Francesco Perrone: Prigioniero 268

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FRANCESCO PERRONE Prigioniero n. 268



FRANCESCO PERRONE insignito dal Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella con la Medaglia d’onore ai cittadini italiani deportati ed internati nei lager nazisti Roma Palazzo del Quirinale 25 gennaio 2018


Che cosa hai provato quando Mattarella ti ha consegnato la Medaglia? Grande emozione e commozione perchĂŠ ho apprezzato il fatto che lo Stato finalmente riconosce chi lo ha servito in guerra. Anche se sono dovuto arrivare a 95 anni per questo.



Che cosa ti ha detto il presidente Mattarella in quella occasione? Eravamo in 3. Oltre a me c'erano altri due reduci di Bergamo che avevano combattuto sul fronte Jugoslavo. Il Presidente si è congratulato con noi e ci ha espresso tutta la gratitudine sua personale e in nome dello Stato Italiano.



Con il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito e la sottosegretaria Boschi


Con la Presidente della Camera Laura Boldrini

Con il Ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli




INTERVISTA A FRANCESCO PERRONE

Che cosa hai fatto nella sua vita fino alla chiamata alle armi? Abitavo a Santeramo e ho sempre lavorato in campagna nella masseria di famiglia, in contrada “Alvino� tra Ginosa e Matera.



A che etĂ sei stato chiamato alle armi per la Seconda Guerra Mondiale? Avevo 18 anni e mezzo. Sono stato chiamato alle armi il 12 gennaio del 1942.


(Il terzo in piedi da sinistra) A Cesena, appena diciottenne, durante il periodo di addestramento presso la 56 Divisione di fanteria "Casale".


Dove hai combattuto? Dopo un breve periodo di addestramento a Cesena, nella 56 Divisione di fanteria Casale, all’inizio di marzo del 1942 partimmo per la guerra. A Mestre attendemmo qualche giorno per conoscere a quale fronte eravamo destinati: Russia, Jugoslavia, Albania. Ci comunicarono invece che eravamo destinati in Grecia. Era la primavera del 1942 e in treno attraversammo tutti i balcani fino a raggiungere la Grecia, precisamente Patrasso. Il mio contingente, inquadrato nella “Divisione Piemonte� aveva il compito di combattere i partigiani greci, appoggiati dagli inglesi, che stavano organnizzando la resistenza greca all’occupazione italiana sulle montagne vicino a Patrasso. La mia mansione, oltre quella di combattente, era quella di barelliere. Durante un combattimento sono stato anche ferito a un braccio e, a ripensarci, sono vivo per miracolo.


Il viaggio verso il fronte


Zone di competenza delle diverse Divisioni italiane nel Peloponneso.


Il porto di Patrasso. 1941

Veduta di Patrasso nella primavera del 1941


La Campagna di Grecia “Spezzeremo le reni alla Grecia!” Benito Mussolini, 18 novembre 1940 La campagna di Grecia fu la più disastrosa di tutta la guerra e le sue ripercussioni furono traumatiche per l'Italia e decisive per il regime che la governava. Benché la potenza militare italiana si fosse rivelata alquanto debole e male organizzata, nessuno poteva prevedere che non sarebbe riuscita ad avere la meglio sulla piccola Grecia. Invece andò proprio così. Le ambizioni di Mussolini di condurre in piena autonomia dall'alleato tedesco una "guerra parallela" sfumarono definitivamente, dopo l’invasione tedesca della Grecia, con l’umiliante armistizio del 21 aprile 1941 imposto dai tedeschi ai greci e agli italiani. Il bluff era stato scoperto, da allora in poi l'Italia avrebbe potuto proseguire la guerra solo come satellite della Germania. La campagna di Grecia terminò in maniera ancor più umiliante di come era iniziata. Alle forze di occupazione italiana i tedeschi consentirono di continuare a considerare la Grecia come territorio occupato solo perchè formalmente alleati. Fino alla fine dell’occupazione (armistizio dell’8 settembre 1943) la gestione italiana dei territori occupati si rivelò un vero disastro per le popolazioni greche anche a causa di condotte immorali di alcuni gerarchi senza scrupoli. Le parole che Churchill usò alla Camera dei Comuni riassumono bene la situazione: “... il dittatore italiano si è congratulato con l'esercito italiano in Albania per gli allori gloriosi che ha conquistato con la sua vittoria sui greci. Questo è senz'altro il record mondiale del ridicolo e dello spregevole. Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la pelle ha reso l'Italia uno stato vassallo dell'impero di Hitler viene a far capriole a fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito - il che si potrebbe comprendere - ma anche di trionfo.” L’intera campagna di Grecia costò la vita a 154.172 giovani italiani (13.755 caduti, 25.067 dispersi, 50.874 feriti, 12.368 congelati, 52.108 morti ammalati).


