Paesaggio agne raceviciute q alessandro roma andrea de stefani q claudia rossini diego marcon q giulio squillacciotti riccardo benassi q saverio adamo tonoli
a cura di
Blauer Hase
Paesaggio
Indice degli Autori: Andrea De Stefani ..................................................................1 Giulio Squillacciotti ...............................................................2 Claudia Rossini ......................................................................4 Agne Raceviciute ..................................................................12 Diego Marcon ......................................................................15 Alessandro Roma .................................................................16 Riccardo Benassi ..................................................................19 Saverio Adamo Tonoli ...........................................................22
Tre nei 8 Settembre 2010, Baia di Prelo (GE) Seduto su uno scalino di roccia, di fronte a me una minuscola spiaggia di ghiaia, sette bagnanti (tutti anziani, inerti) distesi pancia all’aria, cinque barchette ribaltate sulla battigia, il mare verde e flemmatico, quattro windsurf che si rincorrono a largo. Alcune case si arrampicano sul lato opposto della baia, fin sul promontorio (credo sia Rapallo). Oltre gli edifici più arroccati si estende una fitta boscaglia e ancora più su una singola nuvola si staglia contro l’azzurro ipersaturo del cielo. Ci saranno ventotto gradi al sole addolciti da una gradevole brezza. Sono le quindici e trentasette minuti, le onde che accarezzano il bagnasciuga scandiscono il passaggio del tempo con una cadenza irregolare. Uno stridore spacca il ritmo. Un vecchio in canottiera bianca e pantaloncini rossi inizia a raschiare la chiglia di una delle imbarcazioni capovolte sulla ghiaia. Gratta come un ossesso con uno spazzolone metallico, nel tentativo di sradicare la patina di lerciume grumoso che ricopre lo scafo. Sfrega a lungo come un dannato, non smette, gronda sudore, tossisce, scatarra. Una trentina di metri alle sue spalle, allineata in secondo piano, una signora (capelli raccolti in una cuffia glitterata) nuota a dorso. Avanza a bracciate scomposte. Rallenta progressivamente, fino ad immobilizzarsi. Va giù a picco, scompare senza opporre resistenza, e io non posso proprio descrivere che razza di buio stia vedendo lì sotto.
12 Marzo 2010, Monte Calvarina (VR) Una fitta rete di passaggi sotterranei si sviluppa parallela alla superficie della base militare abbandonata. Per accedervi bisogna scoperchiare una delle quattro botole circolari disposte in ordine numerico lungo il perimetro del cortile recintato. Forzo la n°3 - Settore Nord. Sollevato il portello mi calo nell’apertura utilizzando l’apposita scala di ferro arrugginito fissata alla parete di cemento. Tocco terra dopo aver sceso ventidue gradini in verticale. La luce proveniente dall’accesso sopra la mia testa si vaporizza nello spazio, rivelando a stento la conformazione del tunnel. C’è un odore fetido di acqua marcia. Respiro a fatica, fa un freddo cane. Il suolo è melmoso. Mi lascio la scala e la parete alle spalle, avanzo in linea retta per una ventina di metri. Il percorso vira bruscamente di novanta gradi a sinistra. Procedo cauto con i piedi immersi nel fango. Appena svoltato l’angolo vengo travolto dall’oscurità. Tossisco istintivamente (mi affermo nel suono), attraverso il riverbero del colpo tento di intuire profondità e larghezza del posto in cui mi trovo. Muovo tre passi in avanti a braccia distese, i miei occhi schizzano in ogni direzione alla ricerca di un appiglio. Ipotizzo centri e prospettive, forme e variazioni strutturali. Le mie reazioni fisiologiche, così come la memoria, sono al servizio delle convenzioni percettive e degli schemi concettuali. Sono cieco dinnanzi all’immagine di un buio nitido.
