Quel che resta di Oreste - riflessioni sull'eredita' dei collettivi italiani degli anni novanta -
Indice Introduzione
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Giancarlo Norese
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Cesare Pietroiusti
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Emilio Fantin
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Maria Rosa Sossai
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Salvatore Manzi
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Ringraziamenti
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Bibliografia consultata
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Introduzione Questa raccolta di interviste, il cui titolo vuole strizzare l’occhio a uno dei collettivi più interessanti nell’Italia di fine anni novanta, nasce da una personale riflessione sull’importante ruolo che assumono le relazioni nel mondo dell’arte. Reduce da una personale esperienza collettiva nel laboratorio “Quartapittura” dei docenti Ninì Sgambati e Franz Iandolo dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ho ritenuto stimolante contattare chi continua ancora a lavorare con queste modalità in Italia e in tempi in cui non si parla più di “correnti”. Riuscire a portare avanti operazioni di scambio con l’altro è una pratica fondamentale per chi vuole entrare in un circuito artistico: che si tratti di lavorare con gallerie private o di agire seguendo percorsi indipendenti, ai giorni nostri è diventato indispensabile tessere fitte reti di contatti; esigenza, questa, che si sta affermando sempre di più grazie e soprattutto all’esplosione di internet e di fenomeni come i social network. Proprio per mettere l’accento su come siano cambiati i modi di rapportarsi all’altro, ho deciso di intervistare attraverso mail e chat soggetti che, oltre a vestire il ruolo dell’artista o del curatore, si trovano anche a insegnare discipline artistiche e a dare molta importanza alla formazione e allo scambio reciproco del sapere. Nonostante la fine del progetto Oreste, avvenuta nel 2001 dopo cinque anni di attività, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti ed Emilio Fantin (rispettivamente insegnanti presso l’Accademia Carrara di Bergamo, lo IUAV di Venezia e il Politecnico di Milano) continuano ancora a basare le proprie ricerche sulle relazioni, immaginando soluzioni alternative per una fruizione dell’arte non vincolata ai sistemi economici e l’importanza che danno all’atto del donare e allo scambio porta a riflettere anche su come il concetto stesso di valore economico dell’opera d’arte possa venire messo in discussione. L’interesse principale di chi opera con questa pratica è quindi finalizzato al momento del confronto e all’esperienza stessa anziché alla vendita di un prodotto; organizzare conferenze e dibattiti o mettere in atto delle “semplici” azioni acquista dunque un valore aggiunto che difficilmente è paragonabile a episodi destinati invece a rimanere fini a se stessi. Il solo concetto di mostra, per esempio, può essere così visto sotto l’ottica di un dialogo aperto, da cominciare, invece che di un discorso chiuso e archiviato; a sostegno però di progetti simili è spesso necessario che si affianchi la figura di un curatore sensibile a queste esigenze e disposto ad appoggiare chi vede ostacolare, o direttamente negare, il proprio diritto di libertà di espressione. Nelle parole di Maria Rosa Sossai (docente presso il liceo artistico Giorgio De Chirico di Roma) si evince infatti non solo la consapevolezza di quanto sia costruttivo e prezioso collaborare con un artista, ma anche la determinazione a salvaguardare questi rapporti; il progetto “Censure e autocensura”, portato avanti con Cesare Pietroiusti, si focalizza infatti proprio su questo aspetto. Il parere di un curatore mi è sembrato indispensabile per offrire al lettore anche ulteriori chiavi di interpretazione; la conversazione con Maria Rosa Sossai tocca infatti anche i rapporti professionali con i musei e le difficoltà dei nuovi media a trovare posto nel mercato. 1
Della complessità nel farsi strada all’interno del sistema dell’arte ne parla anche Salvatore Manzi, giovane artista napoletano che, una volta concluso il periodo con Quartapittura e dopo l’esperienza con gallerie private, ha deciso dal 2005 di lavorare in maniera indipendente portando avanti una poetica legata al sociale. I suoi pareri sono comunque da tenere in considerazione perché espressione di un punto di vista diverso: da essi traspare infatti una sorta di diffidenza non solo nei confronti dei collettivi, ma anche del sistema stesso. La posizione radicale di Manzi lascia tuttavia spazio all’ipotesi di nuove forme di gestione economica dell’arte dai presupposti che, per quanto utopici possano sembrare, fanno comunque capo a situazioni concrete come quella dell’indipendenza non solo dell’artista, ma anche del curatore e delle altre figure del campo. Tutto ciò che ho riportato, dagli aneddoti personali alle ipotesi di economia immaginaria e, per finire, alla classica eccezione che conferma la regola, è dunque una testimonianza di come il “fare arte” nel nostro Paese è mutato nell’arco di solo una decina di anni.
