli operai di Marghera; dagli attentati alle sedi dei comandi nazifascisti ad azioni quali la Beffa del Goldoni, fatte per mantenere alto lo spirito combattivo dei gruppi di Liberazione di Venezia. Su di esse si scatenò sempre più feroce la reazione nazifascista, come nella terribile estate di sangue del ‘44 e come le numerose lapidi e il Percorso della Memoria ancora testimoniano. 1
1943-1945, Venezia nella Resistenza, a cura di G.Turcato e A. Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 197576; 2- 3 Ibidem, pp. 161-162.
LA RESISTENZA DEI FERROVIERI VENEZIANI a cura di Francesco De Gaspari
Molti ferrovieri veneti, sia del personale esecutivo che di quello direttivo, sotto la guida dell’ ingegnere Bartolomeo Meloni operarono in accordo con il CLN regionale. Meloni, di Cagliari e laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, era Ispettore Capo delle Ferrovie a Venezia e grazie alla sua esperienza, mise a disposizione del primo CLN Regionale, costituitosi proprio il 10 settembre 1943, il suo prestigio nell’ambiente ferroviario e un gruppo di compagni di lavoro che fu in grado di continuare la sua opera anche dopo la sua cattura avvenuta presto, il 4 novembre 1943. L’attività dei ferrovieri “resistenti”. Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943 Meloni, seguendo l’indicazione di resistere con ogni mezzo all’occupazione nemica, con un numero notevole di “volontari” (che poi aumentando via via avrebbero formato le due brigate “Matteotti”, la X e l’XI) preparò con i compagni di lavoro un piano per impedire l’uso dei trasporti ferroviari per l’occupazione. Ben presto, in accordo con le indicazioni dei Comitati, il piano dei ferrovieri fu indirizzato ad una grande operazione che, con sabotaggi ben organizzati, doveva ritardare o impedire la partenza dei treni e delle tradotte militari, dove soldati e marinai italiani venivano ammassati dai tedeschi in carri piombati e trasportati in Germania.
Per fermare o rallentare i treni in determinati posti, dove poi arrivavano i gruppi di partigiani armati, si ricorreva talvolta a rialzi del livello delle traversine. In molti carri si riuscivano a introdurre di nascosto, prima che i carri fossero sigillati, cibi, bevande per confortare i rinchiusi, e talvolta si aggiungevano coppie di “piedi di porco” coi quali era possibile sollevare dal di dentro le assi del pavimento dei carri e approfittare di qualche fermata notturna, tanto meglio se in un tunnel, per uscire da sotto. Le testimonianze Un esempio di azione svolta dai ferrovieri veneziani la troviamo riportata nel “Notiziario storico della seconda divisione partigiana “Matteotti”: “Venezia 29.9.1943, ore 22,30. Per impedire e ritardare la partenza delle tradotte militari, essendo queste troppo sorvegliate venne attuato il taglio dei tubi di gomma per la condotta d’aria dei freni, e la successiva asportazione degli stessi; immissione di sabbia nelle boccole delle ruote e provocato riscaldamento assi previa asportazione dei guancialetti. Le operazioni dei ferrovieri veneziani, avvenivano in presenza della scorta tedesca dando l’impressione di svolgere il normale lavoro ferroviario”. I nomi degli autori, specializzati in questo tipo di azioni sono: Ugo Cecconi, Giovanni Cumar, Mario Orsini, Adrio Politi, Vittorio Romanin, Sergio Marchiori. Le conseguenze Furono salvati così soldati che non erano riusciti a scomparire nella gran fuga iniziale, marinai, studenti del collegio marinaro di Sant’Elena, anche soldati e marinai trasportati in Italia su navi italiane, come prigionieri dei tedeschi, dalla Jugoslavia e dalla Grecia. Queste operazioni dei ferrovieri veneziani contribuirono a ingrossare le formazioni partigiane con le quali venivano concordate le azioni di salvataggio e di sabotaggio. I ferrovieri contribuirono inoltre alla Resistenza con la sottrazione di armi, munizioni ed equipaggiamenti alle forze tedesche ad aumentare l’efficienza delle forze partigiane della pianura e delle montagne venete e friulane. Molti però furono i ferrovieri , tra cui lo stesso Meloni, arrestati dai tedeschi per queste azioni di sabotaggio e i cui nomi sono incisi sul primo pilastro del binario 9 alla Stazione di Venezia. Meloni fu arrestato nel suo ufficio il 4 novembre 1943 dalle SS tedesche, mentre i fascisti perquisivano il suo appartamento. Dopo l'arresto Meloni è portato nel carcere di Santa Maria Maggiore, dove resta due mesi e mezzo, poi a Verona da dove è deportato in Germania nel campo di concentramento di Dachau. Da Dachau viene trasferito in un altro campo di concentramento in Cecoslovacchia dove è costretto a lavorare nei campi. Trasferito nuovamente a Dachau ancora in gravi condizioni, vi muore di stenti e per le percosse ricevute il 9 luglio 1944. Le azioni dei gruppi dei ferrovieri non si fermarono con il suo arresto; fino alla Liberazione furono portate avanti da Rizzi Lindoro, da Vittorio Menegazzi e dagli altri compagni di lavoro ferrovieri che avevano seguito l'esempio di Bartolomeo Meloni. Fonti: www.sotziu.it; www.anpispinea.blogspot.com
VENEZIA 1944 - L'ESTATE DI SANGUE a cura di Alex D’Ottavi Fusato Dal settembre 1943 al maggio 1945 in Italia i nazifascisti misero in atto una vera e propria “guerra ai civili”, durante la quale le SS e la Wehrmacht, con il concorso delle Brigate Nere, della Decima Mas e di altri reparti repubblichini, si resero protagoniste di un’impressionante serie di atroci crimini, che provocarono oltre 10.000 vittime tra la popolazione, in gran parte donne, vecchi e bambini. La “strategia del terrore” nazista raggiunse la massima intensità nell’estate 1944, in seguito all’ ordinanza del 17 giugno, con la quale il comandante supremo delle truppe tedesche in Italia, feldmaresciallo Albert Kesselring, emanava precise disposizioni :”… la lotta contro le bande dovrà essere condotta con tutti i mezzi disponibili e con la massima asprezza. Proteggerò ogni comandante che nella scelta dei mezzi e nell’asprezza impiegata andrà oltre la misura di solito ritenuta “normale”. Tra le città colpite vi fu anche Venezia . Fu proprio nell'estate del '44 che si intensificarono le azione di rappresaglia da parte dei nazifascisti.
