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Alberto Tadiello q Alessandro Laita Chiaralice Rizzi q Diego Tonus ed Elisa Caldana Elisa Strinna q Ettore Favini Margherita Moscardini q Patrizio Di Massimo Vittorio Cavallini ed Enrico Vezzi
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a cura di
Blauer Hase
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Paesaggio
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Paesaggio
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Vittorio Cavallini ed Enrico Vezzi...........................................1 Chiaralice Rizzi....................................................4-8-12-16-26 Patrizio Di Massimo...............................................................5 Alberto Tadiello......................................................................9 Ettore Favini.........................................................................10 Alessandro Laita...................................................................13 Margherita Moscardini.........................................................14 Elisa Strinna.........................................................................17 Diego Tonus ed Elisa Caldana................................................27
Conversazioni dal Quarto Paesaggio Prologo NOI SIAMO LE PIANTE E: Che cosa significa mettere in scena il caos? V: Può significare mettere in scena l’ordine naturale delle cose, un po' come dire inscenare la scena che altrimenti non sarebbe vista. E: Le messe in scena in generale non mi sono mai piaciute… Quello che mi preoccupa maggiormente è la nostra incapacità di lavorare con il vuoto e con il vivente. E dove non si riesce a vedere il vuoto e il vivente siamo dominati dal caos e non lo dominiamo… V: È la paura che obbliga a mettere in scena quel caos altrimenti non ce ne sarebbe motivo. Pensa all’Universo, lo spazio raggiungibile solo da satelliti e sonde: riesci a dominarlo? E: Non lo domino ed è forse per questo che ho paura. Il cataclisma è ancora in atto e noi non sappiamo dove ripararci. Mi sembra un buon momento per iniziare a conversare dal Quarto Paesaggio, mentre aspettiamo che finisca la pioggia di asteroidi… V: Lo stiamo già facendo e la pioggia di asteroidi non credo che possa finire prima di noi. E: Sicuramente noi finiremo prima. Ma stasera ci sarà la luna piena, e le scie degli aerei sopra le nostre teste ci ricordano da dove siamo passati per arrivare qua… come possiamo descrivere i confini del Quarto Paesaggio? V: Devo assolutamente pensare di esserci, questo frammento di spazio vitale lo devo curare fidandomi solo della mia esperienza diretta, dove finisca non lo so e non posso descriverlo perchè nel momento in cui lo faccio lo immagino e invece voglio viverlo. E: Solo gli altri possono vedere i nostri confini, ogni cosa che tentiamo di immaginare è sempre parziale, è sempre una proiezione dei nostri desideri e i nostri desideri sono stati infestati…
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V: Adesso è veramente freddo, muoviamoci verso il sole… E: Ci sono piante che crescono solo in mezzo alla neve e alcuni fiori sbocciano solo dopo un incendio… a noi cosa serve per germogliare? V: Che cosa serve non lo so, e qui certe domande rimangono senza risposta. Gli studi da altri intrapresi per la conoscenza globale e la storia non sono fondamentali e non influiscono su ciò che vedo se non in maniera indiretta e inconsapevole. E: …e cosa mi dici dell’esperimento fatto ad Amsterdam da Ap Dijksterhuis? Che cosa vedi riflesso nei tuoi neuroni a specchio? V: Dovrei pensare che l’intelletto individuale si sviluppa con il pensiero di gruppo? Sai dove mi trovo? Questo posto non è condivisibile, non ha una storia e vedo tutto per la prima volta. E: Lo so, qui tutto è primigenio e dobbiamo cercare di difenderlo, come gli uomini rossi di quella foto che conservo in studio. Ti ricordi il giorno in cui sei nato? Io si, ti potrei descrivere la sala parto perfettamente… V: Adesso non devo difendere niente, tutto si difende da sé, ora voglio vivere; ho i piedi freddi e la testa calda. E: Come una pianta. Sai del progetto americano di seminare sulla luna la mostarda? I cicli lunari condizionano i ritmi di crescita sulla terra, ma se la pianta è sulla luna che cosa accade? La pianta della mostarda riesce a produrre un fiore in un solo giorno lunare, che equivale a quattordici giorni terrestri… V: Il giardiniere non sarà distratto dalle automobili e il sacrificio sarà forse ricompensato dalla novità. E: Abbiamo cercato il nuovo e ci siamo ritrovati spesso solo con una trasfigurazione dell’antico. C’è come un’inquietudine da placare che tende al diverso in quanto tale… vorrei andare a Aoikigahara per spargere in tutta la foresta centinaia di cestini da pic-nic… basterebbe poco per rinunciare ad affondare in un mare di alberi…. V: È tutto nuovo e la memoria è scritta sul mio corpo, le mie parole sono inutili e incomprensibili a me stesso. E: Solo le azioni e le conseguenze delle azioni sono comprensibili… ma ti stai guardando intorno? Fuori da qua, ovunque andiamo, siamo circondati da disquisizioni sulla modernità e a me della modernità e della post-modernità non me ne può fregare di meno. Io voglio immergermi senza bombole, voglio essere sub-moderno! V: Proviamo a concentrarci, pensiamo intensamente di essere nello stesso luogo: ci riusciamo? Da che cosa lo capiamo? Prova a dirmi dove sei.