4 Febbraio 2009, Palazzo Carminati (VE) Rinchiuso in un ripostiglio sto osservando l’ultima fase della metamorfosi. Sul tavolino di compensato di fronte a me giacciono ventuno minuscoli bozzoli, turgidi e immobili. Dodici giorni fa altrettanti vermi bianchi strisciavano uno sull’altro, in prossimità del trancio di carne putrida dal quale sono apparsi. Una delle capsule cilindriche si dischiude. La punto con la torcia elettrica da distanza ravvicinata. Una giovane mosca squarcia un polo del pupario con la fronte, a singhiozzi si libera completamente dell’involucro. Ne esce umida e stremata, si contorce, si accascia sul ripiano pancia all’aria. Dopo una temporanea paralisi si rigira con un balzo. Agita la proboscide, si sbava sulle zampe anteriori e con un gesto meccanico le porta al dorso per stirarsi le ali, ora accartocciate. Ripete l’operazione per cinque volte, sempre con la stessa perizia irritante. Saltella per qualche minuto, allarga progressivamente il suo raggio di esplorazione e all’improvviso si lancia in volo, come se fosse una vecchia abitudine. Si dirige verso la luce che filtra da sotto la porta d’ingresso descrivendo una traiettoria elicoidale. Dal fondo della stanza la vedo contrapporsi al chiarore. Un atomo ribelle di buio se l’è filata, ci ha lasciato.
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Zimmerreise L’impressione è che il Ravenna sia a conoscenza della provenienza dell’ansia della commessa. Non risiede nelle fittizie non capacità pittoriche verso cui impone la propria autocritica, quanto nella portata del mandato. Il sottotetto del Palazzo dei Carminati brucia della luce delle otto post meridiane estive, il cavalletto lì da presso sostiene la tela ancora bianca che per le prossime ore resterà vuota. Il mandatario dell’incarico pittorico di cui è stato insignito è sé medesimo. Il più bel fior ne coglie. Juti Ravenna insignisce la propria persona dell’onere pittorico di ritrarre quello che dalla finestra che ha fronte a sé lo porta in un altro luogo. Una luciferina pratica intimista dell’autoimposizione che ha nel trasferimento delle sensazioni su di un oggetto, il suo massimo espletamento. La tela, sempre bianca, si illumina per un attimo del Gloriosa Mater Dei Tallisiano della sottostante Chiesa del Santo Giacomo. Stretto si trova nelle rigide norme che vietano l’invito in quel luogo alla persona cui son destinate le faccende che lo circondano. Senza quei precetti, la figura devota, godrebbe di ciò in cui anch’egli felice annega, senza bisogno alcuno di proferirsi in quelle attività ascetiche che tanto lo divorano per il timore del fallimento. «Ahi, quanto pesa l’assenza della presenza e quanto ancor più la ricerca di un’immagine che sia ad entrambi di maniera comune!» - si lancia il Ravenna in desolanti filosofiche questioni. Bramoso di portare l’amore suo al rimirar, seppur artificiale, della vista da cui trae cotanto beneficio, mette mano al vernicio e quasi è pronto a porre sul bianco quel che vede. Indugia, si sconforta, lascia da parte il decoro. Fa appello quindi al distacco di cui è capace, necessario per uno spontaneo coinvolgimento. «Tornare alla parola!» - esclama convinto. Impugna il lapis di punta fresco e si inerpica verso alture cruscanti, cercando una voga di livello, tale da poter esser compreso ed allo stesso tempo ammirato. Tarda ancora. Vede quindi la sua figura, come fosse
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doppio all’improvviso, dal retro delle proprie spalle. Si guarda a sé con i propri stessi occhi da tergo e si osserva sul punto di cader sui ginocchi. La spiacevole vista del fallire viene interrotta dal circolar del sole che, ormai volgendo al termine, musica i tramezzi alla sinistra della sua figura e la tela stessa di rette mai incidenti. «Eccola, la mia Damasco!» - esulta. Finalmente ritorna uno, a veder quindi con i propri occhi davanti il capo, impugna il carbone e, lasciato rovescio ogni intento di crusca, indica a Lei la via che le spetta per presentarsi dove anche lui è: traccia una linea una volta fatto, tracciane altre due devono essere tutte perfettamente allineate la linea centrale si trova alla stessa distanza dalle due laterali scegli quella che più ti si addice dai l’altra a me ma ti prego di lasciare la mediana libera quello è il posto dove ci incontriamo
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Genovaite Raceviciene in Juodkrante Neringa Un film di Agne Raceviciute, Settembre 2009
- Appunti, lettere e fase progettuale (2009): punti 01/ 02/ 03/ 04/ 07/ 08/ 09/ 010/ 011/ 015/ 016/ 018. - Osservazioni postume (2010): punti 05/ 06/ 012/ 013/ 014/ 017/ 019.
