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9/6/2014
Trasmettere tecnologia? Un’operazione trans-culturale | Nòva
09 Giugno, 2014
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Tre culture si devono confrontare nel processo dalla ricerca all’impresa: ricercatori, imprenditori, investitori. Il tutto su una base territoriale. Ecco l'esempio di Oxford di Tim Cook 4 Giugno, 2014
Oxford
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Trasmettere tecnologia? Un’operazione trans-culturale | Nòva
Modello Oxford
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Strategie di trasferimento tecnologico
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Spinoff accademici
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Trasmettere tecnologia? Un’operazione trans-culturale | Nòva
Tim Cook Investitore privato, è tra i fondatori di Isis Innovation, società dell'Università di Oxford nata con lo scopo di promuovere il trasferimento tecnologico, di cui è oggi direttore non esecutivo. E’ musicista e compositore
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La sfida
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Galileo Innovactors’ Festival
CORAGGIO. CREATIVITÀ E AZIONE Innovare riguarda tutti
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Oggi la fatica di innovare riguarda tutti e non risparmia nessuno. Perchè sono (quasi) scomparsi i settori protetti e le rendite di posizione.
Paolo Gubitta
L’EVENTO
LA NUOVA CONOSCENZA PER RIPARTIRE E VINCERE Università e aziende insieme Il Festival che crea sinergie
L
di FRANCESCA VISENTIN e fabbriche contemporanee saranno la nostra salvezza. Parola di Paolo Gubitta. Non a caso «Dalle idee alla fabbrica» è il tema portante del «Galileo Innovactors’ Festival», dal 5 al 7 giugno al Centro Culturale San Gaetano di Padova. Un’agorà dell’innovazione che mette insieme imprese, Università, centri di ricerca, business school, manager e studenti per creare la sinergia vincente tra scienza, filosofia, innovazione, prendendo spunto dal metodo Galileiano. «Oggi la fatica di innovare riguarda tutti e non risparmia nessuno, perchè sono (quasi) scomparsi i settori protetti e le rendite di posizione - fa notare Paolo Gubitta, presidente del Comitato scientifico del Galileo Innovactors’ Festival. E professore straordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova, oltre che direttore scientifico dell’Area Imprenditorialità del Cuoa - . Lo sgretolamento di queste reti di sicurezza è iniziato a metà degli anni '90, ha avuto un'acCelerazione con la globalizzazione e l'euro, e ha subito il colpo di grazia con lo spettacolare progresso delle tecnologie, dal digitale, alla robotica alle
stampanti 3D. Nel mondo dorato dell'abbondanza (quando le inefficienze della gestione venivano scaricate sui prezzi e la svalutazione competitiva sistemava tutto), la fatica di innovare era limitata alle imprese che avevano deciso di (o erano state costrette a) competere nello scenario globale. Per le altre, pubblica amministrazione e sanità su tutti, valeva la regola che innovare era troppo faticoso e serviva a poco» Quanto conta oggi innovare? «Il nocciolo della questione è "come facciamo a convincere tutti a fare la fatica di innovare" - chiarisce Gubitta - . Sgombriamo il campo dall'idea che la propensione ad innovare sia una novità degli ultimi anni. È sempre esistita nelle imprese, nelle Università e nei centri di ricerca. Solo che per un lungo periodo, innovatori e non, potevano convivere in relativa serenità. Oggi serve un cambio di passo: il Galileo Innovactors' Festival (GIF) ha anche questo scopo. Uno dei temi del festival è «Dalla cattedra alla fabbrica», come si può spiegare questo concetto? «Questa edizione è una vera e propria
Un festival social Il Galileo è social: hashtag#gif02 e sul sito www.galileofestival.it (Foto Bergamaschi)
Protagonisti Tim Cook, Pieter Spinder, Gabriele Del Torchio, Maria Cristina Ferradini, Alberto Baban, Katia Da Ros, Progetto Robocup, Massimo Ciociola, Marino, Niola, Gianmario Tondato Da Ruos, Serena Ruffato
"chiamata alle armi" per costruire insieme le infrastrutture per veicolare l'innovazione nei luoghi di lavoro. Il payoff di questa edizione potrebbe essere "armatevi e partiamo". Agli studenti dobbiamo dire che è definitivamente tramontato l'epoca in cui il mondo universitario era diviso tra lauree forti e lauree deboli. Chi non viene al GIF perde l'occasione di confrontarsi con le teste di ponte dell'innovazione: imprese, Università, centri di ricerca e business school che hanno già metabolizzato la fatica di innovare e lo stanno facendo con coraggio e ottimi risultati. Oggi più che mai le aziende hanno disperato bisogno della nuova conoscenza prodotta nelle Università, nei centri di ricerca e nelle business school. Come un docente universitario e l’Università tutta possono diventare protagonisti di questa svolta? «Le Università, in particolare, devono diventare integratori di sistema: incentivare i ricercatori a pensare seriamente alle applicazioni delle loro ricerche; organizzare il trasferimento tecnologico; elaborare vere e proprie strategie commerciali per portare le innovazioni nelle imprese e nelle amministrazioni pubbliche. Così anche uno studente di lettere riuscirà a cogliere il valore che la sua conoscenza può portare al sistema economico e sociale». Cos'hanno in comune le storie (vincenti) di innovazione? «Si tratta di innovazioni di prodotto generate da potenti iniezioni di tecnologia e di conoscenza, sia generata all'interno, sia trasferita dalle Università, dai centri di ricerca e dalle business school». © RIPRODUZIONE RISERVATA
Eccellenze Al Festival il progetto Venice Platform for Innovation and Technology Transfer (Vpi)
Vpi: quando la ricerca è pronta per l’impresa Tre giorni dedicati a ricerca, innovazione, strategie aziendali di successo e manager creativi al Galileo Innovactors’ Festival di Padova, dal 5 al 7 giugno al Centro Culturale San Gaetano. Tra gli esempi virtuosi al Festival, il progetto Vpi: Venice Platform for Innovation and Technology Transfer, punto d'incontro tra mondo della ricerca e mondo delle imprese, nel segno dell'innovazione. Il progetto nasce con l'obiettivo di favorire l'incontro tra ricer-
catori e innovatori impegnati nello sviluppo di progetti e di soluzioni avanzate e imprenditori, manager e professionisti interessati a incrementare il contenuto di innovazione (tecnologica, funzionale, estetica, etc.) nei prodotti e servizi di imprese, enti e istituzioni. E’ una vetrina delle idee pronte all'uso o applicabili nel breve termine, un luogo fisico e virtuale in cui imprese, enti e istituzioni possono trovare soluzioni tecniche o organizzative
per innovare prodotti, servizi e processi in ottica sia incrementale sia radicale. I partner che partecipano al progetto contribuiscono attivamente allo sviluppo e alla promozione di Vpi. Sono realtà importanti, con competenze strategiche per gestire i progetti di innovazione: le due grandi Business School delle Venezie, Fondazione Cuoa e Mib School of Management, lo Studio Bonini, specializzato nella consulenza per la registrazione di
brevetti a livello internazionale, Cortellazzo & Soatto nella consulenza alle imprese, la Cassa di Risparmio del Veneto, il Progetto Marzotto che ha il Premio all’Innovazione più importante a livello nazionale e le Università di Trieste, Sissa, Udine, Padova, Trento, Verona, Venezia. Vpi si rivolge al variegato mondo degli innovatori, fornendo un canale per portare sul mercato i risultati delle ricerche e degli esperimenti, e si propone come partner de-
gli attori coinvolti per completare la filiera dell'innovazione. La Venice Platform for Innovation and Technology Transfer è rivolta a tutti gli innovatori, non solo quelli che frequentano e hanno accesso alla rete «ufficiale» dell'innovazione a elevato contenuto di scienza o tecnologia. I partner di Vpi vengono scelti sulla base delle specifiche competenze che possono apportare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Supplemento del Corriere del Veneto Lunedì 2 Giugno 2014
Galileo Innovactors’ Festival Venerdì al Centro Culturale San Gaetano
Imprenditori e ricercatori a confronto Il talk che racconta i progetti vincenti Cinque imprenditori e cinque ricercatori, il 6 giugno, alle 11, si danno appuntamento in Agorà al San Gaetano di Padova per «Galileo innovactors' - 10 storie di (extra)ordinaria innovazione», talk curato da Vpi-Venice Platform for Innovation and Tecnology Transfer. Dieci storie al centro di un evento condotto da Federico Taddia, giornalista di Radio24 e La Stampa, e moderato per il web da Erika De Bortoli. Dieci minuti per esporre un'esperienza d'impresa, cinque per presentare la propria innovazione e altri cinque per rispondere alle domande e ai tweet raccolti in diretta. A raccontarsi saranno: Federico Zucchetto,
progetto Aretè, Matteo Bortoli, marketing strategico Lattebusche, Riccardo Busolin, progetto ZIP1, Katia Da Ros, vicepresidente Irinox Spa e Irinox Usa, Andrea Fusiello, progetto 3DFlow, Valentina Monteverdi, progetto «Mangiar bene: un gioco da ragazzi!», Marco Palazzetti, amministratore Palazzetti, Valentino Pediroda, fondatore Modefinance, Serena Ruffato, progetto Tooteko, Enrico Venturato, MED Health Technologies. Nel pomeriggio VPI diventa one-to-one: dalle 15 alle 18 gli imprenditori potranno incontrare, in 15 minuti, professionisti nell'ambito della consulenza d'impresa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Dalla stufa smart alla scrivania viva Idee rivoluzionarie
Piccole e grandi storie di impresa in scena alla Galleria dell’Innovazione
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alla barca leggera e in fibre naturali al sistemata robotico per la chirurgia mini-invasiva. E ancora, la stufa smart che esegue gli ordini a distanza, la zappatrice indipendente che fa risparmiare tempo e fatica e la scrivania «viva». Tutto vero, non solo idee. Sono alcune delle piccole, grandi storie d'innovazione quotidiana (e rivoluzionaria) in arrivo a Padova al «Galileo Innovactors' Festival 2014». Per tutta la durata della kermesse, infatti, la Galleria dell'Innovazione riunirà dieci «capitani coraggiosi» e li metterà in vetrina, affinché possano dimostrare il loro valore, fare conoscere i propri progetti, essere d'esempio e ispirare altre imprese italiane. Al Centro Culturale San Gaetano, ogni azienda selezionata potrà esporre prodotti e raccontare attività, permettendo al pubblico di sperimentarle in modalità interattiva. C'è chi come il Team Pr3 Sailing dell'Università di Padova ha ideato Aretè, la
barca da regata, leggera ed «eco», che permette un risparmio del 22 per cento in termini di peso, corrispondente a uno scafo pronto e armato di soli 65 chilogrammi, composto per oltre il 70 per cento di fibre naturali. Un'imbarcazione a vela di 15 piedi, agile e al tempo stesso super tecnica, in materiali di origine naturale. C'è un'azienda della provincia trevigiana, la Irinox, che nel 2010 ha ideato un elettrodomestico capace di far perdere la testa a qualsiasi appassionato di cucina: si chiama Fresco ed è il primo piccolo abbattitore pensato per un uso domestico, con sette funzioni che uniscono freddo e caldo all'interno della stessa cella. Perché le magie a tavola non devono essere privilegio esclusivo degli chef, ma si devono mettere al servizio anche di chi cucina per figli e amici. E la stufa smart che dialoga, è stata realizzata da Palazzetti: si tratta di un'appli-
Direttore responsabile: Alessandro Russello Vicedirettore: Massimo Mamoli Editoriale Veneto s.r.l Presidente Pilade Riello Amministratore Delegato: Massimo Monzio Compagnoni Sede Legale: Via F. Rismondo 2\E, 35131 Padova Reg. Trib. di Padova n. 2228 dell’8\7\2010 Responsabile del trattamento dati (D.L.gs. 196\2003): Alessandro Russello @Copright Editoriale Veneto s.r.l. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo quotidiano può essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge. Stampa: SEDAP S.p.A. Corso Stati Uniti, 23 - 35100 Padova. Tel. 049.870.00.73 Sped. in A.P. - 45% - Art. 2 comma 20\B Legge 662\96 Diffusione: m-dis Distribuzione Media Spa Via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel. 02.25821 Redazioni: Via F. Rismondo, 2\E - 35131 Padova Tel. 049.82.38.811 - Fax 049.82.38.831 Via Gabriele D’Annunzio, 19 - 31100 Treviso Tel. 0422.58.04.34 - Fax 0422.41.97.58 Dorsoduro, 3120 - 30123 Venezia Tel. 041.24.01.91 - Fax 041.241.01.09 Via Carlo Cattaneo, 26 - 37121 Verona Tel. 045.80.591 - Fax 045.803.01.37 Pubblicità: Rcs MediaGroup S.p.A. Divisione Pubblicità, via Francesco Rismondo, 2\E 35131 Padova. Tel. 049.824.62.11 - Fax 049.65.66.30 Proprietà del Marchio: Corriere del Veneto RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani Distribuito con il
cazione evoluta che permette di interagire con la propria stufa in remoto o con lo smartphone alla mano, anche senza collegamento a internet o wi-fi. Il sistema robotico Da Vinci, prodotto da Intuitive Surgical Inc. e distribuito in Italia da Ab medica spa, è invece la piattaforma più evoluta per la chirurgia mini-invasiva oggi presente sul mercato. Sempre restando in ambito medico, il progetto di MED Health Technologies: «MORe», ovvero la sanità mobile, è stato pensato per trasportare, con sistemi prefabbricati mobili, infrastrutture e tecnologie ultra specialistiche in ambito ospedaliero. Un prodotto nato grazie all'integrazione di diverse competenze, ingegneristiche e sanitarie, che ha portato alla creazione di Alcheiros, sistema di intelligenze integrate al servizio dei reparti specialistici. Se invece il lavoro porta a restare per ore seduti alla scrivania, in un caos di
penne, documenti, agende e pc, la rivoluzione è Naif, multitouch table di 3PTechnologies. Con questa scrivania «viva» ed estremamente tecnologica è possibile entrare in relazione: sfogliando documenti, spostando oggetti, grazie a un tavolo multitouch che può essere utilizzato contemporaneamente da più utenti. Dalle sudate carte al lavoro nei campi con una speciale zappatrice indipendente. ZIP1 della startup Amr srl, è una macchina oleodinamica che svolge automaticamente la zappatura e arieggiatura del terreno fra le piante di coltivazioni di ortaggi a filare. Una macchina pensata per ridurre i tempi di lavorazione, i costi della manodopera, l'impiego dei diserbanti chimici. L'innovazione passa anche da qui e promette ottimi risultati, facendo meno fatica e risparmiando tempo. E ancora, la Smart Interaction è un prodotto di Soluzioni Software che, grazie
all'applicazione delle tecnologie di riconoscimento immagine ed estensioni dei contenuti a realtà aumentata, migliora la comunicazione digitale aziendale, favorendo le relazioni in modo interattivo via web, social media e mobile. S-peek è invece la prima applicazione, realizzata da Modefinance, che permette di consultare da smartphone il rating e i dati economici di oltre 20 milioni di aziende europee di cui 1,2 milioni di aziende italiane. Tra le dieci aziende selezionate, non poteva mancare la storia creativa di Lattebusche con i suoi 30 anni di innovazione, crescita (il 2013 si è chiuso con un fatturato a quota 90 milioni) e attenzione costante all'allevamento locale con una rete di centinaia di piccole e grandi stalle nel territorio. Perché la vera innovazione parte dalla cura e dal rispetto della tradizione.
Francesca Boccaletto
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il colosso di Pordenone
L’azienda e i prodotti
Palazzetti: le stufe in pellet capaci di dialogare a distanza
Lattebusche: garanzia di qualità certificata e tutela dei prodotti
Data Storage: si tratta di variabili Siamo già nell'era in cui i dello stato del prodotto, di dati su principali comunicatori in Rete consumi, temperatura interna ed non saranno più gli esseri umani, esterna. Arrivando in sede, queste ma i loro oggetti. In questo campo informazioni lette da un apposito il gruppo Palazzetti (di software ci diranno come il cliente Pordenone), colosso nella sta usando la nostra stufa, potremo produzione di innovative stufe a così comunicargli, ad esempio, legna, è in prima linea con metodi quando effettuare la manutenzione innovativi. Così grazie a Palazzetti, o quando rifornirsi di il cliente di stufe a combustibile. A noi pellet di ultima serviranno anche per generazione è in avvicinarci di più, grado di comandarle nelle future a distanza usando lo produzioni, alle reali smartphone o il necessità dell'utente. tablet per Un po' come avviene accensione-spegniper le centraline delle mento o regolazione auto, che rilevano il della temperatura. A grado di stanchezza settembre 2014 del conducente, il l'azienda attiverà dei consumo dei freni e sistemi capaci di così via». creare un costante Marco Palazzetti L'argomento sarà al dialogo tra il centro dell'intervento di Marco prodotto e la casa madre, Palazzetti nell’incontro «Galileo comunicando (tramite Innovactors' 10 storie di (extra) connessione wi-fi) informazioni ordinaria innovazione», venerdì 6 utili. «Nel nostro settore siamo i giugno, ore 11, all’Agorà del primi al mondo a lanciare questi Centro Culturale San Gaetano a nuovi sistemi intelligenti - spiega Padova. Marco Palazzetti, ad dell'omonima Ro.Bru. industria -, che faranno fluire dati tecnici nel sistema cosiddetto Big © RIPRODUZIONE RISERVATA
stretta di prodotti e con forti Un'innovazione partita nel 1954, investimenti, oggi collaboriamo con quando per tutelare i produttori i maggiori centri di ricerca (Cnr, della montagna bellunese, l'attuale Lattebusche si costituiva in Latteria Università di Padova e Udine, Veneto Agricoltura) per migliorare Sociale Cooperativa della Vallata Feltrina. Da allora il suo impegno di prodotti e processi innovativi». Il consorzio conta su 4 stabilimenti valorizzazione del territorio non è (Busche, Chioggia, Sandrigo e San mai venuto meno. A raccontare gli Pietro in Gù) e 6 punti vendita sviluppi dell’azienda Lattebusche in (chiamati Bar Bianco). termini di strategia e E ha incorporato la di crescita, qualità e latteria veneziana innovazione, venerdì Clodiense nel 1988, il 6 giugno alle ore 11 caseificio vicentino nell'Agorà del Centro Brega nel '93 e la Culturale San Gaetano latteria padovana di Padova, sarà Molinetto nel 2009 Matteo Bortoli (dalla sede di San responsabile Pietro in Gù escono marketing di ogni giorno 300 forme Lattebusche, di Grana Padano). testimone di una delle Questo ha permesso a «Dieci storie di Lattebusche di (extra)ordinaria Matteo Bortoli presentarsi sul innovazione». Fa mercato internazionale con prodotti notare il presidente del consorzio, Antonio Bortoli: «Siamo stati i primi di alta qualità, tra cui i formaggi Dop Asiago, Piave, Grana Padano. in Italia, nel panorama lattiero Antonio Bortoli rivela che il caseario, ad avere la qualità formaggio Piave fruisce dal 1974 del certificata Iso 14000 e da sempre brevetto che ne tutela la produzione prestiamo la massima attenzione a difendendolo dalle imitazioni. emissioni, scarichi, residui di Roberto Brumat lavorazione e a monitorare i consumi. Partiti con una gamma © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Lunedì 2 Giugno 2014 Supplemento del Corriere del Veneto
Galileo Innovactors’ Festival Storie aziendali di successo
Migliorare è possibile? Segreti e strategie nel nuovo libro di Arnaldo Camuffo Migliorare la competitività e aumentare la produttività. Come fare? La risposta è la via italiana al Lean Thinking. Il percorso è tracciato nel libro di Arnaldo Camuffo L’arte di migliorare (Marsilio Editori), che verrà presentato venerdì 6 giugno (ore 17.30) al Galileo Innovactors’ Festival. Coniugare peculiarità e Lean Thinking è un'opportunità da cogliere per garantire all’Italia di vincere le sfide di un mondo globale. Questo il focus del libro di Camuffo, veneziano, professore ordinario all'Università Bocconi di Milano dove insegna Lean Management e dirige il PhD in Business Administration and Management. Protagonista nel libro la
trasformazione silenziosa che sta cambiando l'industria italiana: l'affermarsi del Made in Lean Italy. Il libro ripercorre storie aziendali di successo. L’incontro di presentazione promosso da Cortellazzo & Soatto, s’intitola «Le nuove frontiere della competitività: il caso Autogrill». Intervengono: Paolo Gubitta, Arnaldo Camuffo, Giovanni Costa, vicepresidente esecutivo Consiglio di Gestione Intesa Sanpaolo, Luigi Rossi Luciani, presidente Carel, Gianmario Tondato Da Ruos, ad Autogrill. Modera Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera. © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’incontro «Dalla cattedra alla fabbrica» giovedì 5 giugno nell’Agorà del Centro Culturale San Gaetano di Padova
TIM COOK: COLLEGHIAMO UNIVERSITÀ E AZIENDE Il manager innovatore star al Festival e il «modello Oxford»: le sinergie la vera sfida
P
ensi a un manager innovatore e immediatamente si materializza l’immagine di Tim Cook, fondatore di Isis Innovation dell’Università di Oxford. Sognatore, ma concreto, tecnologico, sempre connesso e lavoratore infaticabile (ogni sua giornata inizia la mattina alle 5), Tim Cook ha realizzato quello che viene definito il «modello Oxford». Ed è l’indiscusso leader del technology transfer. Atteso come una star al Galileo Innovactors’ Festival nell’incontro del 5 giugno (ore 20.30 Centro Culturale San Gaetano: «Dalla cattedra alla fabbrica»), Cook rivelerà i segreti del suo management creativo. «Le caratteristiche principali di quello che ho chiamato modello Oxford sono riconoscere che il mondo della ricerca accademica e quello dello sviluppo commerciale sono molto diversi (ma ugualmente validi) e il punto cruciale per un technology
transfer di successo è la gestione di relazioni tra individui di entrambi i mondi - spiega Tim Cook - . A Oxford (e Cambridge) abbiamo fondato società totalmente di proprietà dell'Università. Che possono operare in maniera commerciale senza essere vincolate dai sistemi amministrativi interni dell’ateneo (studiati per l'Università ma meno appropriati per il mondo più rapido del business). Sono società che lavorano unicamente per gli interessi dell'Università e non per aziende esterne». Sul technology transfer, Tim Cook rivela: «La caratteristica è prendere un’ idea sviluppata in un mondo (o cultura) e trasferirla in un altro (mondo). Con il mio intervento al Galileo Innovactors’ Festival «Dalla cattedra alla fabbrica», intendo descrivere il viaggio e la sfida di trasportare un’idea dal laboratorio universitario, dove nasce, al mondo commerciale esterno, do-
consulenza in
proprietà industriale
ve può svilupparsi e crescere in modo da essere utile per la società». Un esempio? «Un professore universitario potrebbe trovare una sostanza chimica che può avere effetti benefici sul cancro nel topo - chiarisce Cook - . Ma è solo quando questa scoperta sarà convalidata con successo da un’ impresa farmaceutica che investirà molti soldi, tempo e talento, che i benefici arriveranno alle persone malate. La mia tesi è che questo necessiti di capacità specifiche e che la società (e le Università) dovrebbero riconoscere questi talenti e investire in loro». Come uscire dall’attuale crisi economica? Per il manager innovatore, la strada da percorrere è chiara: «Credo la società abbia bisogno di ottenere il massimo beneficio economico da tutte le sue risorse, commerciali, umane e intellettuali e avere collegamenti forti tra chi genera conoscenza e
chi la commercializza. Sicuramente c'è anche bisogno di manager competenti e creativi, investitori e politici». Un esempio per tutti è il percorso di Cook in «Isis». «Se per avventura si intende scegliere una direzio-
ne senza avere la certezza di come andrà a finire, tra rischi e gioie, arrivando sani e salvi alla fine, allora i miei sette anni di Isis sono stati un’avventura - fa sapere Tim Cook - . Questo certamente ha significato lacrime e risate, notti insonni e levatacce, oltre a innumerevoli incontri con persone davvero brillanti. Uno dei benefici di lavorare con accademici universitari è che sono molto intelligenti (è questo il motivo per cui vengono scelti), raramente ottusi». Il manager innovatore deve iniziare le sue giornate all’alba? «Io lo faccio, anche stamattina mi sono svegliato alle cinque. Ma c'è cosi tanta gioia in un nuovo giorno che supera ogni pressione lavorativa. Alzarsi presto non è un sacrificio, se paragonato alla gioia di vivere da manager innovatore».