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E: Fino a poco fa ero in luogo dove gli uomini sono costretti a vivere di notte e l’attimo dopo sono finito in un piccolo paese dove gli uomini sono tutti centenari… adesso non so dove mi trovo… provo a pensare intensamente………… l’unica cosa che sento è l’odore del basilico. V: Anch’io sento l’odore del basilico: ci basta per dire che siamo nello stesso luogo? E: Dovremmo oscurare tutto e lasciare solo un lieve spiraglio, dovremmo far passare l’aria quanto basta per ossigenare le cellule e poi… guardarci. V: Si sta alzando il vento e un brivido mi sposta, tra poco tutto si trasformerà in quello che non è mai stato ed io non saprò descriverlo. E: Che cosa ci manca per rendere immortali i nostri pensieri? V: L’immortalità. E: …O forse ci manca la capacità di collocare i nostri pensieri in una dimensione che non muore con noi… nel mio studio oltre a me abitano altri due esseri viventi, uno è una mimosa che sta sfiorendo e l’altro sono dei funghi immortali. Con chi posso parlare? V: Il Quarto Paesaggio sono gli uomini senza il Mondo. E: Che cosa ci fa credere nell’esistenza del Quarto Paesaggio? V: Più o meno le stesse cose che ci fanno credere nell’esistenza di un primo, un secondo e un terzo; esistono possibilità che diventano evidenze nel momento in cui riusciamo ad esperirle. E: Ma come tu sai il Quarto Paesaggio è molto diverso dagli altri tre, abita in luoghi invisibili… e credo che l’unico modo per rivelarlo sia quello di andare dove non vogliamo ed iniziare a pensare a tutto quello a cui di solito non pensiamo… V: Detto cosi sembra un paesaggio scomodo e molto impegnativo. Perché cerchiamo un Quarto Paesaggio? E: Perché nel Quarto Paesaggio è possibile ancora inventare. V: Noi siamo le piante.
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come cade una foglia? come ne cade un’altra?
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Il Paesaggio Morale Italiano
Giorgio de Chirico chiamava l’Italia “una fatalità geografica”. Antonio Stoppani “il bel paese”, ma allo stesso tempo sottotitolava che “tutti gli incanti della natura non valgono un affetto”1. Io nel 2007 ho scritto un testo, Senza Orfanità, all’interno del quale compilai un capitolo intitolato Tra Ventimiglia e Tripoli. Era il momento della ricerca dedicato al paesaggio italiano concepito come quel luogo esistente tra due punti geografici estremi. Il francese: l’allogeno in casa. E poi l’Italia africana: che in realtà arrivava molto più in basso – fino a Mogadiscio, fino a Mombasa. Da lì nacque la voglia di partire per Tripoli – alla ricerca di una regione del mondo da poter chiamare “Italia fuori dall’Italia”. Una volta arrivato però mi sono reso conto che ne sapevo poco delle espansioni e delle affermazioni di se stessi tramite gli imperialismi e che la differenza tre egemonia e dominio è sottile ma allo stesso tempo non trascurabile. Dovetti anche ammettere che lo spirito antropologico che aveva portato gli inglesi fino in Cina mancava nell’attitudine italiana. Che in molti casi questo paesaggio orientale si reificava come un’amnesia collettiva e che quando una storia è cancellata il paesaggio stesso diviene cieco e muto. Fu come un abbaglio: vedere tracce della cultura Italiana inserite nella porta del continente nero; immaginare le vite di migliaia di connazionali impegnati in una lotta vana supportata da fantasie esotiche; capire il ruolo della memoria nella formazione del paesaggio storico; ma soprattutto vedermi e sentirmi come il rottame di un’ideologia vecchia ed opprimente. Un abbaglio così intenso che mal mi riuscì di riprendere con la camera il visto e il vissuto. Ma la ragion del fare, si sa, non è sempre la ragion del vivere. Orientalismo Italiano è diventata così, dopo Senza Orfanità, la mia seconda grande ricerca. Un’analisi tutta indirizzata a capire come si erano sviluppati i rapporti tra Italia e oriente nei secoli e come questi rapporti avevano influenzato di ritorno il paesaggio Italiano in tutte le sue accezioni:
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Il Concilio di Vienne del 1312 che instituì le cattedre di lingua Araba, ebraica e Siriaca nelle università Italiane - perché si sa: l’apprendimento dell’Arabo è il più efficace strumento di conversione dei “maomettani”; le Repubbliche Marinare, che aprirono i cancelli all’oriente Arabo in una sconfinata serie di scambi economici, commerciali e culturali; Venezia, che divenne la più orientale delle città in occidente e che si può a buon diritto definire più Bizantina che Italiana; le crociate, da quelle dei pezzenti a quelle escatologiche e metafisiche, da quelle del bene contro il male a quelle irrazionali e oscurantiste; il grande esploratore Marco Polo e il grande evangelizzatore Matteo Ricci – personalità che cambiarono per sempre la conformazione del loro e nostro occidente; infine l’Africa: Etiopia, Somalia, Eritrea e Libia; la formazione dell’imperialismo straccione e poi la fulminea decolonizzazione; ed infine la netta differenza tra egemonia e dominio.