01. Genovaite Raceviciene, Kalno gatve 11 - Juodkrante, Neringa - Lithuania. 02. Genovaite Raceviciene - Agne Raceviciute 03. Nell’antica Arabia, i maschi di bell’aspetto avevano l’abitudine di velarsi il viso contro il malocchio, soprattutto ai banchetti e alle fiere, per non esporsi a sguardi pericolosi: si pensa che l’usanza femminile di velare il volto o la testa – di origine preislamica – derivi appunto da questa precauzione magico - religiosa. 04. Portami in quei posti per te rappresentativi e che hanno fatto il tuo vissuto, scegline quattro, crea un percorso che ci possa portare con una certa sequenza al punto d’arrivo: vorrei quasi percorrere la tua vita. 05. Lo sai, era da tempo che volevo rappresentarti. Sei sempre stata lì, tra i miei pensieri, ma immersa in un fondo nebbioso, stentavo a focalizzarti e ti mancava una forma, ma sentivo bene chi eri. Ed eccoti nella tua terra, in questi spiani aperti a farmi vedere tutta te stessa. 06. Ma dimmi, cosa senti a riguardarti ricoperta di drappi neri? Come ti vedi mimetizzata tra gli alberi scrostati ed impastati?
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07. Quella croce in cima alla duna di Marucios Kopos fu costruita per celebrare una leggenda. Si narra che una violenta tempesta di sabbia proveniente dal Sahara ricoprì parte dei paesi di Juodkrante e Nida, sotterrando case, cavalli e persone. 08. Genovaite Raceviciene in Juodkrante Neringa nasce con una forma fumosa che avanza tra ricordi e trasfigurazioni continue che si basano su un unico punto effettivamente reale: la relazione, il mio relazionarsi con il personaggio: Genovaite Raceviciene 09. Juodkranteis juroi nuskendo mano meile (nel mare di Juodkrante è annegato il mio amore). 010. Promozione e degradazione, il travestimento protegge in quanto crea una nuova identità, in cui l’elemento sacro e rituale è sempre presente. 011. Juodkrante (Costa Nera); 01 laguna, 02 dune , 03a bosco vivo, 03b bosco bruciato, 04 mar Baltico. 012. Genovaite Raceviciene in Juodkrante Neringa, ritraggo mia nonna e la sua terra natale; l’intenzione è di cambiare i miei rapporti familiari e di conseguenza anche la mia ricerca. 013. Quanto tempo è passato? Forse troppo. Ci siamo lasciate così veloce, con pochi abbracci, ma con tanta inconsapevole forza di un radicale cambiamento nel nostro rapporto, lo so; lo sento. 014. Potevamo raccontarci le vicende più intime, ma lo sapevamo bene che non erano davvero le più personali, anche se abbiamo toccato molti punti che erano lì vicino, è incredibile come riuscivamo a schivarli per non andare a fondo. Ma alla fine qualcosa è cambiato, alla fine ci si parla con lo sguardo, con la presenza. 015. Cerco in te quel senso di eleganza selvatica che sai portare con la tua esperienza, a tratti quasi da sciamano.
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016. Ti ricordi di quella volta che ho perso i sensi? Mentre tu pregavi, io annusavo quello strano incenso e osservavo gli ori ortodossi. Non mi portasti più in chiesa, ma mi hai sempre trasmesso la spiritualità, il rituale. Ti coprirò con un ammasso nero dal quale emanerai l’oro e l’incenso. 017. Abbiamo preparato la camera ardente, per quella donna; con cura tutti i fiori, i vestiti e i soprammobili erano scintillanti, e tu poi iniziasti a parlarmi della tua vita, della morte, che tanto mancava poco; ero incredula dalla facilità e l’ironia con qui ne parlavi, di fondo così realisticamente. Mi venivano i brividi. Se potessi riguardare il video con gli occhi di un estraneo, pensi che il lavoro ha toccato questi punti? Li percepisci? 018. Ritrarre il difficile equilibrio tra ponderabile ed imponderabile verso il quale la vita di ogni essere vivente anela. 019. Nelle immagini in bianco e nero si susseguono distese di vegetazione, acque gelide e boschi incontaminati: emerge una sagoma avvolta da un mantello, il cui lento intercedere è accompagnato da una litania cupa ed ipnotica.