Contingente italiano in Grecia

Partigiane greche affiancate da soldati inglesi


Contingente italiano in Grecia

Civili trucidati dalle truppe italiane per rappresaglia


Contingente italiano in Grecia

Accampamento italiano sulle montagne greche



La “Guerra del fango” Così è stata definita dagli storici la Campagna italiana in Grecia. Male equipaggiati e organizzati i soldati italiani hanno dovuto condurre le attività belliche in condizioni assolutamente precarie.


Dove e quando sei stato catturato? Non si è trattato di una cattura. Ero in Grecia da circa un’anno e mezzo quando l’8 settembre del 1943 ci fu il famoso armistizio con cui l’Italia si arrendeva agli anglo-americani. Badoglio e il Re si erano rifugiati a Brindisi e i tedeschi che controllavano ancora il centro-nord avevano consentito a Mussolini di costituire la Repubblica Sociale Italiana. Tutte le truppe italiane sui vari fronti non ricevevano più ordini da nessuno. Eravamo sbandati e non sapevamo cosa fare. Non sapevamo più se eravamo alleati o nemici dei tedeschi. I partigiani greci contro cui combattevamo ci intimarono di unirci a loro e combattere contro i tedeschi. Eravamo sulle montagne vicino a Patrasso. Il nostro capitano mandò 2 ufficiali in borghese in città per capire cosa stesse succedendo. I tedeschi avevano distribuito dei manifestini con cui invitavano i soldati italiani, armati o disarmati, a consegnarsi. Avevamo saputo quello che era successo nella vicina isola di Cefalonia dove tutti i soldati del contingente italiano che avevano deciso di non obbedire erano stati fucilati. I tedeschi ci dicevano che se ci fossimo


consegnati a loro ci avrebbero fatto tornare in Italia al servizio dell’esercito di Mussolini che nel frattempo si era rifugiato a Salò. Il nostro capitano ci radunò, salì su un muretto, ci spiegò come stavano le cose e ci chiese cosa volessimo fare. Con la speranza di tornare subito in Italia decidemmo di consegnarci ai tedeschi.


Il manifestino del Comando tedesco con cui si invitavano gli italiani a consegnarsi.

La resa dei soldati italiani


Soldati italiani sul treno della speranza

E infatti così facemmo. I partigiani greci ci lasciarono andare ma prima ci requisirono tutte le armi, i vestiti e le scarpe. I tedeschi ci portarono ad Atene, ci misero su un treno per trasporto bestiame, 50/60 per vagone, e da lì iniziammo un lungo viaggio per l’Europa centrale che durò una ventina di giorni. Eravamo convinti di tornare a casa. Risalimmo per la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria (Budapest), fino a Vienna dove pensavamo di ridiscendere verso l’Italia.


Il “viaggio dell’inganno” verso il campo di prigionia in Germania


Soldati italiani sul treno della speranza

Ma dopo 4 giorni di sosta a Vienna, fummo dichiarati “prigionieri di guerra” e il convoglio invece di dirigersi verso sinistra e scendere verso l’Italia si diresse a destra in direzione della Polonia. In Polonia arrivammo in una stazione di cui non ricordo il nome (forse una dei famosi campi di sterminio che erano vicini al confine con la Cecoslovacchia) e lì, dopo qualche giorno, ci destinarono a Bitterfeld (vicino Lipsia), una cittadina dove c’erano molte fabbriche chimiche. Ci destinarono in una dove si produceva il sale. In tempi di guerra i giovani tedeschi erano


307 - FRANCESCO PERRONE

La scheda di registrazione del Lager Antonie di Bitterfield


tutti al fronte e quindi per mandare avanti le fabbriche, i tedeschi si servivano dei prigionieri che venivano utilizzati anche per ripristinare le strade, le fabbriche, le case, i ponti che venivano bombardati 4 volte al giorno. Questo ci salvò perché potevamo anche essere destinati in Russia o addirittura essere mandati in qualche campo di concentramento. Come era la vita nel campo di prigionia? Il campo di prigionia era fatto di baracche di legno. Ognuna poteva contenere una quarantina di prigionieri. Lavoravamo per 8/10 ore al giorno. Il lavoro era duro ma nel complesso ci consideravamo fortunati. Eravamo vivi! Eravamo considerati prigionieri di guerra a tutti gli effetti, ma dopo i primi 5/6 mesi non eravamo più scortati per andare a lavoro, anche perché questo presupponeva l’impiego di militari tedeschi che invece erano necessari sui vari fronti di guerra e quindi cominciammo ad essere trattati quasi come civili. Ci davano persino una piccola paga con cui potevamo ogni tanto comprarci una birra. Il cibo era appena sufficiente a tenerci in