Francesca Visentin
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Supplemento del Corriere del Veneto Lunedì 2 Giugno 2014
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a fondato e ora dirige una scuola che, per presentarsi con uno slogan, ne sceglie uno semplice e chiaro: «We educate change makers». Perché «se sei creativo, curioso, coraggioso, motivato e pronto all'azione, questo è il posto che fa per te». Pieter Spinder è tribe leader alla Knowmads Business School di Amsterdam (www.knowmads.nl), una scuola che, attraverso strumenti innovativi e una visione sostenibile del mondo, punta a formare i futuri manager rivoluzionari di domani, i «change makers», figure chiave da inserire in un quadro di grandi trasformazioni, per dar vita a una «life-long learning community». «Il mondo ha bisogno di persone capaci di affrontare le sfide e i cambiamenti con un approccio del tutto nuovo», sostiene Spinder, tra i protagonisti a Padova del «Galileo Innovactors' Festival» (5 giugno «Changemakers: Action Learning per le imprese innovative», ore 18, Agorà Centro Culturale San Gaetano, con Edwin Stoop, business visualiser). L’appuntamento è curato da Peoplerise. «Le soluzioni ai problemi di sostenibilità - spiega Spinder - per i problemi finanziari e sociali legati alla crisi attuale, che io preferisco chiamare trasformazione, non sono efficaci. Le cose stanno cambiando rapidamente e il sistema educativo deve necessariamente iniziare a potenziare, formare e sostenere i giovani migliorandone la relazione con se stessi e con il mondo». Alla Knowmads si studia Entrepreneurship & Entrepreneurial Behaviour, New Business Design, Personal Leadership, Social Innovation & Sustainability, Project & Process Design, Marketing & Creativity. Tanti workshop pensati per favorire una rivoluzione educativa e creativa, fatta di condivisione e cura delle conoscenze e dei talenti. Quali sono i programmi della
Workshop Alcuni momenti delle lezioni creative di Pieter Spinder alla «Knowmads Business School di Amsterdam»: creatività e talento per manager rivoluzionari
SPINDER: LA RIVOLUZIONE EDUCATIVA Creatività, curiosità e coraggio per affrontare sfide e cambiamenti Knowmads Business School? Quali i contenuti delle lezioni? «Iniziamo l'anno con un workshop di benvenuto, vediamo chi ci troviamo davanti, cerchiamo di capire quali sono le conoscenze, le esperienze e i talenti dei partecipanti. Partendo da queste prime valutazioni, strutturiamo un programma di sei settimane con molti momenti di team building e condivisione, organizziamo alcune presentazioni tra di noi, ma anche rivolgendoci ad aziende e singoli professionisti che ci ispirano. Poi raccogliamo quanto è emerso e definiamo pro-
grammi specifici che rispondano ai desideri, alle necessità e alle richieste degli studenti. A partire dai risultati di questa fase, che colleghiamo ai progetti dei singoli studenti e a quelli che ci vengono assegnati dalle aziende, organizziamo un programma di workshop, due volte la settimana, tutti i martedì e giovedì. Il lunedì facciamo lavoro di gruppo, il mercoledì si lavora sui singoli progetti con gli studenti. Il venerdì si organiz-
za eventualmente un workshop o evento aggiuntivo a seconda delle esigenze del momento». Dove bisogna puntare per formare futuri manager consapevoli e competenti? Quali le regole da seguire? «Vogliamo formare i leader del futuro, per questo il nostro lavoro segue un percorso che parte dal cuore, raggiunge la testa e si trasforma, infine, in azione. Feeling, knowledge, hands. Sono questi i cardini per la formazione
dei futuri manager, il punto di partenza per una formazione duratura, innovativa ed efficace». Che significato dà al termine innovazione? «Innovare significa guardare al presente e al futuro delle persone, alla terra in cui viviamo. E guardare a ciò che deve essere migliorato o costruito con un approccio sostenibile. La cosa essenziale è elaborare un'idea, costruire una soluzione e poi valutarla. E sulla base di quest'ultimo passaggio, ridefinire l'idea e riprovarci. Il prerequisito più importante è la possibilità di fare errori durante il processo
di innovazione». Da incontri e confronti internazionali possono nascere grandi progetti d'innovazione. Quanto sono importanti eventi come il Galileo Innovactors' Festival? «Eventi come questo sono importanti perché mettono in contatto i giovani con gli imprenditori. E imparare gli uni dagli altri rappresenta una grande opportunità: permette di "unire i puntini" e vedere dove possiamo arrivare grazie alla collaborazione, alla co-ideazione e alla condivisione».
MOMIX ALCHEMY
1-2-3 AGOSTO 2014 Bassano del Grappa
Città di Bassano del Grappa Assessorato allo Spettacolo
prevendite aperte su
www.operaestate.it
Francesca Boccaletto
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VII
Supplemento del Corriere del Veneto Lunedì 2 Giugno 2014
Galileo Innovactors’ Festival «Interior Life»
«Lago»: il design per la vita quotidiana L'oggetto di design e arredamento come attivatore di relazioni, contaminazioni, esperienze condivise. Il tavolo «Lago» (nella foto a destra) è il prodotto scelto dall'azienda per meglio rappresentare il concept rivoluzionario «Interior Life» con cui si presenta nel cuore dell'Agorà del Centro Culturale San Gaetano di Padova per il Galileo Innovactors' Festival. Se una persona trascorre la maggior parte del proprio tempo in ambienti di qualità migliore, allora anche la qualità della sua vita sarà migliore. «Interior Life» è l'espressione con cui «Lago» riassume questo pensiero. La vera rivoluzione è influenzare con il design, in positivo, l'andamento della vita quotidiana. La materia progettata al servizio di ciò e di chi gli sta intorno. Quale oggetto meglio di un tavolo «Community Table», per rappresentare questa idea: il luogo della convivialità e della condivisione per eccellenza.
TRA SHOW-COOKING E DIGITAL SPRITZ L’INNOVAZIONE CHE SI IMPARA A CENA Dai laboratori per bambini, alle mostre: tutti gli eventi collaterali
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aboratori per le scuole, workshop per i professionisti e digital spritz. E poi «a cena con l'innovazione», una novità di questa seconda edizione, infine showcooking. Accanto al calendario principale del Galileo Innovactors’ Festival di Padova, fatto di incontri e talk, un ricco programma di iniziative collaterali, tra convivialità e iniziative per i giovani. Centrali gli eventi per i più piccoli, approfondimenti con focus sulla scienza, già tutti sold out. Il gruppo padovano Pleiadi, che da anni si occupa di divulgazione scientifica, rivolgendosi proprio ai giovanissimi, al Galileo Festival propone due laboratori: «Aveva ragione Copernico» e «In viaggio con le comete» (giovedì 5 e venerdì 6 giugno), pensati per avvicinare i ragazzi all'universo scientifico e favorire l'apprendimento attraverso l'esperienza viva sulle
cose. Pleiadi si ispira alla filosofia del fare, hands-on, che si basa sulla metodologia di Frank Oppenheimer, fondatore del primo museo scientifico interattivo al mondo, l'Exploratorium di San Francisco. Ma non è finita: anche Planck!, la rivista scientifica per ragazzi, realizzata in collaborazione con l'Università di Pa-
dova, presenta il suo laboratorio, anche questo già tutto esaurito: si chiama «Insetti magnetici» (il 5 giugno). Laboratori scientifici a misura di bambino, quindi, ma anche workshop innovativi dedicati ai professionisti, per vivere appieno il festival, passando da un talk a una vera e propria esperienza individuale. Sa-
Community Table Lago L'oggetto di design centro di relazioni e esperienze
rà curato dalla Knowmads Business School di Amsterdam il laboratorio di action learning alternativo, pensato per avvicinare i partecipanti a un nuovo modo di intendere la formazione, partendo dall'azione e dalla consapevolezza del proprio talento e della propria creatività (il 5 e il 6 giugno, prenotazione obbligatoria). Un’anticipazione di primavera perché, grazie alla collaborazione con il partner italiano Peoplerise (società di consulenza nell'ambito del people engagement e dell'innovazione collaborativa), a partire da quest'estate, il metodo co-creativo di Knowmads arriverà in Italia per essere sperimentato in ambito aziendale e universitario. Non mancheranno le mostre, per tutta la durata del festival. «Donne nella scienza tra passato e presente» (a cura di Planck!) racconta conquiste, batta-
glie e nuove sfide al femminile nel settore scientifico. Attualmente solo il 20 per cento delle posizioni lavorative più alte nella carriera scientifica è occupato da donne. Con uno sguardo al passato, al presente e al futuro del lavoro femminile. La seconda esposizione si concentra, invece, su «Giovani designers per nuovi prodotti» ed è curato dal Parco Scientifico Galileo. Al centro trova posto il design industriale che costituisce un fattore strategico per la competitività delle imprese. In mostra, al San Gaetano, una selezione di prodotti progettati da alcuni tra gli oltre cinquecento diplomati di Sid, Scuola italiana design. Tra un workshop e una visita alle esposizioni, si potrà trovare il tempo per assistere ai tre eventi speciali in programma: la cerimonia di premiazione delle Olimpiadi della Fisica (venerdì 6 giugno a Palazzo Moroni, ore 15), una competizione a carattere individuale riservata agli studenti delle scuole superiori e collegata alle Olimpiadi internazionali della Fisica organizzate dall'Aif. E due incontri pensati per celebrare i successi delle scuole padovane a livello internazionale. Quello con i ragazzi del Liceo Fermi di Padova (venerdì 6 giugno a Palazzo Moroni, ore 15.30) che con «Zero Robotics» hanno recentemente vinto la gara di robotica promossa dal Mit e dalla Nasa che si svolge a bordo della Stazione spaziale internazionale. Poi l'incontro con gli studenti dell'Istituto Scalcerle, vincitori della competizione Robocup junior (venerdì 6 giugno a Palazzo Moroni, ore 15.30). UAll'ora di cena si continua a parlare di innovazione durante un aperitivo o prendendo posto a tavola, tra uno scienziato e un umanista. Questa seconda edizione del festival dimostra che anche degustando un buon piatto o sorseggiando un bicchiere di vino è possibile innovare. Il programma propone aperitivi e cene galileiane (aperitivi dalle 18, cene dalle 21), momenti conviviali per avvicinare gli ideatori di progetti innovativi e il mondo della ricerca universitaria alla città. L'innovazione si traduce, dunque, in conversazioni informali e speciali menù a tema e crea l'occasione per parlare di innovazione agroalimentare o urbana e sociale, innovazione scientifica e digitale. Due i luoghi prescelti: il Ristorante ai Navigli (Riviera Tiso Camposampiero, 11 a Padova) e il rinnovato Caffè Pedrocchi (via VIII Febbraio, 15 a Padova). Il 7 giugno, (ore 12.30), nell’Agorà del San Gaetano, gran finale con un live showcooking, proposto da Irinox.
Francesca Boccaletto © RIPRODUZIONE RISERVATA
Cronache da un paese connesso
L’Italia al bivio
L’impresa che si fa social
L’Italia dei social network nel libro di Marino Niola
Digitale e nuove relazioni secondo Maria Ferradini
Rete e aziende di successo Sideri intervista i manager
Hashtag, pane quotidiano per gli internauti che si «cibano» di Twitter. Questi tag, ovvero etichette formate da parole chiave capaci di richiamare su Twitter un dato messaggio, sono protagonisti dell'ultimo libro dell'antropologo della contemporaneità Marino Niola Hashtag. Cronache da un paese connesso (Bompiani editore (336 pagine, 13 euro). A presentarlo (giovedì 5 giugno alle 15.30 nell'Agorà del Centro Culturale San Gaetano) sarà l'autore intervistato da Sandro Mangiaterra, giornalista del Corriere del Veneto e del Corriere di Verona. Il libro di Marino Niola spiega come la diffusione dei social network e della comunicazione digitale ha cambiato il modo di rappresentare la realtà e come oggi condividiamo le nostre idee. L'autore cita Fabrizio De André nella canzone in cui diceva che le nuvole «vanno, vengono, ogni tanto si fermano…». La stessa cosa avviene per gli hashtag. E
Senza le ferrovie, le autostrade e gli aeroporti degli anni Sessanta l'Italia oggi sarebbe diversa. Non avremmo vissuto il boom economico. Anche oggi siamo di fronte a un sistema di trasporti fondamentale per lo sviluppo: i trasporti di dati e informazioni che viaggiano in rete a velocità impensabili rispetto anche solo a trent'anni fa. Di questa rivoluzione, dei cambiamenti che ha portato nelle relazioni sociali, nel territorio e nelle persone, parla con un linguaggio immediato Umano digitale. L'Italia al Bivio (128 pagine, 12,75 euro, Marsilio Editori) di Maria Cristina Ferradini (nella foto a destra). L'autrice, responsabile del Dipartimento Sostenibilità e Fondazione Vodafone, indagando tempi e modi della rivoluzione digitale, venerdì 6 giugno (ore 21) nell'Agorà del San Gaetano di Padova rifletterà sull’Italia e sulle strategie per il futuro nell’incontro moderato da Maurizio Milan, ad Digital Accademia. Gli imprenditori
Niola svela l'Italia che si è buttata a capofitto nei social network, parla delle nuove forme di dialogo e della grammatica della rete. L'antropologo è sostanzialmente un esploratore: quindi Marino Niola (nella foto sotto), con la curiosità di chi incontra nuove terre, osserva le piccole e le grandi idiosincrasie del nostro tempo, scruta l'ambiguo nuovo rapporto che abbiamo col nostro corpo, evidenzia le provocazioni della tecnologia, i sogni digitali e le paure che scaturiscono da questo mondo. E tenta di ricostruire con linguaggio semplice la nuova identità collettiva in costante mutamento. Marino Niola è docente all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed editorialista di Repubblica, cura la rubrica «Miti d'oggi» sul settimanale Il Venerdì, scrive per l'Espresso, il Nouvel Observateur e altre testate.
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che partecipano al dibattito sono Luca Bortolami editore di ICMoving Channel e La Nuova Vicenza, Luca De Michelis ad della Marsilio Editori e Gianni Potti presidente Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici. Maria Cristina Ferradini è un'appassionata studiosa del digitale legato allo sviluppo socio-economico, ha partecipato alla fondazione dell'associazione «Nuvolaverde» per la diffusione della cultura digitale, è nella Commissione Cultura di Confindustria e nel consiglio direttivo di «Anima» e presiede l'associazione «Piano C». Nel 2012 le è stato conferito il «Germoglio d'Oro» dalla Fondazione Marisa Bellisario. Luca De Michelis è subentrato nella guida della Marsilio editori al padre Cesare, uno dei quattro fondatori della storica casa editrice padovana.
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I social network possono fare la fortuna di un'azienda? La risposta arriverà dai tre imprenditori intervistati venerdì 6 giugno (ore 15.30) al Galileo Innovactors’ Festival, nell'Agorà del San Gaetano da Massimo Sideri (nella foto sotto), scrittore e giornalista economico del Corriere della Sera. All'incontro «Da trendy a trending: per vincere, l'impresa si fa social» ci saranno Massimo Ciociola fondatore di «MusiXmatch», Gabriele Lucentini ad di «ICorporate» e Joakim Lundquist ad di «Lundquist». «MusiXmatch», che Massimo Ciociola, uno dei più grandi esperti di musica digitale al mondo, ha fondato e dirige, è nata nel 2010 a Bologna ed è il più grande catalogo di testi di canzoni disponibile in un app utilizzato da oltre 15 milioni di persone. Secondo la rivista americana di musica e video Billboard, è la startup che nel mondo della musica digitale ha innovato più di tutte. Gabriele Lucentini, ad e socio fondatore di «iCorporate», spiegherà il ruolo di questa che
è la prima società che gestisce la reputazione corporate attraverso la consulenza di comunicazione integrata offline e digitale. Con una ventennale esperienza professionale che l'ha anche portato ad essere co-fondatore e ad di «Twister communication group», Lucentini si occupa anche di consulenza strategica per i clienti, collaborando con il top management, gestendo progetti di Leader Image e supportando i clienti nelle attività connesse a comunicazione, immagine, finanza e marketing. Joakim Lundquist, svedese, da 10 anni a Milano, illustrerà lo studio condotto dalla sua azienda, che analizza come le società italiane ed europee utilizzano il web per comunicare ai dipendenti i propri valori e il brand. Nel 2007 ha fondato «Lundquist Srl», società di comunicazione corporate online con competenze in responsabilità sociale d'impresa, social media, relazioni col mercato, reportistica, promozione di prodotti e idee, strategie di acquisizione del personale.
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PADOVA E ROVIGO DOMENICA 8 GIUGNO 2014
ANNO XIII - N. 134
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LE FACCE DEL VENETO
INDEGNI E ONESTI I DUE FESTIVAL di PAOLO GUBITTA
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ei giorni scorsi, il Veneto ha indicato oltre trenta candidati per il «Festival degli Indegni», che andrà in scena prossimamente. Alcuni mormorano che abbiamo ottime possibilità di piazzare gente nostrana su tutti i gradini del podio, perché negli ultimi anni, in sordina e all’ombra della crisi, attorno a noi si è creato un piccolo esercito di Indegni dal talento incommensurabile e provenienti dai diversi ambiti della società civile, politica ed economica. Negli stessi giorni, e sempre in Veneto, si è svolta un’altra manifestazione che rientra nel più interessante ciclo dei «Festival degli Onesti»: il Galileo Innovactors Festival, dedicato al trasferimento tecnologico, di cui si discute ancora troppo poco ma di cui c’è gran bisogno. In questo caso, sul podio è salita la parte presentabile della nostra società civile, politica ed economica. Al primo posto, con unanimità di consensi, sono andate le avanguardie delle fabbriche contemporanee di cui tanto abbiamo bisogno e che il nostro territorio è già in grado di esprimere. Nella motivazione della giuria si legge che queste imprese, in sordina e all’ombra della crisi, sono riuscite con impegno e onestà a fare contemporaneamente quattro cose: crescere in dimensione e prosperare sui mercati internazionali senza paura; introdurre con coraggio innovazione tecnologica e organizzativa nei loro processi manifatturieri, investendo nelle persone e nei macchinari sofisticati; liberare creatività e genio italico in pro-
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gettazione e ricerca e sviluppo per poi affidarsi saggiamente alla ferrea disciplina dell’efficienza per organizzare la produzione e il lavoro; aprire la nuova strada del «bello, ben fatto e standardizzato» che è l’unica strada per dare un futuro alla nostra manifattura industriale (e pagare onestamente gli stipendi delle maestranze). Al secondo posto, sempre con unanimità di consensi, si sono piazzate le esperienze di innovazione tecnologica che, in sordina e all’ombra della crisi, si stanno diffondendo nella sanità del Veneto. La giuria è rimasta favorevolmente colpita nel vedere le meraviglie tecnologiche che hanno innovato le chirurgie di alcuni ospedali nostrani, e in particolare di quelli di Camposampiero e Vicenza, e nello scoprire che nella cintura padovana esistono aziende che realizzano sale operatorie mobili, capaci di portare là dove serve infrastrutture e tecnologie ultra specialistiche in ambito ospedaliero. Al terzo posto, con la consueta unanimità di consensi, è salito il gruppo di studenti ventenni (tutti volontari) che ha sorpreso la giuria per la straordinaria capacità di trasferire al Festival tutta l’innovazione che i nuovi social permettono di avere, generando una autentica «web experience», attraverso l’intelligente gestione della diretta twitter, dell’interazione con gli utenti, della web communication. Peccato che i candidati per il premio del «Festival degli Indegni» non abbiano avuto modo di partecipare a tutto questo. Peggio per loro. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Dall’Economia alle Infrastrutture, funzionari intercettati si impegnavano per il Mose. «Le cose sono sistemate»
Consulenze d’oro e vacanze pagate Gli amici del Consorzio nei ministeri Migliaia in corteo
«Ora basta opere, basta corruzione» bloccate le crociere A PAGINA 4
Rampin Trasporti. Tel. 348 440 7804
ALLE PAGINE 2 E 3 Tamiello
di ALESSANDRO BASCHIERI
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i sono alcuni dati di fatto e alcune opinioni sulla vicenda del Mose. I dati di fatto sono che la magistratura ha scoperto in un primo momento che i soci del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico finanziato con 5 miliardi di euro dallo
Stato, creavano fondi neri. Il secondo dato di fatto è che questi soldi sono serviti a pagare politici, funzionari, pubblici ufficiali. Si chiama corruzione, in qualche caso finanziamento illecito... A PAGINA 3
Il governo Comune di Venezia lo scioglimento delspoglio Consorzio Elezioni SeggiE ilaperti dalle 7 alle chiede 23. Chiuse le urne lo
Renzi: provvedimento hoc Rossi-Bitonci, l’ultimoad atto Ma nonotte al commissariamento Nella il nuovo sindaco
ruotavano gli interessi dei politici, dei pubblici ufficiali e delle imprese che gravitavano attorno ai lavori del Mose. E’ evidente ormai a tutti che la corruzione/concussione ha assunto una dimensione Molto preoccupante che pervade sia la vita pubblica sia quella privata...
VENEZIA — Il PADOVA L’ipotesi giorno di delrevovercare dettolaèconcessione arrivato. Stanotte, del Mose chiual Consorzio se le urne, Venezia i padovani Nuova avranno e di togliere un nuovo l’appalto sindaco alladopo Mantovaaver ni scelto e alletraaltre il «reggente» aziende consorziaIvo Roste si (Pd) è stata e lo valutata sfidante a Roma della Lega, e subito Massimo scartata. Bitonci. «Non Al primo ha senso turche no i due per ogni sono emergenza arrivati vicinissiarrivi un mi:commissario» 33,7 per cento spiega i voti il preper sidente Rossi, 31,4 dell’Anticorruzione per Bitonci. Ora Rafil faele ballottaggio, Cantone.alIltermine presidente di una del Consiglio campagnaMatteo aspra eRenzi caricaannundi pocia lemiche. per venerdì I seggi (206 un provvedile sezioni) mento sono aperti ad hoc. dalle Da 7Venezia di stamane arriva fino intanto alle 23, la richiesta a seguirediloprocespodere glio allo dellescioglimento schede e risultati. del Consorzio Verso Venezia l’una di Nuova notte (almeno uno dei d due o p candidati o i l c o mesulterà, p l e t a ml’altro ento dell’opera) dovrà ammettere e all’istituzione la sconfitta. di una Nell’articolo commissione all’interno, parlamentachi re può di eindagine. come si vota.
A PAGINA 18
AAPAGINA PAGINA15 5 Antonini Munaro
UNA SPINTA ALL’INTEGRITÀ MORALE di GIUSEPPE BORTOLUSSI
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opo gli arresti avvenuti nei giorni scorsi, dalla tangentopoli veneziana sta emergendo un quadro a dir poco inquietante che dimostra ancora una volta che al peggio non c’è mai fine. Dopo lo scandalo dell’Expo, anche questa volta la corruzione costituisce lo snodo su cui
IncontroCorriere Lunedì in carcere del Veneto Il casoinfondi edicola elettorali
Domaniilnumero Chisso, pianto speciale Il Pd: «Esame e l’abbraccio Oggi diretta elettorale di coscienza sul web — Un impegno «Io innocente» PADOVA per tutti» straordinario, per un VENEZIA — I vestiti, le le lacrime e gli abbracci. Protagonisti l’ex assessore regionale Renato Chisso e il senatore Mario Dalla Tor che ieri ha fatto visita all’amico al carcere di Pisa. «L’ho visto motivato, mi ha detto di salutare tutti, baciare i famigliari e che non ha fatto niente», spiega.
evento straordinario. VENEZIA — Scoppia il caso Domani su dei finanziamenti (regolari) www.corriereveneto.it ricevuti dal «sistema e sui nostri socialdagli il filoesponenti diretto Consorzio» costantemente aggiornato veneziani del Pd. Il Pd dice con le operazioni di voto. E basta: «Esame di coscienza domani i lettori troveranno per tutti». Il segretario in edicola il Corriere del Roger De Menech avverte: Veneto, con 16 paginequi suile «Ora sperimentiamo risultati ma sulla anche cronaca, nuove linee sport e spettacoli. trasparenza».
A PAGINA 3 Bottazzo
AA PAGINA 154 PAGINA
Spaccata da Pianegonda Fiamme al Fiore di Botta «Qui dal ’99, mai successo» Il «varo» tarderà ancora
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VENEZIA — Una «rete» di amici nei ministeri per cercare «sostegno» alle attività del Consorzio Venezia Nuova. Una cerchia di contatti romani che Giovanni Mazzacurati si era creato. In testa, Paolo Emilio Signorini, capo dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica. A lui Mazzacurati aveva pagato una vacanza in Toscana con la famiglia. C’è anche Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto del ministero dell’Economia, nominato collaudatore del Mose. Nella lista stilata dal giudice c’è anche Claudio Iafolla, allora capo di gabinetto del ministero delle Infrastrutture, citato in una intercettazione.
TANGENTI, SE I NUMERI DIVENTANO UN’OPINIONE
Padova/1 Colpo da 20mila euro nella notte Padova/2 Struttura non intaccata ma si indaga
Da vent’anni trasportiamo con cura, professionalità e puntualità.