LA STRAGE DI CANNAREGIO DEL LUGLIO '44 è il primo gravissimo episodio di quell’estate che si inquadra in un periodo che si può definire da "strategia del terrore". Successe che il famigerato maresciallo fascista Asara, che procacciava reclute per l’esercito di Salò, venne ucciso - non si seppe da chi - alle 14 circa del 6 luglio davanti al Cinema Italia. Scattò la rappresaglia, secondo il modello nazista: 10 ad 1. Il prefetto Cosmin (che nel gennaio precedente era stato tra quanti pretesero l'immediata fucilazione dei condannati di Verona , cioè i membri del Gran Consiglio del Fascismo, Ciano, De Bono, Gottardi, Pareschi, Marinelli, che avevano sfiduciato Mussolini) diede ordine di assassinare nel sestiere di Cannaregio dieci antifascisti tra cattolici, comunisti, liberali. Si formarono così 10 squadre, ciascuna di tre sbirri in borghese. Costoro, nel cuore della notte tra il 7 e l'8 luglio, suonarono altrettanti campanelli di case nella zona tra San Leonardo e San Canciano. Quattro non aprirono e per loro fu la salvezza, mentre per cinque la sorte fu segnata da un colpo di pistola: Bruno Crovato, 41 anni, meccanico, fu trucidato in campo San Canciano; Luigi Borgato, 37 anni, calzolaio, al ponte dei Sartori; Ubaldo Belli, 50 anni, maestro elementare, in fondamenta di san Felice; Augusto Picutti, 26 anni, cameriere, in campiello del Magazen, a San Leonardo; Pietro Favretti, 60 anni, capostazione, in calle Colombina a San Marcuola.
Singolare fu la vicenda di Giuseppe Tramontin, 41 anni, meccanico motorista, colpito in calle Priuli in Strada Nuova: il proiettile gli sfiorò il cervello ed egli, pur ferito, riuscì a tornare a casa e a sopravvivere. LA VICENDA TRAMONTIN o “IL MORTO CHE CAMMINA” La vicenda di Giuseppe Tramontin, colpito in calle Priuli in Strada Nuova, è davvero straordinaria. Questo il ricordo della sua mancata esecuzione riportata dal partigiano e scrittore Ugo Facco De Lagarda: “Pochi minuti prima dell’una, il meccanico motorista Giuseppe Tramontin (appartenente ad una formazione partigiana operante i città) , ammogliato, padre di due bambine, allora trentanovenne, viene svegliato dalla scampanellata nella sua casupola in Ruga Due Pozzi, tra le Fondamente e la Strada Nova. Sono con lui la madre, le due figliette, che dormono. La moglie si trova da due giorni in terraferma alla ricerca di uova, lardo, farina. La vecchia Tramontin esorta il figlio a non rispondere; ma l’uomo che ha già subito due processi politici dai quali è uscito per il rotto della cuffia ed è schedato in questura, pensa che si tratti i uno dei soliti controlli periodici e così s’affaccia al balcone, intravede due ombre. Una voce intima: “Polizia.. venite giù subito coi documenti” Tramontin si veste, si munisce di sigarette, scende. Chiede chiarimenti: i due, che parlano con accento romanesco e vestono in borghese, dichiarano di essere incaricati di condurlo alla centrale. Altro non sanno. Tramontin s’accinge a seguirli, ma dopo poco scorge una terza ombra da un angolo buio. In essa non tarda a ravvisate il seviziatore Cafiero, uomo famigerato dal basso squadrismo, uno dei pochi sadici che abbaino sporcato la città. I quattro s’avviano in silenzio. Fu in calle Priuli, a poche decine di metri dall’arteria principale della Strada Nuova, che Tramontin percepì il freddo della pistola sulla nuca. Pensò alle sue bambine e il colpo partì. Si trovò a terra stupito: il volto, il collo, le mani, la camicia, il vestito bagnati. Udì dei passi allontanarsi in fretta e, contemporaneamente, sfuggirgli la vita. Ma non perdette completamente i sensi. Prese fiato, tentò disperatamente di rimettersi in piedi, senonché mentre arrancava lungo il muro con le mani lorde di sangue, echeggiò poco lontano un nuovo colpo di pistola (era il maestro Ubaldo Belli, un mite attivista cattolico, che, sceso pure lui in strada, chiamato dagli assassini, veniva abbattuto sul sagrato della chiesa di S.Felice). Tramontin, ripiombato a terra, cominciò a urlare per farsi sentire dalla gente. S’aprirono finalmente alcune finestre. Gli riuscì di mugolare: “… mio fratello..”, nella speranza che qualcuno andasse a chiamarlo”. Le donne in un primo tempo pensano che lui stia loro indicando chi l’ha ferito, cioè il fratello. Quando invece sentono che sono stati i fascisti, per paura richiudono gli scuri e non lo soccorrono. Tramontin allora “pensò che la sua ultima ora fosse ormai suonata e consegnò la propria testimonianza vergando sul selciato, con le dita imbrattate di sangue, il tremendo nome di Cafiero. Dopo pochi minuti tentò nuovamente di rialzarsi. A stento, barcollando come un ubriaco, passo passo, percorse i cento metri che lo dividevano dalla sua casa, mirando all’antiquato campanello a tirante, come alla salvezza: con un estremo sforzo di volontà potè infine raggiungerlo ed aggrapparvisi. Solo allora perse conoscenza.” Fu quindi portato in ospedale, dove medici e infermieri riuscirono a sottrarlo alle ricerche dei fascisti, che tornati sui loro passi e non avendo trovato il corpo dell’uomo che pensavano di aver ucciso, avevano seguito la scia di sangue. Riuscita vana la perquisizione della casa, si erano recati in ospedale, dove medici ed infermieri lo protessero. Tramontin, una volta guarito, evase dall’ospedale, travestito, per raggiungere le brigate partigiane. Non era,però, assolutamente in forze, così fu nascosto in una casa amica e fece spargere la voce che era morto. Il giorno del 26 aprile, quando cominciarono le insurrezioni a Venezia, lui, sebbene non ancora ripresosi, prese un fucile e uscì a raggiungere i compagni. Fonte: 1943-1945, Venezia nella Resistenza, a cura di G. Turcato e A. Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 1975-1976.