Valerio Veneruso
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Giancarlo Norese VV: Che tipo di formazione artistica ha avuto? GN: Ho avuto una formazione artistica ortodossa, vale a dire un liceo artistico a Genova e un’accademia di belle arti a Milano; una formazione pubblica, congegnata in modo tale da far pensare che si possa vivere con l’arte. VV: Qual era la situazione artistica verso la fine degli anni novanta in Italia e qual è stata l’esigenza che ha dato il via al progetto “Oreste”? GN: Superato l’estremismo individualista degli anni ottanta, gli anni successivi hanno avviato il riconoscimento del “processo” come valore nelle arti visive, con l’affermazione delle pratiche teorizzate nel celebre saggio di Bourriaud sull’arte relazionale e, di conseguenza, anche gli artisti (che erano cresciuti di numero) hanno cercato di sottolineare l’idea che ci fosse una sorta di comunità, di responsabilità e di visibilità di una pubblica opinione dell’arte contemporanea nel contesto sociale. L’idea di Oreste era quella di affermare che gli artisti c’erano e avevano diritto di parola. Per quello “parlavano” attraverso Oreste. Ma i tempi non erano maturi. VV: Cosa è rimasto di Oreste? GN: Oggi che Oreste è morto e digerito, appare come un primo importante esperimento da ricordare. Nel giugno scorso a Bologna, su invito di due curatrici, si è tenuto un incontro (“Il Falso Oreste”) che nasceva inizialmente con l’idea di raccontare gli avvenimenti di quel periodo, per poi trasformarsi in un affollatissimo dibattito tra artisti, associazioni, docenti, operatori museali e curatori provenienti da contesti differenti. Tutte quelle persone, pochissime delle quali avevano avuto a che fare con Oreste per motivi anche anagrafici, sentivano tuttora l’esigenza e l’emergenza di “dover fare qualcosa” per far sentire la propria voce. Da quell’incontro è poi scaturita l’iniziativa di un messaggio collettivo al Presidente della Repubblica (che ha risposto il mese successivo) e di una serie di nuovi incontri pubblici che si sono tenuti, e si terranno ancora, in molte città italiane. VV: Perchè oggi non si parla più di movimenti artistici? GN: Perché ci sono i social network, le tag sui muri e sugli abiti firmati, le suonerie terapeutiche del cellulare, il consumo dello spazio pubblico e non si parla più della conquista dei pianeti. VV: Fare l’artista, ai giorni nostri, è ancora un “modo molto faticoso per evitare di lavorare”? GN: Dopo il design e la moda, anche l’arte va di moda, e dove c’è il denaro segue il riconoscimento sociale della sua funzione. VV: Cosa possono dare effettivamente le istituzioni e le residenze a un artista emergente italiano? GN: Lo stesso che agli artisti emergenti stranieri, solo che le loro istituzioni non sono colonizzate dalla (cattiva) politica.
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VV: Cosa ne pensa delle modalità educative dei workshop? GN: Nell'opera di un certo tipo di artisti non si fa distinzione tra realizzare un progetto, produrre un oggetto, fare un workshop, un viaggio o raccontare una storia in pubblico. Per chi vuole ascoltare ci sono più possibilità e occasioni, ed è una buona cosa. VV: Che ruolo hanno le Accademie di Belle Arti oggi? GN: Quelle italiane, di procurarsi a bassissimo costo una serie di professionalità che possano negoziare degli strumenti di conoscenza con una moltitudine di soggetti esposti a disagi infrastrutturali. VV: Quali competenze deve avere un docente per poter dare una giusta formazione artistica? GN: Deve sapere che non si può insegnare, si può soltanto imparare (come dice Antonio). VV: Che rilevanza ha e ha avuto l'arte della retorica? GN: Non saprei, sono troppo giovane per aver conosciuto Empedocle. VV: Che importanza dà all'atto del donare? Ha senso donare un'opera d'arte? GN: Il dono è tutto. Anche in questo momento sto donando qualcosa. Esiste pure il progetto “1hart”, per donare un'ora di arte a chi ne faccia richiesta. VV: L'atto del donare può essere più soddisfacente della vendita? GN: Dovrei convincere di questo il negoziante sotto casa, ma dovrei conoscere meglio la retorica. VV: Come si fa a dare un valore economico a un'opera d'arte? GN: L'opera d'arte vale tanto quanto si riesce a farsela pagare. VV: Perchè sentire il bisogno di farsi rappresentare da una galleria? GN: È come per un attore o uno scrittore avere un agente. Più comodo, soprattutto se funziona. VV: Si possono sovvertire i sistemi gerarchici del mercato? GN: Bisognerebbe essere molto ricchi, oppure pretendere che tutti donino invece di vendere.
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Cesare Pietroiusti VV: Ciao Cesare, comincio con una prima domanda che riguarda la tua formazione: come mai, dopo gli studi in campo scientifico, hai approcciato l’arte contemporanea? Pensi che questa scelta sia stata una normale conseguenza dei tuoi studi? Tutto sommato si tratta sempre di un’analisi sull’uomo e sulla sua condizione… CP: La scelta di fare medicina all’università era più dettata da motivi familiari (mio padre era medico) che da un reale interesse personale. La disciplina che più amavo, alla fine del liceo, era la filosofia. Mentre lo studio di medicina non mi ha mai impegnato troppo, il lavoro in ospedale, cominciato quando ancora ero studente, mi sembrava molto pesante. Quando ero verso la fine del corso di studi ho incontrato, per caso, un artista più grande di circa vent’anni, Sergio Lombardo, e seguendo lui, che forse mi intrigava all’inizio soprattutto come persona, ho lentamente scoperto l’arte contemporanea. Gli studi di psicologia e psichiatria a cui mi ero dedicato negli ultimi anni dell’università, specie per la mia tesi di laurea, credo comunque siano rimasti fondamentali, e lo sono tuttora, per il mio lavoro come artista. Pensa che la mia tesi di laurea era una tesi di “psicologia relazionale”... VV: Da qui l’idea di lavorare con gli altri? E’ così che è partito il progetto “Oreste”? CP: Beh, io ho cominciato a fare mostre nel 1977 e il progetto Oreste comincia nel 1997, quindi molti anni dopo, però direi che ho sempre lavorato con altri, anche se in modalità molto diverse. Il gruppo di giovani artisti intorno a