Ed è proprio questa differenza che caratterizza più di ogni altra cosa il significato di Orientalismo Italiano. Non si può infatti mai parlare di egemonia considerando il rapporto tra l’Italia e gli stati colonizzati perché non abbiamo mai veramente meritato il rispetto di questi popoli. Egemonia culturale, come Gramsci ce la suggerisce, dovrebbe essere la compiuta capacità di direzione cui il colonizzato si dimette. In assenza di questa, e con il solo uso della forza, si ha una rozza e primitiva fase di sforzo – il dominio. L’insediamento in Africa non fu facile per gli Italiani – sconfitta di Adua, interminabili lotte nel Sahara – e proprio da questo nacque la posizione autoritaria di dominazione forzata. Quando nel 1931 l’impero Italiano impiccò e uccise Omar el-Muchtar, il leader della resistenza Libica da tutti chiamato “Leone del deserto”, questa esasperazione era al suo apice di ferocia. Ci vollero venti anni di battaglie e finalmente l’atto era compiuto: la Libia era Italiana. Contro-voglia, contro-mano. El-Muchtar fu pubblicamente ucciso e il suo passaggio all’aldilà sanciva la morte di un paesaggio Italiano onesto e pulito. Il suo finto processo sanciva l’inizio di una storia moderna che sarebbe durata pochi anni, appunto dal 15 settembre 1931 fino al 10 giugno 1940 quando si dichiarò guerra contro Francia ed Inghilterra. Ma il crimine coloniale è qualcosa di cui va chiesto perdono? Il fatto di non essere stati in grado di egemonizzare ma solo di dominare (seppur per pochi anni) ci rende più colpevoli di Inglesi e Francesi? Nelle parole di Gramsci: “La linea di uno stato egemonico non “oscilla”, perché esso stesso determina la volontà altrui e non è determinato, perché la linea politica è fondata
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su ciò che vi è di permanente e non di casuale e immediato e nei propri interessi e in quelli delle altre forze che concorrono in modo decisivo a formare un sistema e un equilibrio”2. Questo significa che non ha poi così senso ritrattare le proprie posizioni a un secolo di distanza se la nazione è stata puramente egemonica. Ma appunto non è questo il nostro caso. Come dominanti forse dovremmo cominciare a parlare di paesaggio morale Italiano. Silvio Berlusconi è l’unico politico Europeo che abbia finora chiesto perdono per i crimini di guerra coloniali e l’unico che abbia voluto portare a termine le restituzioni di artefatti rubati e scippati dai suoi antenati condannando il dominio in terra dominata. La cosa è interessante – se non addirittura mozzafiato per chi come me è così appassionato alla questione. Che cosa significa questo? Significa che il nostro paesaggio morale attuale è molto diverso dagli altri. Da un lato il nostro tardo-imperialismo è rimasto un argomento oscuro e dall’altro il post-colonialismo non si è mai sviluppato né come materia accademica né artistica per via della mancanza di dialogo con i luoghi occupati. Però oggi si arriva a chiedere perdono senza aver mai di fatto affrontato i veri doveri che come stato si aveva nei confronti dei popoli Libici, Etiopici, Eritrei e Somali. Insomma, non c’è post-colonialismo ma ci sono scuse coloniali, il che suona un po’ come una doppia beffa espressa con mezza fatica. Certo si dice che tra Gheddafi e Berlusconi ci sia alla base una trattativa sulla compartecipazione tra TV pubblica araba e nuove produzioni di film pan-arabici. E che la costruzione dell’autostrada che collegherà la Tunisia all’Egitto, connettendo il paesaggio Libico da ovest ad est, così come la promessa di annullare la tratta dei migranti sul canal di Sicilia siano i veri motivi di questo ripensamento ad hoc. Ma ora io non vorrei fare a meno della spensieratezza e dell’innocenza. E potrei chiedermi, a buon diritto, cosa c’entro io con questa storia? Nulla di personale in effetti. Nulla di parentale dal quale dover tirare le somme ma solo un approccio del tutto collettivo alla Storia e al suo paesaggio morale perché forse, in effetti, “L’innocenza è una colpa”3.
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Antonio Stoppani, Il bel paese, Conversazioni sulle bellezze naturali, Lampi di stampa Editore, p. 59, Milano, 2004
2
Antonio Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, p. 167 e 168, Editori Riuniti, Roma, 1991
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Pier Paolo Pasolini, da La sequenza del fiore di carta di Amore e Rabbia, 1968
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oggi, ad esempio, le nuvole tremavano basse tra gli alberi
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Sanremo, 01 luglio 2010 Mio caro, Fra qualche settimana dovremo lasciarci, finalmente ci siamo dati quello che il corso naturale delle cose ci aveva chiesto e ne sono molto felice, anche se me ne dovrò andare. Sono stata appoggiata su questa scogliera per oltre vent’anni, ho sentito ogni giorno i profumi dei rosmarini e dei fiori di cui mi circondavi, sono stata accarezzata dal vento, durante gli inverni il mare mi ha bagnato con la sua brezza fresca e nelle lunghe estati il sole con il suo caldo abbraccio mi ha resa sempre più forte e sempre più bella. Ho aspettato da sempre questo momento, forse sono nata proprio per questo, finalmente ora ti vedo; dapprima solo uno squarcio di cielo, un angolo azzurro, poi lentamente l’azzurro ha riempito il mio sguardo, la mia visione si è aperta a 360˚ su tutto quello che mi ha da sempre circondata, ma che non ero mai riuscita a vedere, crescendo ho cominciato a vederti dall’alto, è stato solo allora che mi sono vestita di giallo e profumata per te, e sono piaciuta a tutti. L’aria a quest’ora della sera ha un sapore diverso, la luce si attenua, l’ombra mi ricopre completamente; ora anche in questo che è stato un caldo pomeriggio la temperatura è sopportabile. E’ come se intorno a me ci fosse un mondo nuovo, per questo finché il tempo me lo permetterà non posso fare altro che continuare ad ammirarti, perché ti ho sempre avvertito senza poterti vedere. Sono circondata da una quantità di specie arboree differenti, la maggior parte mi sono ignote, ma non importa, mi attraggono le loro forme, i loro colori dalle sfumature differenti, le foglie con le tonalità che vanno dal verde più chiaro al vinaccia, è una scoperta ammirare i rami cresciuti come sculture modellate dal vento, dalla pioggia e dal tempo. Ogni particolare merita lunghe ore di attenzione e studio, ogni elemento è una scoperta e siccome non avrò ancora molto tempo, sono avida di vedere, anzi guardare instancabilmente. Tutto intorno sembra statico, invece è vivo, con un procedere lento ma incessante che sembra non aver paura del tempo che scorre, anzi quest’ultimo è un alleato, anche la morte è una risorsa, per una nuova vita che sta per arrivare. Tutto è in equilibrio in un moto perpetuo di minimi spostamenti. Sono ormai alla fine dei miei giorni, ti dico addio, ci è voluta tutta una vita per pochi attimi di bellezza, ma ne è valsa la pena, per entrambi.