I MARTIRI DI CA’ GIUSTINAN La scia di sangue era solo all'inizio. Il 28 luglio la rappresaglia fascista assassinò 13 antifascisti sulle macerie di Ca' Giustinian, sede della GNR fatta saltare in aria il giorno prima. Erano le 9.05 del 26 luglio 1944, quando il boato di una violenta esplosione scosse Venezia. L’esplosivo, una cassa pesante un’ottantina di chili, era stato portato poco prima nel locale del corpo di guardia da un commando di partigiani, alcuni dei quali travestiti da soldati tedeschi. Ci furono diciassette morti: sei militi della Guardia Nazionale Repubblicana, cinque ausiliarie, quattro impiegati civili, due soldati tedeschi e una trentina di feriti. La rappresaglia fu immediata; nonostante la formale convocazione di una riunione del Tribunale straordinario di guerra, in realtà, non ci furono né processi né tribunali. Fu solo un vertice di ufficiali della GNR a decidere la rappresaglia. Così, la notte del 27 luglio tredici detenuti politici furono prelevati dal carcere di Santa Maria Maggiore. Alle cinque del mattino del 28 luglio, furono portati in due gruppi sulle macerie di Ca’ Giustinian e falciati a raffiche di mitra. A guerra conclusa, ufficiali e militi della GNR furono chiamati a rispondere dell’eccidio davanti alla Corte straordinaria d’Assise. Tre di essi furono condannati a morte, otto all’ergastolo. I martiri erano: Attilio Basso, 22 anni, fattorino di banca; Stefano Bertazzolo, 25 anni, impiegato; Francesco Biancotto, 18 anni, falegname; Ernesto D’Andrea, 31 anni, operaio a Marghera; Giovanni Felisati, 35 anni, operaio a Marghera; Angelo Gressani, 48 anni, orologiaio; Enzo Gusso, 31 anni, impiegato; Gustavo Levorin, 39 anni, tipografo; Violante Momesso, 21 anni, contadino; Venceslao Nardean, 20 anni, falegname; Amedeo Peruch, 19 anni, contadino; Giovanni Tamai, 20 anni, meccanico; Giovanni Tronco, 39 anni, fabbro. Giuseppe Gaddi, che la notte del 27 luglio era in carcere a S. Maria Maggiore con i compagni poi fucilati, dà questa testimonianza di quella notte: “ Verso mezzanotte sentii un tintinnio di chiavi, delle porte aprirsi (… ) poi lo sportello della mia cella viene aperto e una voce mi chiama: salto giù dalla branda e mi affaccio. Davanti a me sta la faccia bonaria di Giovanni Felisati, “el Moro”, come lo chiamavamo. Il suo volto è pallido; mi dice con voce triste: “Adio, compagno, gavemo perso la vita. I ne copa in tredese. Tuti quei del grupo de San Donà. Te racomando mia mugier. Saludime tanto Nando (il fratello, che in realtà era morto da due mesi, senza che il Felisati lo avesse saputo) e dighe che se fassa coragio”. Cerco di incoraggiarlo, di dirgli che si sbaglia, che li portano via per altri motivi. Ma la mia voce trema; Giovanni mi stringe la mano e si allontana. Mi chiama Levorin: lestamente mi restituisce una strisciolina di carta, la lista dei recapiti delle formazioni partigiane che gli avevo passato al mattino durante il passeggio. Mi dice: “Muoio tranquillo .. ho fatto il mio dovere. Mi dispiace per tante cose, mi dispiace per le mie sorelle e i miei fratelli.. se riesci a salvarti, ricordami ai compagni …”. Viene Peruch e mi stringe la mano. Vuol parlare ma non gli riesce. Afferro solo una parola: “mia moglie”. Poi il sottocapo carceriere mi chiude bruscamente lo sportello in faccia. Da una fessura vedo Gusso che si veste tranquillamente, con calma. Basso piange sommessamente: da poco gli è nato un bambino che non potrà mai vedere. D’Andrea, Tronco, Momesso scendono fermi le scale, Biancotto canta “Bandiera rossa” sottovoce e il carceriere lo zittisce; poi non vedo più niente. Sento i loro passi che si allontanano... Verso le sei vedo arrivare la guardia addetta al magazzino a ritirare gli oggetti lasciati dai detenuti. Ricorderò quella notte finché avrò vita”.1 A Francesco Biancotto, il più giovane dei tredici martiri,ricordato come un “coraggioso come pochi” fu intitolata la Brigata Garibaldi operante in città e , dopo la guerra, il convitto per gli orfani dei partigiani e dei caduti per la libertà.
Le ultime parole Di alcuni di loro restano le ultime parole nelle lettere scritte ai loro cari prima della fucilazione: Attilio Basso: "Mamma! Mi chiedi come stò, io stò bene, a pensando al mondo avverso, a chi sofre più di me: a pensando a questo mondo di rovina, di desolazione: a quel sangue sparso in tutta la terra del mondo. Avedo soldati insanguinati per la miseria della patria, mariti torturati, ogi infelici, mamme angosciate da pianto per la sorte dei loro figli, amalati feriti senza speranza, famiglie schiave disfatte dalla rovina della guerra, uomini schiavi disfatti dall'avoro, stritulati dalla società". Ernesto D'Andrea : "Saluti e baci a tutti. Siate forti come (lo sono) io. Ciao alla mamma, al babbo,a Maria, a Ghidetti. Andrea " Violante Momesso: " L'ora per noi (già me la sento) sta per suonare. Sorte triste e crudele. Nessun essere umano può immaginare a quali patimenti e sofferenze noi siamo soggetti. Figuratevi che siamo rimasti, anzi ci hanno lasciato (i tiranni fascisti), per circa cinque giorni senza acqua. Da mangiare pochissimo. Acqua, acqua ed un piccolo tozzo di pane. (…) Anche questa volta spero farvi avere questa mia lettera. Cara mamma la mia salute è ottima così spero di tutta la nostra famiglia e la piccola Voli. Ma se tu mamma sappessi quanto ho lottato su questa mia gioventù per la mia famiglia e per una vera patria. Ora mi ritrovo su una cella ma devi sempre sorridere perché farò il bene della mia famiglia tutto passerà anche questa vita di tortura sotto queste belve fasciste che non finiscono mai asetarsi del nostro sangue. Ma verà un giorno che potrò bacciarti te e famiglia, alora ti spiegherò bene cosa facevo su questa maledetta carcere e poi mi vendicherò perché un idea è un idea e non sarà capace nessuno al mondo troncarmela. Ti mando i più cari saluti te e famiglia un bacio alla piccola Voli ci vedremo presto. Violante" Amedeo Peruch, alla moglie : "Saluti. Cara Marcella sono le ultime ore. Tanti baci Peruch Amedeo. Mi saluterai tutti i miei fratelli e cognati." Giovanni Tronco alla moglie: "Cara Maria,ti raccomando di essere forte. Ti domando perdono per tutto. Saluta tutti. Addio tuo Giovanni"
I SETTE MARTIRI Nella notte dall'1 al 2 agosto, secondo la versione tedesca, era scomparsa una loro sentinella. Le autorità germaniche ritennero che si fosse verificato un attentato e ne addebitarono la responsabilità alle forze della Resistenza. Ne seguì un'immediata rappresaglia. Si cercarono le future vittime tra i detenuti politici di S. Maria Maggiore L’esecuzione volle essere anche una plateale “lezione” per gli abitanti di Via Garibaldi, da sempre zona antifascista. All'alba del 3 agosto, alle ore 4.00, un gran numero di abitazioni civili comprese tra il ponte della Veneta Marina e Via Garibaldi fino a calle San Domenico vennero perquisite dai soldati tedeschi. Centotrentasei adulti, tra uomini e donne, furono portate vicino al ponte della Veneta Marina e costrette a fermarsi con le mani in alto e la faccia al muro. Altre trecentocinquanta persone, compresi i ragazzi, furono obbligate a raggrupparsi lì a guardare. Giunsero i condannati a morte. Alle sei del mattino, i Sette Martiri, come subito li chiamò la voce di popolo, furono disposti in fila, legati tra loro con le braccia distese, schiena alla laguna, tra due pali eretti sulla Riva. Un ufficiale tedesco lesse ad alta voce la sentenza e ordinò il fuoco al plotone di 24 soldati, davanti alla folla atterrita. Ultimi istanti di vita per i condannati. Don Marcello Dell’Andrea, cappellano di Santa Maria Maggiore, porse loro il crocifisso, che poi terrà levato in alto dietro il plotone di esecuzione. Fu lanciato l’ ordine. Alfredo Vivian, uno dei martiri, gridò: "Viva l'Italia libera!" e il suo grido superò il rumore delle armi. La corda che teneva legati i condannati si spezzò e i loro corpi caddero a terra. Poi fu dato il colpo di grazia agli agonizzanti. Pochi giorni dopo, le acque della laguna restituirono il corpo della sentinella tedesca. Non aveva ferite: il marinaio era caduto in acqua ubriaco ed era annegato.