Scene di vita nei campi di prigionia


forma per poter lavorare (qualche tozzo di pane e patate). Ebbi la fortuna di conoscere una ragazza tedesca con cui entrai in confidenza e che ogni tanto mi portava un pezzo di carne e io le davo un po’ di sale che recuperavo nella fabbrica. Che emozioni hai provato durante la prigionia? La vita nel capo di prigionia era veramente dura, l’inverno in Germania è molto rigido. In quelle condizioni l’unico pensiero fisso era quello di restare vivi. Nel campo io ero il prigioniero numero “268” (zweihundertachtundsechzig una delle poche parole che so ancora pronunciare in tedesco). Mi è capitato un episodio che non scorderò mai: una notte eravamo usciti con altri compagni di baracca a fare un giro per il campo, a un certo punto suonò la sirena che annunciava i bombardamenti e quindi tornammo subito verso il rifugio dove ci riparavamo quando c’erano i bombardamenti, ma quelli che erano dentro il rifugio non vollero o non riuscirono ad aprirci la porta e quindi fummo costretti a rimanere fuori mentre cominciavano a cadere le bombe dagli aerei.


Scene di vita nei campi di prigionia


Ci mettemmo al riparo e assistemmo ad un inferno di bombe che cadevano come grandine. A un certo punto una bomba colpì il rifugio distruggendolo completamente. I nostri compagni che erano dentro morirono tutti e noi che eravamo rimasti fuori ci salvammo. Ancora una volta la sorte era stata dalla mia parte. Vivo per miracolo. Quali erano i pensieri che ti passavano per la testa? In tempi di guerra, lo ripeto, non pensi a nient’altro che a restare vivo e ritornare a casa. Ricordi qualche aneddoto accaduto nel campo? Due in particolare: Il primo riguarda uno degli ultimi giorni di guerra (aprile 1945), i tedeschi si stavano ritirando e di li a poco sarebbero arrivati gli americani. C’era aria di smobilitazione. Eravamo nel campo di notte, nella baracca, quando a un certo punto sentimmo il rumore di un aereo da ricognizione alleato che volava a bassa quota (noi li chiamavamo aerei “cicogna”), a un certo punto una sentinella tedesca che era rimasta di guardia su una torretta di legno, inspiegabilmente


sparò contro l’aereo il quale, convinto che evidentemente ci fossero ancora tanti soldati tedeschi, aprì il fuoco su tutto il campo e ammazzò sia la sentinella che aveva sparato, sia altri miei compagni che erano dentro le baracche. Ho visto morire i miei compagni proprio l’ultimo giorno di guerra. E anche in questa occasione la sorte mi fu amica. L’altro episodio riguarda il giorno in cui arrivarono nel nostro campo le truppe americane. Appena arrivate ci chiesero di segnalare qualche guardia che ci aveva trattato male. Ne indicammo una che era stata particolarmente dura e spietata nei nostri confronti. Un soldato americano lo individuò e lo catturò. Gli ordinò subito di chiedere perdono a noi prigionieri italiani per le angherie a cui ci aveva sottoposto. Ma l’orgoglioso soldato tedesco si rifiutò di chiederci scusa. Allora il soldato americano ci disse “fatene quello che volete”. Noi prigionieri, che avevamo subito da lui diverse umiliazioni durante tutta la nostra permanenza nel campo cominciammo a prenderlo a schiaffi e calci. Ma eravamo così tanti che le percosse lo ridussero quasi in fin di vita. Allora il soldato americano vedendolo conciato piuttosto male prese la pistola e lo finì. Il cadavere restò li per terra per


3-4 giorni. Neanche i parenti lo vennero a riprendere per paura delle ritorsioni degli americani. È una scena che non dimenticherò mai. Questo purtroppo è quello che succede in guerra. Puoi raccontarci come hai vissuto la fine della guerra e il ritorno a casa? La resa incondizionata dei tedeschi avvenne il 7 maggio del 1945. La liberazione del nostro campo invece avvenne circa un mese prima, agli inizi di aprile del 1945. I primi ad arrivare furono gli americani. Il 25 aprile le truppe americane che provenivano da ovest e quelle russe che avanzavano da est si incontrarono a Torgau sul fiume Elba a una cinquantina di chilometri dal nostro campo. Iniziò la divisione della Germania in due zone di influenza e in quell’occasione fu anche concordato l’arretramento di un centinaio di chilometri a ovest degli americani. Il nostro campo si trovava proprio in questa fascia. Infatti una mattina, verso la fine di aprile del 1945, la bandiera americana che sventolava nel nostro campo venne sostituita con quella russa. Nessuno tra noi prigionieri e anche tra i civili tedeschi voleva rimanere sotto il controllo dei russi. Quindi lasciai il campo