Distribuito con il Corriere della Sera - Non vendibile separatamente
PADOVA — Hanno sfondato la vetrina della gioielleria tra le più note della città alle 5 della mattina. Un tondino di ferro, poi la mano che si allunga e arraffa 20 mila euro di gioielli. Colpo grosso, l’altra notte, da Pianegonda in via San Fermo. «Siamo qui dal ’99 - dice il titolare, Franco Pianegonda - e non era mai successo. La via però è abbastanza sicura, non ci possiamo lamentare». Resta la piaga spaccate, calate ma non esaurite. A PAGINA 15 Polese
L’anniversario
La mostra
Carabinieri, La collezione due secoli dei 25mila «per» la gente maialini ALLE PAGINE 8 E 9
A PAGINA 22 Verni
PADOVA — La struttura, pronta da mesi, attende solo il varo. Ma per il «Fiore» di Mario Botta il giorno dell’apertura si allontana ancora. Inaugurata nel 2009, la sede del campus biomedico doveva essere pronta in due anni, ma dopo cinque resta vuota. Venerdì un principio d’incendio alle scale del garage ha destato allarme, rientrato dopo un rapido intervento dei vigili del fuoco. A PAGINA 15 Macciò
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Corriere del Veneto Venerdì 30 Maggio 2014
PD
Economia
Lavoro Trattativa nel vivo
Safilo fuori dalla solidarietà con 100 esuberi
Banche Piano condizionato al sì del cda: chiesta trasformazione in spa e delisting
Bpvi vara l’Opa su Etruria Offerta da 217 milioni di euro
Vicenza offre un premio del 25%: il titolo vola in Borsa. Ma ad Arezzo è già levata di scudi. Il sindaco: «Inaccettabile» VICENZA — Banca popolare di Vicenza vara l’Opa su Banca Etruria. L’offerta è arrivata ad Arezzo l’altra sera ed è stata comunicata ieri alle 7.10, prima dell’apertura dei mercati: a due giorni dalla scadenza dei termini, e alla vigilia dell’assemblea della Banca d’Italia, la popolare guidata da Gianni Zonin ha comunicato alla popolare toscana quotata la disponibilità a promuovere un’offerta pubblica di acquisto. Per il primo dei suoi tre target (gli altri sono la Popolare di Marostica e la Cassa di risparmio di Ferrara commissariata), 186 filiali tra Toscana, Lazio, Umbria e Marche con 1.910 dipendenti e masse amministrate per oltre 17 miliardi di euro, Vicenza mette sul piatto un’offerta totalitaria da 217 milioni di euro, controvalore di un’euro per azione. Valutazione allettante, perché pagata in denaro e perché corrisponde a un premio del 25,8% rispetto al prezzo di Borsa di martedì (0,7949 euro); il che equivale a valutare la banca aretina 44,8 milio-
ni di euro in più. Niente Opa ostili, però, sulle popolari. Zonin lo aveva ripetuto anche a inizio anno, nel momento più caldo della proposta lanciata su Veneto Banca. La linea pare valere anche stavolta. La proposta diventerà offerta, se arriverà il sì dal cda di Arezzo, entro il 12 giugno, su tre condizioni: valutazione preliminare positiva dell’Opa; disponibilità a proporla ai soci in assemblea con la trasformazione da popolare a Spa; e la «disponibilità a condividere previsioni di processo funzionali all’operazione, che comprendano la disciplina della gestione interinale e i meccanismi di rinnovo del cda di Bpel a conclusione dell’Opa». Vicenza detta poi altre condizioni per l’efficacia di un’operazione da chiudere entro l’anno: disporre di oltre il 90% delle azioni per il ritiro di Etruria dalla Borsa e l’ok dell’assemblea al passaggio da popolare a spa, prevedendo che l’adesione all’Opa comporti la rinuncia al diritto di reces-
La rassegna
Idee e tecnologie davanti a uno spritz al Galileo Festival PADOVA – Convegni e dibattiti sul trasferimento tecnologico, una galleria con dieci tra le idee Made in Triveneto più innovative di sempre, appuntamenti mondani e informali come il «digital spritz» e le cene con gli innovatori. Il programma del Galileo Innovactors' Festival è veramente fitto. Si tratta di una tre giorni (dal 5 al 7 giugno al centro culturale San Gaetano di Padova di via Altinate) promosso da VeneziePost e Cuoa dedicato a trasferimento tecnologico, ricerca e sviluppo e innovazione. Accanto alle tavole rotonde (si inizia con Tim Cook, fondatore di Isis Innovation, società dell'Università di Oxford) si potranno visionare i progetti delle «10 aziende più innovative delle Venezie»: zappatrici automatiche, scrivanie multitouch, barche in fibra naturale, sale operatorie «portatili» e altro ancora. «Tutto nasce dal fallimento delle politiche di trasferimento delle tecnologie di questi anni – ha spiegato Filiberto Zovico, editore VeneziePost – e quindi dalla Paolo Gubitta voglia di provare a ripensare queste politiche facendo dialogare gli atenei e le imprese».«L'unico modo per rilanciare il manifatturiero», secondo Paolo Gubitta, presidente del Comitato scientifico Galileo Innovactors' Festival. Il primo giorno (il programma completo è online su galileofestival.it) prevede giovedì 5 alle 11 il workshop dedicato all'«Alternative Education», dibattiti e lezioni per tutto il pomeriggio e alle 20.30 la lezione «Dalla cattedra alla fabbrica» di Tim Cook. Sempre giovedì dalle 18 al Caffé Pedrocchi cibo e dibattiti con il «Food & Open Innovation» e alle 21 cena al ristorante Ai Navigli parlando di «Innovazione urbana e sociale».
Riccardo Bastianello © RIPRODUZIONE RISERVATA
so per i soci. Resta da capire se Etruria continuerebbe ad esistere come spa autonoma nel gruppo. Vicenza non fa affermazioni precise, anche se dà indicazioni di principio che paiono lasciare aperta una porta: si dice che «l’integrazione si porrebbe in una logica di valorizzazione delle professionalità e delle specificità locali, nonché di attenzione alla base sociale», facendo dell’Etruria «il principale presidio della presenza del gruppo Bpvi nelle regioni dell’Italia centrale». E ancora che «l’integrazione si baserebbe sulla condivisione del principio cardine della rispettiva mission rappresentato dal caratterizzarsi quali banche del territorio, con l’obiettivo
Il progetto Per la popolare vicentina Etruria diventerebbe il principale presidio nell’Italia centrale
di mantenere i livelli occupazionali». Infine che la governance dovrà «contemperare» «un governo accentrato per il presidio dei rischi e il conseguimento delle sinergie, con la valorizzazione dei territori e del rapporto con la clientela di Bpel». Ora si vedrà la risposta di Arezzo. Ieri la banca si è limitata a dire che l’offerta «sarà oggetto di opportune valutazioni». Si tratta di capire se basterà a soddisfare la richiesta di Etruria di un’integrazione, voluta da Banca d’Italia, che lasci autonomia. Tanto che ad aprile, all’apertura delle trattative con Vicenza, la banca aveva dichiarato di «voler mantenere il proprio ruolo di vicinanza al territorio e di procedere verso la difesa del valore del marchio». Le prime reazioni ad Arezzo lasciano presagire una levata di scudi. Il sindaco, Giuseppe Fanfani (Pd), ha definito ieri «inaccettabile» la proposta di Vicenza: «Il controllo del 90% delle azioni prefigura un vero e proprio assorbimento.
Al timone Gianni Zonin (a destra) col Dg Samuele Sorato
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In milioni di euro, la maggior valutazione offerta da Bpvi
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In milioni di euro, le rettifiche sui crediti imposte a Banca Etruria
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In milioni di euro, la perdita netta accumulata da Banca Etruria nel 2013
La totale perdita di autonomia sarà un danno incalcolabile. Invito la città, le istituzioni e le categorie economiche a stringersi intorno a Banca Etruria: si dica no all’offerta di Vicenza». Certo, la levata di scudi deve fare i conti con la realtà. Etruria aveva comunicato il 13 dicembre di voler procedere ad un’integrazione al termine di un’ispezione di Bankitalia, che aveva imposto rettifiche sui crediti per 285 milioni, mandando il bilancio in perdita per 81,2. Il percorso è fissato e alternative a Vicenza non se ne vedono. E la Borsa crede nell’offerta. La notizia ha spinto ieri il prezzo di Etruria ad allinearsi a quello dell’Opa, con un balzo da 78 a 93 centesimi, +19.5%, il maggior rialzo a Piazza Affari, con volumi di scambi balzati da 1 a 37 milioni di azioni. In un sol giorno è passato di mano il 17% delle azioni. Come dire, che c’è anche chi la sua piccola Opa l’ha già presa al volo.
Federico Nicoletti © RIPRODUZIONE RISERVATA
PADOVA – Azienda e sindacati si preparano all’incontro tecnico del 3 giugno, a Padova. Si tratta di trovare una sintesi su criteri e grandezze del pacchetto di incentivi per i cento esuberi degli stabilimenti di Longarone (Belluno, 1.250 dipendenti) e Santa Maria di Sala (Venezia, 800). Safilo, il secondo polo veneto dell’occhialeria dietro a Luxottica, per la verità, due anni fa di esuberi ne aveva dichiarati mille. Ma, dal giugno 2012 ad oggi sono intervenuti molti fattori che hanno modificato il quadro: anzitutto, il maxi contratto di solidarietà, un patto che ha portato, nell’immediato, al calo degli esuberi (a 670) e alla riduzione dell’orario giornaliero (con conseguente calo dello stipendio; ma il salario perduto è stato integrato per il 60% dall’Inps) per 240 lavoratori di Martignacco (Udine), a tutti i lavoratori di Longarone e a 700 di Santa Maria di Sala; poi, il cambio della guardia dell’ottobre 2013, il passaggio di consegne tra l’ad Roberto Vedovotto e Luisa Delgado; se la precedente gestione aveva salvato Safilo e sterelizzato il colpo della perdita della licenza Armani, che metteva a rischio il 20% dei ricavi, si tratta ora capire la strada che prenderà la Safilo targata Delgado. La fine del contratto di so- Il sito di Santa Maria di Sala lidarietà è il primo test concreto. E alla fine del percorso restano 100 esuberi. Secondo Safilo, la soluzione va reperita con un’analisi relativa alle esigenze individuali; l’idea è che lo «scivolo» debba riguardare anzitutto i dipendenti vicini alla pensione, e che gli incentivi vadano commisurati anzitutto ai bisogni di chi si trova in questa condizione. Di numeri, ancora non si parla. Certo è che, per i giorni successivi al 3 giugno, è previsto un fitto calendario: il 5 giugno, si riuniranno le Rsu; il 9 assemblea dei lavoratori a Longarone; il giorno dopo assemblea dei dipendenti a Santa Maria di Sala; e infine, l’11 l’incontro decisivo a Longarone tra azienda e sindacati. L’azienda si attende «feedback positivi», e un certo numero di volontari. I sindacati, tuttavia, parlano di «percorso complicato». Secondo loro, 30 fra i 100 esuberi sono tra quanti non hanno superato i corsi di riqualificazione dell’azienda; per questi «sarà difficile trovare una soluzione tecnicamente accettabile».
Marco de’ Francesco
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L’assemblea nazionale
Confindustria, veneti e Squinzi ancora distanti sul governo Renzi VENEZIA — Il presidente regionale di Confindustria, Roberto Zuccato, di ritorno da Roma, getta acqua sul fuoco: «Io l’ho percepita come un invito forte a cambiare il Paese». Eppure l’assemblea nazionale di Confindustria, ieri, al Parco della Musica, ha rimostrato la distanza tra i veneti e il leader nazionale Giorgio Squinzi nella valutazione del premier Matteo Renzi. Assente ieri dall’assise nazionale, mentre ha già segnato in agenda le date del 16 e 21 giugno, in cui si terranno l’assemblea unificata delle Confindustrie di Verona e Vicenza, a Gambellara, e quella di Unindustria Treviso, con il passaggio di testimone tra Alessandro Vardanega e Maria Cristina Piovesana. E se i veneti hanno dato una grande apertura di credito all’ex sindaco di Firenze, per Squinzi la rivoluzione di Renzi deve ancora iniziare: l’azione del governo è ridotta «ad azione vivace», il risultato delle europee fa «sperare che la stagione delle riforme istituzionali parta per davvero» e il mandato a Renzi «attende fatti che diano sostanza alle riforme e alla crescita». Crescita evocata da Renzi, ma che Squinzi non vede. Ora si attende la reazione di Renzi in Veneto. Intanto due Giovani veneti sono entrati nella squadra del neopresidente Marco Gay. Sono la veronese Stefania Zuccolotto, 35 anni, e il padovano Nicola Corsano, 36.
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IL GIORNALE DI VICENZA Venerdì 30 Maggio 2014
«HoavutoconfermadalMinisterodelleInfrastrutturecheil progettodiportooffshorealargodiVeneziaècongelato«.Lo affermailsenatoreFrancescoRusso(Pd)favorevoleaTrieste.
BELLUNO.Avvistatol’IbisEremita
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VENEZIA.Stopportooff-shore
MONDOVENATORIO. Approvatodalla giunta un disegnodi leggeche approderàin Consiglio insiemealPiano faunistico
VENEZIA. Trasfusioni evaccini sbagliati: lasvolta
Lanuova norma dà lapossibilità dicambiare,da appostamento fissoa vagante, odispostarsi di ambitoall’internodellaRegione
Lacommissionebocciatutte leregoleperchipuòstareincorsia
Cristina Giacomuzzo VENEZIA
«Rispetto dell’ambiente e della fauna e, soprattutto, dei limiti imposti dalle leggi. E, all’interno di quei parametri, flessibilità per rispondere alle esigenze dei cacciatori». Ecco i due pilastri su cui si basa il nuovo disegno di legge presentato dall’assessore alla caccia, Daniele Stival, ieri approvato dalla Giunta. Una norma che andrà ad aggiornare due leggi regionali in base al nuovo piano faunistico e che punta a dare più “libertà” ai cacciatori: si potrà derogare, per alcune giornate, alla forma di caccia scelta a inizio stagione. E anche sparare fuori dal solito ambito. La nuova norma andrà in discussione in Consiglio entro l’estate insieme al piano faunistico.
IL QUADRO. Piano faunistico che, intanto, è stato approvato nei giorni scorsi dalla Vas, valutazione ambientale strategica. «È la prima volta che questo strumento di pianificazione che ha duranta quinquiennale deve effettuare questo passaggio - spiega l’assessore -. La Vas ha definito alcune prescrizioni che noi riteniamo più di natura politica o da calendario venatorio per le quali stiamo rivedendo i particolari. Puntiamo entro breve di riportare il piano in Giunta e quindi consegnare a metà giugno il provvedimento in Consiglio perché venga discusso». LA NUOVA NORMA. Poi la decisione di porre mano anche ad altre due leggi che di fatto andavano modificate per renderle omogenee con la nuova pianificazione. Dichiara l’assesso-
dell’autorizzazione dell’appostamento fisso. Sarà poi possibile, per ogni cacciatore iscritto ad un ambito, disporre di un pacchetto di dieci giornate spendibili in tutti gli ambiti del Veneto». Questo in linea teorica. «Poi - spiega ancora l’assessore Stival - ciascun caso dovrà essere autorizzato dal consiglio dell’Ambito territoriale che viene investito da questa importante responsabilità». Non solo. «Nell’ottica di rispondere alle nuove indicazioni disposte dalla Corte Costituzionale viene chiarito che, in materia di caccia agli animali nocivi, come i cinghiali, dovranno essere le Province o i singoli enti parco a definire un piano di abbattimento».
Cacciatoriconilcane inazione durante unabattuta. ARCHIVIO re Stival: «D’accordo con le associazioni di categoria abbiamo deciso di offrire delle possibilità in più ai cacciatori: una maggiore versatilità che permetta loro di diversificare l’attività». Nella nuova norma, che per diventare operativa dovrà superare il vaglio del Consiglio, si riconosce al cacciatore che a inizio anno ha ot-
tenuto il permesso specificando il tipo di attività che intende esercitare, di “derogare”. «In pratica, chi ha scelto la forma di caccia da appostamento fisso potrà, per un numero limitato di giornate, effettuare la caccia vagantiva alla migratoria negli ambiti o comprensori di iscrizione. E viceversa, previo consenso del titolare
UNGULATI. Infine, la Giunta ha approvato le disposizioni annuali per la caccia di selezione agli ungulati, quindi che riguardano Daino, Camoscio, Capriolo, Cervo e Muflone. «Il provvedimento - dice Stival prevede che le Province regolamentino la caccia di selezione predisponendo il piano di prelievo selettivo». • © RIPRODUZIONERISERVATA
ILSALONE. A Padova dal5 giugno tornail Galileo Innovactors’Festival
Impresee innovazione «Una faticaatutti ilivelli» INVIATA A PADOVA
Con la stufa si dialoga tramite smartphone per regolare la temperatura. E se manca il pellet, arriva l’avviso. Poi la zappatrice altamente automatizzata. Queste sono esempi di idee innovative entrate in fabbrica che hanno innestato la marcia per lasciare alle spalle la crisi. Una “rivoluzione copernicana” che cambia non solo l’approccio industriale, finanziario e di marketing, ma lo stesso rapporto con i dipendenti. Il salone europeo del trasferimento tecnologico, “Galileo innovactors’ Festival” ha lo scopo di illustrare agli imprenditori veneti questi passaggi.
L’appuntamento è dal 5 al 7 giugno a Padova al centro San Gaetano. Ieri la presentazione dell’iniziativa voluta da Venezie Post e Fondazione Cuoa col patrocinio dell’Università di Padova e Confindustria. A palazzo Bo erano presenti Giuseppe Stellin, prorettore, Filiberto Zovico, editore di Venezie Post, Paolo Gubitta, presidente Comitato scientifico del Festival e Gianni Potti, presidente Confindustria servizi innovativi. «Questa seconda edizione del Festival è coraggiosa - sottolinea Gubitta - perché ci focalizziamo sulle fabbriche che devono metabolizzare il cambiamento in atto per sopravvivere». Il cambiamento a cui si riferisce Gubitta è di
una portata impressionante: «È un po’ come la caduta del muro di Berlino - spiega -. Prima c’era il Paese che sfornava idee e quello che le produceva. Ora questa differenza non c’è più. Anzi, dopo anni in cui si predicava la delocalizzazione, si sta assistendo al processo inverso. Per affrontarlo c’è bisogno di cambiare stile di gestione dell’impresa. E la fatica è di tutti: dal managment agli operatori». Il trasferimento tecnologico è uno dei tanti tasselli da rinnovare. «Abbiamo assistito al fallimento dei parchi scientifici - denuncia Zovico - . Il Galileo Innovactors’ Festival è l’occasione per impostare nuovi strumenti per mettere in rete università, centri di
GianniPotti
LucaBortolami
ricerca e imprese. La sfida è di costruire una politica comune del trasferimento tecnologico. Al Festival si troveranno insieme tutti i rettori delle principali università del Triveneto». Il prorettore dell’Università di Padova sottolinea: «Uscire dalla crisi? Possibile, ma le imprese dovranno trasformarsi. Per farlo si deve scontare il delta di innovazione e trasferimento tecnologico. Non solo. Il Veneto ha un altro nodo. Mentre nelle altre regioni l’università e le altre istituzioni fanno fronte comune per sostenere la ristrutturazione complessiva del sistema, qui
ancora si va in ordine sparso». Ma c’è un altro problema concreto, come denuncia Potti: «In questo processo, è fondamentale il salto culturale che gli italiani devono ancora fare (internet e l’ecommerce è ancora appannaggio di pochi) ma anche la diffusione della banda larga: un tema che stiamo spingendo con il Governo». Tra gli appuntamenti del Festival, venerdì 6 giugno Potti sarà insieme al vicentino Luca Bortolami, presidente della sezione Servizi innovativi per Confundustria Vicenza, per discutere su “Umano digitale: l’Italia al bivio”. • CRI.GIA.
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Sanità: vinta una battaglia a Roma, persa una guerra interna a Venezia. SOLDI PER EMUTRASFUSIONI. Era stato uno degli argomenti caldi per far quadrare il bilancio della Regione. E ieri finalmente - annunciano gli assessori Roberto Ciambetti (bilancio) e Luca Coletto (sanità) - il Veneto ha vinto la battaglia per garantire il pagamento degli indennizzi previsti da una di 22 anni fa «a favore di quanti (in Veneto sono circa 1300 persone) hanno contratto malattie o subito complicanze patologiche irreversibili a causa delle infezioni provocate da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni o somministrazioni di emoderivati. Tocca allo Stato sborsare questa cifra: noi, come Regione, abbiamo anticipato senza mai rinunciare a chiedere al Governo il rispetto di quanto previsto dalla legge. Si tratta di uscite complessive, nell’arco degli ultimi anni, di circa 50 milioni», spiegano gli assessori. In marzo si era deciso di prevedere 21 milioni di spesa anche quest’anno, anticipando ancora una volta le risorse ma «dando alla Giunta il mandato di tutelare il Veneto, anche con causa civile, verso il Governo». Invece il Veneto è
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LITESUIVOLONTARIINOSPEDALE. Presa tra i fuochi delle proteste opposte soprattutto di movimenti anti-aborto, che vorrebbero poter essere presenti in corsia, e dei loro oppositori, la commissione “Sanità” ieri ha bocciato tutte le proposte sul tavolo per regolamentare la presenza delle associazioni che promuovono i diritti etici nelle strutture ospedaliere e nei consultori. Bocciata sia la proposta di regolamento fatta dalla Giunta, che consente la sola divulgazione di materiale informativo in apposite bacheche, sia la proposta elaborata dal presidente della commissione Leonardo Padrin (votata per la maggioranza da Forza Italia e Lega, ma non da Ncd e Forza Italia per il Veneto), che voleva autorizzare anche la presenza e l'attività dei volontari delle associazioni nelle strutture sanitarie, circoscrivendola solo agli spazi di accesso (atriii e corridoi). La parola torna alla Giunta che dovrà decidere se e come rendere attuabile la legge regionale del 2013 che impegna la Regione a promuovere in ospedali, consultori e strutture sociosanitarie il lavoro informativo delle associazioni che si occupano di temi etici. •
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riuscito a farsi valere in Conferenza delle Regioni. E il risultato c’è: sarà lo Stato a pagare.
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Il trasferimento tecnologico s'impara al Galileo Innovactors' DI D.P.
Basterà mettere attorno a un tavolo cinque rettori, due imprenditori e un docente inglese, per uscire finalmente dalla crisi economica? La sfida è ardua, ma la risposta del Galileo Innovactors’ Festival è «Sì». Un “sì” convinto prima ancora che provocatorio, perché è ciò che deliberatamente il Festival si propone. Giunto alla seconda edizione («Ma in realtà – spiega Filiberto Zovico, editore di VeneziePost – si tratta della prima vera edizione, perché quella dell’anno scorso era sperimentale»), il Salone Europeo del Trasferimento Tecnologico vuol dare un impulso inedito al trasferimento tecnologico, appunto, cioè a quello che «fino ad oggi – dice sempre Zovico – è stato un clamoroso fallimento dei nostri territori, con parchi scientifici fatti nascere qua e là e poi abbandonati alla rovina». Ma dato che questo trasferimento tecnologico altro non è che «l’utilizzo dell’energia intellettuale degli studenti universitari per dare nuova carica alle industrie», dice il professor Paolo Gubitta, non è il caso di abbandonare i tentativi. Così il Festival, che si svolgerà integralmente al Centro Culturale San Gaetano di Padova da giovedì 5 a sabato 7 giugno prossimi, si articola in 50 appuntamenti a cui prendono parte 100 relatori, ma ne evidenzia uno che è particolare, e che vale di più degli altri. Quello in cui parteciperanno i rettori di cinque Università. Alle 20,30 di giovedì 5 giugno, infatti, il rettore dell’Università di Padova, Giuseppe Zaccaria, il prorettore vicario dell’Università di Trento, Paolo Collini, il rettore dell’Università di Udine, Alberto Felice De Toni, quello dell’Università di Trieste, Maurizio Fermeglia, e quello della Sissa-Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Guido Martinelli, parleranno appunto di “Trasferimento Tecnologico”, cercando di capire se è possibile portare avanti una strategia comune di integrazione delle diverse Università. Dopo di loro interverranno Alberto Baban, presidente Piccola Industria Confindustria, e il presidente e ad di Eurotech, Roberto Siagri, cioè due imprenditori che vivono con grande attenzione il tema della ricerca e innovazione. Soprattutto, per l’occasione è stato invitato Tim Cook, fondatore di Isis Innovation, il progetto di trasferimento tecnologico dell’Università di Oxford. «Dato che quando non si sanno fare le cose, è meglio imitare i migliori – spiega Zovico – noi abbiamo invitato Cook, che a Oxford ha creato un istituto che solo con la vendita di brevetti fa circa 8 milioni di utili ogni anno». La speranza, perciò, è che l’incontro di giovedì serva a cambiare rotta, così che anche il Nordest, in un prossimo futuro, possa diventare a modo proprio un modello di trasferimento tecnologico. Tema che secondo il prorettore del Bo, Giuseppe Stellini, è assolutamente centrale. «Quello che con la crisi sta emergendo – dice il docente – è la scarsa rigenerazione del nostro tessuto produttivo nordestino. A fronte di imprese che muoiono, sono poche quelle che nascono e creano nuovo lavoro». E dopo sette anni di crisi e recessione, è abbastanza inutile continuare a piangersi addosso e sperare che la burrasca passi. «L’unica cosa da fare – dice Stellini – è chiedersi come si fa a tornare a crescere. Quali sono le leve su cui agire. Ecco che la risposta sta nella ricerca e sviluppo, nell’innovazione, nel trasferimento tecnologico». La scommessa di questo secondo Galileo Innovactors’ è perciò che le Università, stimolate dal festival e unite finalmente attorno a un tavolo, riescano a dialogare tra loro e soprattutto col mondo della grande industria. Non a caso il titolo dato quest’anno all’edizione è “Dalle idee alla http://www.veneziepost.it/stories/speciale_eventi/33281_il_trasferimento_tecnologico_simpara_al_galileo_innovactors/#.U5WmZPl_v1Y
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fabbrica”. Ma oltre ai 50 dibattiti in tre giorni, al Galileo le imprese innovative saranno materialmente presenti con i loro prodotti, che si potranno toccare e scoprire nella grande agorà del Centro San Gaetano, e nei dibattiti dedicati. Inoltre sono previsti workshop per i bambini delle scuole, mostre, e – a fine giornata – “Spritz digitali” organizzati da MetropolisAdv. Il programma completo degli eventi (a cui è consigliato registrarsi preventivamente anche se sono tutti gratuiti) è sul sito galileofestival.it.