I sette martiri erano: Aliprando Armellini, 24 anni, di Vercelli, partigiano combattente; Gino Conti, 46 anni, animatore della Resistenza nel Cavarzerano; Bruno De Gasperi, 20 anni, di Trento; i fratelli Alfredo Gelmi, 20 anni, e Luciano Gelmi, 19 anni, di Trento (i tre giovani trentini erano renitenti alla leva di Salò); Girolamo Guasto, 25 anni, di Agrigento; Alfredo Vivian, 36 anni, veneziano, operaio alla Breda, comandante militare partigiano nella zona del Piave, l’unico dei sette già condannato a morte per l’uccisione di un marinaio tedesco a Piazzale Roma il 13 dicembre 1943 e l’unico a essere indicato dal Comando tedesco, mentre gli altri sei furono segnalati dalla Questura e dal Comando della Guardia nazionale repubblicana. IL PERCORSO DELLA MEMORIA Da anni il percorso della memoria il 25 aprile rende omaggio a questi caduti e al Capitano Manfredi Azzarita, nativo di Cannaregio, trucidato alle Fosse Ardeatine, e al Rabbino Capo Adolfo Ottolenghi, morto durante la deportazione ad Auschwitz. Il percorso parte dal campiello Bruno Crovato, fermandosi ad ogni lapide che ricorda i caduti, per arrivare tra canti e bandiere in Campo del Ghetto, dove la Comunità Ebraica aspetta i suoi concittadini per accendere assieme, sotto il bassorilievo che ricorda la Shoah, sei lumi. Uno per ogni milione di ebrei sterminati. E’ un percorso della Memoria che accomuna tutte le vittime della violenza nazifascista e che testimonia anche il legame di Venezia alla sua Comunità Ebraica. 1
Fonti: 1943-1945, Venezia nella Resistenza, di G. Turcato e A. Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 1975-1976; www.anpive.org
La “Beffa del Goldoni” a cura di Kevin Tonello La "Beffa del teatro Goldoni", datata 12 marzo 1945, è considerata come una delle maggiori azioni nella Resistenza veneziana dei mesi precedenti la Liberazione. L'azione doveva avere un valore simbolico e morale: rialzare il morale alla popolazione veneziana depressa in seguito alle rappresaglie nazifasciste e ai molti arresti di elementi partigiani avvenuti durante l’inverno. Si volevano “beffare” i nazifascisti per il loro comportamento arrogante e crudele e creare le condizioni psicologiche ideali per una futura insurrezione. L’ azione fu ideata e realizzata da un gruppo di partigiani della brigata Garibaldi “F. Biancotto”: Giuseppe Turcato “Marco”, Franco Arcalli “Kim”, Ivone Chinello “Cesco”, Mario Osetta “Leo”, Delfino Pedrali “Gastone”, Ottone Padoan “Michele”, Giovanni Citton “Moro”, Mario Borella “Livio”, Renato De Faveri “Oc”, Giovanni Dinello “Borel”, Giovanni Guadagnin “Gin”, Otello Morosini “Totò”, Maria Teresa Dorigo “Alice”, Gina De Anna, Luigi Busulini “Gigio”, Carlo Fevola “Carletto”, Giacomo Tenderini “Massimo, prof. Giuseppe Vecchi “”Vianello”.
Come posto adatto all'operazione si scelse il teatro Goldoni, sia perché luogo di ritrovo abituale di fascisti e nazisti, sia per la sua topografia favorevole. Il giorno deciso in cui avrebbe preso atto il piano fu il 12 marzo, dopo vari rinvii. I partigiani però non disponevano di moltissime truppe a causa delle numerose catture avvenute in quel periodo: ne seguì un rigoroso esame sugli uomini che venivano giudicati in base al rischio e all’importanza del compito. Il gruppo di comando decise di affidare l’azione al fronte alla "Gioventù", il movimento fondato per ricordare Francesco Biancotto, il giovane martire di Cà Giustinian. Per garantire il pieno successo della manovra, gli uomini dovevano essere preparati mentalmente, la valutazione degli armamenti doveva essere perfetta, le vie d'uscita calcolate; insomma tutto doveva essere organizzato senza tralasciare nulla. Si scelse di colpire in modo freddo e diretto senza inutili azioni spettacolari. Il piano definitivo così come venne illustrato ai soldati partigiani si presentava così , come ricorda Giuseppe Turcato, l’ideatore del piano: “ Un patriota armato sorveglierà l’accesso alla portineria del teatro, tre armati fra il pubblico aspetteranno pronti ad intervenire nel caso di reazione dai parte dei nazifascisti presenti; gli altri nove con azione di forza, entrando dalla portineria, rastrelleranno corridoi e palcoscenico, non dimenticando la buca del suggeritore e i servizi tecnici, luoghi dei quali abbiamo diretta conoscenza. Una volta ripulito l’accesso si dovrà simultaneamente bloccare le due porte che comunicano con la platea e assolutamente sorvegliare la cabina telefonica. Lo scopo è in sostanza di disarmare i poliziotti di servizio e metterli faccia al muro e mani in alto per poi entrare in azione definitivamente". 1 E così fecero, senza però non pochi incidenti e difficoltà. Eppure il loro animo coraggioso li condusse alla piena realizzazione del piano. Alle ore 21.16 tre partigiani, Arcalli, Chinello e Padoan, mascherati e armi in pugno, salirono sul palco interrompendo lo spettacolo: quella sera andava in scena “Vestire gli ignudi “ di Pirandello. Dall’interno Citton cominciò a gridare : “Nessuno si muova! Se in teatro c’è spia e traditore fascista venga fuori che riceverà piombo partigiano.” Dal palco Chinello si rivolse ai veneziani: “ Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è vicina! Stringetevi intorno al Comitato di Liberazione Nazionale e alla bandiere degli eroici partigiani che combattono per la liberta d’Italia da giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l’unità di tutti i partiti anti fascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della Gioventù”. Poi, terminato questo discorso, Chinello concluse sorridendo “Signore e signori, buonasera e arrivederci”. Arcalli e Padoan che erano a fianco a Chinello, lanciarono numerosi volantini inneggianti alla Resistenza. Citton, uscito da dietro le quinte, prima di andarsene gridò di non muoversi perché il teatro era circondato, cosa, ovviamente, non vera, date le esigue forze partigiane. Giuseppe Turcato, Maria Teresa Dorigo, Gina De Anna e Mario Borella che erano rimasti in teatro poterono assistere, divertiti, all’arrivo di un gran spiegamento di forze nazifasciste della G.N.R., della X Mas, delle Brigate Nere, armate di tutto punto, a cui non restò da fare altro che raccogliere i volantini. L’episodio realmente contribuì a sollevare il morale della popolazione veneziana, avendo visto ridicolizzati i nazifascisti. Tra la gente del teatro, l’unico che rimase spaventato per qualche giorno, ricorda sempre Turcato,2 fu il suggeritore che, tirato improvvisamente giù per le gambe dal partigiano Giovanni Dinello, si era preso una bella zuccata urtando sul bordo della buca e infine si era visto puntata addosso una pistola da un uomo mascherato (Chinello) che gli aveva ordinato di mettere le mani in alto e la faccia contro il muro. Dopo quattro giorni, ricordano i colleghi, era ancora “palido come ‘na strassa”. 1 2
1943-1945, Venezia nella Resistenza, a cura di G. Turcato e A. Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 1975-1976 Kim e i suoi compagni, G. Turcato Marsilio editori, 1980
UNA VICENDA INEDITA A VENEZIA DAL MAGGIO DEL 1944 ALLA LIBERAZIONE a cura di Antonio Tenderini e Nicoletta Frosini
intervista a Giancarlo Vianello Bordin ultimogenito del partigiano