Lombardo, di cui facevo parte anche io, e che si chiamava “Jartrakor”, era un piccolo gruppo molto coeso ma anche molto isolato, che si dedicava alla ricerca e allo studio. Oreste, invece, era un gruppo aperto, a cui partecipavano artisti con approcci molto diversi, e alla fine era soprattutto una proposta comunitaria di incontro aperta a chiunque volesse farne parte anche temporaneamente. VV: Secondo te perchè oggi non si parla più di movimenti artistici? CP: Buona domanda, credo che l’enorme diffusione delle informazioni e dei contatti personali che è stata consentita dall’elettronica e da internet ci costringa ad una riconfigurazione degli orizzonti anche relazionali e delle dinamiche di flusso, per così dire, delle idee e delle forze in campo. Probabilmente l’idea di “movimento” - e, ancora di più, quella di “avanguardia” - era legata ad una dimensione più lineare e “orientata”. La rete ci fa pensare in un modo più rizomatico e al limite disperso, in cui le forze non si coagulano ma al contrario si sciolgono e quindi si fa fatica a riconoscerne degli “agglomerati” o delle direzioni che possano essere seguite dagli altri. Però è probabile che a posteriori noi riconosceremo dei “movimenti”che oggi non vediamo chiaramente, sia come loro qualità che come loro modalità di essere. VV: Quindi a questo punto internet non aiuta veramente nelle relazioni? Quanto è importante oggi lo scambio di informazioni attraverso l’oralità? CP: Non è che non aiuta, è che cambia le modalità e forse soprattutto le quantità delle relazioni. 5
Io, per esempio, sulla mia agendina fino al 1998, diciamo, avevo forse cento indirizzi e numeri di telefono, adesso nella sola rubrica di posta di gmail, che è solo uno degli account che uso, ho più di tremila contatti. E’ del tutto logico che, ad una tale esplosione quantitativa, non può non corrispondere un cambiamento anche qualitativo. Per esempio le qualità “stilistiche” ma anche, indipendentemente dalla nostra volontà cosciente, i contenuti di questa intervista che tu mi stai facendo sono influenzati dal modo in cui la stiamo conducendo, e avremmo potuto scegliere fra diverse modalità, certamente quindici anni fa ne avremmo avute molte meno a disposizione. Per quanto riguarda l’oralità, direi che mentre prima era una dimensione “normale”, ordinaria, adesso è diventata una dimensione “speciale”, straordinaria, e quindi è importante valutarne la preziosità. Mentre leggevo la parola “oralità” nella tua domanda mi è venuto in mente l’oro… VV: Che importanza dai all’atto del donare? Ha senso donare un’opera d’arte? CP: Credo che ogni significato sia legato ad una dinamica di scambio, e forse anche che ogni scambio corrisponda a un qualche passaggio di senso. Il donare per me non è un fatto ideologico - donare è buono, vendere è cattivo. Non è questo il problema. Donare, vendere, barattare, distribuire, frammentare, ecc. sono tutte possibilità di scambio e a me interessano potenzialmente tutte. Il fatto è che mi interessa sperimentare modalità che non sono “normali”, mi interessa mettere in discussione le “norme” che regolano gli scambi di mercato, quindi il “vendere” un’opera, essendo una cosa così “normale”, mi interessa meno che il donarla. VV: Quindi la decisione di portare avanti una ricerca molto legata all’economia parte da questi presupposti? CP: Certo, l’economia è per noi, credo, ciò che la religione era per gli uomini del medioevo: un sistema immaginario, posto dall’uomo stesso in una posizione trascendente e “regolante”. Mi diverte pensare di rendere immanente questa trascendenza, portare le leggi del mercato, la loro pretesa validità universale, su un piano di immanenza. Inventare giochi economici diversi, fare dell’economia non un territorio di regole assolute, ma di giochi, di invenzioni, di libertà. Insomma, è quello che provo a fare... VV: Ma oltre a questo tuo modus operandi credi che l’opera d’arte e i soldi siano due elementi capaci di trasmutare le cose? CP: Trasmutare mi suona di alchemico... VV: Beh, alcune delle tue azioni possono ricordare le pratiche alchemiche... CP: Direi che il pensiero è in grado di fare ciò. La trasmutazione è un processo interiore, che procede parallelo a dei processi esterni, che alla fine sono sopratutto dei “diversivi” o degli inneschi, ma per funzionare da innesco un elemento deve essere portatore di significati potenziali, aperti, inconclusi. Le opere d’arte (in senso lato, non come merci) mi sembrano in questo funzionare assai meglio dei soldi. VV: Quindi qual è il tuo rapporto nei confronti del sistema dell’arte? Mi parli delle tue collaborazioni con i musei e in particolar modo del progetto che porti avanti con Stefano Arienti al MAMBO? CP: Credo che l’artista sia agente (nel senso che agisce, ma anche che è rappresentante) dello spostamento fra il dentro e il fuori dell’istituzione, e del sistema (dell’arte, o del sistema sociale in generale). Non si tratta di prendere posizione, ma di cambiarla. Nel caso del progetto realizzato al MAMBO con Arienti noi abbiamo ragionato proprio sulle possibilità di “uso” non ordinario del museo. Quindi, in Disponibilità della cosa il museo funge da garante di un patto giuridico-economico fra artisti e pubblico. Nel caso di Duemila disegni da portare via, il museo funge da “distributore” e da “moltiplicatore” dell’opera, 6