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Il «9 novembre 1989» della manifattura industriale «Dalle idee alla fabbrica»: è questa la missione del trasferimento tecnologico che ci serve. Organizzare al meglio queste attività vuol dire dare un futuro alla nostra manifattura industriale (e alle famiglie che campano con i salari delle fabbriche) DI PAOLO GUBITTA
Negli ultimi tempi, anche in Italia, si sta consolidando l’idea che il mondo della manifattura industriale non sia più diviso in due blocchi: da una parte, i Paesi costretti a fare da fabbrica del mondo e dall’altra quelli che preferiscono non sporcarsi le mani. Il muro che li separa sta collassando, alcune produzioni stanno tornando in patria e potrebbe arrivare presto il «9 novembre 1989»: in quella lontana notte, la caduta del muro di Berlino cancellò la divisione del mondo in due blocchi socio-economici e aprì nuove prospettive per le strategie geopolitiche di popoli e nazioni; oggi con le spettacolari innovazioni tecnologiche sparirà la distinzione tra chi è Paese-fabbrica e chi no, obbligando imprese e filiere a riconfigurare strategie e pratiche di gestione. Questo scenario ci apre interessanti opportunità, solo se sapremo aiutare imprese, imprenditori e maestranze a cambiar pelle rapidamente.nOggi più che mai la nostra manifattura industriale (cioè, le fabbriche) ha disperato bisogno della nuova conoscenza prodotta nelle Università, nei centri di ricerca e nelle business school. Sarebbe imperdonabile non rispondere a questa richiesta. Le Università diventino integratori di sistema: incentivino i ricercatori a pensare seriamente alle applicazioni delle loro ricerche; si alleino per realizzare il trasferimento tecnologico secondo standard internazionali; elaborino vere e proprie strategie commerciali per portare le innovazioni nelle imprese (e, per dirla tutta, anche nelle amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado). Le business school riprogettino i loro percorsi di formazione imprenditoriale e manageriale, non solo cambiando i contenuti, ma anche innovando gli approcci didattici alla luce delle mutate esigenze: sarebbe paradossale sforzarsi di iniettare innovazione nelle imprese e poi scoprire che le prassi organizzative e gestionali sono incapaci di metabolizzarle. I centri di formazione professionale si trasformino in officine popolari, aperte a tutti i lavoratori (anche a quelli che, spesso senza colpa, hanno perso il lavoro) per dare loro le conoscenze necessarie a rimanere agganciati al mondo della produzione. Il percorso da fare è lungo, ma nel panorama nordestino esistono imprese che lo hanno già intrapreso con successo (1) e che ben rappresentano le avanguardie della fabbrica contemporanea di cui tanto abbiamo bisogno per dare un approdo sicuro alle generazioni attuali e future: 1) producono in serie e hanno dimensioni medie o grandi; 2) si avvalgono di tecnici e operai che programmano e guidano macchinari sofisticati; 3) danno valore ai loro prodotti con un uso intelligente della standardizzazione; 4) liberano creatività e genio italico in progettazione e ricerca e sviluppo e poi si affidano alla ferrea disciplina dell’efficienza per organizzare la produzione e il lavoro.
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Il «9 novembre 1989» della manifattura industriale | VeneziePost
Qualcuno potrebbe dire che queste avanguardie sono guidate da imprenditori e team manageriali visionari, che hanno saputo cogliere le esigenze del mercato e i bisogni dei consumatori/utilizzatori prima degli altri, tanto da diventare autentici trend-setter. È un buona osservazione. Il successo dei loro prodotti, tuttavia, non nasce da colpi di genio, ma è il frutto di metodo e pianificazione: cioè della fatica di innovare. Se fino a qualche anno fa la fatica di innovare era limitata alle imprese che avevano deciso di (o erano state costrette a) competere nello scenario globale, oggi la fatica di innovare riguarda tutti e non risparmia nessuno, perché settori protetti e rendite di posizione sono (quasi del tutto) scomparsi. Il claim dei prossimi anni sarà «armatevi e partiamo». Insieme, s’intende. (1) Alcune di queste imprese saranno presenti alla Galleria dell’Innovazione, nell’ambito del Galileo Innovactors’ Festival, che si terrà a Padova dal 5 al 7 giugno 2014, al Centro Culturale San Gaetano foto©Martina Micalizzi
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Finiamola con le best practice L'innovazione è roba da "nomadi" | VeneziePost
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Finiamola con le best practice L'innovazione è roba da "nomadi" DI ELISA COSTANZO
Un percorso di conoscenza, che passa anche dal fallimento, per riscoprire in se stessi la creatività necessaria a migliorare risultati e portare successi in azienda. É quello che offre Peoplerise, società di consulenza aziendale padovana, che lavora sul rapporto tra cultura e persona per intervenire sullo sviluppo d’innovazione collaborativa e di leadership orizzontale nelle aziende. Ed è anche il progetto che verrà presentato alla seconda edizione del Galileo Innovactors’ Festival, in scena a Padova dal 5 al 7 giugno. Il sistema educativo e manageriale odierno è ancora legato agli schemi con cui era nato, figlio della rivoluzione industriale, del fordismo e della catena di montaggio, il mondo però sta cambiando e ci si scontra, secondo gli esperti, con il bisogno di creatività per trovare nuove soluzioni. «Questa necessità non trova spazio però con nel sistema educativo e manageriale ancora legato al sistema industriale del '900, che ha prodotto una forte scarsità di creatività» spiega Alessandro Rossi, senior consultant di Peoplerise. «Da qui l’idea di proporre un approccio diverso dalle tradizionali business school anglosassoni. Il metodo che noi sposiamo infatti è quello promosso da Knowmads, alternative business school olandese di Amsterdam fondata da Pieter Spinder, che interverrà insieme a noi al festival giovedì sera». Il tradizionale sistema anglossassone d’apprendimento tipico della business school si basava e si basa ancora su un sistema educativo e manageriale legato alla necessità d’istruire e omologare persone per competenze, avendo poi manager in azienda in grado di ottimizzarne la produttività. Il metodo proposto da Pieter Spinder, tribe leader di Knowmads, invece, guarda con occhi diversi al mondo aziendale, al centro del processo di ristrutturazione c’è infatti solo l’individuo. «Si pongono alle persone domande fondamentali – chiarisce Rossi – chi sei, qual è il tuo sogno, cosa vuoi portare nel mondo o cosa vuoi cambiare. Da qui partiamo per cercare risposte e così facendo lavoriamo insieme, co-creiamo insieme, e utilizziamo ciò che c’è a disposizione per realizzare il nostro progetto. Gli individui scoprono di avere tanti strumenti, ed è di persone con queste basi che hanno bisogno le aziende del Nordest per uscire dal limbo». La mappa. Come per ogni esplorazione, è necessaria una guida. E, per muoversi all’interno di questo percorso, viene proposto un percorso sintetizzato in una mappa che si chiama “Hero's Journey", il viaggio degli eroi. Prendendo spunto dal modello realizzato dal saggista e storico americano Joseph Campbell, a cui si ispirano gli sceneggiatori di Hollywood per costruire le sceneggiature dei film, la mappa racconta il viaggio catartico che porta alla conoscenza, necessario per uscire dall’immobilismo che vive su "homeland", l'isola del mondo attuale. «L'eroe, che è poi il lavoratore all’interno dell’azienda, dovrà compiere un percorso interiore incerto e complesso» racconta Flavio Fabiani, people management innovator di Peoplerise «e solo attraverso la capacità di non cadere in facili tentazioni, ovvero le best practice di cui spesso si parla e che sono utili per guardare al passato ma non bastano per scoprire il futuro, potrà reperire in se stesso gli strumenti per una nuova homeland, producendo reale innovazione. L'innovazione non è quindi applicare best practice, come insegnano altre scuole – chiarisce Fabiani – ma è scoprire e co-creare pratiche emergenti, accettando di imbarcarsi in un percorso non lineare». http://www.veneziepost.it/stories/speciale_eventi/33321_finiamola_con_le_best_practice_linnovazione__roba_da_nomadi/#.U5WmNPl_v1Y
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Finiamola con le best practice L'innovazione è roba da "nomadi" | VeneziePost
Individui, mondo aziendale e universitario avranno la possibilità di approfondire la conoscenza di questo nuovo metodo durante Galileo Innovactors’ Festival attraverso due workshop, uno giovedì mattina e uno venerdì mattina. Inoltre, giovedì alle 18 si svolgerà l’action learning tenuto da Pieter Spinder, fondatore di Knowmads. Questi 3 momenti saranno un primo accenno dello sviluppo capillare di questo approccio in Italia che si propone di offrire modalità innovative di educazione e strumenti alternativi per essere leader e manager d'azienda. (nella foto la mappa dell'Hero's Journey)
Venerdì 30 Maggio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il tavolo con l'anima che promuove la socialità La Lago, che produce mobili di design nel padovano, riparte dal concetto di tavolo come oggetto attorno al quale si catalizza la comunità. E lo mette al centro di un progetto per favore gli incontri. Partendo dal Galileo Innovactors’ Festival (5-7 giugno) DI ROBERTA VOLTAN
Cosa succede attorno a ogni tavolo venduto, una volta che “approda” nelle case di chi lo acquista? Ruota tutta attorno a questo interrogativo la nuova scommessa della Lago spa, azienda d'arredi di design di Villa del Conte (Pd). Alle normali preoccupazioni che fanno parte dell’attività di molti imprenditori – realizzare prodotti di design e di qualità, espandere il mercato, posizionare il brand- il ceo e head of design Daniele Lago ha deciso di aggiungere un interrogativo quantomeno insolito. Un pungolo che in genere non si affaccia nemmeno nella mente degli imprenditori: «Noi ci siamo resi conto che ci interessava, e molto, capire in che modo il design, driver capace di attivare esperienze, possa incidere sulla qualità della vita. Così abbiamo iniziato a chiederci che cosa in nostri prodotti possano generare, come possano favorire le relazioni». Un ragionamento che si spinge più in là: in casa Lago da tempo è maturata l’idea di un design come «strumento di trasformazione sociale». Interrogativo dopo interrogativo è nata una nuova scommessa: Lago Community table è un progetto ambizioso che – attorno ai tavoli Air dell’azienda, una lunga asse di legno “vissuto” vecchio di 200 anni sospesa su lastre di cristallo – vuole provare a costruire nuove esperienze di socialità. Il tavolo che ha un’anima, così lo definiscono i suoi “creatori”, farà la sua comparsa nell’Agorà del Centro San Gaetano in occasione del Galileo Innovactors’ Festival (5-7 giugno), sarà a disposizione di chiunque voglia utilizzarlo e sarà protagonista di due eventi dedicati alle innovazioni tecnologiche in cucina promossi da Irinox e Food Design Reunion: la degustazione con l’art director Paolo Barichella (venerdì 6 giugno, 19.30) e lo show cooking con Barbara Bugin (sabato 7 giugno, 12.30).
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Piazzato – in occasione di festival ed eventi - in luoghi dove le persone sono di passaggio, il tavolo rappresenta un elemento insolito che è anche un invito a fermarsi, a entrare in relazione. Se in genere i tavoli degli showroom sono in vetrina, ma non possono essere fruiti, questi tavoli si prestano a ospitare eventi promossi dalla Lago o da altri soggetti – workshop, momenti conviviali – e a diventare poi luogo di incontri informali, in cui ciascuno può sostare. Ma anche in questo caso, l’orizzonte è più ampio: il progetto prevede il coinvolgimento dei luoghi dedicati alla ristorazione, per creare una rete di ristoranti che – con la scelta di dotarsi di un tavolo Air – sposino la stessa filosofia che anima le attività dell’azienda del Padovano. Il primo ad accettare la sfida è stato nei giorni scorsi un ristoratore di Rimini. Sui tavoli Lago verranno serviti pranzi e cene a commensali che non si conoscono fra loro.
http://cult.veneziepost.it/stories/culturaeventi/33323_il_tavolo_con_lanima_che_promuove_la_socialit/#.U5Wy9dx_2ys
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Il tavolo con l'anima che promuove la socialità | Cult di VeneziePost
09/06/14 15:13
«Ecco che – spiega il ceo - chi ad esempio arriva in una città per lavoro e vuole cenare in compagnia, potrà conoscere dal nostro sito dove trovare i Lago community table». Oltre che un supporto nella comunicazione, Lago promette un affiancamento a chi acquista il tavolo Air e attorno a quel tavolo decide di costruire incontri, confronti, eventi. Insomma, se in genere il rapporto con il cliente si conclude con la consegna del prodotto e il pagamento, in questo caso il momento della chiusura del rapporto commerciale segna l’avvio di un nuovo percorso. Prima di approdare al San Gaetano, il Lago community table è stato al Salone del mobile e al Fuori Salone, dove è stato al centro di incontri che partivano dal design per esplorare molti altri aspetti. Positiva anche l’esperienza al Salone del Libro (nella foto), mentre nei prossimi mesi sarà in tutti gli eventi promossi da Veneziepost e in altri importanti appuntamenti. Lago Community table è un progetto che fa parte di un percorso più ampio chiamato Interior Life, con un gioco di parole che fa riferimento sia all’attività propria dell’azienda del Padovano, sia alla vita interiore: in questo percorso è inserito anche il progetto Appartamento Lago. In tre anni 12 nuclei familiari hanno accettato di aprire le porte delle loro abitazioni, arredate con il design dell’azienda di Villa del Conte, alle visite di chi vuole conoscere i prodotti Lago e ad un paio di eventi organizzati durante l’anno. «Nei prossimi dodici mesi abbiamo in programma di arricchire questa rete con 40 nuovi appartamenti, in Europa e anche fuori Europa», spiega il ceo. Fra i progetti della Lago che rispondo a questa filosofia anche la community dedicata ad architetti e interior designer: l’azienda non si limita a promuovere e “mettere in circolo” solo i progetti realizzati per Lago, ma promuove e offre una vetrina a tutta l’attività dei redisegner con cui entra in relazione e che ospita nel portale.
Sabato 31 Maggio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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ModeFinance: il nuovo rating si fa attraverso la trasparenza | VeneziePost
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ModeFinance: il nuovo rating si fa attraverso la trasparenza DI DAVIDE PYRIOCHOS
Se il trasferimento tecnologico, in Italia, non fosse un illustre sconosciuto, il Galileo Innovactors’ (a Padova dal 5 al 7 giugno prossimi) avrebbe forse qualche altro obbiettivo, diverso dalla «trasmissione di energia dalle idee alla fabbrica». Ciò non toglie che ogni tanto qualcosa capiti anche qua, come per esempio modeFinance, azienda nata come startup dell’Università di Trieste, incubata nel Science Park giuliano, e ora alle prese con la necessità di attuare un salto dimensionale. Al Galileo, modeFinance è presente nella “Galleria dell’Innovazione” con S-peek, la prima app per Android e iOS che permette di consultare in modo semplice il rating di 20 milioni di aziende europee. Come spiega uno dei fondatori, Valentino Pedirora, il motivo per cui è nata modeFinance è che «nel panorama internazionale manca un modello trasparente di agenzia di rating». «La nostra impresa – racconta Pedirora, di professione ingegnere – è partita nel 2005, quando grazie a un finanziamento del Miur, le facoltà di Ingegneria Meccanica ed Economia hanno avviato un progetto multidisciplinare di tre anni sul rating. Perché la cosa che abbiamo notato è che le big del settore, Fitch, Moody’s e Standard&Poor’s, mancano di trasparenza». Come noto, le tre agenzie sono state accusate, specie nel 2008, di conflitto d’interesse, per aver concesso la tripla A anche a prodotti che si sono rivelati tossici. Ma, come spiega Pedirora, l’opacità è più profonda. «Le grandi agenzie internazionali emettono giudizi e il resto del mondo si deve sostanzialmente fidare. Nel senso che – afferma – l’analisi tecnica a supporto delle valutazioni è talmente complicata che nessun imprenditore, leggendola, ci capisce alcunché. Noi invece forniamo un’analisi semplice e comprensibile a tutti». Dopo il periodo nel Science Park tra il 2009 e il 2010, modeFinance è diventata a tutti gli effetti un’impresa, andando subito a break-even: «Senza il break-even – dice Pedirora – in Italia non si fa nulla, perché finanziatori non ce ne sono». Nel 2013, però, modeFinance ha trovato due investitori del calibro di Friulia e Servizi Cgn, che in qualità di soci industriali la vogliono supportare in un processo di crescita scalare. «Il difficile – spiega l’ingegnere – è proprio questo. Spesso quando si parla di nuove imprese sembra che l’obiettivo sia lanciare una startup, ma in realtà ce ne sono parecchie che riescono a partire. Per creare lavoro, però, occorre portare queste imprese da 5 a 50 o 100 dipendenti. Quello è il vero scopo del fare impresa, e lì arrivano le vere difficoltà». Perché i problemi dell’Italia sono parecchi. «Anzitutto abbiamo un problema di relazione, perché le nostre imprese – dice Pedirora – sono conservatrici. Nel senso che quando si abituano ad avere un fornitore è difficilissimo farlo cambiare, nemmeno quando i vantaggi del prodotto alternativo sono palesi». Altro grosso difetto “l’execution”: «Oggi l’innovazione si fa sui processi, non sulle invenzioni. Ma per migliorare i processi servono persone e competenze, cioè investimenti. E gli investimenti sono proprio ciò che manca in Italia». Per finire con le regole e le infrastrutture. «Oltre al ritardo sulla banda larga – dice l’ingegnere – se a Trieste per fare e-commerce devo chiedere al cliente il codice fiscale, mentre in Slovenia e Croazia mi basta un click, è ovvio che le imprese sceglieranno altri paesi». Anche dalla discussione di questi problemi, insomma, parte quel rilancio del trasferimento tecnologico che è il senso stesso del Galileo Innovactors’ Festival.
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Il senso di Twitter secondo Niola «Memoria in usufrutto esterno» | VeneziePost
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Il senso di Twitter secondo Niola «Memoria in usufrutto esterno» DI ELISA COSTANZO
Una volta i cancelli chiudevano il mondo, oggi i cancelletti ne aprono uno nuovo. Un mondo di sintesi, di velocità, un mondo social. A raccontare il ruolo di questo cancelletto che non rinserra e non preclude, ma apre a orizzonti sterminati di senso e di aggregazioni linguistiche, polifoniche e multifacciali è Marino Niola, professore e antropologo che insegna alla università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel suo ultimo libro “Hashtag”, che verrà presentato giovedì 5 giugno alle 15.30, durante il Galileo Innovactors’ festival. Il mondo di cui parla Niola è, ovviamente, quello dei Twitter, un pianeta caratterizzato da brevissimi periodi che in una manciata di battute esprimono, in estrema sintesi, un pensiero complesso caratterizzato da «un rinvio ipertestuale infinito». E così l’autore passa in rassegna le piccole grandi idiosincrasie contemporanee, dal rapporto ambiguo con il corpo umano alle provocazioni della tecnologia, dai sogni digitali alle paure in carne e ossa, provando a ricostruire con scrittura lieve la grande rete dell’identità collettiva. Ma 140 caratteri sono veramente la forma più significativa e sensibile per definire il mondo, le relazioni, le fenomenologie del quotidiano, gli affetti e le abitudini? O si è davanti ad un impoverimento della comunicazione globale, che condurrà in basso via via alla perdita di libertà, diritti, vita, rispetto e democrazia? «I rischi sono ovunque e tutto ciò che è nuovo spaventa – afferma Marino Niola – ma detto questo, bisogna ricordare che lo stesso Platone credeva che la scrittura avrebbe condotto alla perdita della memoria e di conseguenza alla perdita della cultura, ma è evidente che così non è stato. Bisogna imparare quindi ad avere il giusto approccio a queste novità, studiandole, analizzandole, capendone i limiti e soprattutto i vantaggi». Ma non c’è il rischio che si arrivi a dismettere la memoria individuale? «Bisogna passare attraverso l’idea che laddove c’è un pericolo c’è anche una chance, e in questo caso la perdita viene superata dal nuovo che acquisiamo», sostiene Niola. «Basta mettersi nell’ordine d’idee che la memoria non è più un elemento di proprietà ma di usufrutto esterno. Siamo davanti ai primi vagiti di una rivoluzione inarrestabile, perciò il metodo migliore per difendersi è aprirsi alla conoscenza». Ecco lo scopo del suo testo, circa 160 capitoletti, ognuno lungo una decina di “cinguettii” classici, per uno sviluppo di 330 pagine. Non è un inno al sermoneggiare, ma nemmeno la conferma del nodo di istante/istinto che la twitter-twister-mania, ciclonica e irreale, imporrebbe a tutti. Certo la diffusione dei social network e della comunicazione digitale ha trasformato il modo di rappresentare la realtà e di condividere relazioni con gli altri. Ma si tratta solo di rinvenire nuovi punti di riferimento, che sono "boe" più che "punti cardinali": non coordinate fisse e universali, ma appigli mobili che si spostano in un contesto liquido. «Certo si tratta di elementi di senso mutevoli – ammette Niola – ma ciò non toglie che ci siano, che siano visibili, e che se non ci fossero sarebbe peggio. Perché poi, in fondo, gli hashtag sono parole scelte dalla storia e scagliate nel presente. Vanno, vengono – conclude il professore – ogni tanto si fermano, come le nuvole di De André». Che però, nel 1990 quando uscì l’album, mai avrebbe sospettato che potessero diventare #nuvole, col cancelletto davanti. http://www.veneziepost.it/stories/speciale_eventi/33461_il_senso_di_twitter_secondo_niola_memoria_in_usufrutto_esterno/#.U5Wl-fl_v1Y
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AMR Zip1, quando zappare diventa frontiera dell'hi-tech | VeneziePost
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AMR Zip1, quando zappare diventa frontiera dell'hi-tech DI ELISA COSTANZO
La tecnologia scende in campo e la zappa diventa una startup. Si chiama AMR Zip1 ed è una macchina oleodinamica a controllo elettronico, realizzata da Matteo Sartori e dai fratelli Marika e Riccardo Busolin. Nata per rispondere all'esigenza dei genitori di alleviare costi e tempi di manodopera, soprattutto nel radicchio, si è presto trasformata in un progetto così innovativo da attirare l'attenzione dell'intero comparto. «Ci abbiamo lavorato per tre anni, con impegno, fatica e continuando ad apportare modifiche per trovare l'assetto giusto» racconta Riccardo Busolin, «ha destato subito interesse e siamo riuscito così a rientrare nel concorso d'idee di Rebound, organizzato da Confindustria Padova, per aspiranti start up». Come sempre però mancano i fondi. «Siamo arrivati a fare tutti i test ma siamo alla ricerca di investitori pronti a credere nel progetto e ad aiutarci economicamente nello sviluppo» aggiunge Busolin «questo macchinario dovrebbe infatti fare da apripista ad un'intera linea di prodotti per l'agricoltura a basso costo». La spesa per la realizzazione di una zappatrice modulare a tre file si aggira intorno ai 15mila euro, circa un terzo dei prodotti proposti dalla concorrenza. Per quanto riguarda quindi i vantaggi sui competitor, oltre al prezzo decisamente inferiore, questo macchinario consente di realizzare la diradatura e la zappatura in maniera automatizzata, con una serie di sensori che consentono di non rovinare la pianta. Inoltre, garantisce la riduzione dei tempi di lavorazione, dei costi di manodopera, dell'impiego di diserbanti chimici e l'aumento della qualità del prodotto finale. Una startup innovativa, insomma, quella che verrà presentata durante Galileo Innovactors' festival, nata con lo scopo di industrializzare e commercializzare macchine agricole operatrici, rivolte principalmente ai produttori e ai coltivatori di ortaggi a filare, che ha raggiunto un notevole grado di sviluppo, tale da aver permesso la pianificazione delle attività della startup per il trienno 2014-2016, con la conclusione dello sviluppo sul campo, e l'ingresso sul mercato, a partire dal livello regionale già nel primo anno, ed il consolidamento della posizione, con l'ampliamento della base clienti e l'avvio dei servizi di assistenza tecnica post vendita nei due anni successivi. Ora mancano solo gli investitori.
Mercoledì 4 Giugno 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il pensiero "lean" e l'Italia indagati da Arnaldo Camuffo | VeneziePost
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Il pensiero "lean" e l'Italia indagati da Arnaldo Camuffo DI D.P.