Alfredo Bordin “Ta-ho-ma” Alfredo Bordin “Ta-ho-ma” è stato un personaggio davvero importante della Resistenza del Veneto. Fin dall’avvento del fascismo si dichiarò ostile al regime, tanto che fu costretto ad espatriare in Francia. Al tempo della Resistenza fu operativo a Padova a fianco di persone di spicco del CLN, quali Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti. Fu ricercato dai nazifascisti e costretto alla macchia; da fuggiasco riuscì ugualmente a proteggere un gruppetto di ex-prigionieri neozelandesi, fuggiti dai campi di prigionia dopo l’8 settembre del ’43, vicenda che lo stesso Bordin racconterà in seguito nel libro “Sette uomini sotto le stelle”. Anche la sua famiglia subirà rappresaglie e conoscerà il carcere. Bordin “Ta-ho-ma” operò anche a Chioggia e a Venezia, città che nella sua vicenda personale ebbe un ruolo molto particolare. Giancarlo Vianello Bordin, tecnico elettronico presso l’Istituto Enrico Fermi di Venezia, è l’ultimogenito di “Ta-ho- ma” e ha acconsentito a raccontare la particolare vicenda che legò suo padre a Venezia durante l’ultimo anno della Resistenza veneziana. Domanda: La prima domanda sorge spontanea è : “Perché suo padre scelse questo nome di battaglia così inusuale, “Ta-ho-ma”? Giancarlo: “Ta-ho-ma” è una parola di origine tribale, che mio padre scelse per rappresentare la propria idea di solidarietà verso gli oppressi; veniva pronunciata eseguendo un particolare gesto, come di ideale proiezione del proprio cuore, e dovrebbe significare: “Ovunque il mio cuore ti segua”. Il significato di “TaHo-Ma” gli era stato riferito, molto probabilmente, da un qualche studioso dell’ambiente universitario padovano, al quale egli non apparteneva ma che frequentava per varie ragioni, non ultima quella di condivisione dell’ideale antifascista. D. Ci può descrivere la figura di suo padre, Alfredo Bordin e soprattutto il suo rapporto con la città di Venezia? G. Premetto che, essendo l’ultimogenito e avendo solo tredici anni quando morì mio padre, nel ’73, ero meno in grado di comprendere la portata dei fatti vissuti da mio padre e delle azioni da lui compiute. Inoltre lo vedevo poco, tre -quattro volte al mese, perché essendo un importante antiquario padovano, alternava la presenza a Padova a quella di Chioggia, dove vivevamo noi familiari. Tuttavia, nonostante lui, per una forma di modestia, non volesse pubblicizzare il suo operato di partigiano, era spesso intervistato da giornalisti e aveva molte frequentazioni con protagonisti della Resistenza, che frequentavano la nostra casa. Si respirava quindi davvero un clima particolare. La sua storia di partigiano a me non è interamente nota; trattandosi di fatti spesso cruenti voleva proteggermi da quello che è stata la brutalità di quel periodo. Tanto è vero che non voleva che io giocassi con armi giocattolo e si arrabbiava molto quando qualcuno me le regalava. La vicenda di Venezia, però, la ricordo abbastanza bene, forse perché è stata la più importante e dove lui corse il pericolo maggiore. Avendo compiuto atti e azioni di disturbo a Venezia ai danni dei nazifascisti, fu ricercato e inseguito per anni. Si occupava anche di stampa clandestina e di diffusione di informazioni. In questo modo aggravò ancor di più la sua posizione contro i nazifascisti, al punto che era stata posta una taglia su di lui e diffusa in giro la sua foto segnaletica. Questo significava che era ricercato vivo o morto,senza distinzione, e che chiunque poteva catturarlo o ucciderlo. A Venezia si nascose e rifugiò insieme ad un altro perseguitato, Marino Donà.
D. Si ricorda in che anno avvenne questo fatto? G. Per dare questa risposta mi servo della documentazione che vi ho dato. (Giancarlo si riferisce ad un’interessantissima pianta di Venezia del 1944 in cui Alfredo Bordin “Ta-ho-ma” segnò tutte le tappe della sua vicenda veneziana. Una fotocopia della stessa pianta ci è stata data prima dell’intervista, perché potessimo visionarla e studiarla).
La pianta di Venezia del'44 di Alfredo Bordin Ta-ho-ma. Per gentile concessione del figlio Giancarlo
G. Qui, sulla pianta c’è un appunto in cui mio padre scrive ”Fuga il 1° di maggio 1944, ore 17”; quindi quel giorno iniziò la sua fuga. Lui si trovava clandestino a Venezia e aveva trovato rifugio in una casa nei pressi di Castello, dietro l’Arsenale. Lì attendeva i collegamenti con le forze della Resistenza veneziana. A un certo punto, però, capì di esser stato scoperto; all'epoca le delazioni e le spie erano numerose, anche per via della crisi e della fame, anche se la cosa era immorale. Così, proprio la notte prima del 1 maggio, mentre era rifugiato nei pressi dell'Arsenale, dei militari armati circondarono l'abitazione e lo intrappolarono. La fortuna di mio padre era quella di essere una persona molto attenta e previdente e d’altronde non sarebbe riuscito a sopravvivere altrimenti. Già era stato oggetto di tentativi di cattura ed era scampato a diverse sparatorie, questo nella zona di Padova. A Venezia , però, la situazione era più difficile, perché quella zona di Castello era come insaccata e non c’era la possibilità di scappare facilmente; tra l’altro lui credo si trovasse al secondo piano, comunque in una posizione da dove non sarebbe risultato facile portarsi in strada. Già precedentemente aveva analizzato le possibilità di fuga nel caso fosse stato individuato e così quando quella notte sentì il trambusto e il rumore di persone che salivano rapidamente le scale ebbe il sangue freddo di resistere fino a quasi lo sfondamento della porta e si lanciò a tuffo fuori dalla finestra, che tra l’altro lui ricordava essere piccola, per cui non era possibile prendere una postura adeguata al salto. Finì in calle. Il compagno, Donà, non ebbe il coraggio di seguirlo e fu catturato. Mio padre aveva atteso fino all’ultimo momento perché contò su un errore, un errore grave da parte degli assalitori, il fatto che salirono tutti insieme, senza mettere un piantone al piano terra. Questa fu la sua fortuna. Nel salto però batté sia le braccia che gli arti inferiori e si fece male ad una gamba. Nonostante il dolore fortissimo, cominciò a scappare e nella fuga venne colpito da un colpo da arma da fuoco, sempre ad una gamba; questo colmò il divario tra lui e i suoi inseguitori. Riuscì però a nascondersi, fermo e dolorante, in un sottoscala. Gli inseguitori, dopo un po’ abbandonarono la ricerca; avevano comunque ottenuto un risultato con la cattura di Donà. Mio padre rimase immobile tutta la notte, fino a che giunsero delle staffette partigiane, che erano riuscite a rintracciarlo grazie a degli informatori. Alla mattina venne trovato da una coppia di infermieri che si
occupavano dell’assistenza medica clandestina, con grande rischio della propria vita; una situazione decisamente opposta a quella di chi invece faceva la spia. Una cosa che va sottolineata è questa: credo che in quel frangente mio padre stesse per decidere se togliersi la vita o rimanere in attesa. Lui aveva sempre con sé una fialetta di cianuro in un contenitore molto resistente in modo che non potesse rompersi, ed era pronto a odorarla o trangugiarla in caso di cattura. Sapeva che in tal caso sarebbe stato torturato a morte e non sapeva se sarebbe stato in grado di resistere a torture estreme senza parlare. D. Bordin aveva contatti importanti e quindi temeva di compromettere molte persone? G. Infatti. I contatti nel veneziano e a Padova, soprattutto, gli erano ben noti, per cui una sua confessione, estorta con la tortura, avrebbe compromesso la rete informativa e, soprattutto, portato alla cattura e alla morte di altre persone. Per questo lui era pronto a bere il cianuro. Fortunatamente lo trovarono questi due coniugi che gli prestarono assistenza medica e non i nazifascisti. D. Il suo compagno che fine fece? G. Marino Donà subì diverse torture, anche se non mortali, perché i nazifascisti sapevano che non era un personaggio di particolare rilievo. Conveniva piuttosto inviarlo in campo di concentramento, come forza lavoro, come effettivamente avvenne. Restò in campo di concentramento per i mesi che mancavano alla Liberazione, a seguito della quale rientrò in patria.