invece che, come di solito accade, di “conservatore” della sua unicità e immutabilità nel tempo. VV: Qual è il tuo rapporto con una città come Bologna? Arte e politica viaggiano sullo stesso binario? CP: Bologna... c’è un po’ di nostalgia, perché ricordo il convegno sulla repressione e il festival della performance del 1977 (non c’ero, però me li ricordo...), e soprattutto ricordo il clima effervescente di metà anni ‘90, specie intorno al Link. Quasi tutte le riunioni di Oreste si sono svolte, tra ‘97 e ‘99, a Bologna. Il convegno “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa” si è tenuto al Link. Poi credo che la città abbia vissuto una involuzione. Com’è la situazione odierna, francamente non saprei dire. Arte e politica in genere viaggiano su binari divergenti, i politici pensano all’arte contemporanea come un ulteriore strumento di promozione e di propaganda, o addirittura, come la nomina di Minoli a Rivoli e di Sgarbi alla Biennale di Venezia dimostrano, come un nuovo territorio di conquista da parte di quella cosa orrenda che è diventata la politica-spettacolo in questo paese. E’ il pericolo più grave che corre l’arte contemporanea: essere fagocitata dallo spettacolo, e da quella politica che ormai si identifica in toto con lo spettacolo. VV: Quindi quale pensi che sia l’atteggiamento del paese nei confronti dell’arte contemporanea? Cosa possono dare le istituzioni? CP: Non si può generalizzare. Esistono iniziative di grande spessore, alcune di grande qualità e altre di grande impegno. In genere lavorano in autonomia, con scarsi o nulli sostegni pubblici. I giovani devono saper scegliere, hanno il dovere di scegliere non in base alle “garanzie istituzionali” che una determinata iniziativa sembra offrire, ma in base ai contenuti, all’impegno e allo sforzo critico delle persone coinvolte. Comunque in Italia la situazione è molto “a macchia di leopardo” e questo può anche rappresentare un vantaggio... perché lascia spazio - almeno mentale se non economico - alle iniziative autogestite, autonome, indipendenti. VV: Come le reputi le modalità educative dei workshop o delle residenze? CP: Credo molto alla dimensione laboratoriale, perché favorisce modalità comunitarie e induce alla sperimentazione. Vivere insieme può creare dinamiche di fiducia e quindi possibilità di collaborazione altrimenti impossibili. VV: Quali competenze deve quindi avere un docente per poter dare una giusta formazione artistica? CP: Eh, difficile dire... diciamo che per essere un buon leader di un gruppo di lavoro bisogna saper ascoltare, ed essere in grado di “ospitare” i pensieri degli altri nel pensiero proprio, bisogna essere capaci di fare circolare il pensiero del gruppo, e non tanto di farsi seguire dagli altri. VV: Pensi che questo lo si faccia in Italia? Che ruolo hanno le Accademie di Belle Arti? CP: No comment.
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Emilio Fantin VV: Può parlarmi della sua formazione artistica? EF: Liceo scientifico, chimica industriale, viaggi per il mondo, prima mostra a 34 anni. Non è propriamente una formazione artistica, è una somma di esperienze. VV: Come mai dunque la scelta o l'esigenza di intraprendere un percorso artistico? EF: Le racconto questa storia: quando avevo nove anni mio padre, che era alpinista, mi ha portato in montagna con lui. Io gli ho chiesto di prendere da terra un meraviglioso iris selvatico ma lui mi ha detto di lasciarlo stare. Poco dopo precipitava e la montagna si prendeva lui. Ho associato la bellezza e l'assurdo, ma non ne sono mai stato cosciente. Nell’impossibilità di comprendere una morte improvvisa ho imparato che non vi sono certezze, ma tutto può mutare e trasformarsi improvvisamente. Questo, e l'ingiustizia che ho vissuto, vestita da piacere estetico (iris), mi ha diretto verso qualcosa d’indefinito e carico di significati com'è l'arte. Me ne sono accorto molto tardi, prima credevo che dovesse essere una professione, poi mi sono reso conto che era un modo di vita. VV: Quindi l’arte non ha niente a che vedere con l'idea di "lavoro"? EF: Non come idea di lavoro-opera, ma lavoro come ricerca. Mi piace scoprire, mi rammarico che non vi siano più pionieri né esploratori, però oggi si può esplorare l'indifferente, la normalità, il quotidiano sembra poco ma è un mondo dall'orizzonte lontanissimo. VV: E' stata proprio questa voglia di esplorare che l'ha spinta a lavorare con gli altri e dunque a prendere parte al progetto Oreste? EF: Si, in particolare l'intuizione di una condizione nuova del soggetto, del singolo, del “singolare plurale” per citare Nancy. Il soggetto non più visto come elemento a sé, a rimarcare la sua autonomia dall'oggetto, ma a testimoniare la sua esi-stenza “nell’essere con”. VV: Secondo lei perché oggi non si parla più di movimenti artistici? EF: L'arte come viene intesa oggi è diventata essenzialmente progetto, così come nel design. In questo senso c'è la necessità di nuovi prodotti o di nuove idee di prodotti, ma i movimenti non servono. VV: Quindi cos’è rimasto di Oreste? EF: Per me è ‘stata un’esperienza importante perché da tempo porto avanti una mia ricerca sulle strutture d’arte partecipata. Oreste è stata quella forma, o struttura, dove la partecipazione ha significato l’annullamento del proprio ego a favore di uno spazio comune. Attenzione però, vi sono forme d’arte partecipata dove avviene esattamente l’opposto. VV: Ad esempio? EF: Ad esempio “La casa di Nora”, un progetto in cui ho chiesto a un gruppo di persone di lavorare e creare assieme, come proiezione di ciascuno, un personaggio un personaggio immaginario. 8
Avevamo a disposizione una casa vuota e ciascuno ha creato un’opera secondo la sua propria attitudine e fantasia (chi le foto alle pareti, chi le tovaglie, chi un programma da trasmettere alla tv), poi abbiamo “arredato” la casa di Nora che rifletteva secondo l’ ego di ciascuno il personaggio immaginario di Nora, proiezione di tutti noi. VV: Come vengono finanziati questi progetti? EF: Quest’ultimo è stato finanziato dalla Fondazione Baruchello di Roma. Gli interlocutori generalmente sono fondazioni, amministrazioni, università, più raramente privati. VV: Cosa possono dare effettivamente le istituzioni e le residenze per un artista emergente italiano? EF: Per quanto riguarda le residenze (le residenze dei centri d’arte) la mia esperienza è che sono divertenti, ma raramente se ne ottiene qualcosa. Se invece si parla di aggregazioni autonome di persone o progetti in cui un certo numero di persone condivide un’esperienza, questo proprio perché meno rigido, meno legato a forme di partecipazione precostituite, può dare qualcosa. Le istituzioni sono importanti nel momento in cui possiamo confrontarci con esse senza dovere difenderci, con una posizione in cui sia possibile una mediazione alla pari. VV: EF: Nel che
Lo stesso vale per i workshop? Per me workshop è lavoro, è una forma d’arte partecipata. mio caso il significato di questa parola si è trasformato in modo così deciso sto cercando un altro nome per definire le mie proposte.