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*** L’agave è una pianta grassa originaria del Messico, portata dagli spagnoli nella metà del XVI secolo, si è velocemente sviluppata in Europa. È una pianta molto resistente, con un aspetto metafisico, priva di fusto con le foglie carnose che spuntano direttamente dal terreno, di colore grigio verde, la superficie vellutata, orlate di spine che si stringono verso il centro come in una morsa per proteggere la crescita delle nuove foglie. La geometria dell’orlatura e delle foglie è perfetta, proprio per questo l’agave è una pianta metafisica. La pianta cresce molto lentamente fino a diventare grande e imponente, le foglie possono raggiungere anche i 2 metri di lunghezza: a quel punto si riproduce, alla sua base cominciano a crescere delle piantine direttamente dalle radici. L’aspetto più curioso e profondamente romantico della pianta è la sua fioritura. Dopo circa 20 anni di crescita, usa l’ultimo anno di vita per far crescere al centro della rosetta uno stelo, che velocemente sale verso il cielo fino ad un’altezza massima di dodici metri. Questo stelo nei mesi estivi fiorisce e si colora di fiori gialli e molto profumati. Questo è l’apice della sua vita e, destino beffardo, coincide la sua morte in cui raggiunge la sua massima bellezza. La pianta concentra tutte le sue energie e la sua linfa per la crescita dell’infiorescenza; così sfinita e senza energie, lentamente l’infiorescenza si secca e la pianta muore, ma alla sua base le figlie crescono e il ciclo di vita ricomincia e fra vent’anni ci sarà una nuova fioritura.
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sensazioni di alberi
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SONOÊARRIVATOÊQUI UNAÊ NOTTEÊ NELÊ BOSCO HOÊ PORTATOÊ UNAÊ LUCE PasseggiataÊ notturnaÊ nelÊ bosco.Ê IlÊ giornoÊ 12Ê SettembreÊ 2008Ê sonoÊ entratoÊ nelÊ boscoÊ alÊ tramontoÊ conÊ lÕideaÊ diÊ portareÊ unaÊ luce.Ê LÕequipaggiamentoÊ consistevaÊ diÊ unaÊ coperta,Ê degliÊ scarponi,Ê unaÊ batteriaÊ dÕautomobile,Ê deiÊ caviÊeÊunaÊlampadinaÊaÊbassoÊvoltaggio.ÊDopoÊunÕoraÊdiÊ cammino,ÊquandoÊnonÊsentivoÊpiùÊilÊrumoreÊdelÊfiumeÊeÊ delleÊ macchineÊ aÊ valle,Ê hoÊ trovatoÊ unÊ postoÊ adatto.Ê HoÊ appesoÊlaÊlampadaÊadÊunÊalberoÊedÊhoÊaspettatoÊlaÊnotte.Ê CollegatiÊiÊcaviÊallaÊbatteria,ÊspegnevoÊlaÊluceÊadÊintervalliÊperÊrisparmiareÊcaricaÊelettrica.ÊHoÊaspettato.ÊAllÕalbaÊ ilÊ boscoÊ eraÊ ancoraÊ buio.Ê SoloÊ quandoÊ hoÊ potutoÊ vedereÊ chiaramenteÊhoÊpresoÊleÊmieÊcoseÊeÊsonoÊtornatoÊaÊcasa.