D. Quindi “Ta-ho-ma” in quei giorni del ’44 a Venezia è clandestino, viene individuato e ferito, scampa alla cattura ed è curato. Poi cosa avviene? G. I due infermieri prepararono con del cartone una sorta di gesso, per immobilizzare la gamba. Fu soccorso e assistito anche da un noto medico veneziano, Giorgio Ciriello. Non so esattamente che tipo di cure specifiche prestò a mio padre, ma so che , essendo una persona profondamente religiosa, aveva contatti con diversi sacerdoti. Il dott. Ciriello riuscì ad ottenere che mio padre venisse portato al sicuro in un nascondiglio della cupola di S. Simeon Piccolo,la chiesa di fronte alla stazione, dove rimase diversi mesi. Tutto questo percorso da Castello a S. Simeon Piccolo è segnato qui, nella sua pianta di Venezia. D. Quando terminò questa clandestinità di suo padre? G. Egli rimase nascosto diversi mesi, fino alla liberazione di Venezia.Nella piantina di Venezia, dove aveva segnato tutte le sue vicende, lui scrive: 'Fine del martirio il 28 aprile 1945, giorno di libertà'. Per Alfredo Bordin, “ Ta-ho-ma” , come per tutti coloro che volevano respirare libertà e democrazia , era finalmente finito l'incubo. Questa intervista, pubblicata nel giornalino di Istituto on line nell’aprile del 2015, ha avuto una conseguenza inaspettata per Giancarlo Bordin che lui descrive con queste parole:
” A seguito del video fatto con gli studenti, mi ha cercato qui a scuola l’ing. Adolfo Zamboni, un appassionato di storia e che cerca di documentare e ricostruire le vicende legate alla Resistenza. Sapendo che un suo amico neozelandese di Auckland, Graham Lindsay, stava cercando una testimonianza in merito alla figura di Alfredo Bordin, non gli era parso vero di trovare il figlio che ne stesse parlando nello sconfinato mondo del web... Così, ha inviato a Graham il link dell’intervista. E’ seguito fra me e quest’ultimo un contatto diretto, via e-mail tramite traduttore google. Si tratta di uno scrittore neozelandese, il quale sta ripercorrendo la vicenda del padre Williams Lindsay, un militare appartenente alle forze alleate, fatto prigioniero, rilasciato e nuovamente ricercato dal ricostituito governo fascista. Mio padre fu artefice del soccorso offerto a quell’uomo e ad altri cinque militari, che si nascondevano ammalati e braccati fra sterpaglie e rovi, nelle barene di Conche di Codevigo. Grazie alla collaborazione ora intessuta fra noi tre, Adolfo, Graham e me, si è pervenuti ad individuare quale fosse la casa, ora rimaneggiata, in cui si nascondeva mio padre e da dove di notte egli si muoveva, assieme ad alcuni abitanti del luogo, per curare e confortare i prigionieri.”
LA LIBERAZIONE di Mestre e Marghera a cura di Marco Gisiato
PREMESSE Durante la seconda guerra mondiale, il nodo ferroviario di Mestre e soprattutto le industrie di Porto Marghera erano obiettivi strategici, per cui tutte le aree abitate circostanti furono duramente colpite. Furono soprattutto gli Anglo-Americani, nella primavera del ’44, a bombardare Mestre, specie nella vasta zona compresa fra Piazza XXVII Ottobre e Catene. In tutta Mestre, mille furono le abitazioni colpite, migliaia di persone rimasero senza casa. Anche i danni alle industrie furono ingentissimi. Il bombardamento peggiore fu quello del 28 marzo 1944, che causò 164 morti e 270 feriti. I bombardamenti a Porto Marghera divennero frequentissimi e il pericolo era aggravato dal fatto che i rifugi antiaerei erano scarsamente sicuri e poteva essere più consigliabile cercare nascondigli nella campagna circostante. L'alta concentrazione operaia e il malcontento per le condizioni di guerra, fecero di Mestre terreno privilegiato per la Resistenza, come testimoniato dal gran numero di partigiani provenienti da questa zona. Dopo la Liberazione, avvenuta il 25 aprile 1945, i partigiani costrinsero i tedeschi ad abbandonare Mestre il 28 aprile e, nel pomeriggio del 29, entrarono a Mestre le truppe alleate, provenienti da Padova.