VV: Che rapporto ha con le strutture che sostengono il sistema dell’arte? EF: Il mio percorso mi ha portato a frequentare altri lidi, ma naturalmente cerco di coltivare anche relazione con tali strutture. Spero che vi sia una considerazione non solo per il lavoro che alimenta e consolida questo “ sistema”, ma anche per quelle ricerche in cui l’approccio artistico porta a un dialogo con altri “sistemi”. Quando parlo di “considerazione” mi riferisco anche al finanziamento di progetti di ricerca piuttosto che a una politica di “scambio” tra istituzioni, privati, collezionismo e case d’asta. VV: Che ruolo hanno avuto spazi come il Link e la NEON di Bologna? EF: Per quanto riguarda il Link, parlo del primo Link in attività negli anni ‘90, l’ho sempre considerato la vera fucina della ricerca artistica bolognese. Non solo arte visiva, ma musica, teatro, danza, cinema. Un centro di produzione culturale autonomo, gestito con passione e professionalità. Mi piacerebbe molto se rinascesse qualcosa del genere. Conosco la galleria Neon fin dagli anni ‘80. Come il Link ha contribuito alla ricerca artistica, questa volta in campo visivo, lanciando e sostenendo molti giovani artisti e attuando una politica culturale di grande apertura. Attualmente a Bologna pare vi siano tantissime realtà artistiche e culturali sia per quanto riguarda il teatro e la musica, ma anche una costellazione di luoghi piccoli e grandi che si occupano di mostre, performance ed eventi artistici. Purtroppo non riesco a seguirne l’attività per questioni di tempo. Ho l’impressione che in questo momento sia importante fare un lavoro di approfondimento sui temi trattati prima di una loro presentazione pubblica. pubblica. VV: Quali competenze deve avere un docente per poter dare una giusta formazione artistica? EF: Sto portando avanti un’ipotetica idea di scuola artistica dove le materie insegnate sono diverse da quelle che comunemente possiamo trovare in un’accademia, così come le figure di riferimento: scienziati, cantanti, mistici, filosofi, artisti visivi, registi, matematici. 9
Il criterio di scelta è il lavoro sulla soglia: vengono studiati il percorso e le ricerche di coloro che si sono spinti oltre la propria disciplina e confrontati con idee, metodologie e asserzioni capaci di mettere in crisi le proprie convinzioni, di estendere i confini disciplinari, di tracciare un terreno franco e coniare nuovi linguaggi. VV: Che importanza dà allora all’atto del donare? Donare è più soddisfacente della vendita? EF: Non esiste una risposta, non vorrei delegittimare nessuna delle due opzioni. VV: Lo scambio però può essere un momento in cui si dona qualcosa... EF: Se è uno scambio prevede una “seppur piccola strategia”... mentre il donare dovrebbe essere a fondo perduto. E’ un argomento paludoso, che si presta a demagogia. Quando faccio dei regali mi piace molto, ma forse è più importante quello che ho da “dire” al mondo che è frutto di tanto lavoro. VV: In definitiva... come si fa a dare un valore economico a un’opera d’arte? EF: Io vorrei che fosse dato prima di produrre l’opera. E’ quello che faccio: ricerco finanziamenti per sostenere i miei progetti. VV: Che importanza si dà in Italia a progetti simili? EF: Non ancora quella che si dà in altri paesi, specialmente quelli anglosassoni. E’ molto difficile che in Italia vi sia un forte interesse per questo tipo di progetti perché si è ancora nella fase di “diffusione e spettacolarizzazione” dell’arte contemporanea (già avvenuta da tempo in quei paesi). Lunga è la via…
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Maria Rosa Sossai VV: Quanta responsabilità ha la curatela nel sistema dell’arte contemporanea? MRS: La stessa che ha l’opera d’arte, direi che sono in un rapporto speculare, con la sola differenza che l’opera può vivere senza il curatore, mentre il curatore non può vivere senza l’opera. VV: Cosa vuol dire lavorare con un museo? MRS: La mia collaborazione con il museo MAN si è negli ultimi tempi allentata, credo soprattutto per motivi economici, mi sono occupata di progetti site specific, che prevedevano una residenza dell’artista in Sardegna per la preparazione del progetto. Nel 2011 dovrei curare un progetto di Francesca Grilli. VV: Che risonanza ha avuto il MAN in Sardegna e nella nazione? MRS: Ha avuto un ruolo fondamentale, dato che per 10 anni è stata l’unica realtà sarda nel campo dell’arte contemporanea. Ora forse cominciano a sorgere timidamente altre realtà ma nessuna strutturata come quella del MAN. VV: Che attenzione danno i musei italiani (in particolar modo il MAN) agli artisti emergenti? MRS: Ancora non abbastanza, anche se mi sembra che il vento stia cambiando, ricordo un progetto per tutti, Roommates al MACRO, che invitava due giovani curatori a presentare due giovani artisti a condividere lo stesso spazio. VV: Che importanza hanno le donazioni per un museo? MRS: Fondamentale, soprattutto in un periodo di crisi economica, è di questi giorni la notizia della donazione di un gruppo di opere della collezione di Claudia Gianferrari al MAXXI. VV: Ha senso donare un’opera d’arte? MRS: I collezionisti che decidono