MonteÊDubiea,ÊCadore 12ÊÐÊ13ÊSettembreÊ2008
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di fronte a questo gruppo di alberi nel sole
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Alcuni sguardi sul paesaggio
La pittura di paesaggio In Europa la pittura di paesaggio raggiunge un’autonomia figurativa agli inizi del Seicento. La rappresentazione del dato naturale e della realtà urbana, acquisisce pian piano la dignità di soggetto, a discapito del precedente ruolo, puramente decorativo. Molti dei paesaggi realizzati nel corso del secolo sono caratterizzati dalla compresenza di elementi naturali e mitologici, a revocare un presunto passato arcadico, esaltando così la dimensione bucolica ed idilliaca della Natura; altre opere, più intimistiche, rappresentano il dato naturale come espressione di uno stato d’animo, come la solitudine, o la malinconia. In entrambi i casi esso si fa portavoce di visioni ideali o simboliche. Nel Settecento, con la nascita dell’Illuminismo che privilegia un rapporto con la realtà filtrato dall’intelletto, vengono a modificarsi molti atteggiamenti nell’approccio alla conoscenza e all’esperienza del mondo. Il Sensismo, affermatosi a metà del XVIII secolo, sostiene come tutte le facoltà conoscitive si sviluppino, in modo più o meno diretto, dall’azione dei sensi. L’acuta osservazione della realtà e dei suoi fenomeni, assume così, in maniera sempre più incisiva, un valore conoscitivo. Tale atteggiamento produce diverse ripercussioni anche nelle arti figurative. La diffusione di un’attitudine che privilegia l’ottica scientifica ed oggettiva, interferisce e plasma la visione di vari artisti, che attraverso le loro opere iniziano a rappresentare la realtà per ciò che appare ai loro occhi. Risale a quest’epoca il vedutismo, corrente artistica che, anche grazie all’uso della camera oscura, vuole proporre il dato reale in tutta la sua verosimiglianza. Tra i maggiori esponenti troviamo il Canaletto, le cui vedute di Venezia, città che nel tempo ha subito pochissimi mutamenti, sono perfettamente verosimili, e rasentano una cura tale del dettaglio che le avvicina alla precisione fotografica.
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Con la veduta è posto l’accento su una serie di elementi figurativi come la visione d’insieme, il punto di vista, la possibilità dello sguardo di muoversi sulla superficie pittorica per cogliere sempre nuovi dettagli. Elementi figurativi che saranno propri anche del panorama.
Ampliare il punto di vista La necessità di ampliare il proprio punto di vista, sia sul piano intellettuale che spaziale, diventa un’esigenza sempre più sentita nell’epoca dei Lumi. Si manifesta nella diffusa passione per l’Alpinismo: sport sempre più praticato, non solo da scalatori e scienziati, ma anche da intellettuali, come lo stesso Goethe; ma anche nelle innovazioni tecniche: tra le più significative troviamo la “mongolfiera”, strumento che permette all’uomo di alzarsi al di sopra de l’orizzonte, di volare. Il primo volo di un pallone ad aria calda avvenne in Francia nel 1783, circa sei anni prima della Rivoluzione Francese, e segnò una svolta rilevante nella storia, permettendo all’uomo di vincere la gravità terrestre, avvicinandolo al cielo e ai suoi misteri. Tra le memorie di Jacques-Alexandre-Césare Charles, uno tra i primi uomini che hanno avuto il privilegio di volare, troviamo scritto: “Quando ho lasciato il prato, il sole era già calato per gli abitanti della valle; subito dopo sorse ancora per me solo, dorando il pallone e la gondola con i suoi raggi. Ero l’unico corpo illuminato all’orizzonte; il resto della natura era sprofondato nell’ombra. Presto il sole scomparse anche per me, che ebbi il privilegio di vederlo tramontare due volte in un giorno. Per un momento sondai l’espansione infinita dell’aria e i vapori crescere dalle valli, dai fiumi e dalla terra.” 1
Con l’invenzione del pallone aerostatico l’uomo riesce a vivere, a percepire “l’espansione infinita dell’aria”, come racconta sempre Charles, riferendosi ad un altro volo “...Guardando in basso, non potevamo vedere nulla se non le teste della folla; sopra di noi un cielo senza nuvole e in lontananza una vista magnifica...” 2 Dopo questa conquista l’esperienza dello spazio viene ad essere radicalmente modificata. Diventa l’esperienza dell’infinito, di uno sguardo che va oltre il particolare per poter catturare una visione d’insieme, una visione che abbraccia il tutto, che non ha confini. I limiti della natura umana, con l’aiuto della scienza, possono essere violati: l’uomo non è più osservato dall’alto occhio di Dio, che vede, sa e giudica, ma diventa osservatore a sua volta, non è più contemplato, ma contempla innalzando ed espandendo il suo punto di vista.