La Resistenza e la Liberazione La Resistenza e la Liberazione di MestreMarghera e dei centri della cintura urbana, Chirignago, Zelarino, Favaro, Campalto e Tessera furono ad opera del CLN di Mestre, costituitosi subito dopo l’8 settembre del ’43 ad opera dei socialisti Etelredo Agusson e Sergio Bolognesi, dell’azionista Amedeo Linassi e del Movimento di Liberazione Partigiano locale, il cui membro forse più noto è Erminio Ferretto. A lui è intitolata anche la piazza principale di Mestre, allora piazza Umberto I, dove in tempo di guerra c’era un rifugio antiaereo. Nell’agosto-settembre del ’44 i gruppi partigiani del Mestrino, che si erano precedentemente spostati nelle zone delle montagne bellunesi, in seguito ai rastrellamenti fatti dai tedeschi nella zona del Cansiglio scesero nuovamente in pianura. Qui si costituì il battaglione “Felisati”, dal nome di uno dei martiri di Ca’ Giustinian, comandato da Augusto Pettenò e con Commissario Politico Erminio Ferretto, detto “El Venezian”. Proprio Erminio Ferretto alla guida del Battaglione “Felisati” compì la prima azione sul territorio mestrino, facendo saltare con un ordigno, il 15 novembre 1944, la sede della Questura Repubblicana, provocando due feriti e rendendo inagibile l’edificio che si trova in Piazza XXVII Ottobre a Mestre dove c’erano le poste. L’inverno del ’44-45 sarà particolarmente difficile per la resistenza mestrina, che vede una serrata caccia all’uomo da parte dei nazifascisti, l’uccisione di parte degli uomini del battaglione, tra cui lo stesso Ferretto, e il ritiro verso i monti di diversi uomini delle brigate partigiane.
La lotta in pianura tuttavia continua, nonostante le difficili condizioni. La Brigata che opera in pianura, composta da tre battaglioni di partigiani, prenderà il nome di Brigata Garibaldi “Erminio Ferretto”. Ai primi di aprile, con l’avanzata delle truppe alleate, si accelerano le operazioni insurrezionali. Il 22 aprile 1945 il CLN di Mestre, i comandanti delle Brigate “Ferretto” e “Battisti”, che operano nel veneziano, si incontrano con il referente del Comando Piazza di Venezia, Guido Bergamo, “Sauro”. Obiettivi: organizzare l’insurrezione , rendersi utili all’avanzata degli Alleati, impedire ai tedeschi in ritirata l’arrivo a Venezia, la distruzione degli stabilimenti industriali, delle vie di comunicazione, degli essenziali servizi pubblici, di impianti portuali e ferroviari, di strade ed opere d’arte. In tutte queste operazioni sarà fondamentale il contributo dato anche dagli operai di alcune fabbriche di Marghera, che difesero anche con le armi gli stabilimenti e i macchinari industriali. Ma altrettanto determinante sarà l’operato del gruppo “Chiarelli”, formatosi nel maggio del ’44 all’interno del 24° Deposito Misto Militare provinciale dell’esercito della RSI su iniziativa del sergente maggiore Vito Chiarelli. Il gruppo Chiarelli, in collegamento con il capo di Stato Maggiore del CLN provinciale, colonnello Luigi Filipponi, svolgeva già un ruolo importante nella lotta di liberazione passando informazioni, armi ed esplosivi alle forze partigiane. Inoltre, una compagnia militare formata esclusivamente da membri del gruppo Chiarelli era stata posta inconsapevolmente dai tedeschi a presidio dei forti dell’estuario; questo fu un indubbio punto di forza per la Resistenza durante le giornate della Liberazione. Infatti sono proprio i membri della Brigata Charelli a presidio dei forti Gazzera e Mezzacapo a dotare di armi le brigate “Ferretto” e “Battisti”, che scatenano l’offensiva. Il 24 aprile i partigiani si impossessano delle ville Visinoni a Zelarino e Friedenberg ad Asseggiano, la prima sede del comando fascista, la seconda di quello tedesco.
Il 26 aprile è la volta di Forte Carpenedo, attaccato dalla brigata Chiarelli . Il 27 aprile le forze di liberazione delle brigate “Ferretto” e “Battisti” dalla periferia raggiungono il centro di Mestre. Con il crollo di una torre in cemento viene bloccato l’ingresso delle truppe tedesche alla città all’altezza di Zelarino, dopo che un detenuto politico, prigioniero delle Brigate Nere, riesce a far arrivare l’informazione che due colonne tedesche, in ritirata dal Po, si stanno muovendo verso Mestre. Verso le 12 la colonna blindata tedesca viene fermata da un fuoco di sbarramento nei pressi del blocco. Dopo ripetuti scontri, verso sera la colonna tedesca è costretta alla resa. Nel frattempo uno dei fondatori del CLN di Mestre, l’avvocato Agusson tratta nella Casa del Fascio con le Brigate Nere per la liberazione dei detenuti politici condannati alla fucilazione.
Il capitano delle Brigate Nere, Padovani, considerata la situazione, acconsente alle richieste e si offre di avviare le trattative con la Platzkommandantur tedesca, che dispone di cannoni e mitragliatrici in Piazza XXVII ottobre e a Campalto e che ha disposto presidi armati in punti strategici della città. Sempre nella giornata del 27 aprile le forze partigiane continuano le azioni di mantenimento dei forti liberati, nel tentativo di impedirne ai tedeschi la demolizione. Violenti sono gli scontri, che lasciano sul campo ulteriori caduti. Restano sotto il controllo tedesco, tra gli altri, forte Marghera, Campalto, la caserma Matter, luoghi da cui le truppe tedesche scatenano l’offensiva. Fortunatamente i partigiani possono contare sulle armi del forte Rossarol e sul fatto che sia al forte Rossarol che al forte Bazzera è stato nascosto il materiale per l’esplosione delle mine. In serata i partigiani della “Chiarelli” tentano un assalto alla caserma Matter , ma vengono respinti. La notte del 27 trascorre tra diversi scontri: a Carpenedo una colonna tedesca è bloccata da un battaglione della “Battisti” , fino a quando, la mattina del 28 aprile, anche la popolazione insorge. La colonna è costretta alla resa. Capitolano anche le truppe tedesche di Forte Marghera, che nella notte avevano fatto scoppiare alcune mine. Il 28 aprile, giorno della liberazione, le azioni si susseguono convulse, ostacolate anche dalla difficoltà di collegamenti tra le brigate partigiane, operanti alla periferia, e il CLN mestrino. Stando al racconto di Guido Bergamo “Sauro”, alle 9 si presenta al suo comando, posto in un’osteria ai Quattro Cantoni, il capitano Padovani delle forze repubblichine, per comunicare che il Comandante tedesco della Platzkommandantur è disposto ad accettare la resa a condizione che i suoi uomini possano uscire armati dalla città. Bergamo accetta l’accordo, proponendo a sua volta che i tedeschi abbandonino qualsiasi azione di distruzione e danneggiamento. Scaduto il tempo delle trattative senza risposta affermativa da parte del Comandante tedesco, viene lanciata l’offensiva partigiana per la liberazione della città con un susseguirsi di attacchi. Violenti sono gli scontri vicino alla Galleria Matteotti e sul Terraglio, dove le brigate “Ferretto”, “Battisti” e “Chiarelli” hanno unito le loro forze. Ci sono diversi caduti tra i partigiani, fino a che, grazie ad alcuni rinforzi e al supporto della popolazione, le forze di liberazione costringono alla resa i soldati tedeschi combattenti in città. Così nel rapporto dell’ottobre del 1945 Guido Bergamo “Sauro” descrive quei momenti : Gli attacchi continuano con asprezza e alla fine i tedeschi si arrendono. Forse anche perché hanno esaurite le munizioni. Un colonnello delle SS annuncia la resa e la sua personale decisione: “Cadendo la Germania, cadeva anche lui”. Si uccide. Gruppi di partigiani si scontrano nelle vie della città con aliquote delle” brigate nere” e militari tedeschi in ritirata, che tentano, con la forza, di raggiungere la strada per Treviso. Molti sono gli episodi che si verificano nell’interno di Mestre; ma la ferma decisione dei partigiani e la risolutezza della popolazione insorta supera ogni ostacolo.” Nel frattempo il CLN mestrino , riunito dalla prima mattina per discutere le azioni da seguire, preoccupato per le possibili devastazioni tedesche ha deciso di avviare delle trattative. Ore 15. Nella sede della Platzkommandatur in Villa Franchin a Carpenedo si tiene un incontro tra i delegati del CLN di Meste, tra cui, ovviamente, lo stesso Agusson, e il capitano Von Slutzkin, Comandante della Piazza di Mestre.