di donare le loro opere ad un museo, compiono un gesto di grande generosità e lungimiranza nei confronti della collettività che potrà usufruire della loro visione. VV: Quali sono le potenzialità della videoarte e perchè ha difficoltà a inserirsi in un mercato? MRS: Le sue potenzialità sono legate alla sua portabilità e alla sua immaterialità, oggi basta un dvd, ma queste stesse potenzialità sono anche le sue difficoltà a farsi accettare dai collezionisti come opera d’arte, ma anche questo sta cambiando. VV: Perchè un video può stancare più di un dipinto? MRS: Perché è un mezzo espressivo basato sulla visione lungo l’asse temporale e non sullo spazio. Alla Biennale di Venezia di qualche anno fa vi era un numero elevato di video e Angela Vettese scrisse un articolo sul Sole24ore, in cui lamentava la fatica a cui i video sottoponevano il pubblico. Una specie di Via Crucis, le cui stazioni erano i film di Yan Fudong dislocati 11
lungo un percorso a tappe. VV: Il video possiede l’aura? MRS: Certo, anche se è un diverso concetto di aura, condiviso con le nuove tecnologie, basato sulla ripetitività, sull’immaterialità. VV: Come si fa a dare un valore economico a un’opera d’arte? MRS: Affidandosi alle figure professionali che se ne occupano come i galleristi, i battitori d’aste, gli art dealers. VV: Cos’è cambiato nell’arte contemporanea in Italia rispetto alla fine degli anni ‘90? MRS: L’affermarsi di una generazione di giovani curatori e artisti che studiano all’estero, viaggiano, si organizzano autonomamente in collettivi, associazioni per lavorare e fare proposte, senza aspettare gli aiuti delle istituzioni. VV: Perchè oggi non si parla più di movimenti artistici? MRS: Perché non esiste più la specificità dei mezzi espressivi. Ogni artista pretende la massima libertà di movimento espressa attraverso l’uso delle forme più disparate. VV: Cosa può dare effettivamente il paese a un artista emergente italiano? MRS: Potrebbe dare sostegno economico, una rete di contatti internazionale, residenze all’estero, uno spazio in cui potere lavorare a prezzi contenuti, ecc. VV: Che ruolo hanno le Accademie di Belle Arti oggi? MRS: Quasi nullo, posso dire quello che dovrebbe essere un’Accademia per gli studenti: un luogo vivo e in dialogo con il mondo dell’arte contemporanea, una guida pedagogica per lo sviluppo di una consapevolezza delle proprie qualità artistiche, un’opportunità per crescere intellettualmente. VV: Quali competenze deve avere un docente per poter dare una giusta formazione artistica? MRS: Dovrebbe essere un artista riconosciuto nazionalmente, meglio se internazionalmente, così come accade all’estero, oppure un critico, storico o curatore che abbia la passione e il desiderio di trasmettere il suo sapere ai giovani. VV: Quanto è importante per un curatore collaborare con gli artisti? MRS: È molto importante, un bravo curatore rispetta la volontà dell’artista o comunque entra in un rapporto con lui. VV: Può parlarmi del progetto “censure e autocensura”? MRS: E’ nato casualmente, durante uno studio visit da Cesare Pietroiusti. Parlando abbiamo scoperto che condividevamo molte posizioni a riguardo. Ci siamo chiesti in quale misura i fenomeni di censura e di autocensura, più o meno espliciti o riconoscibili, restringono e condizionano l’attività artistica. E se è possibile smascherare tali fenomeni e contrastare la tendenza all’addomesticamento e all’occultamento degli aspetti “scomodi” di un’opera d’arte. Dopo il primo laboratorio sulla “abolizione dell’autocensura” guidato da Cesare Pietroiusti a Torino nel settembre scorso (e che ha dato vita ad un gruppo autonomo di lavoro) e il seminario tenuto da Cesare e da me a Bolzano nell’ambito di “Atti democratici” (novembre 2009), c’è stato un terzo appuntamento romano suddiviso in due appuntamenti, presso lo studio di Cesare e l’Istituto Svizzero di cultura a Roma dal titolo Censure e autocensura che ha continuato il confronto su questi temi. Si sono svolte le performance di Marco Dalbosco e di Giovanni Morbin, una conferenza su casi di censura in Polonia di Ania Jagiello, curatrice del programma d’arte contemporanea presso l’Istituto Polacco di cultura di Roma, 12
la’udioinstallazione di goldiechiari intervento di Cesare su questi temi.
censurata
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VV: Come si stanno espandendo le associazioni non profit in Italia? MRS: In modo interessante, pur con mille difficoltà a causa delle difficoltà finanziarie. Animano e arricchiscono la proposta culturale, sono un buon antidoto alla crisi e bilanciano lo strapotere dell’economia che anche nell’arte aveva preso il sopravvento sugli aspetti specifici della creatività. VV: Crede che siano una buona alternativa alle classiche gallerie commerciali? MRS: Non sono un’alternativa e non lo devono essere, perché senza l’attività commerciale delle gallerie, il sistema non si reggerebbe, ma, come dicevo, rendono più sano il sistema. VV: Come le sembra la situazione dell’arte emergente in Italia? MRS: Positiva, perché i giovani sono più curiosi, consapevoli, connessi maggiormente ad una rete di contatti internazionale.