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Il panorama Il termine panorama nasce dalla fusione delle voci pan - tutto e horama - vista, ed è stato coniato per denominare una specifica forma di paesaggio, la cui estensione, maggiore rispetto a quanto l’occhio umano possa abbracciare in un solo sguardo, arriva a coprire i 360 gradi. Il panorama trova la sua origine alla fine del XVIII° secolo, e consiste in una figurazione disposta circolarmente a creare una superficie cilindrica, all’interno del quale gli osservatori, con l’ausilio di luci adatte e di elementi plastici disposti sul pavimento, potevano vivere l’illusione di un paesaggio vero. Si attribuisce l’invenzione del panorama al pittore scozzese Robert Barker, nel 1787, che se ne servì la prima volta per una rappresentazione di Edimburgo.3 Tale innovazione figurativa corrisponde a un’evoluzione della concezione del territorio, conseguente alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo della tecnica e della scienza. Il Settecento si distingue come secolo dominato dalla ragione, e dalla diffusione del pensiero scientifico. Nuovi sistemi di organizzazione della conoscenza e un sapere sempre più sistematico vanno diffondendosi, e trovano il loro modello nell’Enciclopedia. La parola enciclopedia, d’origine greca, letteralmente significa “insegnamento circolare”, “cerchio compiuto del sapere”e viene a definirsi come un’esposizione metodica di tutto o di una parte compiuta dello scibile. Se l’enciclopedia nasce come sistema di organizzazione di un sapere teorico, possiamo riferirci al panorama come ad un sistema di organizzazione della percezione spaziale che applica lo stesso principio enciclopedico alla visione. Lo sguardo enciclopedico non si accontenta di prendere in considerazione singoli particolari, ma li organizza in un tutto, elaborando un’immagine d’insieme che vuole offrirci un’esperienza quasi totale del visibile. L’orizzonte diventa il filo conduttore di questa esperienza, che a discapito dell’unico punto di fuga prospettico inventato nel Rinascimento, ne somma diversi, in un’operazione che Stephan Oettermann nel suo libro The Panorama: History of a Mass Medium associa ad “una graduale ‘democratizzazione’ del punto di vista”.4 Il punto di osservazione da cui proporre la vista panoramica, secondo lo studioso, spesso ha un valore simbolico. Ne è un esempio la vista di Londra presentata da Robert Barker, che è realizzata dal tetto di una fabbrica – segno della modernità – mettendo in risalto sia i principali simboli del potere della città, e la sua numerosa flotta, emblema della supremazia industriale e mercantile britannica. Un altro esempio, scrive sempre Oettermann, è il panorama di Pierre Prévost, che rappresenta il Louvre e Notre Dame de Paris dal tetto delle Tuileries, un tempo accessibile unicamente ai membri della nobiltà, a porre l’accento sulla riappropriazione dello spazio da parte della borghesia. Installazioni di panorami viaggiavano di città in città, per esempio a Parigi, o negli Stati
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Uniti potevano essere visti panorami di Londra, di territori poco esplorati, come l’Australia, o di territori esotici. Attraverso quest’esperienza il pubblico poteva visitare virtualmente luoghi o situazioni cui altrimenti non avrebbe mai potuto accedere. Con il tempo la messa in scena dei panorami divenne sempre più complessa, vennero a costituirsi vere e proprie aziende, come quella dei fratelli Poole, che si occupavano di far circolare installazioni panoramiche raggiungendo effetti sempre più spettacolari. Lunghissime tele dipinte con storie o paesaggi erano fatte scorrere su pannelli rotanti; le immagini accompagnate da musica, luci ed effetti sonori, erano commentate da un narratore. Il panorama, come categoria della rappresentazione, non acquisisce lo status di opera d’arte, ma piuttosto quello di una modalità della visione, un modo di organizzare e strutturare il sistema della percezione, ampliato dalla rapida evoluzione scientifica e tecnologica, delineandosi come il precursore di un’esperienza virtuale che troverà il suo seguito nelle arti cinematografiche.
Un’immagine “poliottica” Tra gli sviluppi connessi all’esperienza del panorama si definisce il modello del myriorama, dalle voci myrio - moltepice e horama - vista. Il myriorama diventa popolare attorno al 1820 e consiste nella stampa di una vista panoramica suddivisa verticalmente in 18 o 24 segmenti delle stesse dimensioni, in grado di essere riorganizzati in un’ampia varietà di scene.5 Questo sistema di rappresentazione dello spazio, i cui soggetti sono spesso paesaggi naturali, si diffonde come gioco. Gioco in cui lo spettatore si trova coinvolto a organizzare sempre nuovi panorami con le combinazioni a disposizione, realizzando un rapporto dinamico con l’esperienza della visione di un ambiente. La struttura del myriorama permette inoltre di accostare sezioni da panorami differenti, creando così paesaggi “ibridi”, in cui confrontare simultaneamente territori diversi. Sotto la voce fiume, per esempio, possiamo raccogliere panorami di svariati fiumi, che se confrontati nel gioco del myriorama ci offrono un’idea della biodiversità propria dei vari paesaggi. Prendendo ispirazione dal modello di myriorama uscì in Francia qualche anno più tardi un altro gioco il syllabaire pittoresque 6 in cui oltre alle immagini di un panorama, venivano accostati segmenti di testi, lettere o parole, sviluppando una dimensione narrativa e metalinguistica. La struttura di questi giochi può suggerire un interessante spunto creativo. Nel mio progetto “Il Tessuto della Memoria” - La storia dal punto di vista del Cotone mi sto occupando di raccogliere testi e documenti di varia natura, connessi all’esperienza che l’uomo ha avuto della pianta di Gossypium nel corso della storia. La raccolta di tali documen-
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ti vuole offrire una panoramica su come una materia “prima”, quale è il Cotone, abbia influenzato ed incida tutt’ora nella produzione culturale e nelle dinamiche della storia umana. I singoli documenti raccolti relativi ad ambiti diversi tra i quali la botanica, la storia, la geografia, la narrativa, l’economia, il giornalismo, la religione, ecc.. possono essere considerati come “panorami diversi” di una stessa voce, in tal caso il Cotone. Nell’elaborare il mio progetto ho scelto di utilizzare questi documenti come fonti per la sceneggiatura di un film. Tra le ricerche svolte ho individuato nel modello del myriorama un’interessante riferimento per lo sviluppo e la realizzazione di questa sceneggiatura. Considerando i vari ambiti della mia ricerca e i documenti ad essa relativi come elementi di un panorama, che vede nella sequenzialità storica il suo orizzonte, sarebbe possibile attivare il gioco del myriorama selezionando ed accostando alcune sezioni dei diversi panorami - documenti dei differenti ambiti: si compone così una narrazione in grado di restituire un’immagine molteplice, che nella sua dimensione astorica – viene infatti sovvertita la linea dell’orizzonte/storia – innesca interessanti spunti di confronto, non solo su come il Cotone abbia influenzato la storia umana, ma anche su le varie modalità – o punti di vista – con cui ci spieghiamo e raccontiamo il mondo.