insieme ad altri prigionieri, venne con noi anche quella ragazza tedesca, si chiamava Wilelm, che avevo conosciuto durante la prigionia. Lei aveva il padre a Cassino e


voleva venire con me in Italia anche per ricongiungersi con il padre. Era tale la devastazione e la distruzione che moltissimi civili tedeschi, sopratutto donne, erano disposti a lasciare la Germania per ricostruirsi una nuova vita altrove. Molte ragazze infatti riuscirono a seguire i prigionieri che tornavano a casa e si stabilirono nei rispettivi paesi di provenienza. Ricordo che a Santeramo negli anni successivi alla fine della guerra c’erano diverse ragazze tedesche che, al seguito di prigionieri sopravvissuti, cercarono di ricostruirsi una vita. Purtroppo però, date le condizioni di estrema povertà che c’erano anche in Italia, ben presto dovettero tornare in Germania. Non andò così con Wilelm che, benchè voleva seguirmi in Italia, ad uno dei posti di blocco che dovemmo attraversare per passare nella zona controllata dagli americani, i russi non gli consentirono di passare perchè tedesca. I russi non tolleravano questa diaspora di cittadini tedeschi. I nostri destini si separarono lì in un posto di blocco. Non l’ho più vista ne sentita. Avevo conservato per anni una sua foto che però è andata smarrita. Una volta attraversata la zona neutrale che separava le due Germanie, cominciammo il lungo rientro a casa. Vagammo verso sud


alla disperata ricerca di qualunque mezzo che ci portasse in Italia. A un certo punto raggiungemmo un campo di smistamento nei pressi di Monaco (credo si trattasse del campo di Dachau) dove erano confluiti

Il campo di Dachau nei pressi di Monaco

La fine della guerra nel campo di Dachau


Il ritorno a casa


centinaia di migliaia di profughi, sfollati, ex prigionieri di tante nazionalità che cercavano di ritornare in patria. Nel clima di euforia che si respirava nel campo ho ascoltato alcune storie veramente incredibili. Una di queste è quella di diversi sopravissuti alla fame degli anni di prigionia che vollero festeggiare la liberazione improvvisando abbondanti banchetti a cui il loro stomaco non era piÚ abituato. Alcuni di loro morirono di blocco intestinale a guerra ormai finita. Da questo campo ci dirigemmo presso la vicina stazione di Monaco e insieme ad altri italiani convincemmo il macchinista

Il ritorno a casa con qualunque mezzo.


di un treno composto da cassoni aperti per il trasporto di pietre a trasportarci fino Verona dove era diretto. Il macchinista acconsetì a patto che nel caso ci avessero scoperti avremmo dovuto sostenere di esserci nascosti nei cassoni a sua insaputa. Arrivammo così in Italia e poi sempre in treno fino a casa. Era la fine maggio o l’inizio di giugno, a casa non c’era nessuno ad aspettarmi, erano tutti in campagna alle prese con la mietitura. Durante tutta la prigionia non c’era stato modo di comunicare con la mia famiglia. Una volta a casa appresi che il mio fratello maggiore, partito prima di me per la guerra, non era ancora tornato. Pensammo al peggio, ma, dopo qualche mese, tornò anche lui e solo allora tirammo tutti un sospiro di sollievo. L’incubo della guerra era finito per davvero. Hai conosciuto altri prigionieri? Dopo essere stato liberato sei rimasto in contatto con alcuni di loro? Si ho conosciuto altri prigionieri, ma allora non era come adesso, per tenere i contatti bisognava scriversi e per molti di noi non era facile. Alcuni erano analfabeti, io ho


fatto solo la quarta elementare e quindi una volta tornati a casa ognuno riprese la sua vita cercando solo di dimenticare. Quale messaggio vuoi lanciare ai giovani? Che la guerra è meglio non farla. Quella che si vede a cinema e in televisione non è proprio come quella vera. Si vedono sempre degli eroi, i generali, i comandanti, ma le guerre le fanno i soldati, persone semplici che spesso non sanno neanche contro chi combattono e perchè. E alla fine sono sempre loro a morire. Hai qualcos’altro da aggiungere? Fino ad ora ho potuto raccontare queste storie solo ai miei figli, ma ora, grazie a questo riconoscimento del Presidente della Repubblica, molti mi chiedono di raccontare. Ho 95 anni e alla mia età non è facile. I ricordi svaniscono e a volte non mi vengono le parole.




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