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Salvatore Manzi VV: Ciao Salvatore, mi parli della tua esperienza formativa all’interno del gruppo Quartapittura? Cosa succedeva in quegli anni? SM: Quella del gruppo è una modalità operativa che viene dagli anni ‘60, penso al Fluxus tedesco e alla Factory americana. Ninì trasforma quel tipo di pratica spontanea in una modalità formativa spersonalizzante. Quartapittura è un esperimento tutto napoletano, la nascita di un’agenzia per l’arte contemporanea... La presenza del prof. Franz Iandolo rafforza il progetto sul piano della coesione e dell’applicazione sperimentale, in quel periodo si lavorava alla ricerca di una “nuova” forma di opera d’arte che fosse indipendente dai sistemi di potere delle arti visive. A mio avviso quel tipo di ricerca, motivata come unica possibilità, diveniva una forzatura a tratti violenta. Gli anni ‘90 sono gli anni in cui tanti giovani artisti campani aspiravano ad essere “cavalli” delle stalle-gallerie napoletane post Amelio, molti di noi guardavano con disprezzo il circuito privato delle gallerie, il gallerista era un nemico e i loro artisti servi egocentrici ed egoisti. VV: In effetti Quartapittura ha sempre agito ispirandosi un pò alle modalità Fluxus per poi muoversi specificamente sul campo… SM: Certo, perchè con Fluxus tutta l’esperienza rivoluzionaria dell’avanguardia, proprio nella logica del flusso, rimane illesa dall’invasione culturale della società dei consumi e dalle regole economiche del sistema dell’arte; quel flusso suggerisce la possibilità di accesso a quell’esperienza... ritengo che l’agenzia rimanga una possibilità operativa, ma senza escludere ulteriori ipotesi. L’esperienza di Quartapittura mi ha segnato profondamente, ci sono voluti anni per disintossicarmi da quell’addestramento mentale, quasi militare. Non riuscivo ad individuare un mio libero percorso. VV: Sicuramente esperienze simili ti fanno capire quanto possa essere importante conoscere l’altro e lavorarci insieme. SM: Sai, la conoscenza dell’altro è complessa quanto la conoscenza di sé. VV: E’ stata questa tua convinzione a suggerirti un percorso individuale? SM: Il percorso individuale che ho intrapreso è stato non privo di sofferenze. Finiti gli studi ho abbracciato poco dopo il progetto “Zak Manzi”, sostanzialmente la possibilità di essere un artista facendo a meno dell’opera d’arte, utilizzare quindi la produzione di altri riducendo la mia azione al semplice gesto della firma, del riconoscere come mia una pratica estranea. VV: Perchè l’esigenza di utilizzare uno pseudonimo? Quanto è importante la firma? SM: Per alcuni anni mi sono imposto di non produrre più, qui torniamo al tema della violenza, e a questo punto entra il mio carissimo amico artista Angelo Rossi. Angelo ha realizzato tutta la produzione che per alcuni anni ho firmato come Zak Manzi. Il nome Salvatore mi sembrava troppo vicino ad un territorio. La cosa è andata male, sia Angelo che io soffrivamo psicologicamente del progetto e abbiamo dovuto sospenderlo. Agli occhi di tanti la nostra era una trovata per far parlare di sè, ma i più 14
ancor oggi non hanno compreso il senso della nostra ricerca. La firma per me era quel segno ipocrita che ancora gli artisti attribuivano a delle cose per rendersi proprietari di esse. La spersonalizzazione è un’altra cosa, è decidere che non vale la pena di lottare per affermare ciò che costantemente si riconduce o non riconduce a sè. L'identità si perde quando lo spazio si riduce intorno a sè o quando è talmente vasto da non trovare in esso alcun riferimento. VV: Pensi quindi che sistemi come quello di internet possano essere strumenti pericolosi? Mi parli anche delle azioni provocatorie rivolte al sistema dell'arte che hai sviluppato proprio grazie al web? SM: Nulla nuoce all'uomo se non limita la libertà, indubbiamente la carica di dipendenza è pericolosa, come lo è in fondo anche la televisione o il "gratta e vinci", bisogna utilizzare un servizio e non farsi usare da esso. Il lato oscuro di ogni dipendenza è il senso di impotenza, si comincia a credere che non vale la pena fare ciò che in realtà si desidera: essere liberi. Il web è da sempre un territorio da cui attingo e nel web ho realizzato delle mostre false, mie, di curatori e di altri artisti. A un certo punto ho cominciato a pensare che contava più la comunicazione dell'evento che l'evento in sè, che alle mostre non c'era molta gente, un pubblico cristallizzato, la grande famiglia dei vernissage. Mandavo falsi comunicati stampa, che la nascente Exibart puntualmente pubblicava per veri, così come Undonet o le prime testate di giornale che cominciavano a proporsi online, poi ho cominciato a entrare nella posta di alcune gallerie e a scrivere al loro posto. Al di là di qualche allarme di querela la cosa ad un tratto ha smesso di interessarmi, forse perchè tutta questa rabbia contro il sistema era dettata da una forma di controdipendenza e per scongiurare la condizione ho cominciato a lavorare con le gallerie private. Sai, talvolta si è "contro" perchè non si riconosce il desiderio di essere "pro". La collaborazione con le gallerie private è durata poco, giusto il tempo di sentirmi profondamente umiliato e deluso. Ho deciso quindi di tornare da solo, questa volta senza essere contro il sistema, ma concentrandomi solo sul mio lavoro. VV: Quindi cosa hai capito da quell'esperienza? La vendita non era un obiettivo che t'interessava raggiungere? SM: La vendita è un obiettivo al quale ancora oggi aspiro, è certo che il mio lavoro non avvicina molto, non si vende facilmente, poi, un artista per vendere, in genere deve assecondare e poi c'è anche l'aspetto relazionale, bisogna coltivare alcune conoscenze ed essere presenti in alcuni contesti. Tutto ciò non riesco a farlo, proprio non mi riesce. VV: Cosa ne pensi invece dell’atto del donare? Può essere più soddisfacente di una vendita? SM: Se il tuo obiettivo è vendere, la scelta di donare può essere frustrante, se invece diventa una modalità serena può funzionare. Ciò su cui oggi sto lavorando è capire se esiste un modo per rendere un artista un professionista senza “aura” che produce delle cose e le vende rilasciando fatture, uscire dal sommerso meccanismo criminale del sistema dell’arte. Attualmente essere fuori dalle gallerie private significa scomparire come artista. VV: Questo rientra nel tuo progetto “Artisti Visivi Indipendenti”, vero? SM: Si, AVI, un progetto di cui al momento io sono l’unico iscritto. VV: Questo a cosa è dovuto secondo te? SM: Quando esci dal sistema delle gallerie private i te, non ti frequentano più, non vengono più a vedere sistema fieristico; in sintesi vieni riconosciuto come avviene il rigetto. Io non ho mai smesso di produrre,