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SIGNORE DELLE CIME Testo e musica di Giuseppe de Marzi
Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Ma ti preghiamo, su nel Paradiso, lascialo andare per le tue montagne. Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco, soffice mantello, il nostro amico, nostro fratello. Su nel Paradiso, lascialo andare per le tue montagne.
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Collage della Palude definitiva di Giorgio Manganelli.
......Monto a cavallo e mi avvio. ....So di procedere verso
la palude, ma so che non vi sarà un punto in cui potrò dire:
“Ora davanti a me incomincia la palude”, posso ancora decidere
di tornare indietro, e di associarmi a quella banda di malfattori; so che ad un certo punto io saprò di essere irreparabilmente dentro la palude; lo saprò quando sarà troppo tardi....
Perché non decido che è più saggio restare a vivere una vita onestamente delittuosa, o forse tornare indietro e consegnarmi al
rogo, alle forche della nobile città da cui sono fuggito? Perché nel momento stesso in cui qualcuno mi ha parlato della palude, ho sentito che quel luogo mi era assurdamente consueto, amico,
un luogo che potevo solo io apprezzare e frequentare? Forse an-
davo verso la mia tomba, ma non era impossibile che quella fosse anche veramente una casa accogliente e mite; forse questo mi
sedusse, la sensazione che una palude, luogo morbido, languido, acquoso, attraversato da itinerari imprevisti fosse anche un luogo intimamente mite, una sede di mollezza, di languori,
un che di sfatto, mezzo marcio come può essere marcia la polpa di un gigantesco frutto andata assai oltre la sia maturazione.
O mia tregua acquitrinosa, mia morta gora, fracida di erbe consunte, di animali morti, tenero padule, forse un dio, forse una dea, forse una bestia acquosa, una marcida fracida quanto lan-
guida fanga, mia patria mia tregua. ....Ed ecco che ora io sono, io sono ormai dentro al palude: contemplazione della palude.... sebbene ancora indugi ai limiti del bosco, so cha da tempo io sono penetrato nello spazio della palude. In verità, a ques-
to punto del mio percorso, tutto l’orizzonte mi si svela come
palude, una instabile piana più o meno acquosa, una distesa grigia, di tutti i modi e le guise del grigio, talora prossimo al
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nero; la palude non è uno spazio coerente. Lenti moti di acque variamente fangose si mescolano a formare brevi gorghi, subito disfatti: una grande corruzione si accompagna ad una inten-
sa, cupa pace, qualcosa di tetro e insieme placato; e se ab-
basso lo sguardo, noto che l’ acqua pullula di animali minus-
coli, insetti, vermi, bruchi, insettuzzi alati, scorpioni, e mi pare di scorgere una rapida, tacita biscia, e mi chiedo con pia stoltezza se non esista un censimento totale di questi animali
minuti, infiniti che popolano la palude; ogni animale con il suo nome.
E poi scopro con tardivo stupore, qualcosa d’altro: la luce.
..... in breve mi accorgo che questa luce, instabile, e insieme inconsueta, una luce povera ma equa, non viene dal cielo, ma
da una sorta di palude capovolta che pende sopra questa sterminata piana d’acqua......una qualità a me ignota di cielo, se è cielo, una piana irregolare, come irregolare è la palude, appesa sul mio capo. ....Ora questo vedo, che il cielo, questo
cielo che cielo non è, copre tutto lo spazio sovrastante, forse si frappone tra la palude e il cielo, un finto sipario di cielo tiene a bada un cielo ulteriore, se esiste.