Pirelli, Autogrill, Carel: tre modi diversi di fare innovazione esaltando lo stile tutto italiano d’interpretare l’impresa. Al Galileo Innovactors’ di quest’anno c’è stato spazio anche per raccontare queste storie: l’occasione è stata data dalla presentazione del libro “L’arte di migliorare”, edito da Marsilio e scritto dal docente della Bocconi, Arnaldo Camuffo. Dato che il libro racconta i casi italiani di applicazione del “lean thinking” – il cosiddetto pensiero “snello” introdotto nella produzione industriale dalla giapponese Toyota – la presenza a Padova di Camuffo ha portato al Festival anche alcuni dei protagonisti della sua ricerca. Alla tavola rotonda moderata da Dario Di Vico erano perciò presenti, oltre a Camuffo, il manager di Pirelli Giovanni Pomati, il presidente Carel Luigi Rossi Luciani, l’ad di Autogrill Gianmario Tondato Da Ruos, e il vicepresidente esecutivo del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo Giovanni Costa. E proprio Autogrill è uno dei casi più chiari di applicazione del pensiero “lean”: «Il libro di Camuffo – dice Tondato – parte dal racconto di alcuni dettagli, come per esempio la dimensione della bustina di zucchero che viene servita ai clienti in Autogrill. Effettivamente noi facciamo 160 milioni di caffè all’anno, perciò quello che a prima vista può sembrare un particolare poco significativo, alla lunga assume un peso rilevante». Ma la cura di questi particolari è solo una parte di una strategia complessiva. «Io – spiega infatti Tondato – sono nato e cresciuto in un mondo in cui si diceva che bisogna cambiare. Oggi però il cambiamento non basta, e infatti il libro parla di miglioramento». Perché la velocità a cui corre l’economia globale non permette a nessuno di adagiarsi: «Noi siamo entrati nel settore dei Duty Free nel 2006 – ricorda il manager – ed eravamo uno dei player più grandi. Oggi il leader è grande tre volti noi e sei anni fa faceva tutt’altro. Perciò il mondo si muove a velocità incredibile. Per me, per esempio, in questo momento la sfida è ripensare l’Italia. Noi infatti da 3 anni a causa del calo del traffico autostradale, in Italia perdiamo molto, ma io penso invece che ci sia un grande potenziale inespresso. Per esempio: l’idea dell’italianità è molto forte nel mondo ed è giunto il momento, nel nostro settore, di puntare sull’italianità. Cosa che però secondo me va fatta, solo partendo dall’Italia». Per Luigi Rossi Luciani, d’altra parte, il pensiero “lean” è una preziosa scoperta: «Molti anni fa – racconta – fui invitato a un convegno sull’accettabilità della cultura “lean” nel Veneto. Questo mi aprì una curiosità e provai. Ora – dice – ho maturato la convinzione che le ristrutturazioni non vadano fatte quando si è in crisi, ma continuamente. È un percorso senza fine, ma forse è l’unico modo per restare competitivi in un mercato complesso. Carel, per esempio, si occupa di componentistica per la refrigerazione e per il trattamento dell’aria. Ha 500 dipendenti in Italia, e 500 all’estero. Stiamo lavorando tutti assieme nel miglioramento continuo dei processi e non delocalizziamo perché i paesi a basso costo del lavoro per noi non rappresentano un vantaggio. Nel manufacturing moderno, infatti, bisogna essere vicini ai clienti». Per Giovanni Pomati, però, la questione della delocalizzazione è un po’ diversa: «C’è chi dice che non si può portare all’industria all’estero dove non c’è cultura industriale. Io penso invece – afferma – che sui prodotti di massa si possa delocalizzare, mentre sui prodotti di alta gamma è meglio restare dove c’è una forte cultura industriale». L’importante è saper valorizzare le caratteristiche dei http://www.veneziepost.it/stories/speciale_eventi/33685_il_pensiero_lean_e_litalia_indagati_da_arnaldo_camuffo/#.U5Wl0Pl_v1Y
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Il pensiero "lean" e l'Italia indagati da Arnaldo Camuffo | VeneziePost
singoli paesi: «Io ho passato buona parte mia esperienza professionale all’estero – continua il manager Pirelli – lavorando nel manufacturing. Mi ricordo il grosso contrasto tra Germania e Italia, anche a livello della disciplina in fabbrica. Da una parte i teutonici, dall’altra gli artigiani. In Germania – conclude – è un grande la disciplina teutonica che si trova, ma Italia c’è più fantasia e proattività da parte dei dipendenti. Perciò l’artigianalità italiana è un grandissimo fattore competitivo». «Le tre persone qui presenti – commenta poi Camuffo – sono persone da cui ho imparato molto e che sono presenti nel libro. Noi spesso – spiega il professore – tendiamo a dissociare l’elemento tecnico-produttivo e quello comportamentale-umano. Ma le due cose sono strettamente correlate. Io – confessa – ci ho messo 25 anni a capire questa cosa. L’elemento di base del metodo Toyota non sono infatti gli elementi tecnici, come ritenevo per lungo tempo. Sono invece quelli comportamentali. In sostanza occorre sfruttare il principio per cui le persone più povere sono quelle più razionali, quelle che calcolano meglio i rischi. Allo stesso modo le fabbriche dove ci sono meno scorte, dove si lavora just in time sono migliori non perché hanno meno costi, ma perché obbligano le persone ad essere più razionali. La scarsità di risorse – conclude – è perciò, paradossalmente, una grande virtù e opportunità». Per Giovanni Costa, infine, dato che «la crisi è un dato permanente, togliamo la parola crisi e diciamo piuttosto che viviamo in un’epoca dove occorre ripensarsi continuamente». Ma questo ripensamento deve riguardare «tutta la filiera, non solo il prodotto, mettendo alla fine il cliente. La forza del libro di Camuffo – commenta il docente – è mostrare esempi che sono tutti italiani. Il grande insegnamento del metodo Toyota è che loro hanno portato il break-even al 30% della capacità produttiva dell’azienda. Vuol dire avere un’organizzazione che è in grado di affrontare qualunque situazione. Vuol dire che tutta l’organizzazione è pensata in funzione di risettarsi di fronte ai cambiamenti. E poi – conclude – il “lean” non riguarda soltanto la produzione, ma tutta la catena del valore aziendale».
Domenica 8 Giugno 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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EDITORIALE Chi ha paura della commercializzazione della ricerca? di Paolo Gubitta
L'INCHIESTA La carica degli "ideattori" di Giovanni Salvatori
I parchi scientifici, tra utopia e conti che non tornano di Alessandra Sgarbossa
L'INTERVISTA «L'innov azione? È un ecosistema» di Linda Pisani
«Il segreto? La ricerca che si fa impresa»
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Chi ha paura della commercializzazione della ricerca? DI PAOLO GUBITTA
In tema di trasferimento tecnologico, in Italia come nelle Venezie, per molti anni ci siamo mossi in ordine sparso: ognuno per sé, nessuno per un progetto comune. Oggi, assistiamo al fenomeno opposto e stiamo cercando di stringere rapidamente i ranghi. Questo cambio di strategia è spiegato da molteplici ragioni, ma due prevalgono su tutte: i denari sono quasi finiti e il tempo disponibile è poco.
di Roberta Voltan
ANALISI Trasmettere la tecnologia: il modello Ox ford di Tim Cook
Dalle idee alla fabbrica, v ia ateneo di Federica Destro
I pionieri dell'innov azione aperta di Alberto F. De Toni
PORTFOLIO L’innov azione? È come un gatto di Roberto Siagri
Per le imprese è prioritario consolidare o ripristinare le basi per una competitività duratura, e la strada da battere è segnata: aumentare sia il contenuto di innovazione dei prodotti e dei servizi sia la qualità delle pratiche manageriali e dei processi decisionali. Alcune lo hanno già fatto, ma ce ne sono molte altre che non possono riuscirci da sole, perché non hanno le risorse cognitive ed economiche, e rischiano così un lento ma inesorabile declino. Possiamo permetterci di abbandonarle al loro destino? No. Per i centri e i laboratori di ricerca universitari e non, invece, la competizione si gioca sul fronte dei trasferimenti e dei fondi comunitari. Per non rimanere vittime dei tagli in atto, anche in questo caso la strada da battere è segnata: sviluppare internamente o acquisire dall’esterno le risorse relazionali per diventare innovation provider capaci di intercettare e soddisfare i fabbisogni di innovazione. Ancora troppo spesso si sente dire che gli imprenditori non hanno la mentalità giusta per instaurare rapporti duraturi con la ricerca. Possiamo permetterci di continuare a credere a questa storia? No. Volenti o nolenti, oggi abbiamo l’occasione per avviare una stagione di cooperazione consapevole e volontaria tra il mondo della ricerca e il sistema economico e sociale. La nuova strategia va costruita sullo sfondo di una generale ridefinizione della missione degli intermediari coinvolti nel processo di trasferimento tecnologico: non basta dire che devono mediare, favorire e incentivare l’incontro tra chi offre opportunità di innovazione e chi domanda soluzioni innovative, ma vanno esplicitate anche le performance attese e i criteri per misurarle. Non sarà difficile arrivare a un punto di convergenza, anche per effetto della ristrettezza di denari e della pressione del tempo. La parte più sfidante, tuttavia, riguarda la progettazione del portafoglio di servizi che questi intermediari dovranno erogare. Nelle fasi più a monte della filiera dell’innovazione, i progetti a volte si arenano per mancanza di risorse economiche e per il (presunto) disinteresse delle imprese. Una buona pratica da diffondere è il “Proof of Concept Network”, promosso da Area Science Park di Trieste per favorire la valorizzazione commerciale della ricerca scientifica: da un lato, vengono coinvolti imprenditori e manager per analizzare i primi risultati e per orientare i ricercatori verso le applicazioni più vicine alle esigenze delle imprese; dall’altro, si cercano partner disponibili sia a investire nel completamento del progetto sia ad attenderne gli esiti. L’iniziativa si muove nella giusta direzione e basterà fare massa critica evitando di clonarla all’ombra di ogni campanile.
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Chi ha paura della commercializzazione della ricerca? | Mappe di VeneziePost
Quando si arriva all’ultimo miglio della filiera dell’innovazione, invece, si corre il rischio che i risultati di ricerca rimangono inutilizzati per mancanza di acquirenti. Una buona pratica da consolidare è “Venice Platform for Innovation & Tech Transfer”, promosso da VeneziePost, Fondazione CUOA e MIB School of Management: un vero e proprio outlet delle soluzioni ready to use, pensato per le imprese a corto di risorse da investire e avide di innovazioni con impatto immediato sulla performance. Tra questi due estremi ci sono numerose fasi intermedie, in cui disponibilità di denari e orizzonti di tempo si combinano variamente, lasciando agli attori della filiera dell’innovazione (dagli uffici trasferimento di tecnologia delle Università, ai parchi scientifici e tecnologici, ai distretti tecnologici) ampi margini per definire il proprio business model. Resta da capire se tutti ci riusciranno.
Mercoledì 4 Giugno 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La carica degli "ideattori" Tra tentativi di supporto pubblico più o meno riusciti e investimenti troppo dispersi, il ponte tra ricerca e impresa non sempre è solido né facile da raggiungere. Ma il Nordest continua a innovare grazie a imprese avanzate sul piano tecnologico e che sanno seguire le intuizioni. A volte più utili delle ricerche di mercato
di Alessandra Sgarbossa
L'INTERVISTA
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DI GIOVANNI SALVATORI
Ci si è messa anche l'Unione europea, di recente, bollando l'Italia come uno dei Paesi ''innovatori moderati'' tra i 28. Con sole tre regioni (Friuli Venezia Giulia nel Nordest, poi Piemonte ed Emilia Romagna) in media o addirittura sopra la media europea, e tutto il resto a inseguire, a distanza dagli standard dell'Ue. La Commissione, nella sua ricerca, ha guardato a criteri come il numero di dottorandi fuori dai confini del Vecchio continente, le spese per innovazione (distinguendole da quelle sostenute per sviluppo e ricerca), i capitali investiti, i ricavi dai brevetti. Ma la realtà di tutti i giorni, delle imprese che sotto il vento forte della crisi l'innovazione la provano a realizzare, è davvero questa? Tra ingenti investimenti pubblici non sempre andati a buon fine, parchi scientifici divisi tra risultati anche lusinghieri e bilanci in rosso da brivido (ne parliamo altrove in questo numero di Mappe), e una miriade di centri pubblici o pubblico-privati creati per diventare hub di supporto all'innovazione, quello che sembra mancare è un ponte costante e solido tra mondo della ricerca e mondo dell'impresa. Un ponte che a volte c'è e funziona, certo, ma troppo spesso è pericolante, e tortuosa è la strada per raggiungerlo. In mezzo a tutto questo, però, ci sono loro. Gli ''ideattori''. Protagonisti sulla scena di un'innovazione fatta in proprio (e non per questo artigianale o meno tecnologica, anzi), senza aspettare finanziamenti, a volte ascoltando un'intuizione o una sensazione prima che una dettagliata ricerca di mercato. Con prodotti di qualità altissima, e mercati che si spalancano là dove non si pensava che ci fossero. E che trovano poi, sull'onda del successo conquistato, anche l'attenzione del settore pubblico. Qualche numero dal fronte L'ultimo rapporto Istat sull'innovazione, la ricerca e lo sviluppo (contenuto nel rapporto Benessere equo e sostenibile) parla di un'Italia che ha visto calare il numero di brevetti europei depositati tra il 2004 e il 2010, passando da 85,1 a 73,3 brevetti per milione di abitanti. La media dell'Unione, per dare un'idea, nel 2010 era di 108,6 brevetti. A cozzare in parte con i dati pessimistici della Commissione europea, dei cui parametri riportavamo sopra, c'è però il dato sulle imprese innovatrici (per prodotto, processo, organizzazione interna o marketing): sono il 53,9%, contro una media europea del 49%. Gli occupati nei settori più innovativi sono però il 3,3%, meno del dato dei 28 dell'Ue (media generale 3,8%). In Italia, a spendere di più per la ricerca è il NordOvest (35,7 per cento della spesa nazionale) contro il 22,6 del Nordest. Molto più staccate le altre zone della Penisola, con il Meridione in coda. La Provincia di Trento guida la classifica di Regioni e autonomie quanto all'incidenza della spesa rispetto al Pil, con tutto il Nordest che supera la media nazionale, tolto il Veneto che però nel quinquennio 2004-2009 è tra le regioni in assoluto cresciute di più. Infine, la spesa per la ricerca: è inferiore alla media europea per incidenza di quella privata, che però ha avuto un'impennata del 12 per cento tra il 2008 e il 2010 ed è assai più elevata in tutto il Nord. Ne esce dunque un quadro di imprese inclini ad
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La carica degli "ideattori" | Mappe di VeneziePost
innovare, più di quanto racconti la vulgata, ma che appunto spesso ''fanno da sole'' prima di incontrare lungo il cammino incubatori e strutture pubbliche. Ma come si passa, per dirla in slogan, dalle idee alla fabbrica? La cucina ''democratica'' di qualità Ad aver reso plastico un concetto e innovativa un'intuizione c'è ad esempio la Irinox di Corbanese di Tarzo, provincia di Treviso. Attiva da un quarto di secolo, forte nel campo degli abbattitori di temperatura per alimenti destinati ai professionisti di ristorazione e pasticceria, si è inventata un mercato rendendo quello stesso principio fruibile per l'uso domestico. Facile dire che il freddo rapido permette di mantenere i colori, la sapidità, la consistenza di un piatto, quando la platea cui ci si rivolge è quella dei superesperti (e tra i clienti illustri di Irinox ce ne sono parecchi, da Pinchiorri a Firenze alle Calandre degli Alajmo, da Pierre Hermé a Ferran Adrià nella sua scuola per cuochi in Catalogna). Il difficile è intercettare un possibile bisogno quando è ancora nell'aria. «Io sono in azienda dal '92 – racconta Katia Da Ros, figlia del cofondatore Florindo, oggi vicepresidente di Irinox Usa dopo essere stata Sales e marketing manager dell'azienda – allora l'impresa era una start up, quando si parlava di abbattitori per uso domestico ci sentivamo rispondere ''interessante, ma a me non serve'', perché lo si considerava un prodotto destinato solo alla grande ristorazione. Ma pian piano la sensazione positiva, che lì ci fosse un mercato, è andata crescendo. Abbiamo mosso i primi, timidi passi insieme con Valcucine, poi abbiamo letteralmente educato un mercato, spiegando che questa idea permette di mangiare bene il cibo di tutti i giorni, in un vivere frenetico che porta ad avere meno tempo, ma non meno sensibilità, che in Italia esiste». Così è nato Fresco, il primo abbattitore da incasso, capace di portare in pochi istanti un cibo caldo a meno due gradi, per la conservazione breve in frigo, o a meno 20, pronto per il freezer. Il brevetto è per 20 anni di Irinox. Anche qui, prima l'idea e poi la ricerca interna, e poi ancora i raccordi con gli atenei e il mondo della ricerca. «Il concetto di base era nato negli anni Settanta – riprende Da Ros – ma noi lo abbiamo raccolto e sviluppato, passando dalla fase del cibo sano ma non con la qualità gustativa di un cibo appena preparato, a quella in cui le due cose vanno insieme, attraverso lo studio degli effetti del fresco nel nostro laboratorio interno di microbiologia. Io stessa sono tornata sui banchi di scuola, ho fatto un Master all'Harvard Business school di Boston, ma tutto è nato seguendo una sensazione: credo che non sarebbe successo se avessimo fatto una ricerca di mercato». Irinox, per inciso, fattura 33 milioni di euro e distribuisce dagli Usa al Giappone, dal Brasile alla Russia. Oggi il gruppo ha attivato partnership con le Università di Udine e di Padova. Da Ros è onesta quando parla del rapporto bifronte tra ricerca (accademia) e impresa: «Dipende anche dagli imprenditori – dice, invitando al coraggio – se si vuole in fondo si può dire di ogni cosa che è migliorabile. Certo, se la famosa meritocrazia fosse davvero applicata in questo Paese...», si lascia scappare poi. Tecnologia pret-a-porter Già, creare un mercato. Che poi è vederlo quando per altri ancora non c'è, un po' come il lavoro degli scultori, che è soprattutto un gioco a togliere. Un mercato se lo è inventato anche la padovana Med, di Maserà. Med sta per Medical engineering & development, ma è un buon acronimo anche perché l'azienda realizza e costruisce, da vent'anni, reparti ospedalieri specializzati. Già quello che si definisce un ''mercato di nicchia'': terapie intensive, pronto soccorso, sale parto, sale operatorie. Un know how consolidato dal quale Alberto Venturato, presidente dell'azienda, racconta che è venuta quasi per caso l'idea folgorante: «Un cliente aveva necessità di ristrutturare un blocco operatorio, ma non poteva interrompere i lavori per lungo tempo, avrebbe perso troppo in termini di ricavi. Noi abbiamo creato un reparto provvisorio, dotato di tutte le tecnologie, e ''affiancabile'' a quello da ristrutturare, chiavi in mano. Risultato: alcuni operatori non si sono nemmeno accorti della novità, entrando nella nuova struttura». Si è aperto un mondo: fino ad allora, l'unico esempio di ospedale trasportabile era di fatto quello da campo, pensato per teatri di guerra. Nel settore civile, in Europa c'era in pratica un solo potenziale concorrente, che però realizzava ospedali interi, procedendo per moduli. Un'altra delle piccole grandi rivoluzioni griffate Nordest, alta tecnologia trasportabile. «L'innovazione è stata proprio nel saper soddisfare un segmento di mercato che non era coperto – riprende Venturato – abbiamo scommesso sul More, Modular operating room evolution, ovvero conferire sale operatorie completamente a norma e trasportabili. Su questa onda abbiamo ora stretto rapporti con Thk, colosso internazionale con sede a Tokio che si occupa di sistemi di isolamento sismico. Grazie alla partnership, le nostre sale operatorie garantiscono operatività anche durante un sisma, o immediatamente dopo. Basti pensare a quanto è successo all'Aquila, o a Modena, dove gli ospedali sono stati chiusi per inagibilità». Anche qui, i costi sono competitivi. E quanto al mercato, Med sta sperimentando un contratto di rete che le permette di controllare l'intera filiera produttiva, con circa 200 collaboratori, e un fatturato che lo scorso anno ha superato i 5 milioni e mezzo di euro. Ancora una volta, dall'idea vincente sono poi scaturiti i contatti con il settore pubblico, con le università, con i centri di ricerca. Oggi c'è un dialogo avviato con Veneto sviluppo, che potrebbe entrare nella compagine. «Anche da parte imprenditoriale forse dovremmo cercare di più le istituzioni – concede Venturato – però si riscontra una certa difficoltà a leggere le idee in tempo utile: solo alla fine del processo, il prodotto diventa interessante per il mercato. Forse la mano pubblica dovrebbe riuscire a intercettarle prima». Dalla bottega all'industria, via web Un'altra realtà che non ha aspettato e ha cambiato pelle per sua spontanea intuizione, quando non c'erano nemmeno all'orizzonte nubi di crisi o recessione a spingere, è Pixartprinting, di Quarto d'Altino. Nata nel 1994 come impresa artigianale di servizio per le tipografie tradizionali, con una quindicina di dipendenti (allora si chiamava Studio Pixart), ha scelto la navigazione in campo aperto a partire però da una spinta semplice quanto basilare: il problema eterno dei pagamenti che non arrivano puntuali. http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33533_la_carica_degli_ideattori/#.U5WmsPl_v1Y
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La carica degli "ideattori" | Mappe di VeneziePost
Dopo qualche anno dalla nascita, il fondatore Matteo Rigamonti ha deciso: si porta tutto sul web, armi e bagagli. È il concetto essenziale dell'e-commerce: il lavoro così viene pagato in anticipo. «Seguirono periodi non facili – racconta oggi Andrea Pizzola, direttore marketing dell'azienda, nel frattempo divenuta una realtà industriale da 340 dipendenti – il portafoglio di clienti tradizionali si svuotò in fretta. L'impresa perse il bacino di utenza locale quasi completamente. Poi però arrivarono i primi clienti di Milano, poi dal Meridione, poi dall'estero, a cominciare dalla Francia. E alla clientela di prima, alla ''classica'' tipografia, se ne sostituì una internazionale. Oggi serviamo clienti in tutto il continente, e siamo una delle società web to print più grandi dell'Europa occidentale, con 120 mila clienti attivi, cioè che hanno fatto almeno un ordine negli ultimi dodici mesi». Cosa fa Pixartprinting? Risposta semplice: stampa qualsiasi cosa, dagli striscioni che coprono edifici in ristrutturazione a biglietti da visita, dalle bandiere ai poster, dai maxibanner alle riviste. Solo che ora (il processo di spostamento sul web è iniziato nel 2000) lo fa esclusivamente raccogliendo gli ordini on line, con macchine avanzate per la stampa completamente collegate alla piattaforma tecnologica del sito internet, una vetrina telematica dei prodotti, la possibilità per il cliente, grazie alle implementazioni realizzate in azienda, di caricare file e di verificare in tempo reale lo stato di avanzamento del lavoro. Risposta complessa, o più articolata, alla domanda di prima: come lo fa? Con quella che è stata una rivoluzione copernicana rispetto al modo di lavorare precedente. «Per soddisfare una domanda divenuta enorme – riprende Pizzola – abbiamo cercato competenze specializzate. Ora abbiamo un reparto speicalizzato in cui si scrivono ex novo codici informatici, cioè produciamo nuovi software in casa, adatti alle nostre esigenze. Poi c'è il marketing, passato interamente on line: non si comunica più negli spazi fisici, ma si aggredisce il web, dall'advertising classico ai social network. Abbiamo un reparto customer care con 40 impiegati specializzati nell'assistenza al cliente, fornita in undici diverse lingue. Noi diciamo che lavoriamo come se dovessimo vendere scarpe, cioè con la logica e la cura del retail, anche se facciamo grandi numeri». E con i grandi numeri, Pixart ha potuto lavorare anche su prezzi competitivi: sono la qualità e l'innovazione ad averla salvata dall'onda lunga della crisi, ed oggi è un player quasi solitario nel suo settore, almeno in Italia. Dall'aprile 2014, l'azienda è partecipata per il 97 per cento da Vistaprint, gruppo leader mondiale del printing on line. E anche in questo caso, le partnership con il mondo accademico e della ricerca sono arrivate dopo: oggi Pixart ha un dialogo aperto con Ca' Foscari e la Bocconi (sponsorizzazioni, non collaborazioni dirette) e con il Politecnico di Milano, che sta studiando per l'impresa nordestina un algoritmo per il funzionamento delle macchine da stampa. Una scelta di tempo, per risparmiare su quello che andrebbe dedicato alla formazione interna del personale, in questo caso. Ma appunto una scelta. Molti sono gli altri esempi che si potrebbero citare, di imprese dalle dimensioni più varie, che nel Nordest hanno fatto, per dirla con il sommo Dante, come «quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte», con l'unica differenza che a sé stesse giovano, eccome, oltre a illuminare il cammino per altri che seguono. La bolzanina Cartorender, inventata da Loris Trentin e Manuel Bortolameolli, start up che fotografa le frane usando anche dei droni, ne trae dei dettagliatissimi modellini in 3D in tempi e costi ridotti, e permette a clienti pubblici e privati di far fronte alle urgenze prevenendo nuovi smottamenti. O la padovana Amr, che si è inventata la già premiatissima Zip1, prima zappatrice automatica a controllo elettronico, che arieggia il terreno tra i filari tagliando tempi, costi, uso di diserbanti. E si potrebbe continuare. Come fanno loro, in fondo, gli ''ideattori'' del Nordest, che non si stancano di trainare l'innovazione anche quando il ponte con la ricerca stenta a vedersi.
Mercoledì 4 Giugno 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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I parchi scientifici, tra utopia e conti che non tornano di Alessandra Sgarbossa
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I parchi scientifici, tra utopia e conti che non tornano DI ALESSANDRA SGARBOSSA
Innovazione e ricerca, i mantra dell’impresa 2.0, non sempre bastano a garantire il successo economico. Almeno a guardare le storie di alcune realtà partecipate da enti pubblici, nate come poli di eccellenza con la lodevole motivazione di sostenere con laboratori e incubatori d’impresa l’innovazione nel tessuto produttivo locale, ma incapaci o in difficoltà a sostenere i propri bilanci. Non tutto va male, certo, a Nordest. Se alcuni enti sono in crisi, altri continuano a fare utili ma spesso i pareggi di bilancio sono dovuti più ai finanziamenti pubblici, ossia della collettività, che alle globali leggi del mercato, impietose con le imprese private. Posto che la ricerca di alto livello ha ovviamente costi elevati difficilmente recuperabili in tempi rapidi, la domanda sorge spontanea in questo periodo di vacche magre. Per quanto tempo ancora il pubblico potrà continuare a metterci una pezza per evitare default annunciati e talvolta sottovalutati? Nella galassia dei cosiddetti Citt, i Centri di innovazione e trasferimento tecnologico sia partecipati da Regioni, Province, enti camerali o universitari, sia privati (Uil Veneto e Università Ca’ Foscari alcuni anni fa ne avevano contati una novantina nel solo Veneto), a essere più in affanno sono in genere i Pst, i Parchi scientifici tecnologici, poco meno di una decina nelle Venezie. Uno dei casi più emblematici è il Parco Star di Verona, operativo dal 2001. Non sembra proprio riuscito a fare quello che si prefiggeva, ovvero sviluppare ricerca e innovazione e fare da «anello di collegamento tra imprese, mondo della ricerca e fonti di finanziamento», come si legge nel sito Internet, dove i progetti più recenti descritti si sono conclusi a fine 2012. Fino a dieci anni fa Veneto Innovazione Spa, partecipata della Regione Veneto, Comune e Provincia di Verona, i tre soci di maggioranza, detenevano ciascuno azioni per il 20,10% per un valore complessivo di 588.000 euro. Purtroppo risultati operativi e bilanci d’esercizio dal 2004 in poi hanno sempre seguito un trend sconfortante: la performance “migliore” dell’ente è stata nel 2009, quando la perdita si è fermata a 320.946 euro. E in dieci anni ci sono state riduzioni di capitale sociale per perdite e fughe di soci, passati da 38 a una manciata. Nel 2011 la Provincia di Verona cede le sue quote al Business Incubator Park Area 5.1 per un totale complessivo di 39.812 euro. In un prospetto delle proprie partecipazioni azionarie la Provincia scrive che «dopo 10 anni ha dovuto prendere atto del sostanziale disinteresse del mondo imprenditoriale nei confronti delle proposte e dei piani di sviluppo e ricerca della società; in tale arco temporale le attività aziendali hanno cumulato circa 3,4 milioni di euro di perdite, di cui oltre 566.000 euro assorbiti dalla Provincia». Nel 2010 aveva comunicato allo Star il suo esercizio di recesso anche il Comune, che possedeva allora 12.250 azioni del valore di 31,48 euro ciascuna. Il bilancio 2011 approvato nel luglio seguente si chiude con una perdita di esercizio di 244.362 euro, che sommata alle perdite “a nuovo” e a quelle del primo trimestre 2012 arriva a quasi 522.000 euro. A marzo l’assemblea straordinaria aveva deliberato l’ennesima riduzione del capitale sociale attribuendo alle azioni un valore di appena 2,47 euro. Risultato: la liquidazione per il Comune si attesta a 30.257 euro, una perdita secca di oltre 355mila euro rispetto al 2010. Pochi mesi dopo analoga sorte tocca anche al Comune di San Giovanni Lupatoto che vende le sue azioni per 1.633 euro.