critici si allontanano da il tuo lavoro ed esci dal un corpo estraneo, per cui anzi, posso affermare che 15
da quando ho smesso di lavorare con le gallerie il mio lavoro si è raddoppiato, ma nessuno ha la possibilità di saperlo e poi la decisione di tornare al mio vero nome è ancora più grave, manda tutto in tilt. La grande famiglia dell’arte non vuole che cambi, hanno bisogno di continue conferme. Penso che oltre all’indipendenza dell’artista sia necessaria anche l’indipendenza dei curatori, dei critici d’arte e di chi acquista le opere. VV: Come può questo coincidere con l’aspirazione di vendere? SM: In effetti ora si pesca dalle gallerie, a livello locale il lavoro grosso lo fa il gallerista, a lui bisogna riconoscere il valore di saper scoprire talenti (giovani polli da spennare). Il fatto è che mancano le occasioni in cui proporre il proprio lavoro, non esistono veri spazi alternativi, di formazione territoriale, e le istituzioni ancora una volta, pescano dal cesto delle gallerie, per cui sistematicamente vieni escluso. VV: Beh, esistono gli spazi no profit... SM: Sono no profit, ma anche loro prendono ciò che rassicura, sempre il solito circuito. Bisognerebbe istituire Unità di produzione di arte contemporanea territoriali pubblici. VV: Quindi secondo te esistono dei modi capaci di sovvertire i sistemi gerarchici del mercato? SM: La soluzione credo di averla, ma da solo non posso riuscirci: 1 L’artista o più artisti deve/devono giuridicamente e legalmente riconosciuti.
costituirsi
ditta,
essere
soggetti
2 Istituire Unità di produzione e promozione di arte contemporanea territoriale pubblica con relativi spazi espositivi annessi. 3 Le cellule di produzione e promozione sono composti da un responsabile che sovraintende la sperimentazione e che di volta in volta assieme ad un comitato tecnico scientifico valuta progetti espsositivi da inserire in programma. 4 Fiere di arte contemporanee i cui stand sono gestiti da artista/i. VV: Cosa ne pensi della formazione artistica in Italia e soprattutto delle Accademie di Belle Arti? SM: La formazione in Italia insegue ciò che all’estero accade, molte sovrapposizioni di corsi, poche tecnologie a disposizione, molti crediti da accaparrarsi e poco vero approfondimento. VV: Questa ti sembra anche una prerogativa dei workshop o delle residenze per giovani artisti? SM: Nei workshop spesso si realizzano progetti evitando di pagare operai specializzati grazie al contributo di giovani studenti volenterosi. Le residenze sono utili esperienze per chi vuole viaggiare, conoscere persone, magari una lingua, ma chi le gestisce? Non è che si alimenta l’idea che l’opera d’arte è quella che si fa in quel determinato posto, in quel determinato modo, etc… l’opera d’arte a mio avviso è qualcosa che avviene in forma di mistero, non c’è nulla da capire. VV: Tu insegni videoinstallazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli, secondo te cosa deve fare un docente per dare una corretta formazione artistica? SM: Deve trasmettere il desiderio della conoscenza, ai ragazzi del laboratorio cerco di far capire che talvolta conviene uscire fuori dal seminato, non rimanere legati alla griglia delle proprie certezze. 16
Talvolta la sperimentazione viene meno per pigrizia, furberia, sciattezza. Credo sia importante trasmettere la gioia in primis, e non le proprie frustrazioni, fallimenti, angosce, cerco di trasmettere la serietà e la responsabilità che un artista contemporaneo deve avere. Ho l’impressione che molti allievi siano presi da tante cose fatte tutte tiepidamente, bisogna scaldarsi, incendiarsi per la propria anima, per fare calore intorno. VV: Un’ultima domanda sul mezzo che usi più di frequente: cosa ti affascina del video? SM: Il linguaggio video è molto vicino al sogno: si muove. Mi piace il video, quello primordiale, che da poco ha smesso di essere pittura, talvolta l’ho utilizzato come denuncia sociale. Le cose che più mi emozionano sono alcuni frammenti che trovo in mie registrazioni o in registrazioni a me estranee, mi piace soffermarmi su brevi movimenti. Il mezzo video mi permette inoltre di esprimermi in poco spazio, il mio studio è il mio PC, lì posso muovermi liberamente.
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Ringraziamenti Per tutto il tempo passato a scrivere email a un simpatico sconosciuto voglio ringraziare coloro che hanno reso possibile queste interviste dimostrando cortesia e disponibilitĂ ; la mia gratitudine va dunque a: Emilio Fantin, Salvatore Manzi, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti e Maria Rosa Sossai. Desidero inoltre ricordare Marta Ferretti e Cristina Viscardi per avermi fornito utili letture sugli argomenti trattati.
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Bibliografia consultata S. Falci, E. Marisaldi, G. Norese, C. Pietroiusti, A. Radovan, C. Viel, L. Vitone (1998) Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?, Milano, Charta G. Norese (2006) Something about the conditions for a good collaboration, Locarno, La Rada O. Velthuis (2009) Imaginary economics - Quando l’arte sfida il capitalismo, Milano, Johan & Levy S. Thornton (2009) Il giro del mondo dell’arte in sette giorni, Milano, Feltrinelli
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