In un primo tempo le condizioni di resa poste dal CLN sono rifiutate dal comandante tedesco, forte del fatto che tutto il viale è protetto da carri armati. Alla fine si arriva al compromesso della non belligeranza nel territorio di Mestre: i tedeschi possono uscire armati, ma senza procedere a devastazioni e attacchi, se non per difendersi da eventuali azioni offensive dei partigiani. La notizia dell’accordo siglato con i tedeschi raggiunge il centro di Mestre. La sera del 28 aprile la città è liberata. Il 29 aprile le forze alleate entrano in una città ormai liberata e preservata dalla furia devastatrice tedesca. I resti dei partigiani caduti per la liberazione di Mestre e delle zone limitrofe riposano, uno accanto all’altro, nei loculi dedicati ai Martiri della Libertà nel cimitero di Mestre.
La morte di Erminio Ferretto Una testimonianza Erminio Ferretto morì il 6 febbraio del 1945. Così i suoi compagni Umberto De Bei , Augusto Pettenò, Martino Ferretto e Vincenzo Fonti ricordano la sua morte. “Fra il dicembre 1944 e il gennaio-febbraio 1945 i nazifascisti ebbero localmente alcuni successi; imbaldanziti si accanirono in una caccia all’uomo che non ci concedeva tregue. Caddero parecchi nostri compagni e cadde anche Erminio Ferretto. Le brigate nere erano riuscite ad arrestare il 5 febbraio due partigiani che sottoposti a tortura indicarono alcuni nostri rifugi e la consistenza dei gruppi in fase di spostamento presenti nella zona di Treviso più vicina al Mestrino. Indicarono anche una certa casa colonica di Bonisiol, frazione di Casale sul Sile, dove, ammalati e logorati avevano trovato rifugio il nostro capo, Volpe, ed altri quattro compagni. Ferretto, in particolare, era spossato dalla fatica, si dibatteva in una tensione psichica. Forse per questo egli, che sapeva prevedere, non valutò ciò che li poteva aspettare. Le cose andarono così: all’una di notte circa trenta unità delle brigate nere entrarono di sorpresa e di forza in quella casa. Impossibile opporsi con le armi, il solo scampo era nella fuga. Fu un “si salvi chi può”. Ma Ferretto e Volpe che si trovavano nella stalla, non avendo via di uscita si nascosero nella mangiatoia. I fascisti frugarono dappertutto e non trovando nessuno si intestardirono in una seconda accanita ricerca. Ripensarono anche alla stalla e fecero fuggire il bestiame terrorizzandolo con gli spari. Poi con i forconi si diedero a sondare, affondando i colpi, le mangiatoie. Volpe fu ferito ad una gamba, ma riuscì a trattenere l’urlo provocato dal dolore; Ferretto fu colpito al basso ventre ed emise un grido lancinante. Per i fascisti era fatta: scaricarono i mitra su quel mucchio di fieno fino a che il rosso del sangue diede loro la certezza che quel partigiano era finito. Ciò avvenne il 6 febbraio alle ore 2 di notte.” Fonti : “1943-1945, Venezia nella Resistenza”, a cura di Giuseppe Turcato e Agostino Zanon Dal Bo, ed. Comune di Venezia, 19751976, pp. 289-290. http://www.anpivenezia.org/storia/la-liberazione-di-mestre.html ; https://it.wikipedia.org/wiki/La_Resistenza_nel_comune_di_Venezia_(1943-1945) http://www.tribunaleecclesiasticotriveneto.it/ http://www.villafriedenberg.it/it/la-villa.html ; http://www.panoramio.com/user/236544?with_photo_id=61416621 http://mestre.veneziatoday.it/bandi-rivitalizzare-villa-franchin-mestre.html ;
La Missione Argo intervento di Luciana Granzotto convegno ANPI, Mirano, Villa Errera, settembre 2011
“La missione Argo era una missione costituita dall’italiano SIM (Servizio Informazioni Militari) in collaborazione con l’inglese SOE (Special Operation Executive) che era in contatto con il Comando Militare Regionale Veneto. Egidio Meneghetti, (Prorettore dell’Università di Padova , n.d.r) , aveva dato l’incarico a Giancarlo Tonolo, (studente di lettere a Padova, n.d.r), di accogliere Giovanni Bruno Rossoni, un capitano dell’Aviazione che dopo l’8 settembre era entrato in servizio al SIM. . Queste missioni svolsero un ruolo molto importante di collegamento tra le autorità alleate e le bande partigiane e di coordinamento tra le forze regolari e gli effettivi della Resistenza. In particolare lo scopo della Argo era di raccogliere informazioni sulle forze armate tedesche in Veneto e stabilire un collegamento tra i comandi militari partigiani e il comando alleato. La missione era iniziata il 4 febbraio del ’44, quando dal sottomarino “Platino”, proveniente da Taranto, erano sbarcati Rossoni con il marconista Veglia sul litorale adriatico, vicino a Chioggia, dirigendosi poi a Venezia a casa Ferrari. Qui collocarono la ricetrasmittente, i cui fili si confondevano con quelli della biancheria. Grazie alla collaborazione dei ferrovieri fu possibile controllare il traffico militare tedesco, fornire notizie dettagliate sugli impianti delle stazioni d’interesse militare e dei lavori lungo la ferrovia; il servizio informativo si occupava anche dei porti e aeroporti e delle principali arterie stradali delle Venezie. Il Tonolo faceva da tramite tra il Rossoni e il Comando Militare del CLN regionale e provinciale, favorito dal fatto che aveva la fidanzata a Venezia e poteva fare frequenti viaggi senza destare sospetti. La missione terminò l’8 agosto del ’44, il Rossoni, dopo essere stato catturato, fu deportato in Germania e fucilato a Mauthausen poco prima della fine della guerra. Il Tonolo braccato e condannato a morte fu fatto fuggire in Svizzera con documenti falsi e riparò presso dei parenti della fidanzata.”
Fonte: “Resistenza nel Miranese” www.anpivenezia.org/storia/resistenza-miranese.html
“… se tu mamma sappessi quanto ho lottato su questa mia gioventù per la mia famiglia e per una vera patria.(…) Ma verà un giorno che potrò bacciarti te e famiglia,(…)perché un idea è un idea e non sarà capace nessuno al mondo troncarmela.” Dall’ ultima lettera di Violante Momesso, fucilato sulle rovine di Ca’ Giustinian.