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I parchi scientifici, tra utopia e conti che non tornano | Mappe di VeneziePost
Il Vega Park di Marghera, fiore all’occhiello nei settori ICT, green economy, nanotecnologie e come incubatore di imprese innovative, nato nel 1993 per riconvertire l’area industriale di Porto Marghera, con capitale sociale 12,5 milioni di euro e 33 soci, tra cui enti locali, le università veneziane, banche, di risultati operativi ne ha invece collezionati e parecchi. Ma nonostante ciò – e nonostante contributi regionali e privati per alcuni progetti di ricerca - ha chiuso il bilancio 2012 con una perdita di esercizio di 5.673.110 euro. E nel giro di un anno, si è finiti al concordato preventivo a cui la società consortile a responsabilità limitata è stata ammessa ad aprile 2014. Ai creditori è stato offerto il pagamento del 100% dei debiti della società mediante un piano di dismissioni di cespiti aziendali da realizzare nell'arco dei prossimi quattro anni. Tommaso Santini, Ad di Vega Scarl insediatosi da poco meno di un anno, non ha dubbi su quale sia stato il tallone d’Achille. «Una struttura dei costi insostenibile, in particolare costi di gestione molto elevati, che stiamo riportando a valori consoni – racconta -. Abbiamo inquadrato un percorso di risanamento con i piedi per terra eliminando attività in perdita, tra le quali l’innovazione, che rimarrà solo all’interno dell’incubatore, uno dei due certificati in regione». Insomma, nessun problema per le neoaziende innovative, anche se suona paradossale che i centri deputati all’innovazione rinuncino, seppur in parte, a essa. E l’Ad risponde ai nostri dubbi iniziali. «I Pst a partecipazione pubblica sono modelli economici che non “quagliano”, in particolare a causa degli investimenti necessari alla ricerca. Un’azienda privata solida può reinvestire i costi di ricerca in altra innovazione, il Pst invece non ha introiti e non può mantenerla. L’auspicio è che gli investitori privati investano sempre più nelle start up, in questo senso si legge un timido aumento. Vengo dal Forum Ambrosetti: la Francia ha puntato su 2-3 cluster strategici per l’innovazione. Un esempio che potrebbe essere la via d’uscita in un periodo di vacche magre». Piano strategico per certi versi analogo, ma meno consistente, anche per il Parco Galileo di Padova che ha avuto nel 2011 un momento di défaillance: la passività di 71mila euro l’anno seguente è stata trasformata in utile – appena 10.058 euro ma pur sempre col segno più – grazie a una cura a base di razionalizzazione dei costi di gestione e dismissione del patrimonio obbligazionario, una delle cause di qualche mal di pancia l’anno prima insieme alla contrazione della domanda di servizi da parte delle imprese che, con la crisi, tirano i remi in barca. Veneto Nanotech Scpa, una realtà sui generis rispetto ai Pst ma sempre con soci e contributi pubblici, che dal 2003 coordina le attività del distretto hi-tech per le nanotecnologie applicate ai materiali, ha chiuso l'esercizio 2012 con una perdita di 627.925 euro, cui si deve aggiungere anche la perdita dei primi quattro mesi 2013, altri 138.839 euro, vista l’approvazione del bilancio in deroga. «Un miglioramento rispetto al risultato negativo conseguito nell'esercizio precedente, pari a meno 1.572.287 euro», è stata la visione positiva dell’assessore veneto al Bilancio Roberto Ciambetti, trasmessa riferendo all’assemblea dei soci lo scorso anno. La società è stata infatti ricapitalizzata nel 2012 come previsto dal piano industriale per il rilancio del distretto, che ha portato a un aumento di capitale sottoscritto per complessivi 1.577.389 euro. Ovvero i soci, tra cui la Regione che detiene ora quasi il 77% delle partecipazioni, si sono accollati di fatto la perdita. Nonostante l’importante deficit del 2011, nel 2012 l’azienda ha assunto per l’84% in più e nel 2013, come previsto dall’accordo di ricapitalizzazione, ha assorbito il personale del Civen, il Coordinamento interuniversitario veneto nanotecnologie, che deve a Veneto Nanotech quasi 1 milione e 148mila euro. Va detto però che “c’è vita su Marte”: il valore della produzione pari a 4.724.571 euro (più 23% sul 2011); i ricavi da vendite e prestazioni pari 1.580.330 euro (più 14%), quasi interamente da contratti di ricerca, commesse e licensing; i 18 progetti finanziati con fondi europei dal 2008 a oggi che hanno fruttato 3 milioni e 800 mila euro e i 19 progetti in valutazione. Ad affossarlo i costi di gestione per i laboratori di proprietà il cui allestimento è costato 40 milioni di euro: 400mila euro l’anno di elettricità, 300mila euro di manutenzione dei macchinari ad altissima tecnologia. E un contributo regionale rimasto di appena 150mila euro l’anno. «La questione è: una realtà che fa innovazione anche se in perdita è strategica o no? – si chiede il direttore generale della struttura, Nicola Trevisan, consapevole dei bilanci tutt’altro che performanti – All’estero laboratori come il nostro si reggono con il 35% di finanziamento pubblico, la Fondazione Bruno Kessler in Trentino con il 50%: quasi 5 milioni di euro dalla Provincia autonoma a parità di volume di attività con noi. Chiaro che chiudiamo in perdita, il contrario è utopia». Nel senso che i rossi di bilancio sono un male necessario per poter fare ricerca? «Sì, i soldi pubblici spesi oggi portano ricadute domani nel tessuto produttivo difficilmente misurabili in bilancio». Un esempio, ci sono voluti sette anni per brevettare una macchina tessile che ora frutterà royalties per vent’anni a Veneto Nanotech, commesse alle aziende che la installano e posti di lavoro. Ma intanto i soci levano le ancore per il rischio di «non continuità aziendale» e il probabile “rosso” anche nel consuntivo 2013 (Confindustria Veneto e Camera di commercio di Venezia sono usciti dal Cda ad aprile, nel tempo i quattro Atenei veneti hanno assottigliato le loro azioni dal 20% a meno 1%), mentre si vocifera dell’ingresso di un socio di maggioranza privato. Altra storia per i centri di ricerca delle confinanti regioni a statuto speciale, figlie di un Dio maggiore. Anche nel bilancio 2012 del Cosbi, Centre for computational & systems biology, di Microsoft Research e Università di Trento si legge un disavanzo di 235.838 euro ma «il disavanzo – spiegano serafici al Cosbi - è stato dovuto a un pesante taglio dei finanziamenti da parte della Provincia di Trento, quasi 2 milioni di euro per il periodo 2012-2014, comunicatoci in corso d’anno, rispetto al quale non si è potuto quindi attuare azioni correttive. Il bilancio del 2013 riporta invece un risultato di esercizio di 103.246,80 euro». Al netto del “pesante taglio”, la Provincia lo finanzia ancora per 6 milioni di euro l’anno, che si aggiungono ai 13 milioni di commesse ottenute da finanziatori esterni, certamente attratti dall’eccellenza trentina - l’impact factor, l’indice per misurare l’attività scientifica, del Cosbi è di 4,3, il 165% più alto della media mondiale – e forse anche dall’entità dei finanziamenti http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33534_i_parchi_scientifici_tra_utopia_e_conti_che_non_tornano/#.U5WmwPl_v1Y
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pubblici. Trentino Sviluppo Spa, fusasi con Trentino marketing Spa nel 2012 e socio unico la Provincia autonoma, poteva vantare, fresca di fusione, un utile di esercizio di 215.388 euro, quasi raddoppiato rispetto al 2011, mentre il documento contabile licenziato a fine maggio dal nuovo Cda a tre membri evidenzia per l’esercizio 2013 un utile di 359.675 euro al netto degli accantonamenti, tra cui 1,2 milioni di euro per finanziare i lavori del Polo Meccatronica. La società ha dato infatti via libera alla fusione delle tre società controllate e partecipate al 100%, Progetto Manifattura, Arca Casa Legno e Distretto del Porfido e delle Pietre Trentine, per dare vita ad un’unica nuova area integrata in cui confluiranno le competenze maturate dalle filiere strategiche del green, meccatronica, edilizia in legno e settore lapideo. Quel che si dice economie di scala. Pareggio di bilancio mancato per un soffio (una perdita ante imposte di 2.344 euro) per Friuli Innovazione, che gestisce il Parco scientifico e tecnologico Luigi Danieli di Udine, da settembre scorso nei nuovi edifici che ospitano l’incubatore certificato “Techno seed” con 24 start up, un laboratorio di metallurgia e un pre-incubatore. Maggiori costi di ammortamento dei nuovi edifici e minore finanziamento regionale per il funzionamento dell’ente di ricerca friulano sono stati galeotti per il rosso in bilancio che, grazie al piano industriale triennale 2012-2014 dovrebbe tornare in equilibrio nel prossimo esercizio. E persino col bicchiere a metà tra gestione finanziaria ed economica del consorzio Area Science Park di Trieste (l’ente adotta un doppio sistema contabile), l’impressione è di un’invidiabile solidità se rapportata alla situazione media degli enti pubblici e di ricerca italiani. Area chiude il 2012 con un risultato finanziario corrente di oltre 1,2 milioni di euro (meno 60% sul 2011) che garantisce ampi margini di sicurezza operativa nonostante un risultato di competenza negativo per 1,6 milioni di euro (meno 189% sul 2011) dovuto a maggiori investimenti del 155% per limitare l’impatto della crisi sul proprio ambiente operativo. L’avanzo di amministrazione rimane ampiamente positivo, più 2,7 milioni di euro. Ma «Fare di più con meno, sarà imperativo per il futuro – assicurano dall’ente - per evitare il perdurare di dinamiche, soprattutto economiche, non sostenibili nel medio e lungo termine». Il presidente di Confindustria nazionale Servizi Innovativi e Tecnologici, l’imprenditore padovano Gianni Potti, ha una sua chiave di lettura. «Parchi e incubatori a partecipazione pubblica sono troppi e non sono a mercato, per questo assistiamo alla loro moria. Di contro nascono e si consolidano altri spazi di incubazione e di co-working privati, come M31 o H-Farm, segno che l’innovazione è liquida, non sclerotizzata ma ha bisogno di essere accompagnata con mentoring e gestione del credito, con nuovi modi d’interazione tra università e impresa. In questo i Pst hanno fallito e la politica è intervenuta solo a bilanci ormai in rosso».
Mercoledì 4 Giugno 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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«L'innovazione? È un ecosistema» Alla ricerca scientifica manca il trasferimento tecnologico, le imprese hanno creatività ma non metodo. Per Alberto Baban, presidente di Piccola Industria, costruire un ponte tra questi due poli significa trovare la chiave di volta per il rilancio DI LINDA PISANI
Alberto Baban, 47 anni, presidente della Piccola Industria di Confindustria ne è fermamente convinto: «Dobbiamo lavorare alla costruzione di ecosistemi imprenditoriali senza confini territoriali, dove l'innovazione è un valore aggiunto indispensabile. Le aziende devono essere multidisciplinari e superare il gap dell'accesso al mercato». Per Baban, che fino allo scorso anno ha guidato lo stesso settore ma in Confindustria Veneto, dove ha ricoperto anche il ruolo di vicepresidente con delega a Ricerca e Innovazione e alle Politiche industriali, quello che deve essere migliorato, in mercati sempre più globali, è la rete commerciale. Perchè «chi compra non è più dietro l'angolo e si muove con logiche differenti». Il nodo maggiore? La mancanza di una politica industriale da parte del governo, l'assenza di un piano per nobilitare il Sistema Italia. Ma l'effetto domino di una serie di problemi, che andrebbero presto risolti, è ben più vasto e si allaccia a stretto filo anche con una ricerca che mal supporta un'innovazione delle nostre aziende. Presidente, lei è stato eletto alla guida della Piccola Industria di Confindustria lo scorso novembre. Quale bilancio si sente di trarre di questi primi sei mesi di governo dei piccoli industriali? «Direi sostanzialmente positivo. In questi primi mesi ho voluto essere presente direttamente nei territori e conoscere quali e cosa sono “le Italie”, le diverse situazioni che ci sono tra Nord e Sud e tra regione e regione. Volevo riuscire a capire se ci sono, e quali sono, gli allineamenti e quali le distinzioni. Ebbene, ciò che più mi ha colpito sono le comunanze sulle problematiche, dall'accesso al credito al costo del lavoro, ma soprattutto l'idea che gli imprenditori faticano ancora a trovare la chiave di come si accede a un mercato che non è più così vicino. C'è una grande potenzialità nelle nostre piccole e medie imprese. Uno dei punti di forza è la capillarità della presenza sul territorio delle aziende. Capillarità che è un'ottima espressione della capacità di crescita che hanno i nostri territori industriali. Le Pmi hanno, in realtà, tutte le potenzialità per accedere ai mercati a medio e lungo raggio. Però è necessario organizzarle in sistemi che aumentino la loro visibilità ed esaltino la genialità e la capacità innovativa dei nostri imprenditori». Insomma, abbiamo imprenditori con menti brillanti, ma poco bravi a vendere il loro genio... «Le potenzialità ci sono tutte. Vorrei solo ricordare che i dati ci dicono che, nonostante tutto, siamo ancora il secondo paese manifatturiero in Europa. Le Pmi italiane hanno dimostrato di essere resilienti: hanno assorbito le perturbazioni e i forti cambiamenti imposti dal mercato riadattandosi e continuando a sopravvivere. Oggi siamo nella fase della riorganizzazione che ha fatto emergere la
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necessità di un diverso funzionamento della filiera produttiva manifatturiera. Un funzionamento basato sull'innovazione». Innovare significa mettere a punto nuove strategie. Ma cosa significa fare innovazione per le piccole industrie? E' un processo uguale per tutte le imprese o ha delle peculiarità a seconda dei settori e della grandezza delle aziende? «Per cominciare, l'innovazione è per tutti la dimensione applicativa di un'invenzione o di una scoperta. Un processo che prende dimensione attraverso la ricerca e solo quando questa riesce ad essere realmente trasformata in prodotto e produzione si concretizza in innovazione. In Italia la ricerca nelle imprese ha un deficit tecnologico perché non riusciamo sempre ad accompagnare l'intuizione e la genialità italiana a soluzioni concrete. Quindi, prima di declinare l'innovazione nelle sue forme applicative, bisogna analizzare e risolvere il problema della crescita insufficiente del sistema della ricerca». Lei sta prospettando una sequenza: la vendita deve essere supportata dall'innovazione, l'innovazione dalla ricerca. Se gli imprenditori hanno difficoltà nel seguire questa successione, il problema pare allora configurarsi nella ricerca. «In parte è così. La ricerca e il trasferimento tecnologico sembrano viaggiare su due canali separati. Le Università, ad esempio, sono molto attente a sostenere quasi esclusivamente la propria ricerca e sono meno aperte a quella proveniente da altri ambienti accademici. D'altro canto, le nostre piccole e medie imprese sono realtà industriali che vivono di una ricerca che è più un fenomeno esperienziale, ed è quindi frutto dell'elaborazione delle proprie conoscenze. Emergono inventiva e creatività, mentre è quasi assente la sistematicità nell'affrontare la ricerca. L'innovazione necessita di una buona ricerca, ma anche di trasferimento tecnologico. Le università, i parchi scientifici e gli incubatori devono preferibilmente diventare dei collettori aperti a chiunque sia in grado di fornire ricerca. E questi collettori devono essere prossimi ai sistemi produttivi, generando così degli ecosistemi efficienti. Esempi che funzionano, d'altronde, ce ne sono. Penso a Microsoft che in Italia ha scelto il Trentino proprio per la vicinanza di centri di ricerca e trasferimento tecnologico d'eccellenza, così come la General Electric che collabora attivamente con il Politecnico di Torino». Dunque l'accesso al mercato è penalizzato non dalla mancanza di innovazione, ma dalla mancanza di un sistema di innovazione... «Esattamente. L'Italia nella sua complessità è molto brava a far emergere le genialità e le creatività dei singoli, ma serve lavorare sulla metodica e sulla ricerca organizzata perché manca un sistema di integrazione, un ecosistema di innovazione. Innovazione e ricerca non sono solo espressione di prodotto tecnologicamente avanzato. Negli ultimi anni, infatti, è cambiato il paradigma e oggi innovazione significa anche ottimizzazione del processo produttivo e miglioramento dell'accesso ai mercati. In Italia non esiste il problema dell'imprenditorialità, della capacità di intraprendere e della predisposizione al rischio in proprio. Lo giustifica il fatto che esistono oltre 4 milioni di partite Iva, che sommate a tutti i comparti incluso quello agricolo arrivano a 6. Altri paesi come Russia e Stati Uniti non hanno una forte presenza di Pmi e stanno incentivando e stimolando l'imprenditorialità e la nascita di nuove imprese. Noi le abbiamo già, ma ci manca l'accesso al mercato. La nostra piccola impresa, tipicamente tradizionale, deve sperimentare nuovi metodi e stare al passo con i tempi: la nostra struttura produttiva deve puntare su internazionalizzazione, innovazione nella gestione aziendale, cultura manageriale d'impresa, nuovi modi di approccio ai mercati». Lei è presidente del Gruppo Tapì, impresa fondata nel 1998 e specializzata nella produzione di tappi sintetici brevettati per vino e liquori. Oggi la sua azienda conta 5 siti produttivi tra Italia, Messico e Argentina, una presenza commerciale in oltre 60 nazioni e un fatturato che nel 2013 è stato di 30 milioni di euro. Bisogna considerare prima il prodotto o prima il mercato? «Chi conosce bene il mercato cresce più velocemente. Così è stato per la mia attività ed è confermato dalle tante eccellenze che ho incontrato nei territori che hanno caratteristiche comuni. Il Made in Italy è molto ricercato all'estero, non solo per il food ed il fashion, nostri grandi portabandiera. Va rimesso al centro del dibattito della politica lo sviluppo dell'industria manifatturiera. Serve un piano di politica industriale. Da troppi anni badiamo solo alle emergenze e non riusciamo ad avere una visione condivisa del futuro». Lei è anche presidente e socio fondatore di Venetwork SpA, società che ha come obiettivo la promozione della cultura d'impresa. Gli imprenditori che ruolo devono avere in questa spinta sui mercati? Alcuni riescono a far girare i fatturati. Significa che si può fare. Basta imparare dagli altri Paesi? «I metodi per accedere ai mercati ci sono e sono anche conosciuti. Penso, per esempio, all'e-commerce che per noi, purtroppo, è un'altra battaglia persa. Siamo gli ultimi in Europa per l'utilizzo delle vendite on-line e questo ci dovrebbe fare riflettere. Le imprese devono investire su nuove figure professionali come l'export manager e la loro assunzione e formazione dovrebbe essere agevolata da politiche economiche governative. Dobbiamo individuare e sostenere gli ecosistemi produttivi. I distretti di un tempo sono diventati filiere, molte delle quali funzionano ancora ma lavorano su dei confini geografici e settoriali limitati. Bisogna guardare oltre, con la creazione di nuovi ecosistemi dove esistono le aziende produttive, i centri di ricerca e quelli di trasferimento tecnologico. Torniamo alla necessita di ecosistemi d'innovazione». http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33566_linnovazione__un_ecosistema/#.U5Wm0_l_v1Y
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Quanto pesa il nostro Made in Italy in questo processo? Gli imprenditori devono confrontarsi con mercati che lavorano sulla quantità e a basso costo, come si fa a essere competitivi nei loro confronti? «Negli ultimi 7 anni abbiamo perso circa il 25% dei livelli di produzione nell’industria. L’Italia è uno dei Paesi europei che, in termini di costo del lavoro per unità di prodotto, risulta aver perso maggiore competitività rispetto ai tempi pre-crisi. Secondo un rapporto di Bruxelles, la causa principale va rintracciata negli aumenti del salario lordo nominale combinato con una scarsa crescita della competitività. Il Made in Italy è l'espressione dell'arte del fare. Dobbiamo far riconoscere al mercato il valore aggiunto che rappresenta la nostra artigianalità. L'artigiano che fa scarpe in Riviera del Brenta non ha nulla a che vedere con il vietnamita o il cinese che lavora in una catena di produzione. L'innovazione deve essere utilizzata anche per i processi produttivi, automatizzazione unita all'utilizzo di manodopera solamente qualificata. Questo è il modo per far riconoscere un più alto valore aggiunto ai nostri prodotti». Lei si riferisce ai labour intensive, ai settori ad alta intensità di lavoro. Ma meno manodopera non significa meno posti di lavoro? «No. Ripensare alle produzioni industriali labour intensive non significa mandare a casa il casellante a causa dell'automatizzazione dei pedaggi autostradali. Significa rivedere i processi produttivi. Per agevolare questo sistema dobbiamo puntare sulla meritocrazia che premia chi ha più capacità detassando e decontribuendo il salario di produttività. Pensiamo al benchmark tedesco. Lì non si perdono posti di lavoro e le aziende sono ai vertici della classifica dell'innovazione. La manodopera è di alto livello. E in Italia? Il cuneo fiscale è così elevato che il dipendente prende meno della metà di quello che costa all'impresa». La manodopera di alto livello nasce da sinergie tra mondo della scuola e imprese. «L'aspetto formativo è fondamentale. L'innovazione deve essere insegnata alle scuole medie. Deve diventare un'attitudine supportata dalla conoscenza tecnologica ed oggi anche digitale. Poi gli istituti tecnici e le università devono produrre ricerca e diventare i nuovi hub del trasferimento tecnologico. Devono stimolare incontri e convegni per diffondere la cultura d'impresa anche con l'aiuto delle associazioni di categoria. Anche questo è ecosistema». Quali sono i settori dove si fa più innovazione? «Meccatronica, robotica, biomedicale e tutti i settori che utilizzano il design e la creatività, come il fashion ma anche l'occhialeria che ormai è più legata al design che alle tecnologie produttive. Di contro, dove si fa meno innovazione, sono gli ambiti delle industrie labour intensive ed è qui che è necessario intervenire. Confindustria in questo senso ritiene una grande opportunità l’invito della Commissione Europea di collegare i processi decisionali al principio “Pensare anzitutto in piccolo” dello Small Business Act, per promuovere la crescita delle piccole imprese aiutandole ad affrontare i problemi che continuano ad ostacolarne lo sviluppo. Una politica che, riconoscendo le specificità delle piccole e medie industrie italiane, le metta nelle condizioni di essere più competitive e pronte a diventare le nuove grandi imprese». Che processi prevede lo Small Business Act? «Si tratta di promuovere lo spirito imprenditoriale e sostenere la competitività delle piccole imprese per contribuire allo sviluppo economico, dall’innovazione alla creazione di nuova occupazione in Italia e in Europa. Siamo il Paese europeo che ha il più alto numero di piccole e medie imprese. È quindi necessario e urgente mettere in atto azioni dirette a rispondere ai cambiamenti, come ad esempio rivolgere un’attenzione specifica alle esigenza finanziarie delle Pmi. Accesso al credito e fiscalità sono due ambiti di intervento che reputo prioritari. L'agevolazione fiscale non è sussistenza. Un'idea potrebbe essere accelerare i tempi di ammortamento dei costi sostenuti per tecnologie e processi innovativi. Una procedura a saldo zero per lo Stato che incentiva chi innova». L'Europa può essere una corsia preferenziale per la piccola impresa? «Io penso di sì. L'Europa ha chiesto più disciplina ed è stata interpretata solo come austerità ed insensibilità ai problemi dei Paesi meno sviluppati e competitivi. È grazie alla comunità Europea che i fondi vengono indirizzati proprio alla ricerca e sviluppo con una particolare attenzione alle Pmi. Ma guardando in casa nostra, pesa l'inefficienza della gestione della spesa. Ci sono 22 miliardi di euro dello scorso settennio 2007/2013 parcheggiati nelle casse europee, che rischiamo di perdere se non li utilizziamo entro il 2015. Questo grazie all'invenzione tutta italiana del patto di stabilità. Piuttosto che domandarci se uscire o meno dalla Ue, chiediamoci cosa hanno fatto i 73 parlamentari europei che abbiamo eletto e che sono sestultimi nella classifica di frequentazione del parlamento di Bruxelles tra i Paesi membri. Le direttive Europee incidono per oltre il 60% sulle leggi Nazionali. Forse è meglio spenderci più energia, competenza e attenzione».