Op. cit. p. 24 Stephan Oettermann, The Panorama: History of a Mass Medium, Zone Books, New York, 1997 Ibidem 3 Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma Istituto poligrafico dello Stato, 1970 – voce Panorama 4 Op. cit. p. 32, Stephan Oettermann, The Panorama: History of a Mass Medium 5 Maurice Rickards, Michael Twyman, Encyclopedia of Ephemera, Routledge, 2000 6 Ibidem 1 2
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“Segmenti” sulla voce Cotone la gente di qui, quando parla del fiore di cotone, dice semplicemente : il fiore. Il fiore che si pianta. Il fiore che si coglie. Il fiore che si raccoglie. Il fiore che si stacca, con le unghie, dalla pianta. (3) Sin dalla più remota antichità l’uomo si è accorto dell’utilità di impiegare il cotone per confezionare indumenti atti a proteggerlo dalle intemperie. Così facendo soddisfaceva al suo secondo bisogno fondamentale, quello che segue l’alimentazione: l’abbigliamento. Non è male a questo punto, aprire una parentesi per precisare che il bisogno dell’abbigliamento, naturalmente sempre a parità di latitudine , non è poi così imperativo come quello del cibo. Il cotone , o “re cotone” come lo si chiamava una volta, pur avendo oggi una corona alquanto opaca e benché sia stretto da vicino dalla concorrenza di altre fibre, occupa ancora il primo posto (1957). In termini di peso la sua produzione , da sola, è superiore a quella di tutte le altre fibre tessili messe assieme; (2)
cotone s.m. ( dall’arabo qutun). -1. Nome col quale si designano le specie del genere Gossypium della fam. Malvacee, nonché i peli che rivestono i semi e che sono utilizzati come materia tessile. 2. Il filato che se ne ricava, usato per la fabbricazione di tessuti, per confezione di maglie, o messo in commercio in matasse, rocchetti, ecc.. per vari usi. (..) 3. C. idrofilo, cotone cardato che ha subito un trattamento chimico per l’asportazione di sostanze grasse e resinose, allo scopo di conferirgli la capacità di assorbire acqua. Nel ling. com. è detto anche semplic. cotone, soprattutto di alcune locuz. fig.: avere il c. negli orecchi, di chi non ascolta, perché disattento, o perché non vuol sentire, ciò che gli viene detto; tenere uno nel c., vivere fra le delicatezze cfr. anche BAMBAGIA). 4. C. fulminante: v. NITROCELLULOSA (1)
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Botanica Le specie spontanee sono suffruttici o frutici, alti 1-4 m, le forme coltivate sono anche annue. Tutte hanno fusto ramoso, foglie palmato-lobate o partite, fiori solitari, provvisti di un calicetto di 3 ampie brattee, più o meno incise, calice gramosepalo, cupuliforme, piccolo, persistente come il calicetto, corolla di 5 petali obovato, bianchi, rosei, gialli, di solito con vistosa macchia rossa alla base, stami numerosi con filamenti saldati, ovario 3-5 loculare con molti ovuli. Il frutto è una capsula coriacea, ovata, loculicida; talora le logge sono 4 o anche 3. I semi subglobosi, oblunghi o angolosi, sono rivestiti di peli fittissimi, più o meno lunghi derivanti dalle cellule dell’ epiderme del tegumento, hanno albume tenue o nullo. Il fusto e le foglie sono glabri o pubescenti. Nettari extranuziali si hanno alla pagina inferiore della foglia, all’apice del peduncolo fiorale e alla base del calice. Riguardo ai peli dei semi i c. si dividono in 3 gruppi: il primo cono soli peli lunghi che si utilizzano per la filatura (flint) e si staccano facilmente dal guscio; sono detti c. a semi “nudi” o “neri” (in commercio naked o black-seeded cottons, come il Gossypium barbadense); il secondo a peli lunghi, tessili, e con peluria fitta di peli cortissimi: sono detti c. a semi “vestiti” (fuzzy seeded cottons); questa peluria, separata con apposita operazione costituisce i linters; il terzo infine con semi rivestiti solo da bassa peluria; questo gruppo non è coltivato. Sistematica dei cotoni: esiste circa un migliaio di nomi di varietà e di razze. La loro sistematica è oltremodo complessa e oscura per varie ragioni. Anche il numero delle specie varia secondo gli autori e precisamente da una a poche a 52. (1) Il Gossypium. presenta due aspetti principali: erbacea annuale od arbustiva pluriennale, ha un’altezza di circa un metro nel primo caso, può raggiungere i sei nel secondo. In entrambi i casi in primavera la pianta si ammanta di graziose campanule color giallo chiaro, con sfumature rossastre o violacee, e quando il fiore cade, appaiono i frutti, grossi come noci, che vengono chiamate cassule. La cassula giunta a maturazione, si apre per la pressione dei peli interni, mostrano un bianco batuffolo di peluria lanosa, lunga e lucente: il cotone. Se i semi presentano solo peli lunghi, si hanno i lint, quando portano anche una leggera peluria si hanno i fuzz. Scopo precipuo dei peli, sarebbe quello di servire da ali e da paracadute ai semi , in modo da permettere al vento di trasportarli e, lasciandoli cadere su suoli vergini, di dar vita ad un’altra pianta. L’uomo però, scoperta l’utilità di questo prodotto, lo ha destinato ad un impiego completamente diverso. (2) La botanica divide i cotoni in due gruppo: “asiatico” e “non asiatico” suddividendo poi ulteriormente queste categorie principali: gli “asiatici” comprendono: - il Gossypium herbaceum, cioè quasi tutti i cotoni indiani, levantini, russi ed iraniani; - il Gossypium arboreum od albero del cotone, cioè i cotoni del Turchestan ed il