...Con una sorta di letizia, una litigiosa ilarità, tento con
gli occhi di scorgere un sentiero; ma che sarà mai un senti-
ero in questo spazio morbido e acquoso? ....Non sono certo che in questo luogo, in questa terra fradicia e torbidamente viva prosegua la curvatura della terra......penso a questa strana,
ineguale luce che ora s’abbuia senza farsi notte, ora si schi-
arisce senza farsi solare, e mi chiedo se questa pianura acquosa non produca da sè, con i ritmi occulti del suo strano cuore, questa luce che parte la schiarisce, parte la vela, palpebra di luminosità, che mai svela, mai acceca. .....Non posso non accorgermi come l’aria che respiro stia mutando, acquisti aromi fondi, che hanno qualcosa del gusto ombrato e algaceo delle
ostriche.........io respiro come una fragranza mai sentita al-
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trove, e che scopro a me estremamente congeniale. Ho la sensazione di inoltrarmi in una terra suntuosamente venefica...
Mentre procedo mi guardo attorno e vedo quanto rapidamente
il paesaggio della palude vada mutando: ma non capisco se si
tratta del naturale cambiamento dell’ambiente in cui si muove con rapidità, o di altrettanto veloci mutamenti della palude
stessa, della cui instabilità e coerenza ho una immagine im-
precisa; infatti mi rendo conto del mutare delle correnti del dilatarsi delle pozze, o dell’emergere o immergere di fradice
lingue di sabbia;.....Tutto intorno a me cambia, e la mia forza sta in questo essere io me stesso e questo oscuro ma potente
cavallo che mi conduce, o trasporta o, mi piacerebbe dire, mi
trasmette, come se io fossi un sentito dire, un rumore, un messaggio impreciso che va consegnato ad essere idenei a ricev-
erlo. .....e mi chiedo se questo mio corpo, cui sono abituato, insieme consueto e mutevole, non abbia acquisito o stia ac-
quisendo la stessa qualità instabile e ventosa, di un biocco,
un vapore, un lacerno di nuvola, un sbuffo di vento...io corpo umano, niente più che una macchinazione laboriosa di mefiti e muffe e allumacature.....
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Un paesaggio inavvertito
Strappa biglietto zac, zac. Scavalcate le prime pietre impassibili con il copricapo assolato, un cortile ventilato all’oscuro. “ Tocca il sole, lì ” una tunica sdrucita tra i papiri pesanti “uno, due, tre, quattro e tanta fortuna. Ora tocca il pene del faraone (bisogna mantenerlo liscio, lucente e scuro, sfregare con dita di lana), fortuna. Ora tocca qua, palpa il cazzo egiziano come quello del dio fallico. Il tuo com’ è? Vuoi? Dai fammi toccare”. Abbraccio. Sopravvivono le sveltine nel porticato, al cospetto del faraone scolpito nella sabbia e un po’ così si sgrava l’anima nelle imbarcazioni dello svago forzato. Il danzante rimbomba. Travolge donne orribili nel ballo e fa spettacolo di sé. È segnalato e riverito. È giocatore di Loto, noncurante movimentato. Parla con tutti e raccoglie segreti, accumula. Sputa acido, offende la smania di occuparsi, odia le false attenzioni e stuzzica le camicie bianche a bordo, distruttore scettico, osseo e vizioso. Così, taglia le teste e le pance gonfie di sole, grassi pinguini lamentosi del caldo e del dattero. Loro sono il Prossimo sospettato: opportunista, baco da sdraio reclinata, testa di burro. Loro è da corrompere per persuaderli, i propri intorpiditi mai stati simili; esseri sfatti dal rimpinzarsi, che si sciolgono in vasca e raccontano la storia. Accarezza i paradossi e frequenta in piscina, non chiede niente, caduto in diversi dove e a fianco di tutto seduce violentemente e scopa, con poca memoria, con raffinatezza. Sorvola incoerente collezionando estetiche personalissime per giornate oscene al suo ritorno, rapisce e degusta. Cade nella sporcizia umanità. Si aggrotta e squadra, nega e squarcia. Selvaggio nobile, tra il raffinato e il primordiale, iracondo digrigna i denti nella camera da letto sul fiume di fronte a montagne desertiche umide.
05 -10 Luxor, Egipt
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stampato nel novembre 2010 design: Giulia Marzin Š gli autori, 2010 - tutti i diritti riservati www.blauerhase.com