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«Il segreto? La ricerca che si fa impresa» Michele Morgante, genetista dell'Università di Udine e direttore dell'Istituto di genomica applicata che ha sequenziato il Dna, racconta come sia possibile autofinanziare (quasi) del tutto gli studi. Affiancando, per esempio, ai laboratori una società commerciale che fattura quasi due milioni l'anno DI ROBERTA VOLTAN
Progetti avviati e presto tramontati perché mancano risorse adeguate, università costrette a fare la questua al ministero, fondi erogati con il contagocce, ricercatori in fuga o che scelgono di restare, ma nel frattempo invidiano stipendi e mezzi a disposizione dei loro colleghi tedeschi, danesi o olandesi: lo scenario con cui si trova a fare i conti la ricerca italiana è ben noto, ma c’è chi ha deciso di non rassegnarsi e sta provando a cambiare le regole del gioco. L’Istituto di genomica applicata (IGA) è nato nel 2006 da una scommessa del genetista Michele Morgante e altri tre ricercatori dell’Università di Udine, decisi a creare un centro di ricerca dedicato allo studio della diversità genetica. Se il progetto è salito sulla rampa di lancio con il supporto dell’ateneo e del Consorzio Friuli Innovazione, enti promotori dell’iniziativa, da allora il centro, oggi una delle realtà di riferimento in Europa nel campo del sequenziamento del Dna, non ha più goduto di finanziamenti pubblici se non quelli legati ai progetti di ricerca. Bilanci in attivo, risultati spesso pubblicati sulle principali riviste scientifiche e riconosciuti a livello internazionale. Solo una questione di talento dei vostri ricercatori, professor Morgante, o c’è dell’altro? «Credo che il nostro segreto stia anche nel modello che abbiamo adottato. Dal 2009 all’Istituto di genomica abbiamo affiancato IGA Technology Services, una società commerciale che offre servizi di sequenziamento di genomi umani su commissione ad altri centri di ricerca, laboratori diagnostici, ospedali...Ci arrivano richieste da tutta Europa. Il nostro istituto, che è un ente no-profit, detiene il 100% della proprietà della società commerciale: utilizziamo tutti gli utili di questa attività per sostenere la ricerca. Lo scorso anno IGA Technology services ha registrato un fatturato di 1,8 milioni di euro, mentre l’istituto ha chiuso i conti a quota 1,5 milioni». Quanti sono i ricercatori coinvolti? «Nei nostri laboratori lavorano 40 persone fra biologi, genetisti molecolari, informatici, matematici: fra loro 5 stranieri e diversi giovani che hanno fatto ricerca all’estero e che sono rientrati in Italia proprio per lavorare all’IGA. Da cinque anni adottiamo le tecniche di sequenziamento di nuova generazione NGS, che permettono il sequenziamento parallelo dei frammenti di Dna, producendo 3040 miliardi di basi al giorno. Abbiamo tre macchine di questo tipo, che sono il top della gamma: anche per questa ragione riceviamo dall’estero così tante domande». Con la società commerciale avete in parte superato il problema della scarsità dei finanziamenti. Ma davvero è l’unico problema che azzoppa le potenzialità della ricerca italiana?
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«No, ci sono a mio avviso altri nodi da sciogliere. Penso al fatto che “da noi” si dà poco credito ai giovani, un ricercatore per essere considerato autorevole deve aspettare di arrivare ai 50 anni. Non solo. Facciamo i conti con un eccessivo campanilismo che frena la collaborazione fra università e università. In altri Paesi è assolutamente normale lavorare in sinergia tra atenei, come è normale che un ricercatore chieda una lettera di referenze a un professore di un’altra università, cosa che qui sarebbe impensabile. A volte nascono progetti di ricerca fotocopia di progetti già avviati altrove con l’obiettivo di fare concorrenza all’università “avversaria”. Situazioni che producono un inutile dispendio di risorse. Quando si riesce ad andare oltre a queste logiche, rinunciando a coltivare ciascuno il proprio piccolo orticello, si ottengono risultati importanti». Un esempio? «Nel progetto Epigen, uno dei 14 progetti nazionali di bandiera finanziati dal Miur, che coinvolge 40 fra università e centri di ricerca in tutto il territorio nazionale, è il nostro istituto ad occuparsi di tutti sequenziamenti del Dna, anche per conto degli altri atenei. Un accordo che segna un passo avanti rispetto all’impostazione abituale dei progetti di ricerca in questo Paese». In cosa consiste il progetto Epigen? «Coordinato dal professor Giuseppe Macino dell’Università di Roma La Sapienza e gestito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha come obiettivo quello di comprendere come i meccanismi epigenetici regolano i processi biologici, determinano le caratteristiche visibili degli organismi e contribuiscono all’origine e progressione delle malattie. Per modificazioni epigenetiche si intendono modificazioni biochimiche delle proteine che interagiscono direttamente con il Dna per determinarne la funzionalità: a differenza di quelle che riguardano la sequenza primaria, possono essere influenzate dall’ambiente. Ecco che fattori quali dieta, stili di vita o inquinamento possono portare a determinare variazioni del materiale ereditario di una persona che possono poi essere trasmesse ai figli. Da qui l’importanza di questo ambizioso progetto di ricerca». Qual è il vostro ruolo nel progetto? «Oltre che nella gestione della piattaforma di nuova generazione per il sequenziamento, siamo coinvolti anche in una linea di ricerca più specifica che riguarda la variazione epigenetica nelle piante: vogliamo capire come l’ambiente possa indurre modificazioni che vengono poi ereditate di pianta in pianta. Una ricerca che potrà aiutarci ad esempio a comprendere i fattori per cui la stessa varietà di vite, allevata in ambienti molto differenti, possa avere caratteristiche molto diverse». Sempre in materia di viticoltura, gli occhi di molti operatori del settore in questo momento sono puntati su di voi perché sta per sbarcare sul mercato una novità importante… «Se nel 2007 abbiamo completato assieme a un gruppo francese il sequenziamento del genoma della vite, pubblicato su Nature, nel dicembre dello scorso anno abbiamo depositato al ministero delle Politiche Agricole la domanda di registrazione di dieci selezioni di uva da vino con geni resistenti alle malattie: varietà che possono essere coltivate senza l’impiego di pesticidi. Una novità forse senza precedenti. Le poche selezioni ottenute in passato con queste caratteristiche non erano risultate appetibili perché di scarsa qualità, mentre al Vinitaly gli enologi che hanno degustato in anteprima questi nuovi vini hanno espresso un giudizio molto positivo». Una scoperta che sembra avere tutte le carte in regola per generare un grande indotto economico. «Sì, un indotto che si riverserà nel territorio, con cui manteniamo un legame molto forte: abbiamo ceduto in esclusiva i diritti di moltiplicazione ai Vivai Cooperativi di Rauscedo, realtà con sede a Pordenone, leader mondiale nella produzione di piante da vite, che ha creduto nel progetto sostenendolo fin da subito. Siamo davvero orgogliosi di sapere che il frutto della nostra ricerca potrà portare un così grande beneficio per il territorio».
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Trasmettere la tecnologia: il modello Oxford Ospitiamo l'intervento sul trasferimento tecnologico di Tim Cook, uno dei fondatori di Isis Innovation, società dell'Università di Oxford nata con lo scopo di promuovere il trasferimento tecnologico, e ospite del Galileo Innovactors Festival 2014. DI TIM COOK
Un’attività “cross-culturale” Trasferire tecnologia dall’università all’impresa è a tutti gli effetti un’attività “cross-culturale”. Per avere successo, chi si dedica a quest’attività deve capire profondamente entrambe le culture: chi avvierebbe mai un’attività con un greco o un tedesco senza comprenderne la cultura? Lo stesso dovrebbe accadere con il trasferimento tecnologico. In un laboratorio universitario, le attività sono prevalentemente autogestite: ciò che si farà domani è influenzato da quanto si è scoperto ieri; nel mondo accademico, la carriera dipende dalla qualità e dalla quantità di pubblicazioni. Lavorare in un laboratorio universitario è come viaggiare senza cartina. In un’impresa, invece, ogni persona esegue i compiti stabiliti dal business plan: il responsabile delle vendite non può vendere ciò che non viene prodotto. In un’impresa, si deve rendere conto agli azionisti di quanto è stato fatto individualmente e le informazioni “di valore” sono riservate. Per un imprenditore, un ricercatore “promette, ma non mantiene”; per il mondo accademico, invece, gli imprenditori sono quelli che “rubano le idee”. È evidente la separazione tra i due mondi, così come è chiara la necessità di trovare una soluzione per riavvicinarli. All’Università di Oxford abbiamo affrontato il problema coinvolgendo professionisti rispettati in entrambi i mondi: ex ricercatori che avessero lavorato anche nell’impresa. Si pensa spesso che chi lavora all’interno dell’università possa velocemente imparare il lessico imprenditoriale; secondo me, però, chi ha vissuto a Shanghai sa qualcosa in più della città di chi ne ha semplicemente letto in un libro. Lo stesso avviene con il mondo dell’impresa. Le due culture sono “perpendicolari”, perché mancano di proiezione reciproca. Se si fa parte dell’asse della ricerca, è difficile comprendere in modo preciso le sfumature del mondo imprenditoriale, e viceversa. La linea diagonale è quella del “mediatore bidimensionale”, perché si proietta su entrambi gli assi: l’intermediario fa leva sulla propria credibilità in entrambi i mondi e li convince che i rispettivi pre-giudizi sono in realtà dei giudizi errati. Si viene così a scoprire che nel mondo accademico si lavora sodo e si raggiungono i risultati sperati; e i ricercatori si rendono conto che gli imprenditori sono onesti e hanno idee e dotazioni da utilizzare. Il Modello Oxford A Oxford abbiamo intrapreso questa strada 17 anni fa e i risultati sono incoraggianti. L’Università di Oxford ha avviato i primi insegnamenti nel XII secolo e l’attività di ricerca scientifica nel XVIII secolo: si tratta, dunque, di due ambiti ben consolidati. Benché il trasferimento informale di conoscenze sia pratica comune sin dalla fondazione dell’Università, fu solo nel 1988 – con la fondazione di Isis Innovation, società di trasferimento tecnologico di cui l’Università possiede il 100%
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delle azioni – che questa pratica vide una sua formalizzazione. Un’attività relativamente recente, dunque, per un’università tanto antica. Il modello Oxford si fonda su questi elementi chiave: 1. sviluppo di una chiara politica di proprietà intellettuale: l’università è proprietaria di tutte le scoperte realizzate dal proprio staff e nei propri laboratori; 2. coinvolgimento di persone che abbiano le abilità cross-culturali di cui sopra; 3. definizione di un sistema meritocratico che premi i ricercatori che prendono parte ad attività di trasferimento tecnologico, brevettazione, licensing, creazione di spinoff e consulenza personale. Il primo punto è forse il meno importante, perché l’efficacia del processo di trasferimento tecnologico dipende soprattutto dalla volontà delle persone: l’università può anche detenere tutti i diritti di proprietà intellettuale, ma se i ricercatori non hanno fiducia in chi si occupa del trasferimento tecnologico, non ci sarà mai vera collaborazione e ben poca tecnologia verrà trasferita. A partire dal 1997 – anno in cui l’Università ha iniziato a investire nel settore della brevettazione – lo staff di Isis Innovation è passato da 4 a 90 persone. Nell’anno finanziario che si chiude a marzo 2014, Isis ha investito 3.1 milioni di sterline (3.8 milioni di euro) del budget dell’Università in 92 brevetti e ne ha guadagnati 6.8 milioni (oltre 8.3 milioni di euro) in diritti d’autore e consulenze, che l’università ha condiviso con i ricercatori. Isis Innovation ha sostenuto la creazione di 8 spinoff e ha raccolto 19 milioni di sterline (circa 23,2 milioni di euro) in finanziamenti traslazionali. Gli investimenti nei brevetti sono le uniche uscite dell’Università: Isis Innovation finanzia il trasferimento tecnologico trattenendo il 30% dei diritti d’autore, il 7.5% delle consulenze e una quota dei ricavi provenienti dalla cessione degli spinoff. Questo diagramma rappresenta le spese di brevettazione, in blu scuro, i relativi ricavi (che vengono condivisi con i ricercatori) e il guadagno finale di Isis, di circa 14,5 milioni di sterline (17,8 milioni di euro). Per raggiungere questo traguardo, è opportuno ricordare che l’università ha dovuto stanziare investimenti pluriennali per lo sviluppo di una strategia di brevettazione. Strategie per il Trasferimento Tecnologico Per un’azienda che si occupa di trasferimento tecnologico, la fiducia dei ricercatori è l’asset più importante. Stabilire e mantenere un rapporto duraturo con il mondo della ricerca richiede impegno costante affinché vi sia, ogniqualvolta emerge un’idea commercializzabile, un canale di comunicazione già aperto e la necessaria fiducia che chi si occuperà del suo trasferimento tecnologico lo faccia in modo competente e rispettoso. È quindi fondamentale che l’ufficio di trasferimento tecnologico coinvolga persone competenti dal punto di vista scientifico e capaci di costruire questo tipo di legami. È altrettanto necessario che si riservino sforzi e tempo per la promozione del trasferimento tecnologico all’interno dell’università, attraverso campagne email, newsletter, articoli su riviste, siti web, convegni, brochure, attività di formazione sulla proprietà intellettuale, radio, tv e quotidiani locali, media nazionali. Chi si occupa di trasferimento tecnologico deve essere parte attiva della vita accademica, partecipare ai seminari di dipartimento, ai momenti conviviali di facoltà: in breve, bisogna vivere nello stesso mondo in cui vivono i ricercatori. È evidente che questo approccio sociologico sia il fattore più critico per sviluppare con successo un sistema di trasferimento tecnologico. Quando si ha a che fare con ricercatori universitari, è necessario applicare un approccio manageriale diverso da quello solitamente in uso all’interno di un’impresa, dove gli impiegati sono selezionati da manager e dove lo svolgimento dei propri compiti individuali è un fattore chiave per il successo dell’azienda. In un gruppo di musica pop, invece, sono i cantanti che selezionano i manager, la cui funzione è specificamente prendersi cura di tutto ciò che compete l’attività performativa dei cantanti. Se si adottasse questo modello al management delle “superstar” accademiche si otterrebbero dei risultati diversi: chi si occupa del trasferimento tecnologico deve essere “amico dei ricercatori” e non fare il “cane da guarda della proprietà intellettuale”. Le stesse strategie di marketing devono essere applicate anche all’esterno dell’università; al tempo stesso, è necessario creare relazioni costanti con le aziende e lanciare continui stimoli sui benefici che potrebbero derivare dalle ricerche che vengono sviluppate all’interno dell’università. Si sviluppano così partnership a lungo termine, benefiche sia per le aziende sia per i ricercatori. Spinoff accademici Se dall’ambito della consulenza e della brevettazione si sposta l’attenzione a quello degli spinoff, bisogna tenere in considerazione un terzo asse: al mondo dei ricercatori e a quello degli imprenditori, se ne aggiunge uno diverso, quello degli investitori. Se ricercatori e manager operano generalmente all’interno di una singola organizzazione, gli investitori sono outsider con interessi diversi in diverse realtà. Se l’attenzione di ricercatori e manager è solitamente focalizzata su un singolo progetto alla volta, gli investitori gestiscono normalmente un portfolio di progetti. I ricercatori – “quelli che viaggiano senza cartina” – non sanno quale strada andranno a percorrere. I manager sono pezzi di un ingranaggio. Gli investitori, invece, valutano molte idee, investono in alcune, e poi controllano la loro performance. Di fronte a un problema, il ricercatore trova una strada alternativa, il manager lo risolve, l’investitore vende e passa al progetto successivo. Sono tre tipologie diverse di persone, con abilità e comportamenti diversi. L’asse degli investitori è perpendicolare sia a quello dei ricercatori che a quello degli imprenditori; nessuno dei tre assi si proietta sull’altro. Di conseguenza, il team di trasferimento tecnologico dovrà impiegare persone che – oltre a sapere come funziona il mondo della ricerca e quello dell’impresa – abbiano anche familiarità con il http://www.veneziepost.it/stories/home_venezie_post/33583_trasmettere_la_tecnologia_il_modello_oxford/#.U5Wlmfl_v1Y
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linguaggio e il sistema di valore degli investitori. I famosi mediatori “tridimensionali”. Sono tre i sistemi di valore coinvolti: non averne consapevolezza può essere fatale per un’azienda. Cambiamento culturale I fattori che determinano l’impatto di una strategia di trasferimento tecnologico sull’economia di un territorio sono tre. In primo luogo la cultura imprenditoriale dei ricercatori: si relazionano in modo costruttivo con l’ambiente commerciale che li circonda? Segue l’atteggiamento dei leader accademici: l’attività di trasferimento tecnologico è per loro cruciale affinché l’università svolga il ruolo sociale che le compete e le dedicano tempo e risorse? Infine, il contesto professionale e imprenditoriale: le aziende locali, i professionisti e i politici vedono il sistema universitario come una componente cruciale per la prosperità del territorio? Gli dedicano tempo e risorse? È solo dall’integrazione di questi tre fattori che un territorio può trarre il massimo beneficio dal suo sistema universitario. L’università e il mondo accademico costituiscono una sottocultura all’interno di una più ampia “economia del baratto”. Se la funzione primaria dell’università è la “creazione, salvaguardia e disseminazione della conoscenza”, essa deve anche garantire che i risultati del suo lavoro siano trasmessi - nel modo più ampio possibile - alla società che li finanzia.
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ANALISI Trasmettere la tecnologia: il modello Ox ford di Tim Cook
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Dalle idee alla fabbrica, via ateneo Il ruolo ideale degli uffici di Trasferimento tecnologico nelle Università tra consulenza, supporto agli innovatori universitari e partnership con le imprese. Cosa possiamo imparare dagli altri: nel Michigan, gli ex studenti rimasti in contatto diventano i primi sostenitori delle start-up DI FEDERICA DESTRO
Nell’attuale scenario competitivo internazionale si è creato un divario tra le aree economiche capaci di interpretare i cambiamenti come delle opportunità e quelle che ancora non ci riescono. La competitività di un sistema economico è sempre più correlata alla sua capacità di generare innovazioni e trasferirle al sistema produttivo da una parte, e l’attitudine delle imprese stesse nell’utilizzarle per la soddisfazione della domanda per consumi e investimenti dall’altra. Un clima fortemente orientato all’innovazione è l’elemento base su cui poggia la creazione di nuove imprese, nonché la rigenerazione del tessuto delle piccole e medie imprese. A questo scopo, è importante creare un ecosistema imprenditoriale integrato che preveda una fitta rete di collaborazioni: (1) tra le aziende e l’università, dove le prime possono fornire finanziamenti privati alla ricerca e la seconda procurare al sistema imprenditoriale le ultime innovazioni tecnologiche e capitale umano di alto livello; (2) tra piccole e medie aziende e grandi multinazionali, dove le prime godono della flessibilità necessaria per sperimentare prodotti e processi pensati per nicchie di mercato che cercano e prediligono la personalizzazione e un servizio dedicato ed attento, e le seconde approfittano dei benefici delle economie di scala per ottimizzare l’industrializzazione e la distribuzione dei prodotti indirizzati al mass market. Il processo di trasferimento tecnologico si inserisce nel primo punto, ovvero la collaborazione tra le aziende e l’università, in quanto è il processo che si origina nel momento in cui si valorizza in maniera economica una scoperta o un’invenzione avvenuta nell’ambito della ricerca universitaria. Le università negli ultimi vent’anni, infatti, sono state chiamate ad intraprendere, oltre alla ricerca e alla formazione, la valorizzazione dei risultati delle ricerche condotte in laboratorio. Le ragioni di questa “chiamata” sono molteplici, e vanno dagli evidenti benefici economici (i guadagni provenienti dalle licenze dei propri brevetti delle prime dieci università americane sono pari a 700 milioni di dollari), alla possibilità di accedere a fondi per lo sviluppo. Inoltre, la capacità di generare prodotti propri e competere globalmente come istituzioni od ospedali alimenta la capacità di attrarre i migliori professori e studenti, in un legame che unisce indissolubilmente il loro nome e prestigio all’università e viceversa. Il ruolo del Technology Transfer Office: ''pesare'' le invenzioni I ruoli degli uffici di trasferimento tecnologico in questo processo sono molteplici, e iniziano con la sensibilizzazione del mondo accademico in materia di protezione della proprietà intellettuale per renderlo consapevole delle potenzialità commerciali della propria ricerca e del valore sociale generabile. Secondo la normativa sulla proprietà intellettuale, infatti, l’invenzione è brevettabile soltanto se i
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risultati della ricerca che l’ha originata non sono stati precedentemente pubblicati. La questione è più rischiosa di quanto si possa pensare, dal momento che il sistema di incentivazione attuato in ambito accademico è nella maggior parte dei casi orientato alla pubblicazione, misurando le performance dei ricercatori sulla base di indici di quantità e qualità degli articoli pubblicati nelle riviste scientifiche: da cui il paradigma culturale public or perish. Nel momento in cui un professore o un gruppo di ricerca riportano un’invenzione, gli uffici di trasferimento tecnologico valutano il potenziale economico della scoperta e la fattibilità di una protezione intellettuale. In particolare bisogna domandarsi se c’è la giusta combinazione di innovazione tecnologica, bisogno di mercato insoddisfatto e persone. Per valutare l’innovazione tecnologica, si decostruisce l’innovazione per capire esattamente quali sono i suoi componenti, cosa fanno e cosa permettono di fare. In questo processo è necessario raccogliere e organizzare il maggior numero di informazioni in maniera organica: dai colloqui strutturati con gli inventori e gli esperti, a tutti i materiali che vengono raccolti (white papers, presentazioni, brevetti, etc.), alle informazioni provenienti dalle ricerche sul web e attraverso le persone. Mentre si analizza la tecnologia, l’obiettivo è cercare di rimuovere tutti i pregiudizi e i preconcetti e andare all’essenza dell’innovazione, provando a descriverne soprattutto gli effetti. La valutazione funge da guida per le scelte strategiche successive, e può anche portare ad una ridefinizione dell’invenzione originaria per incrementarne il potenziale economico. Un fattore che gli inventori spesso sottovalutano, ma che in realtà incide sulle reali possibilità di successo, è l’investimento in tempo e denaro per un ulteriore sviluppo (ad esempio, la validazione o la prototipazione), in altre parole quantificare le risorse finanziarie, umane e infrastrutturali necessarie per una valorizzazione interna finalizzata a migliorare la posizione contrattuale nel momento in cui si presenta l’innovazione all’esterno. Una volta verificate le potenzialità dell’innovazione tecnologica e la brevettabilità dell’invenzione, s’instaura in parallelo la fase di protezione. Il secondo contributo che gli uffici di trasferimento tecnologico forniscono è misurare la dimensione del mercato potenziale e la crescita del settore di riferimento. Questo è un tema molto delicato, per diverse ragioni. Molto spesso gli inventori non riescono a mettere a fuoco quali sono i vari target di potenziali clienti, cosa cercano e quanto sono disposti a pagare, con la conseguenza che risulta difficile allocare in modo oculato gli investimenti necessari per completare lo sviluppo della tecnologia. In secondo luogo, quando ci si interfaccia con il mondo esterno al laboratorio di ricerca, si deve usare un lessico diverso da quello scientifico, meno centrato sulle caratteristiche che rendono unica l’invenzione e più orientato ad evidenziare il valore che il prodotto/servizio genera per il cliente. Questo shift è tutt’altro che semplice e l’intervento dei professionisti del trasferimento tecnologico è essenziale. Last but not least, le persone. La commercializzazione di una tecnologia richiede il costante supporto tecnico degli inventori nelle fasi di redazione dei documenti per proteggere la proprietà intellettuale e per valutare il potenziale della tecnologia. La loro tacit knowledge, il loro impegno nel trasferirla e la continua interazione con la controparte tecnica all’interno dell’azienda partner, risultano indispensabili. Nella fase di commercializzazione, per gli inventori gli scenari possibili sono molteplici: si va dalla cessione di brevetti o licenze ad altre imprese senza avere alcuna voce in capitolo nella gestione, passando per la consulenza scientifica come membri nell’advisory board di tali imprese, per arrivare alla partecipazione diretta nella società dal punto di vista del capitale e del team direttivo. In questa fase, il ruolo del trasferimento tecnologico è più defilato, ma ritorna ad essere incisivo nel momento in cui si opta per la costituzione di una start-up technology/science based per valorizzare l’invenzione. Questa soluzione è la migliore possibile in presenza di alto rischio, potenziale di sviluppo di più prodotti dalla stessa tecnologia, vantaggio competitivo e mercato target sufficientemente rilevanti, ricavi potenziali sufficienti a sostenere la crescita di un’impresa. È noto che il tasso di sopravvivenza di queste esperienze imprenditoriali non è sempre elevato. In realtà, non ci sarebbe da stupirsi, perché siamo di fronte a progetti innovativi, e quindi rischiosi. Tuttavia, una parte non trascurabile degli insuccessi dipende dal fatto che non c’era il team giusto. Cosa fare per superare questo problema? Un database per il successo Un’azione progettata in modo specifico per rispondere a questa domanda è stata realizzata dal Tech Transfer dell’University of Michigan, che dal 1982 ad oggi ha portato questo ateneo tra le dieci migliori degli Stati Uniti per numero di licenze e spinoff da ricerca originati ogni anno. Si tratta senza dubbio di una buona pratica, visto che il tasso di sopravvivenza delle imprese è dell’88,6%. L’ufficio trasferimento tecnologia ha creato il Catalyst Resource Network, ovvero una rete sociale di contatti, quali esperti di settore, dirigenti ed imprenditori, interni ed esterni all’Università del Michigan, potenzialmente utili come catalizzatori per il processo di trasferimento tecnologico. La rete si appoggia alla vasta e attiva associazione di Alumni dell’Università del Michigan, costituita da oltre 450.000 persone, la quale preserva il legame con l’università di provenienza e favorisce lo scambio di risorse, informazioni e opportunità di carriera. L’ampio numero di contatti si concretizza nella gestione continua di un database da parte di un responsabile del servizio, il cui obiettivo prioritario è garantire un accesso immediato a risorse umane critiche (definiti talenti) in caso di posizioni scoperte o necessità di consulenza rapida e focalizzata. Il database consiste in oltre un migliaio di contatti, catalogati in cinque profili a seconda delle competenze detenute, dell’interesse personale e del tempo disponibile di ciascun soggetto: 1) Mentor: http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33569_dalle_idee_alla_fabbrica_via_ateneo/#.U5WnDPl_v1Y
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offre assistenza continuativa ad una o più startup; 2) Esperto: offre consulenza rapida e saltuaria allo staff del servizio; 3) Consulente: contattato per collaborare nella commercializzazione; 4) Potenziale manager: candidato alla leadership in una futura startup; 5) Studente: offre assistenza in uno specifico progetto sotto supervisione del servizio. La categoria che conta maggiori contatti è quella degli esperti, in quanto consiste in un ruolo non impegnativo in termini di tempo e risorse e quindi accessibile a molti. I contatti ad alto potenziale, come i mentor e i potenziali manager, sono per contro più rari e preziosi. La rete di relazioni permette a molte piccole e medie imprese di alimentare lo sviluppo. La rete offre l’accesso ad un maggior numero di risorse che vanno ad incrementare il capitale dell’azienda: lavoratori, mercati di vendita, finanziamenti, nuove istituzioni e progetti che aiutano l’impresa, nuovi fornitori. Semplicemente, la rete crea maggiori opportunità. Le persone sono i nodi strutturali di queste reti, che quindi acquisiscono valore non solo per le loro conoscenze e abilità, ma anche in funzione del loro network, che deve essere ampio, globale, capace di fornire modi di ragionare nuovi e prospettive diverse che siano l’humus della creatività. Essere collegati a queste reti globali permette di acquisire la padronanza di linguaggi, e per far ciò conta molto la formazione e le esperienze che si sono fatte.