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cotone sacro o Gossypium religiosum dell’India; i “non asiatici” includono: - gli uplands, prevalentemente coltivati in America e noti con il nome di Gossypium irsutum; - tutti gli altri che eccellono per la qualità di lint, cioè Sea Island, L’egiziano, il peruviano, il caravonica, ecc.. noti sotto il nome di Gossopyum barbadense, marittimum e peruvianum. La geografia, la pratica ed il commercio seguono invece una triplice distinzione, basata sulla qualità e cioè: - cotone egiziano: fibra lunga o lunghissima, morbida, serica, variante dal bianco candido al giallo. -E’ la qualità migliore-. - cotone americano: simile ai cotoni fini con le varietà Sea Island ed a quelli scadenti con L’Upland. E’ bianco o leggermente giallastro abbastanza serico. -Qualità media-. - cotone asiatico a fibra corta: bianco a macchie gialle, piuttosto ruvido. E’ il più scadente. (2) Qui si trovano tre varietà di cotone: il cotone occidentale, il cotone rustico, il cotone porpora. Il cotone occidentale viene dall’America; il fiore presenta quattro petali, le fibre sono lunghe e viene utilizzato per la tessitura. Il cotone rustico, tre petali, fibre corte, è quello che si coltiva tradizionalmente, i contadini lo battono poco e poi se ne servono per imbottire i loro letti. Prima dell’arrivo del cotone occidentale anche il cotone rustico era lavorato e forniva una grossa tela assai solida. Oggi non è più considerato cotone vero e proprio: non lo si semina che occasionalmente, come complemento. Eppure lo si coltiva ancora così come si è continuato a fumare tabacco cinese anche dopo la scoperta delle sigarette dello straniero. Il cotone porpora non è porpora. E giallo, dello stesso colore della terra di questi luoghi. (Cina) Giallo è il cotone e anche il colore del tessuto che se ne ricava e che si è soliti chiamare nankin. Gli indumenti di nankin, sono detti camice di fiore di porpora. Gli abiti di nankin altrimenti detti abiti di fiore di porpora, hanno la particolarità di non sporcarsi al contatto con la terra. Quando d‘inverno ha meno da fare, la gente si addossa ai muri delle case per approfittare del sole, vestita di abiti di fiore di porpora, tanto che da lontano si direbbe che quei muri sono nudi come mani. Ci si deve avvicinare per rendersi conto che hanno degli occhi. A maggio, giugno e luglio il cotone passa quasi inosservato perché cresce nello stesso tempo dei cereali. In agosto settembre e ottobre poi, quando arriva il momento della mietitura i campi si cospargono di macine, diventa chiaro che questa terra è il paese del cotone e i piantatori sembrano come per magia, spuntati essi stessi dalla terra. Qua e là nello sterminato mare di fiori, i villaggi emergono come isole. Mentre le foglie della pianta si arrossano, i fiori si fanno di un
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tale bianco che gli occhi non possono soffermarsi su alcun punto del paesaggio senza rimanere abbagliati. Sono le donne che, a mano, li raccolgono in un sacco posato sul loro stomaco. Poco a poco il sacco si ingrossa e osservandosi l’un l’altra le ragazze ridono dei loro ventri gonfi e delle loro taglie da donne incinte: le donne sposate additano le ragazze più giovani. “A quando? Non hai voglia di mangiare giuggiole?” “Quando arriva il momento il piantatore grida, dalla soglia di casa” “Andate, andate! Si raccoglie!” A questo richiamo tutte, sposate e non accorrono. E terminata la raccolta si portano alla bilancia per riscuotere il salario. (3)
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma Istituto poligrafico dello Stato, 1970 – voce Cotone
(1)
(2)
Beltramini de’ Casati, Gian Maria, Cotone, la Goliardica Editore, Milano 1957
(3)
Ning Tie, Fiori di Cotone, Halley Editrice, Matelica (MC) 2005
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animale. fiore. albero. radice. notte. finestra. gatto. figure. maggiolino. sorgente montana. foglio. pastrano. albero. pietre. ciclamino. anguilla. grembiule. quarto di pomodoro. mollusco. acqua. panno. nudo. roccia. albero. cielo. orizzonte. montagna. casa. donna. tavolo. frutto. teschio. orizzonte. strada. sottobosco. rilievo. tornanti. case. teste. busti. finestre. deserto. immensitĂ . notte. bestia.
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