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Il paradigma dell’“innovazione aperta” formalizzato dall’americano Henry Chesbrough (2003) - si è affermato all’interno delle grandi realtà industriali come il modello di riferimento dell’innovazione. Il modello tradizionale viene definito per contrapposizione “innovazione chiusa”. I prodotti e i servizi sono sempre più sofisticati e le imprese (anche la grandi) non sono più in grado di presidiare tutte le tecnologie che entrano a far parte di un prodotto/servizio. Il modello tradizionale della Ricerca & Sviluppo è superato: la Ricerca è sempre più brokeraggio di conoscenza esterna, mentre lo Sviluppo si configura sempre più come ricombinazione di conoscenze esterne ed interne.
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Le piccole imprese del Nordest sono state le prime a capire che il futuro passa dalla raccolta di conoscenze al di fuori della propria struttura. Una capacità di connessione che genera nuove figure professionali e che, nonostante gli scarsi investimenti in ricerca, mantiene il sistema su buoni livelli di competitività e innovazione
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Dalla ''Ricerca & Sviluppo'' alla ''Connessione & Sviluppo'' Il superamento di un modello classico di Ricerca & Sviluppo porta ad un incremento di conoscenza sempre più fondato su sorgenti esterne; all’interno viene svolta l’attività chiave di “connessione” della conoscenza. La conoscenza esterna viene cioè riconosciuta, internalizzata e ricombinata. Per dirla con uno slogan, come l’“innovazione chiusa” è basata sulla Ricerca & Sviluppo (R&S), così l’“innovazione aperta” è basata sulla Connessione & Sviluppo (C&S). Oggi innovare significa soprattutto mutuare da un grande numero di attori esterni contributi significativi, metterli insieme, in una parola “connettere” conoscenze esterne e interne. Il dispiegamento del modello di Connessione & Sviluppo richiede quindi ai team interni di attivare due processi fondamentali. Il primo è l’acquisizione di conoscenza distribuita esternamente presso centri di ricerca (quali università e istituti specializzati) e altri soggetti come fornitori, consulenti, laboratori di prove e misure, enti di certificazione, aziende di settori diversi, consorzi, clienti, comunità di pratica, comunità di interesse, concorrenti ecc. L’acquisizione può essere regolata da contratti o accordi di cooperazione, oppure essere il risultato di semplici interazioni. Questo processo prevede il coinvolgimento di una grande pluralità di attori. Il secondo processo fondamentale è quello della connessione della conoscenza interna con quella proveniente dall’esterno, in una ricombinazione il più possibile unica e discontinua. L’approccio dell’innovazione aperta assegna un ruolo notevolmente diverso alla funzione di R&S. Generare nuove idee, conoscenze e soluzioni tecnologiche non costituisce più il compito fondamentale della R&S. In un panorama caratterizzato dalla presenza e dalla continua crescita di conoscenza distribuita, il nuovo ruolo della funzione R&S è quello di riuscire a connettere e ricombinare tutte le conoscenze presenti esternamente all’azienda. In questo senso i ricercatori diventano sempre più dei broker della conoscenza, con l’obiettivo di valorizzare la conoscenza distribuita.
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Innovare significa quindi mutuare da un certo numero di attori esterni contributi significativi, metterli insieme, collegare competenze esterne ed interne. Un ruolo fondamentale nell’ambito della connessione è il technological gatekeeper. Ashton et al. (1996) sottolineano come spesso il successo delle attività dipenda proprio dai gatekeeper che raccolgono le informazioni, eseguono uno screen selezionando quelle chiave e infine le disseminano nel network interno. Un gatekeeper è un professionista che capisce il bisogno di nuove conoscenze delle funzioni interne e gli obiettivi dell’azienda, frequenta ambiti scientifici e tecnologici, ha un vasto network di contatti esterni, possiede elevate skill di comunicazione e porta informazione all’interno dell’azienda (Rothwell, 1992). Le imprese non si limitano a favorire l’utilizzo della conoscenza esterna per le proprie innovazioni (inbound open innovation), ma prevedono anche accordi commerciali per la condivisione della propria conoscenza interna verso l’esterno (out-bound open innovation). Geox: un esempio di innovazione aperta Il modello dell’Open Innovation è alla base dell’attuale successo di molte imprese che hanno saputo modificare i propri processi tradizionali di R&S per favorire una sempre maggiore capacità di integrare all’interno conoscenza e tecnologie acquisite all’esterno. Un esempio eclatante è rappresentato dalla Geox di Montebelluna. Il suo fondatore, Mario Moretti Polegato, ha acquisito commercialmente una tecnologia, quella della membrana traspirante, già sviluppata per altri scopi dalla NASA, e l’ha brevettata per uso industriale applicandola al settore calzaturiero. Il brevetto Geox - che rappresenta un cambiamento radicale per l’industria della calzatura - proviene però da una tecnologia già nota da anni in ambito aerospaziale. Il grande successo di Geox non deriva dunque dallo sviluppo interno di una nuova tecnologia, quanto piuttosto dall’aver saputo “fare connessione” tra una tecnologia già esistente, la conoscenza interna e un bisogno latente del mercato: quello di una calzatura in grado di mantenere il piede asciutto. Innovazione senza ricerca? Un paradosso apparente Per chi come noi vive in un territorio dove la stragrande maggioranza delle imprese è piccola e piccolissima, una domanda è d’obbligo: l’affermazione del modello Open Innovation nelle grandi corporation che implicazioni ha per le microimprese? Per le grandi realtà industriali il superamento della Ricerca & Sviluppo a favore della Connessione & Sviluppo rappresenta effettivamente una grande discontinuità rispetto al passato. Per quanto riguarda le imprese di dimensione minore invece, riteniamo che il modello della Open Innovation rappresenti, meglio di altri, le modalità con cui le piccole aziende hanno sempre innovato e continuano ad innovare. Paradossalmente ci verrebbe da affermare che, nella formulazione dell’Open Innovation, le grandi imprese si siano ispirate a modelli da sempre declinati nelle imprese minori. Per una volta le microimprese sembrano avere anticipato i grandi gruppi industriali nelle strategie di sviluppo della conoscenza. In tal senso i veri “pionieri” della Open Innovation sono state le imprese minori, costrette in questi sentieri inesplorati da risorse insufficienti e da limiti strutturali. Pionieri che hanno intuito, prima delle grandi corporation, i vantaggi derivanti dalla presenza di un gran numero di attori esterni detentori di conoscenza. La dimensione ridotta di tali realtà industriali, infatti, ha sempre precluso loro la possibilità di fare innovazione investendo ingenti risorse in strutture di R&S interne. Al contrario, la disponibilità di conoscenza esterna ha spinto le microimprese a guardare direttamente laddove la conoscenza risultava già disponibile. Come nei processi evolutivi dove i passaggi risultano molto stretti, così nelle piccole e piccolissime imprese l’innovazione si è evoluta seguendo un modello quasi “obbligato”, fondato sul presidio dei contributi esterni, declinando inconsapevolmente il principio della Connessione & Sviluppo. Le aziende fortemente innovative sono quelle che, seguendo un approccio “aperto”, si preoccupano di creare connessioni con i possessori della conoscenza che stanno al di fuori dei confini della propria organizzazione. Più un’azienda è in grado di mettere in relazione strutture esterne, più essa riesce ad intercettare differenti flussi di sapere, informazioni e quindi a creare nuove opportunità. La capacità delle nostre imprese di innovare mutuando la conoscenza dovunque essa si generi (anche presso laboratori esteri di ricerca, come nel caso citato della Geox) spiega il noto paradosso dell’“innovazione senza ricerca”. Alcuni modelli di approccio all'innovazione aperta Il modello della Open Innovation si dispiega attraverso numerosi e differenti approcci. Nella letteratura specializzata ne sono citati molti. Nelle imprese di dimensioni minori gli approcci potenzialmente implementabili sono in numero più limitato. Tra questi citiamo il brokeraggio tecnologico; la partnership con fornitori di tecnologie di processo e di materiali che rappresentano un’autentica porta d’accesso all’innovazione; la partnership con i clienti a valle che costituiscono un bacino da cui trarre idee, conoscenza, opportunità; le collaborazioni di ricerca che consentono di portare all’interno dell’impresa conoscenza, metodi ed esperienze scientifiche significative; la possibilità di usufruire di servizi quali misurazioni, prototipazioni, test di laboratorio e certificazioni, di utilizzare tecnologie e strumentazioni avanzate; la partecipazione a corsi di formazione avanzata e a momenti di divulgazione scientifica; le relazioni con le comunità di pratica e le comunità di interesse che permettono ai lavoratori l’aggiornamento delle competenze professionali, la condivisione di esperienze acquisite sul campo, la risposta a problemi inerenti l’esercizio della propria attività; la collaborazione nella competizione, ovvero la creazione delle condizioni per stipulare accordi, http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33570_i_pionieri_dellinnovazione_aperta/#.U5WnIPl_v1Y
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anche se parziali, con concorrenti effettivi o potenziali: la ricerca di cooperazione con i concorrenti anche se in ambiti specifici - può trasformare una minaccia in una opportunità. A supporto della Open Innovation sono disponibili una serie di strumenti consolidati come acquisizione o cessioni di brevetti o licenze, accesso a banche dati, acquisizione di procedure da normative, partecipazione a fiere, utilizzo di venture capitals ecc. La declinazione dell’innovazione aperta nella piccola azienda comporta la contemporanea presenza di differenti approcci sopra descritti, in un mix e in una proporzione distintiva per ogni singola organizzazione. In altre parole, come ogni impresa delinea un proprio modello di business, così ogni impresa configura un proprio modello di innovazione aperta. Il ruolo degli attori del trasferimento tecnologico Il principio della Connessione & Sviluppo, concetto su cui si fonda la Open Innovation, presuppone un altro principio fondamentale: il principio dell’apertura. Le imprese che intendono essere aperte alla conoscenza distribuita investono risorse nei “cancelli” di confine della propria azienda. Ma per connettere il sapere esterno esso deve essere visibile. Ecco che diventa essenziale che sul territorio siano presenti dei soggetti capaci di rendere riconoscibile la conoscenza. Soggetti che creino le condizioni per innescare l’identificazione, la selezione e la connessione: gli attori del trasferimento tecnologico. Essi hanno il compito di dare visibilità all’offerta di conoscenza stimolando e facilitando il processo di internalizzazione. L’interfacciamento di tutti i protagonisti della Open Innovation con il sistema delle imprese è una necessità strutturale, viste le dimensioni in gran parte piccole e piccolissime delle imprese italiane e del Nordest. Assume quindi un’importanza decisiva il potenziamento degli strumenti d’intervento volti a favorire il trasferimento della conoscenza al sistema imprenditoriale, soprattutto delle imprese minori. Questo processo di trasferimento risulta sempre più complesso in quanto spesso non si limita a trasferire un’innovazione incorporata in un dispositivo fisico, bensì configura lo sviluppo di un comune percorso cognitivo di apprendimento sul campo, coniugando il background tecnico-scientifico degli attori esterni con le esigenze specifiche e l’esperienza tecnica dell’imprenditore e degli specialisti aziendali. Il ruolo delle imprese Quanto più è elevato lo “stock” di sapere immagazzinato in un paese, tanto più significativo è il suo potenziale cognitivo e tecnologico. Tuttavia questo valore assoluto della conoscenza complessiva non è sufficiente a creare le condizioni per un suo sfruttamento industriale. L’azione decisiva spetta ancora una volta alle piccole imprese chiamate ad essere capaci di apertura prima e di connessione poi. L’abilità delle microimprese italiane nel connettersi al network di conoscenza distribuita è uno dei motivi per cui il sistema industriale – nonostante i livelli di investimenti in ricerca siano minori di un fattor tre rispetto ad altri Paesi industriali - sia ancora riuscito a mantenere un buon livello di competitività ed innovazione. Quando si dice “il potere delle connessioni”.
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ANALISI Trasmettere la tecnologia: il modello Ox ford di Tim Cook
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L’innovazione? È come un gatto Le idee che funzionano scardinano sistemi e consapevolezze acquisite, e per questo non sempre e non tutti le sanno cogliere e valorizzare. Ma da sole non bastano: bisogna farle entrare nel mercato, preparandosi con investimenti e visione al lancio definitivo, capendo il momento giusto per rischiare. Come quando il felino sta per spiccare il balzo DI ROBERTO SIAGRI
L'unica speranza che ha l'uomo di superare i limiti Malthusiani imposti alla crescita, dati dalla saturazione delle risorse di un sistema, è affidata alle nuove tecnologie. Grazie alla loro caratteristica di fare di più con meno, le nuove tecnologie permettono di continuare nello sviluppo sostenibile del pianeta. Questo secolo, in particolare, sarà caratterizzato da un progresso senza precedenti che permetterà di gestire la materia in maniera sempre più efficiente, riducendo sempre di più gli sprechi. Di fronte a un tale progresso, le sfide e i cambiamenti nei prossimi anni saranno tante: è necessario prepararsi mentalmente a vivere in uno stato di perenne crisi, nel senso di pronti e preparati al cambiamento, e dunque sempre alla ricerca del nuovo. Il libro di Alessandro Baricco "I barbari" è, secondo me, uno dei testi più lucidi sull'innovazione: leggendolo si comprende la velocità del cambiamento in corso e si coglie lo stimolo a non rimanere indietro, assecondando il cambiamento stesso senza cercare riparo da esso; anzi, trovando gli espedienti per farci trascinare il più velocemente in avanti. Senza dubbio le scoperte scientifiche prodotte dalla ricerca sono le principali artefici dello sviluppo in corso. Il problema è che la ricerca non produce necessariamente competitività, anzi: è facile trasformare denaro in ricerca, ma è difficile trasformare buona ricerca in denaro. Ecco allora che una delle domande fondamentali per un'economia avanzata è quella di come si attua il "trasferimento tecnologico", cioè è possibile come creare un sistema-paese che possa stare al passo con i tempi, adattandosi al cambiamento grazie al progresso scientifico, senza sprecare gli investimenti in ricerca. La ricchezza investita in ricerca porta persone intelligenti a nuove idee. Ma non sono le idee che portano a nuova ricchezza. È l'innovazione che parte da nuove idee che può andare a generare nuova ricchezza. Messi davanti all'idea del fuoco, gli uomini delle caverne probabilmente la identificarono innanzitutto come un problema, un fastidio, un rischio. C'è una bella differenza tra l'idea del fuoco e l'innovazione del fuoco. Senza dubbio ci sono più idee a caccia di innovazioni che innovazioni a caccia di idee. Quello che serve all'inventore è l'imprenditore shumpeteriano disposto a rischiare e investire sull'idea per innovare: è così che l'idea entra nel sistema economico. Essa acquisisce un valore per un gruppo di persone, una collettività, un mercato. Significa creare le basi di un sistema sociale che faccia in modo che l'investimento in innovazione sia produttivo, e che generi nuova ricchezza e dunque una nuova leadership economica e sociale. Seguendo la logica di Baricco, un innovatore è un barbaro perché rompe gli schemi. Innova per un mercato, e non solo per un cliente. Se innova per un cliente non ha propriamente innovato. L'innovatore, come il fenomeno barbarico, non è comprensibile con i vecchi schemi, le vecchie regole del mercato. Si muove lontano da queste per ricombinare ed interpretare la
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realtà e il mercato in una forma nuova. La logica che sta dietro a un'innovazione non è banale: una nuova innovazione all'inizio è spesso considerata de-umanizzante. Poi, se funziona, crea invece un’umanità migliore, più coesa, e finisce per cambiare ed “imporre” nuove regole e nuovi comportamenti. Innovazione e saturazione si trovano dunque insieme in questo discorso: comprendendo la logica di nuove innovazioni radicali, gli imprenditori innovativi riescono a superare il fenomeno di saturazione che ogni strato tecnologico comporta, permettendo l’avvio di un'altra curva di crescita e sconfiggendo così la saturazione, il tutto con un ritmo sempre più veloce e sempre di più ampia portata. L'azienda, messa davanti a questa dinamica, si trova in forte difficoltà: non è nella natura delle organizzazioni aziendali domare questo cambiamento continuo. L'intuizione fondamentale viene da Christensen, quando scrive che l'innovazione fallisce perché ancor prima che una nuova idea abbia visto la luce l'organizzazione l'ha già svuotata, inconsapevolmente, del suo potenziale disaggregante. In altri termini: in azienda si parla di Ricerca & Sviluppo. Ma Ricerca e Sviluppo sono come il diavolo e l'acqua santa. Rispondono a logiche totalmente diverse. Se la Ricerca oggi riesce a trovare un’idea che porta ad un nuovo modello di sviluppo, in grado di far fare un salto in avanti verso un nuovo ciclo, lo Sviluppo e l'organizzazione tenderanno a conservare lo status quo, arginando il potenziale dell'idea dentro a schemi già noti e che appartengono al ciclo tecnologico che l'organizzazione sta in quel momento sfruttando. Perché cambiare un prodotto che funziona? Se i prodotti vendono, se i clienti comprano, perché cercare nuove strade? Il rischio della saturazione è sempre dietro l'angolo, ma il desiderio di conservare e di non lasciare la strada vecchia è sempre molto forte. Molto spesso la convinzione a cambiar strada arriva troppo tardi: i ritmi di crescita di un nuovo ciclo sono all’inizio lenti, ma durante questo primo periodo i soggetti che già si sono mossi stanno facendo investimenti importanti, spesso difficilmente replicabili da chi è rimasto indietro. È il gatto che punta: sta preparando muscoli e postura per essere pronto al balzo. Quando il tasso di crescita improvvisamente accelera, vuol dire non solo che il mercato è pronto e sta accogliendo la nuova idea, ma che essa è stata incubata e tradotta in un'innovazione che piace, che convince, che scardina lo status quo. È il balzo del gatto. Da un punto di vista organizzativo il problema non è banale: da un lato l'azienda deve coltivare i mercati presenti, dall'altro deve necessariamente investire nell'incubare nuove idee senza dissanguare l'impresa o cannibalizzare la domanda corrente. Molti modelli organizzativi sono pensati per vendere ai soli clienti di oggi, per rispondere alle loro esigenze in maniera incrementale. Questo sistema che di sicuro porta al maggiore sfruttamento economico delle tecnologie incrementali non permette di distinguere l’emergere di trend radicalmente nuovi. Di fatto l'organizzazione spinge verso la saturazione: è il suo mestiere. All'interno dell'azienda deve invece convivere un sistema in grado di mettere insieme in maniera sinergica Ricerca e Sviluppo , "barbarie" e "civiltà". Le spinte provengono sia da dentro che da fuori, ad esempio dalle tecnologie di partner e concorrenti o dai progetti di ricerca di università con cui si collabora. Si potrebbe dire, semplificando, che da un lato l'azienda debba coltivare quell'innovazione incrementale "market-pull", che risponde alle esigenze dei clienti di oggi: in questo modo, rispondendo alle stesse logiche e dinamiche, l'azienda continua a dominare i mercati di oggi. Dall'altro lato, l'azienda deve sviluppare anche un'altra attitudine, che non è guidata dal mercato ma spinta dallo sviluppo "technology push", ovvero dalla sua capacità di guardare avanti, di anticipare il futuro. Non si tratta in questo caso di rispondere alle esigenze del mercato, ma di prevenire la tendenza alla saturazione identificando le nuove curve di crescita e stando pronti a fare il balzo. È un'innovazione radicale, su cui l'azienda investe oggi per i clienti di domani. Il punto centrale è l'interfaccia. Si potrebbe dire che la gestione del cambiamento ha sempre a che vedere con un problema di interfaccia: dato un nuovo fenomeno, è sempre fondamentale avere sotto controllo le “superfici” dove si manifesterà lo scontro con l’esistente. Nelle profondità i ricercatori stanno già lavorando su tanti aspetti che influenzeranno lo sviluppo futuro, ma è nella comprensione a livello delle interfacce, sulle superfici, che l'innovatore è in grado di sviluppare il nuovo mercato, tramite nuovi rapporti e strategie con partner, fornitori, clienti. Chi lavora in profondità deve essere messo in relazione con chi si occupa di superficie e di interfacce: più il mercato è lontano, più debbo andare a cercare alleanze. Allo stesso tempo, per comprendere le esigenze dei clienti di domani è molto utile riuscire a fornire input alla ricerca che provengono dall’anticipazione delle direzioni del cambiamento. L'azienda in questo non è sola, o almeno non lo è più, per tutta una serie di ragioni: di fatto, lo sviluppo tecnologico spinto negli ultimi decenni ha portato ad uno scenario in costante movimento e ci sono tanti diversi soggetti, in punti diversi del mondo, che possono interessare all'azienda. Ecco dunque che si è affermato un nuovo modo di pensare alla ricerca. La ricerca interna è più orientata verso un’attività anticipatrice. Particolarmente utile per la ricerca è la vicinanza con clienti-partner curiosi che possano essere i primi a sperimentare le nuove idee, cogliendo i vantaggi del first mover, ma conoscendone anche i rischi. Questo sistema di interfacce funziona solamente nel momento in cui l'ecosistema è “ricco” ovvero ha tanti soggetti che contribuiscono alla formazione di questa filiera dell’innovazione. Questa filiera è stata efficientemente spiegata all’interno del modello dell’ "Open Innovation". Per completare il quadro non bisogna dimenticare poi la psicologia degli umani, che http://mappe.veneziepost.it/stories/home_mappe/33571_linnovazione__come_un_gatto/#.U5WnLPl_v1Y
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porta a sbagliare quasi sistematicamente le stime sul tempo di sviluppo ed introduzione di una nuova tecnologia: davanti ad essa, sovrastimiamo le potenzialità a breve e sottostimiamo quelle a lungo. La regola inesorabile delle curve di crescita è che la fase iniziale di sviluppo è lenta, tremendamente lenta, e in questa fase dello sviluppo ci sono forti effetti di selezione; pochi, alla fine, sono i soggetti diversi che sopravvivranno. È difficile, impossibile tentare di ricreare questo ecosistema di profondo cambiamento all'interno di una singola azienda. È anche vero che le grandi aziende possono tentare di controllare questa fase osservando, stimolando, investendo sulla dinamicità dell'ecosistema. Quando finisce la benzina, la disillusione che segue l’iniziale grande entusiasmo, ovvero quando il gatto si ferma, è il momento in cui l'intervento può essere più decisivo, perché in questa fase serve la spinta per aiutare il gatto a spiccare il salto. È in questi momenti, quando tutto sembra non avere avuto successo, che il mercato di solito parte. In altri termini, le aziende possono anche rimanere un po' alla finestra, concentrate sul paesaggio senza esserne protagoniste, per lasciare che la selezione e la validazione seguano il loro corso in maniera autonoma, purché la finestra sia quella giusta. È il modello A&D (Aquisition & Development) che oggi va per la maggiore. Una volta che questo avviene, la tecnologia ha bisogno degli asset complementari, che le aziende attente non solo controllano, ma sono riuscite a manipolare e ri-orientare verso il nuovo bersaglio. Chiaramente, se il sistema economico in cui si muove l'azienda non è sufficientemente dinamico, o se non si guarda dalla parte giusta, rimanendo alla finestra non si osserva un bel niente, e quando il vento del cambiamento arriva è troppo tardi. Università e centri di ricerca costituiscono un asset importante per aiutare a spingere nella giusta direzione questo vento, di modo che all'esterno - ma nelle vicinanze - dell'azienda si crei quel ricco e diversificato portafoglio di traiettorie di sviluppo da osservare, lasciar crescere e al momento giusto sostenere. Ecco allora l’importanza di un tessuto sociale in fermento e l’importanza, per le aziende, di saper trovare spazi e tempi da dedicare alla riflessione e progettazione del proprio futuro, adottando adeguati strumenti per orientarsi dentro la complessità del futuro e monitorare i trend emergenti. Solo così si potranno sviluppare scenari di futuro alternativi, dentro ai quali identificare le opportunità di possibili futuri per il business. Per anticipare il futuro, quindi, oltre ai tradizionali modelli di previsione cosiddetti di “forecast ” – basati sulla proiezione in avanti delle esperienze passate – sono necessari approcci più avanzati che utilizzano logiche di anticipazione cosiddette di “foresight”, basate sull’individuazione dei trend emergenti.
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